Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

I Marsi «apud finem Gallicum»

da A. La Regina, I sanniti, in AA.VV., Italia, omnium terrarum parens. La civiltà degli Enotri, Choni, Ausoni, Sanniti, Lucani, Brettii, Sicani, Siculi, Elimi, Milano 1989, pp. 399-401.

 

Alla guerra combattuta in Umbria e in Etruria negli anni 295 e 294 a.C. è da ricondurre il contenuto di un importante documento epigrafico proveniente dalla Marsica, dai pressi del grande santuario di Lucus Angitiae, ove esso era stato collocato in antico. Si tratta della dedica votiva di Caso Cantovios (CIL I2 5, vd. anche fasc. IV [1986], p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961) incisa su una sottile lamina bronzea. Dell’iscrizione, ora non più reperibile presso la collezione Torlonia, sono noti due apografi: uno del Barnabei, pubblicato in NSA (1877), tav. xiii, e l’altro di Jordan, ripreso in CIL I2. La documentazione raccolta dal Barnabei è conservata, e consiste in due apografi quasi uguali, dipinti ad acquerello, che riproducono l’oggetto a grandezza naturale, e tre fotografie, più piccole, di cui due della parte anteriore della lamina, e una della parte opposta su cui le lettere appaiono rovesciate e a rilievo. È inoltre conservato un appunto del Barnabei, scritto a matita, con annotazioni prese durante l’autopsia dell’oggetto, da cui trascrivo alcuni passi:

«L’altezza si può segnare con precisione essendo intatti i due lati superiore e inferiore… 0, 11. Vi è un buco a metà di ciascun lato. I due laterali sono intatti, l’inferiore e il superiore restano per metà. Superiormente ed inferiormente sono praticati nella lamina di bronzo tanti forellini con congegno assai adatto, sicché ogni forellino risultava di esatta rotondità senza lasciare smussature sulla faccia sottoposta. Non così è avvenuto pei fori grandi che sembrano fatti dopo la scrittura e con congegno ordinario, sicché essi presentano di sotto l’aspetto stesso di un foro di grattugia. È anche da notare che i forellini sono stati fatti dalla faccia stessa della scritta. Non saprei per altro affermare con certezza se ai due lati mancassero assolutamente i fori. L’ossido della lamina vi si diffonde egualmente, e farebbe supporre che non ve ne fossero, tuttavia sul lato sinistro di chi guarda al rigo 8 accanto al P è un foro fatto col sistema stesso dei forellini, ma un poco più grande, il quale potrebbe aver trovato simmetria in altri lati o nelle parti mancanti. Nel lato superiore si contano 53 forellini, altri aperti, altri chiusi dall’ossido, ed altri frammentati».

Il testo è scritto in latino e, benché da molto sia stato considerato più antico per la direzione della scrittura imperfettamente bustrofedica, esso deve essere datato agli inizi del III secolo a.C., come è stato già osservato dal Peruzzi sulla base dei segni alfabetici. Un altro elemento di datazione, finora non rilevato, ma ben evidente dalla descrizione del Barnabei, è costituito dalla lamina bronzea, in cui dobbiamo riconoscere senza alcun dubbio un frammento di cinturone, del tipo a fascia rettangolare molto alta, delimitata lungo i bordi da forellini fittamente accostati tra loro, che servivano per la cucitura sul supporto di cuoio, databile tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. (Papi 1988, pp. 152 ss.). Dalla descrizione del Bernabei si ricava che l’iscrizione è stata incisa sulla faccia interna del cinturone, poi fissata con quattro chiodi all’oggetto a cui si riferiva la dedica.

Nel suo complesso l’interpretazione del testo è ormai acquisita. Esso si riferisce a un oggetto che portarono, atolero, come dono votivo ad Angitia, Actia, a nome delle legioni marse i socii di Caso Cantouios Aprufclano, il quale si era impossessato dell’oggetto stesso, ceip(ed)= cepit, preda bellica, apur finem e/ṣalicom en ur/bid Casontoni/a/. Questa è la trascrizione comunemente accolta. Il Peruzzi, per primo, ha messo in dubbio la lettura e/ṣalicom, perché della s resta in effetti solo un breve tratto obliquo in alto, che non escluderebbe la possibilità di leggere e/talicom. Le operazioni di Caso Cantovios avrebbero avuto luogo, secondo il Peruzzi, in Lucania ove sarebbe da collocare il confine dell’Italia in quell’epoca. I Marsi avrebbero quindi partecipato, come alleati, alle imprese di Scipione Barbato. È però quanto mai improbabile che agli inizi del III secolo a.C. in ambiente latino si utilizzasse, per definire il confine italico, la nozione dell’Italia che avevano i Greci nel V secolo a.C.. Il testo può essere però interpretato diversamente, anche sulla base delle fotografie.

