L’anfiteatro Flavio

Anticamente, il Colosseo era noto come amphitheatrum Flavium, dal nome della dinastia che lo fece costruire. Il nome Colysaeus compare per la prima volta in una nota profezia dell’VIII secolo, in forma di epigramma, del monaco anglosassone Beda: Quamdiu stabit Colyseus stabit et Roma; / cum cadet Colyseus cadet et Roma; / cum cadet Roma cadet et mundus (Beda Venerabilis, PL 94, 453, «Fin quando resterà il Colosseo, rimarrà Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà pure il mondo»). Questa denominazione, di origine popolare, deriva dal fatto che nelle vicinanze dell’edificio fu collocato il cosiddetto Colosso, un’imponente statua di Nerone rappresentato come il dio Helios e in seguito dedicata al dio Sole (Plin. NH. XXXIV 45-47; Suet. Nero 31; DCass. LXV 15, 1). Dopo essere giunto al potere, Vespasiano (Suet. Vesp. 11, 1) restituì solennemente al popolo di Roma l’area compresa tra Esquilino, Palatino e Celio, allora occupata dalla Domus Aurea del tiranno; fatto interrare il grande lago artificiale (stagnum), l’imperatore avviò tra il 70 e il 72 i lavori per la costruzione dell’anfiteatro. Nel 1813 fu rinvenuto un blocco marmoreo da reimpiego, che recava ancora i solchi dell’iscrizione dedicatoria, posta su uno degli accessi del monumento: I[mp(erator)] T(itus) Caes(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)] / amphitheatru[m novum(?)] / [ex] manubi(i)s [fieri iussit(?)] (CIL VI 40454a2, «L’imperatore Tito Cesare Vespasiano Augusto ordinò di costruire un nuovo anfiteatro dai proventi del bottino»). L’inaugurazione del complesso avvenne, però, sotto Tito, nell’80 (CIL VI 2059, Acta fratrum Arvalium; Suet. Tit. 7, 3; Aur. Vict. Caes. 10, 5). Sotto Domiziano furono portati a termine alcuni lavori supplementari. Alcuni restauri e riparazioni furono effettuati nel corso del II secolo (SHA Anton. Pius 8, 2), mentre una ricostruzione di più ampio respiro fu resa necessaria dai danni causati dall’incendio del 217, innescato da un fulmine (Chron. min. 1, 147 Mommsen = Chronogr. 354, p. 277; DCass. LXXVIII 25, 2-3; SHA Heliogab. 17, 8; SHA Alex. Sev. 24, 3). L’inaugurazione dell’edificio fu celebrata da Tito anche con l’emissione di una serie di tipi monetali, che riportano l’effige del Colosseo (RIC II 113-148); mentre un’altra serie è riferita al completamento dei restauri sotto Gordiano III (SHA Max. Balb. 1, 3-4; Cohen 166: munificentia Gordiani Aug). Altre riparazioni sono registrate per gli anni 250-252 (Isid. Chron. 2, p. 463; Jer. Chron. p. 218; Amm. Marc. IV 10, 14), per il 320 (Cod. Theod. 16, 10), dopo il 442 (CIL VI 32089), il 470 (CIL VI 32091-32092) e verso il 508 (CIL VI 32094).

Roma, Colosseo.

Con un cantiere rimasto aperto per circa un decennio, gli imperatori flavi riuscirono dunque a colmare una grande lacuna monumentale dell’Urbe: l’edificio, eretto su un terreno pianeggiante per una superficie ellittica di 3357 m², è il più grande anfiteatro stabile mai costruito a Roma, dopo due strutture minori di età precedente, ovvero l’anfiteatro di Tito Statilio Tauro († post 16 a.C.) e quello di Caligola (37-41). Lungo l’asse longitudinale l’amphitheatrum Flavium misura 188 m, lungo quello trasversale 156 m; con i suoi quattro piani sovrapposti ha un’altezza di 48,3 m. Cinque ordini di gradinate assicuravano una capienza di circa 50.000 spettatori. Per i costruttori fu relativamente facile gettare le fondamenta, profonde 13 m, nel fondale del precedente lago; queste furono realizzate in calcestruzzo: su di esse poggiavano i muri di fondazione sotto l’arena, mentre la rete di pilastri in travertino sosteneva la cavea. L’intelaiatura dei pilastri di travertino fu riempita con blocchi di tufo o opus testaceum, a seconda della posizione. La facciata esterna mostrava chiaramente la suddivisione in quattro piani dell’edificio: i primi a partire dal basso tre erano costituiti da 80 arcate, fiancheggiate da semicolonne, in ordine crescente, in stile dorico, ionico e corinzio. L’ultimo piano, l’attico, era cieco e scompartito da lesene corinzie alternate a parti in cui si aprivano delle finestre quadrate. Intorno alla sommità dell’attico dovevano essere posizionati 250 piloni, che sostenevano una tenda retrattile, detta velarium, utilizzata per proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia; si trattava di una struttura simile a una rete, ricoperta di tela e corde, che copriva i due terzi dell’arena. Al delicato e importantissimo compito di manovrare un tendaggio così grande adempivano i classarii provenienti da Misenum: dovevano essere circa un migliaio di persone perfettamente addestrare a governare vele e cordame, che avevano sede nei castra Misenatium, nei pressi dell’anfiteatro. Al pianterreno 76 delle 80 arcate, che davano accesso alle scalinate per i diversi settori della cavea,  erano contrassegnate da un numero per consentire agli spettatori di trovare rapidamente il proprio posto nel settore assegnato; i quattro accessi principali, posti alle estremità degli assi, erano riccamente decorati e fungevano da ingressi riservati per magistrati e artisti. Un passaggio sotterraneo conduceva al palco imperiale sul lato meridionale, verso il Celio.