Dalla parola comunemente trascritta e/salicom la prima lettera si trova alla fine della terza riga ed è seguita da uno spazio non utilizzato per la scrittura. Per di più la riga seguente non mantiene la direzione bustrofedica, rispettata normalmente nel testo. La lettera e, infine, non appare ben marcata come le altre ma, nel disegno del Barnabei, risulta alquanto confusa e incompleta in basso; sulle tre fotografie essa non compare affatto ed è anzi possibile rilevare da esse che lo spazio dopo finem è occupato da una ribattitura eseguita proprio per cancellare una lettera. Questa operazione può per altro ben spiegare l’interruzione della progressione bustrofedica. Per cancellare un segno inciso su una lamina metallica così sottile è infatti necessario ribattere anche sulla superficie opposta. Se la lettera cancellata era effettivamente una e, di cui il Barnabei e Jordan hanno visto qualche traccia, l’incisore aveva omesso per errore la parola che doveva essere scritta dopo finem e aveva cominciato a scrivere la parola successiva en. Della lettera all’inizio della quarta riga resta solo l’estremità superiore obliqua, seguita da alicom. Essa non può essere una t, come ha pensato il Peruzzi, perché in tal caso il tratto superiore risulterebbe eccessivamente inclinato, e quindi anomalo rispetto a tutte le altre t che compaiono nella stessa iscrizione. D’altra parte la sua ricostruzione come s sembra essere stata suggerita più dal bordo della frattura che da altri elementi. Dalle fotografie risulta infatti che il tratto residuo della sommità della lettera è meno rettilineo di quanto compare sul disegno. Il suo andamento suggerisce piuttosto la ricostruzione di una c un po’ inclinata in avanti, come è incisa altre tre volte nella stessa iscrizione. Abbiamo dunque non e/salicom o e/talicom, bensì [[e]]/calicom = Gallicum.

 

Dedica votiva di Caso Cantovios, capo marso, alla dea Angitia. Bronzo, III sec. a.C. ca., dal Lucus Angitiae (Marsica); CIL I2, 4, p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961.

Il testo può essere dunque così trascritto:

 

Caso Cantouio/s Aprufclano cei/p(ed) apur finem [[e]]/

C̣alicom en ur/bid Casontoni//socieque dono/m

atolero Ac̣tia/pro l[ecio]nibus Mar/tses.

 

Nella prima parte dell’iscrizione si può riconoscere la formula di consueto adottata nelle dediche consolari, o comunque di comandanti militari, per oggetti predati nel corso delle operazioni belliche e portati in patria per essere deposti in santuari o in luoghi pubblici (CIL I2 608, 615, 622, specialmente 613: L. Quinctius L. f. Leucado cepit eidemque consol dedit). Caso Cantovios era dunque un comandante marso. Il suo cognome etnico ne rivela l’origine da una località con il nome sabellico di Aproficulum, si veda il pagus Ficulanus dei Vestini (CIL IX 3578) e il pagus Capriculanus a Nola (CIL X 1279), da ricercare certamente nel territorio dei Marsi. Egli doveva aver partecipato a operazioni militari che lo avevano condotto apud finem Gallicum alla testa delle sue legioni marse. Il bottino prelevato in urbe Casontonia dimostra che egli espugnò la città.

Questa non è identificata, e si è anche dubitato della forma esatta del nome, perché il segno usato per la s è irregolare (Peruzzi, p. 185 s.), ma la lettera è semplicemente mal scritta, vedi CIE 4203 casuntinial e 3688 casntinial, ambedue da Perugia. L’urbs Casontonia può essere riconosciuta in quello che poi sarà il municipium Casuentinorum, menzionato in un’iscrizione del 240 d.C. (CIL XI 4209, Terni), il cui etnico compare in Plinio, Nat. Hist. III 113 nella forma Casuentillani. Il nome sopravvive ancora oggi nel “Casentino”, la regione che si estende nell’alta valle dell’Arno, a nord di Arezzo, abitata in antico da popolazioni umbre (Nissen I 304; Beloch RG 573; Thomsen IR 116). L’etnico Casuentini presuppone il nome di città Casuentum (Casentium, nel Lib. Col. 255 L). In urbe Casuentina è dunque reso nel latino dialettale della Marsica en urbid Casontonia, ove la forma aggettivale è interpretata come sostantivo del tipo “Milonia”, “Aquilonia”, ecc.

Tutti questi elementi conducono facilmente alla individuazione del contesto storico in cui si inseriscono le vicende di Caso Cantovios. Nell’anno 295 a.C. fu inviato da Roma sul fronte settentrionale, ove dovevano essere affrontate le forze congiunte di Galli, Etruschi, Umbri e Sanniti, un esercito costituito non solo dalle quattro legioni romane e dalla cavalleria, ma anche da mille cavalieri campani e da altri contingenti formati da socii e da Latini, superiori in numero alle forze romane (Liv. X 26, 14). Dopo la battaglia di Sentino, la guerra continuò in Etruria contro Perusia e Clusium, nello stesso anno (Liv. X 30, 2; 31, 3), e contro Rusellae, Volsinii, Perusia e Arretium nell’anno seguente (Liv. X 37, 3-4).

Caso Cantovios, con le sue legioni marse, deve dunque aver partecipato a queste operazioni; prima a Sentinum, ove furono impiegate tutte le forze disponibili, e poi nell’anno successivo nei territori umbri ed etruschi al seguito di Q. Fabio, spingendosi fino a Casuentum. Come ha giustamente arguito il Peruzzi, Caso Cantovios deve essere morto in guerra, e le persone al suo seguito devono aver sciolto per lui, a nome delle sue legioni, il voto fatto ad Angitia, portando nel santuario l’oggetto su cui era affissa la lamina bronzea iscritta, ricavata dal cinturone di un’armatura italica, e forse dal cinturone dello stesso Caso Cantovios. Casuentum, sopravvissuta come municipio fino alla tarda antichità, si doveva trovare nell’area che nel Medioevo portava il nome di “Casentino”, più ristretta di quella che tuttora lo mantiene.

Testa di guerriero con elmo, da Pagliaroli di Cortino. Museo archeologico di Teramo.

Gli studi dello Schneider (1914, pp. 75; 94 = 1975, pp. 82, 100) hanno dimostrato che, finché durò l’istituzione dei comitati, nessuna località a sud del confine aretino, ossia a partire dalle pievi di Buiano, Bibbiena, Pàrtina e Sòcana, è mai stata definita in Casentino. Il municipium Casuentinorum occupava la parte estrema settentrionale della valle superiore dell’Arno, delimitata a nord dal Monte Falterona. Questo aveva costituito il confine naturale tra le popolazioni umbre insediate sul versante meridionale e i Galli che occupavano i territori pedemontani immediatamente a nord. Un sepolcreto gallico, datato tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. ne documenta infatti la presenza a Rocca San Casciano (Prati 1979, pp. 133-136). Il territorio dei Casuentini poteva dunque a buon diritto dirsi, agli inizi del III secolo a.C., «apud finem Gallicum».

Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).

Il massacro nel foro di Tarquinia

di M. Di Fazio, Sacrifici umani e uccisioni rituali nel mondo etrusco, Rendiconti 21/3 (2001), pp. 445-448.

Lastra fittile di rivestimento raffigurante una coppia di cavalli alati, dallo spazio frontonale del Santuario dell'Ara della Regina (Tarquinia). IV secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.
Coppia di cavalli alati. Lastra fittile di rivestimento, IV sec. a.C. ca., dallo spazio frontonale del Santuario dell’Ara della Regina (Tarquinia). Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Un episodio chiave […] è il noto massacro che nel 358 a.C. i Tarquiniesi compiono di trecentosette prigionieri romani catturati dopo una vittoria in uno dei primissimi scontri della guerra che opporrà le due città per alcuni anni. Il racconto liviano permette di stabilire pochi punti, ma interessanti[1]. Quattro anni dopo, sono i Romani ad aver la meglio e catturare molti prigionieri tarquiniesi; di questi, trecentocinquantotto (i più nobili) vengono trasferiti a Roma, il resto viene trucidato sul posto. Coloro che arrivano a Roma vengono fustigati e decapitati nel Foro, «pro immolatis in foro Tarquiniensium Romanis poenae hostibus redditum»[2]. In entrambe le occasioni è il Foro della città vittoriosa ad ospitare l’esecuzione. Ma i Tarquiniesi immolarunt i prigionieri, mentre a Roma il popolo decise che gli Etruschi venissero virgis caesi ac securi percussi. Questa differenza terminologica è stata considerata in vario modo. Per Pfiffig, il termine immolare usato da Livio non è particolarmente significativo: un semplice equivalente di occidere o obtruncare[3]. Per Briquel, invece, la scelta del termine ha un chiaro significato religioso[4]. Livio usa immolare sempre con connotazione religiosa, mentre, per descrivere le decisioni dei Romani quattro anni dopo, adotta i termini della procedura normale del delitto capitale (virgis caesi ac securi percussi), che è all’incirca l’espressione impiegata nel caso della messa a morte dei figli di Bruto (II 5, 8), esempio fondante del delitto capitale[5].