L’anfiteatro Flavio (dettaglio). Rilievo, marmo, inizi II secolo dalla Tomba degli Haterii in via Labicana (Casilina), Roma. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

La cavea era suddivisa in gradinate (gradus), ove gli spettatori prendevano posto a seconda della classe sociale e del sesso, come attestano, tra l’altro, le iscrizioni sui sedili di marmo rialzati. I posti a sedere per i senatori erano situati sopra il podio che circondava l’arena; lì, su gradini di marmo, si trovavano i loro subsellia. Oltre i posti riservati all’élite, salendo, si sviluppavano altri tre settori, detti maeniana): il maenianum primum (con otto file), il maenianum secundum imum e il maenianum secundum summum, dei quali i primi due erano assegnati ai cavalieri, mentre l’ultimo in alto alla plebe urbana. Le sedute dei primi settori erano in marmo, quelle della fila più alta, detta maenianum summum in ligneis, costituivano invece una vera e propria tribuna di legno. Qui si trovavano anche undici file con posti destinati alle donne.

Roma, Colosseo. Sezione assonometrica (da Lueger, 1904).

Si poteva raggiungere i posti a sedere tramite un ingegnoso sistema di corridoi a volta, scalinate e rampe, che si aprivano attraverso portali riccamente decorati (vomitoria) su una delle tre praecinctiones, i camminamenti che interrompevano i settori sulle gradinate. L’aspetto interno dell’anfiteatro è forse quello che meno rende l’idea delle caratteristiche generali dell’edificio, in parte perché manca la superficie dell’arena, originariamente composta di tavolati lignei ricoperti da sabbia. A questo bisogna aggiungere il fatto che, nel corso dei secoli, gradinate (gradus) e cunei furono sistematicamente spogliati e divelti, dato che il Colosseo divenne una vera e propria cava di marmo e travertino a cielo aperto, accessibile a chiunque. I sotterranei dell’arena, comunque, restituiscono con chiarezza la complessità degli impianti di servizio, che furono con ogni probabilità le ultime strutture a essere costruite: si trattava di un vero e proprio labirinto di ambienti e cunicoli, che ospitavano i vari elementi di scena, le gabbie e le stalle per gli animali, le armi e macchinari. Grazie a ingegnose realizzazioni (piani inclinati, piattaforme mobili e rotanti, elevatori e pulegge mossi da contrappesi) era possibile introdurre nell’arena decine di comparse nello stesso momento e cambiare rapidamente le scenografie a seconda delle esigenze dello spettacolo.

T. Flavio Vespasiano (Jr.). Sestertius, Roma 81-82, Æ 25,92 g. Recto: l’Amphitheatrum Flavium con la Meta Sudans (a sinistra) e un portico (a destra).

La cerimonia di inaugurazione del Colosseo fu scandita da una serie di festeggiamenti che si protrassero per oltre cento giorni (Suet. Tit. 7, 3; DCass. LXVI 25), durante i quali si tennero combattimenti tra gladiatori (munera), venationes con bestie selvatiche ed esotiche (Svetonio parla di 5.000 animali uccisi, mentre Cassio Dione riferisce che a perdervi la vita furono oltre 9.000!) e persino delle battaglie navali simulate (naumachiae), per cui la superficie dell’arena fu appositamente allagata. I primi due tipi di ludi riscossero un entusiastico successo popolare al punto da entrare stabilmente nel programma degli spettacoli offerti nel Colosseo; non ci sono altre prove documentali di battaglie navali dopo Tito: questo con ogni probabilità indica che le strutture sotterranee dell’arena furono un’aggiunta successiva, realizzata per volere di Domiziano.

Lotta tra due gladiatori (un murmillo e un thrax). Rilievo funerario, marmo, c. 30-50 d.C., da Chieti. Tongeren, Musée Gallo-Romain.