Le ricerche di Eva Cantarella hanno portato alla conclusione che, nel mondo romano, la decapitazione con la scure non ha un connotato religioso, come ritenuto invece da parecchi studiosi, Mommsen in testa[6]: non c’è affinità tra il sacrificio religioso e questa forma di esecuzione capitale che è la securi percussio. Prima del Principato la decapitazione è molto rara, e riservata ad insubordinati, ribelli, prigionieri di guerra[7]. Sembrano rimanere nelle fonti relative al mondo romano solo pochi casi di massacro di prigionieri ammantato di ritualità […].

 

Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.
Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.

 

Nella sua analisi dell’episodio, Briquel sottolinea come altri casi simili nell’annalistica romana compaiano solo per sottolineare la crudeltà etrusca[8]. Perciò molte indicazioni e molti dati possono essere stati falsati nelle fonti, per esempio in Livio, e di conseguenza alcune supposizioni rischiano di rivelarsi azzardate. Briquel, sostenendo l’eccezionalità dell’episodio, riprende la lettura dell’affresco della Tomba François come illustrazione della messa a morte dei Romani a Tarquinia: anche se lo sfondo del ciclo pittorico è Vulci, i temi rappresentati conserverebbero memoria di questo avvenimento. Se Torelli vedeva nella strage un atto espiatorio in onore di un defunto di rango[9], lo studioso francese avanza un’ipotesi. Dai pochi lacerti ricavabili dalle fonti riguardo all’Etrusca disciplina, sappiamo di un tipo di sacrificio etrusco particolare: quello delle hostiae animales, la cui immolazione con versamento di sangue permette all’anima del defunto di giungere alla condizione di dii animales, «immortali»[10]. Allora i fatti del 358 si spiegherebbero in funzione delle hostiae animales, come una grandiosa offerta di sangue umano ad una divinità, senza la normale ripartizione alimentare, che appunto in questi casi non era richiesta: si sarebbe trattato quindi di un vero sacrificio umano[11]. Date le circostanze belliche, e dato il clima di ostilità di cui abbiamo traccia nelle pitture della Tomba François, non si sarebbe esitato a sacrificare veramente uomini in sostituzione di animali. Il modello dell’Iliade[12], con l’episodio dei funerali di Patroclo ben presente nell’immaginario etrusco, sovrapposto al rito delle hostiae, avrebbe condotto a questa esecuzione di massa[13].

C’è da dire però che le hostiae non paiono sempre collegate a funerali[14]: forse potevano aver luogo anche presso i templi di alcune divinità. Quali? Il passo è troppo breve per permettere considerazioni più approfondite, ma va ancora considerato il luogo in cui dal testo si deduce siano stati effettuati questi massacri. La localizzazione nel foro di Tarquinia (o meglio in quello che il romano Livio indica come forum), quindi vicino il santuario dell’Ara della Regina, non può non far pensare alle testimonianze del culto di Artume/Artemide rinvenute nei pressi del santuario: quell’Artemide sorella di Apollo, assimilato ad una divinità indigena con caratteri oracolari e inferi, al quale bene si potrebbero riferire sacrifici umani[15]. Ma anche se tempio e “foro” sono prossimi, come nel caso di Tarquinia, dobbiamo ricordare che la fonte ambienta l’episodio nel “foro”, non vicino al tempio o in prossimità di altari e sacelli. Meglio, con Torelli, sottolineare proprio questo dato: il sacrificio […] dei prigionieri non avviene fuori città, presso il tumulo gentilizio, come nel caso dei Focei a Caere, ma all’interno della città, a ribadire una nuova dimensione del politico e del sociale[16].

Ricostruzione del Tempio del Santuario dell'Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.
Ricostruzione del Tempio del cosiddetto Santuario dell’Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.

Dobbiamo comunque ricordare come, a partire da Karl Julius Beloch, il passo sia stato tutt’altro che esente da critiche. In particolare, è stata sottolineata l’esatta e sospetta coincidenza di numero fra i Romani uccisi nel foro di Tarquinia e i Fabii sterminati al Cremera dai Veienti nel corso della loro guerra personale nel 477 a.C.[17]; inoltre, nella guerra con Tarquinia, lo sfortunato comandante era proprio un Fabio, Q. Fabio Ambusto: non è da escludere la volontà delle fonti di far ricadere queste colpe sulla gens Fabia. L’episodio ha la parvenza di una delle tante duplicazioni che troviamo in particolare nell’opera di Livio. Torelli, per dare credito all’episodio, si appoggia su due labili constatazioni: l’elogium degli Spurinna, da cui veniamo a sapere che in effetti le prime fasi del conflitto romano-tarquiniese furono a favore degli Etruschi, e le pitture della Tomba François che serberebbero memoria di questi fatti[18]. Ma, com’è stato osservato, se solo quattro anni dopo i Romani riuscivano a vendicarsi nella maniera che abbiamo visto, vi sarebbero stati ben pochi motivi di rievocare un episodio che aveva avuto tale seguito[19].

Va invece sottolineata l’esistenza di almeno un altro caso analogo, oltre a quello dei Fabii, che è narrato da Polibio: nel 271 a.C. i Romani cingono d’assedio Reggio, in cui un presidio romano chiesto dagli stessi Reggini si era ribellato. Alla fine, riconquistata la città, dei quattromila soldati del presidio alcuni vengono condotti a Roma e, nel foro, fustigati e decapitati «secondo il costume romano». Il numero di questi prigionieri, secondo Polibio, è più di trecento; ancora una volta abbiamo a che fare con analogie che suonano sospette[20].

Ma un piccolo “colpo di scena” lo troviamo in Svetonio: durante le guerre civili, Ottaviano assedia Perugia nell’inverno del 41/40 a.C. Espugnata la città, il futuro Augusto sacrifica un certo numero di notabili ai Mani degli Iulii, forse (è stato osservato) applicando ai nemici i loro stessi riti[21]. Anche in questo caso, è facile indovinare il numero: trecento. Non abbiamo sufficienti informazioni sull’avvenimento: ma è facile immaginare la difficoltà e l’imbarazzo degli storiografi vicini all’ambiente augusteo (Livio in particolare[22]) verso un episodio non certo lusinghiero per Augusto; e forse qui possiamo trovare una chiave interpretativa per gli episodi citati.

 

Bronzetto di oplita etrusco, da Siena. 600 a.C. Museo Archeologico di Siena.
Oplita etrusco. Statuetta, bronzo, 600 a.C. ca., da Siena. Siena, Museo Archeologico.

Note:

 

[1] Liv. VII 15, 10.

[2] Id. VII 19, 13.

[3] A.J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz 1975, p.110.

[4] D. Briquel, Sur un épisode sanglant des relations entre Rome et les cités étrusques: les massacres de prisonniers au cours de la guerre de 358/351, in R. Bloch (éd.), La Rome des Premiérs Siécles. Legende et Histoire, actes t.r. (Paris 1990), Firenze 1992, pp. 37-46. Già J. Gagé, De Tarquinies à Vulci, MEFRA 74 (1962), p. 95 aveva sostenuto che il termine immolare non era utilizzato a caso da Livio.

[5] Cfr. Liv. V 21, 8; VIII 9, 1; XXII 5, 19; XLII 30, 8.

[6] E. Cantarella, I supplizi in Grecia e a Roma, Milano 1991, p. 154.

[7] Ibid., p. 386, n. 28. Dobbiamo comunque eliminare dall’elenco dei prigionieri decapitati il povero Vitruvio Vacco, che, dopo essere stato imprigionato, verberatum necari (Liv. VIII 20, 7).

[8] D. Briquel, op. cit., p. 42.

[9] M. Torelli, Delitto religioso. Qualche indizio sulla situazione in Etruria, in Le délit relgieux dans la cité antique, atti conv. (Roma 1978), Roma 1981, p. 5.

[10] Libri Acheruntici (Nigidio Figulo, attraverso Cornelio Labeone). Cfr. A.J. Pfiffig, op. cit., pp.178-181; D. Briquel, Regards étrusques sur l’au-delà, in F. Hinard (éd.), La mort, les morts et l’au-delà, Actes coll. (Caen 1985), Caen 1987, pp. 263-277; Id., I riti di fondazione, in M. Bonghi Jovino – C. Chiaramonte Treré (a cura di), Tarquinia: ricerche, scavi e prospettive, atti conv. (Milano 1986), Milano-Roma 1987, pp. 171-190.

[11] D. Briquel, op. cit., Firenze 1992, pp. 44-46.

[12] Cfr. Il. XXIII, 175-176: «δώδεκα δὲ Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / χαλκῷ δηϊόων» («e dodici splendidi figli dei Troiani animosi / passandoli per le armi»). Cfr. Il. XXIII, 181-182: «δώδεκα μὲν Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / τοὺς ἅμα σοὶ πάντας πῦρ ἐσθίει» («Dodici splendidi figli dei Troiani animosi il fuoco / tutti con te li divora»).

[13] D. Briquel, op. cit., p. 46.

[14] Arnob. adv. nat. II 62.

[15] Cfr. G. Colonna, Apollon, les Etrusques et Lipara, MEFRA 96 (1984), pp. 571-572; Id., Divinitiés peu connues du panthéon étrusque, in P. Gaultier – D. Briquel (éd.), Les plus religieux des hommes, atti conv. (Paris 1992), Paris 1997, p. 167.

[16] M. Torelli, op. cit., p. 6.

[17] K.J. Beloch, in M. Torelli, op. cit., p. 3; cfr. G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1964, p. 255. Cfr. Liv. II 50, 11.

[18] M. Torelli, op. cit., pp. 3-4.

[19] F. Zevi, Prigionieri troiani, in Studi in memoria di L. Guerrini, Roma 1996, p. 123, n. 41: il massacro fu ampiamente vendicato quattro anni dopo (e non l’anno seguente come per Zevi), per cui non c’era motivo di rievocare l’episodio.

[20] Polyb. I 7, 12. Non è il caso qui di addentrarci in analisi testuali per cercare di stabilire eventuali priorità fra i testi; ma può essere interessante ricordare che il nome “Fabio”, presente nei Fasti nei sette anni fra il 485 e il 479, manca per i successivi undici anni (H.H. Scullard, A History of the Roman World, London 1983 [= tr.it. Storia del mondo romano, Milano 1992, vol. I, p. 146, n. 10]), e questa può essere una prova della preminenza del racconto relativo allo sterminio dei Fabii.

[21] Suet. Aug. XV 1. Cfr. J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1962 (= tr.it. La vita quotidiana degli Etruschi, Milano 1992, p. 285). Perugia conservava ancora una sua identità etrusca; perugino era M. Perperna, uno dei capi mariani più in vista, che nel 78 a.C. è al fianco di Lepido con l’Etruria tutta per una rivolta non fortunata (Sall. Hist., I 67). Sull’assedio di Perugia, cfr. P. Wallmann, Untersuchungen zu militärische Problemen des Perusinischen Krieges, Talanta 6 (1974), pp. 58-91.

[22] Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari 1966, pp. 40 sgg.

Pyrgi e il suo santuario

di F. Chiesa – G.M. Facchetti, s.v. Pyrgi, in Guida insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi, Bergamo 2011, 224-229.

Nel lembo di costa ove attualmente svetta il castello di Santa Severa, a circa tredici chilometri da Cere, si situava Pyrgi, che della metropoli fu il porto principale, e della quale ignoriamo quale fosse l’originario nome etrusco. Le fonti storiche attribuivano tuttavia la sua fondazione ai Pelasgi, cui si doveva anche la nascita stessa della città-madre, Cere-Agylla. Un modesto insediamento etrusco vi sorgeva, dislocato sulla piccola altura che volge all’insenatura del porto: esso acquisì un profilo urbano, con regolare impianto, verso la fine del VII secolo a.C. o agli inizi del secolo successivo. Alla base del castello sono tuttora visibili le mura poligonali di epoca romana, allorquando, in concomitanza con la conquista di Roma nel III secolo a.C., le vecchie strutture portuali furono rimpiazzate da un porto artificiale solo in seguito dismesso a favore di quello di Centumcellae (Civitavecchia), costruito nel II secolo a.C. e definitivamente ristrutturato sotto l’imperatore Traiano, nel 106 d.C. Già nel 264 a.C. vi era stata infatti dedotta una colonia.

Frontone (frammento) che illustra un episodio della saga dei «Sette contro Tebe», dal ‘Tempio A’ di Pyrgi (Etruria). V secolo a.C. Roma, Museo di Villa Giulia.

Il santuario di Leucotea-Ilizia
Come accadeva nel mondo greco, anche in Etruria alcuni fra i santuari più importanti erano sorti fuori dall’ambito urbano e cionondimeno la devozione ad essi tributata, talora in ragione delle loro leggendarie origini, ne fece luoghi di culto particolarmente frequentati e venerati non di rado destinati a lunga vita. Taluni di questi sacri complessi, poi, si svilupparono in aree extraurbane già caratterizzate da una loro specifica vocazione, accrescendola e donando essa ulteriore specificità. Così il santuario di Pyrgi, storico porto di Cere, dal nome greco ma secondo la tradizione fondato dai Pelasgi (Strabone, Geografia V, 2, 8), sancì l’aspetto sacrale dei commerci e la connotazione franca degli scambi fra locali e stranieri che vi si svolgevano sotto la protezione degli dèi, garanti dell’ospitalità e dell’inviolabilità. La rilevanza del santuario pyrgense è testimoniata anche dalle fonti storiche, che lo ricordano per il saccheggio perpetrato nel 384 a.C. da Dionisio tiranno di Siracusa all’indomani della discesa dei Galli a Roma, con la quale i Ceriti si erano alleati. La straordinaria ricchezza del bottino predato lascerebbe spazio all’ipotesi che, come ad Atene, nel santuario di Pyrgi fosse conservato il tesoro della città. Anche il poeta latino Lucilio (fr. 1271, Marx), parlando di «scorta Pyrgensia», cita questo santuario a proposito della prostituzione sacra che molto verosimilmente vi si praticava. Già localizzato da Luigi Canina nel 1840, il sacro complesso di Pyrgi fu rinvenuto nel terreno adiacente al Castello di Santa Severa nel 1956 e da allora è oggetto di sistematici interventi di scavo da parte dell’Università di Roma. Esso, purtroppo decapitato della sua porzione volta al mare a causa di un avanzamento verso terra dell’originaria linea di costa, venne racchiuso entro un perimetro murato (témenos), del quale è stato individuato l’andamento su almeno due dei lati. Originariamente doveva sorgervi un piccolo edificio sacro che nel corso della seconda metà del VI secolo a.C. fu decorato con terrecotte architettoniche in stile “ionico”, delle quali restano soprattutto antefisse a testa femminile. Ma sul finire del secolo fu avviata una grandiosa ristrutturazione per la quale furono impiegati dispendiosamente materiali e mezzi finalizzati a ottenere un monumentale risultato: tutta l’area fu sopraelevata mediante un terrapieno sul quale vennero in seguito innalzati gli edifici, costruiti in blocchi di tufo rosso probabilmente estratto dalle cave ceretane e trasportato via terra. L’operazione ebbe verosimilmente lo scopo di situare i templi al riparo dalle infiltrazioni di salsedine del sottosuolo e in una favorevole situazione di visibilità prospettica. Per primo venne eretto il tempio cosiddetto “B”, con altri contigui annessi fra i quali, in corrispondenza del lato meridionale, un lungo portico a celle, probabile residenza delle sacerdotesse, e accosto al lato lungo settentrionale dell’edificio un altare circolare per i culti inferi comunicante con una cavità sotterranea, forse dedicato a Tinia nella sua veste ctonia, che potrebbe essere ricordato (ma ci sono dubbi) anche in un’iscrizione su lamina bronzea di Pyrgi, insieme a Uni. La scoperta delle laminette auree inscritte, oggi universalmente conosciute con il nome di «lamine di Pyrgi» recanti il nome del magistrato supremo ceretano Thefarie Velianas, documenta sotto quali auspici il tempio fu costruito e quale fu la temperie culturale e politica nell’ambito della quale questo grande donario sacro a Uni-Astarte fu eretto. Il tempio “B”, che poggiava il proprio alzato su imponenti fondazioni in tufo secondo la tecnica cosiddetta “dell’opera quadrata”, presentava una pianta non molto diversa da quella dei templi greci dell’Italia meridionale, simile a quella del tempio di Satricum, in Lazio. Le colonne – quattro sui lati brevi (in doppia fila per il lato breve della facciata) e sei sui lati lunghi – racchiudevano un edificio di circa diciotto metri di larghezza per ventotto di lunghezza, provvisto di una cella sul lato posteriore. Le dimensioni si modularono sul piede attico, unità di misura pari a poco meno di trenta centimetri. Sia il tempio che il portico delle sacerdotesse erano ornati da un ricco apprestamento architettonico, che comprendeva lastre (sime), tegole di gronda, antefisse a testa femminile, acroteri, ecc., concepito secondo un organico programma figurativo. Completavano l’apparato di copertura fittile gli altorilievi posti nello spazio frontonale a chiusura dei travi portanti (columen e mutuli), raffiguranti episodi dal mito di Eracle. Intorno alla metà del V secolo a.C. l’area del santuario fu ampliata verso Nord, il terrapieno allungato e i lavori edilizi completati con la costruzione di un secondo tempio (il cosiddetto tempio “A”), ancor più maestoso del precedente. L’ingresso stesso al santuario fu spostato in modo da collegarlo alla via Pyrgi-Cere, che univa la città al suo porto. Anche questo edificio, come l’altro, si resse su possenti fondazioni in opera quadrata, insistendo su un podio scalinato. Le sue dimensioni erano pari a metri ventuno per ventisette circa. La parte anteriore presentava una tripla fila di colonne, quattro delle quali costituivano la vera e propria facciata, altre quattro arretrate a coppie di due affiancate dai muri della cella. Costruite in tufo e peperino, rispettivamente riservati al fusto e al capitello soprastante, le colonne erano anch’esse intonacate. Poiché uno dei lati brevi del tempio “A” volgeva all’ingresso del santuario, esso fu abbellito di una decorazione frontonale particolarmente impegnativa sia sul piano squisitamente artistico che su quello figurativo e semantico: per la placca frontonale destinata a chiudere la testata del columen fu infatti scelto un episodio della saga dei Sette contro Tebe, soggetto assai noto del teatro greco che più volte lo mise in scena attraverso l’opera del tragediografo Eschilo nel V secolo a.C. La scena riproduce, al cospetto di Zeus e Atena, alcuni dei personaggi della saga, fra i quali spiccano riconoscibili Tideo, Melanippo e Capaneo. Nel complesso, anche il tempio “A” costituisce un’interpretazione non del tutto aderente ai dettami dell’ordine tuscanico canonizzato da Vitruvio, teorico di epoca augustea, nel suo celebre trattato sull’architettura antica (De architectura). La monumentalizzazione del santuario pyrgense iniziata ad opera del magistrato supremo di Cere Thefarie Velianas sul finire del VI secolo a.C. fu completata durante il V secolo, quando la grande carrabile che congiungeva la città di Cere al santuario assunse i caratteri di una via sacra, come accadde in Grecia per i più importanti santuari fuori città (ad esempio, il santuario di Eleusi per Atene). Una stagione florida coincise infine con il periodo fra il IV e il principio del III secolo a.C., contestualmente all’allacciarsi di amichevoli rapporti fra Cere e Roma, finché la conquista romana non decretò il progressivo esaurirsi del culto.

Planimetria dell’area settentrionale del santuario di Pyrgi (Haynes 2000, 175).

Le “lamine di Pyrgi
Le famose lamine auree di Pyrgi gettano alcuni sprazzi di luce sulla storia di Cere rivelandoci, tra l’altro, il nome dell’allora più eminente personalità politica della città (Thefarie Velianas). Esattamente si tratta di due iscrizioni, del 500 a.C. circa, incise su due laminette d’oro, il cui testo è integralmente conservato; esse furono scoperte nel 1964 da Massimo Pallottino assieme a una terza iscrizione, sempre su lamina aurea, in lingua fenicia e corrispondente (nel senso di una quasi-bilingue) all’iscrizione etrusca più lunga. Dunque questo eccezionale documento epigrafico, nel suo insieme, ci ha messo a disposizione la “versione” fenicia (non si tratta di una traduzione letterale, perciò si parla di una “quasi-bilingue”) di un testo etrusco di considerevole estensione. I buoni rapporti degli Etruschi, e specialmente di Cere, con la potenza cartaginese, testimoniati, qui, in modo diretto e immediato, rafforzano indirettamente il valore storico del racconto di Polibio (Hist., III, 22), che colloca proprio nel 509 a.C. il primo trattato fra Cartagine e Roma. Ecco il contenuto dell’epigrafe fenicia di Pyrgi, nella traduzione di Sabatino Moscati:

Alla signora Astarte. Questo (è) il sacello che ha fatto e che ha donato Thefarie Velianas, re su Caere, nel mese di zbh šmš, in dono (?) del tempio e del suo recinto (?), poiché Astarte ha richiesto (ciò) per mezzo di lui nell’anno terzo del suo regno, nel mese di krr, nel giorno del seppellimento della divinità. Gli anni della statua della divinità (siano tanti) anni quante queste stelle.

Iscrizione votiva alla dea Uni-Astarte (etrusco-fenicio). Tavolette, oro, 520 a.C. c. da Pyrgi. Roma, Museo di Villa Giulia.

Ed ecco il testo etrusco corrispondente (la cosiddetta “lamina A” di Pyrgi, Cr 4.4.), secondo la traduzione di Giulio M. Facchetti:

Il tempio e queste statue furono da parte di Uni; il della lega unica, Thefarie Velianas, donò il sal del cluvenia: questo spettò alla camera del luogo sacro nelle feste Tulerasa, poiché dal giorno della sua ascesa al potere erano trascorsi tre anni completi, nelle feste Alšasa, poiché ci fu della pretura . E sulle statue ci sono tanti anni quante le stelle.

Le «stelle» menzionate in entrambi i testi erano probabilmente oggetti (forse d’oro) a forma di stella appesi nel sacrario, sopra le statue, a indicare il numero di anni trascorsi dalla fondazione. Una lamina più breve (la “B): Cr 4.5) reca un testo meno esteso, pure in etrusco, in cui sono ricordati altri atti rituali compiuti da Thefarie Velianas. Sempre da Pyrgi provengono altri testi frammentari, più o meno dello stesso periodo, ma su lamine di bronzo; probabilmente riguardano dediche di privati.