Con l’avvento del Cristianesimo come religione di Stato, gli imperatori persero progressivamente interesse verso i ludi dell’arena. Tuttavia, benché Onorio avesse formalmente proibito i munera dei gladiatori nel 399 e nel 404, questo genere di intrattenimento proseguì almeno fino al 434. Rimasero in voga fino al VI secolo le cacce; si ha notizia del nobile Anicio Massimo, che per festeggiare la propria elezione a console, diede l’ultima imponente serie di venationes nel 523, attirandosi il biasimo di re Teoderico a causa dell’ingente spesa per organizzarle (Cassiod. Var. V 42).

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Il lusso sfrenato di Nerone: le grandi costruzioni (Suet. Nero 31)

Il capitolo 31 della Vita Neronis si concentra sulla trattazione di uno dei vizi del principe, l’inclinazione al lusso sfrenato e allo sperpero facile di denari, e in particolare allo sfoggio di magnificenza nelle costruzioni. La prima parte del brano è dedicata alla descrizione della sontuosa dimora che Nerone si fece costruire tra Esquilino e Palatino, la Domus transitoria, che avrebbe dovuto garantire un “transito” e collegare i nuclei delle proprietà imperiali sui rispettivi colli. La casa “di passaggio” andò distrutta, insieme a mezza Roma, nel terribile incendio del luglio 64. Il disastro diede modo a Nerone di mettere in cantiere progetti urbanistici ancora più ambiziosi, certamente di pubblica utilità; ma naturalmente il principe sfruttò l’occasione per potare a compimento la costruzione del proprio palazzo, passato alla storia come Domus Aurea. La direzione dei lavori fu affidata agli architetti Severo e Celere (Tac. Ann. XV 42); è noto anche il principale decoratore, il pittore Fabullo, o Famulo: Plinio il Vecchio lo descrive come una persona di grande dignità, che dipingeva in toga perfino sulle impalcature, per rendere omaggio all’arte (Plin. NH. XXXV 120).

Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum.

La nuova versione della residenza imperiale è descritta da Svetonio come una città nella città, tanto sontuosa e sfarzosa da ospitare al suo interno campi e parchi, con grande varietà di flora e di fauna, e un lago tanto grande da sembrare un mare. Al suo interno Nerone fece erigere un colosso a propria immagine e somiglianza, affidandone la realizzazione allo scultore Zenodoro (cfr. Plin. NH. XXXIV 45-47): alta circa 36 metri (secondo Svetonio), 35 (secondo Plinio), la statua era nota semplicemente come “Colosso”; dopo la morte dell’imperatore (giugno 68), fu trasformata in effige del dio Sole (DCass. LXV 15, 1) e, in seguito, trasferita di fronte all’anfiteatro Flavio, facendo sì che quest’ultimo, con il tempo, prendesse il nome popolare di “Colosseo”.

Certamente, la Domus aurea non rappresentò l’unico eccesso architettonico di Nerone. Il principe, infatti, volle che fosse costruita anche un’immensa piscina coperta in cui convogliare le acque termali della città campana di Baia; alla piscina era possibile recarsi in nave direttamente dal porto di Ostia attraverso un canale scavato appositamente, abbastanza largo da consentire il transito simultaneo di due grandi imbarcazioni che procedevano in direzione opposta.

Lawrence Alma-Tadema, Scultori nell’antica Roma. Olio su rame, 1877. Kiev, Museo Chanenko.

[31.1] Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominauit. de cuius spatio atque cultu suffecerit haec ret‹t›ulisse. uestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper aruis atque uinetis et pascuis siluisque uaria, cum multitudine omnis generis pecudum ac ferarum. [2] in ceteris partibus cuncta auro lita, distincta gemmis unionumque conchis erant; cenationes laqueatae tabulis eburneis uersatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus uice mundi circumageretur; balineae marinis et albulis fluentes aquis. eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus comprobauit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse.

[3] Praeterea incohabat piscinam a Miseno ad Auernum lacum contectam porticibusque conclusam, quo quidquid totis Bais calidarum aquarum esset conuerteretur; fossam ab Auerno Ostiam usque, ut nauibus nec tamen mari iretur, longitudinis per centum sexaginta milia, latitudinis, qua contrariae quinqueremes commearent. quorum operum perficiendorum gratia quod ubique esset custodiae in Italiam deportari, etiam scelere conuictos non nisi ad opus damnari praeceperat.

[4] Ad hunc impendiorum furorem, super fiduciam imperii, etiam spe quadam repentina immensarum et reconditarum opum impulsus est ex indicio equitis R. pro comperto pollicentis thesauros antiquissimae gazae, quos Dido regina fugiens Tyro secum extulisset, esse in Africa uastissimis specubus abditos ac posse erui paruula molientium opera.

[31.1] Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una dimora che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, che dapprima chiamò transitoria e poi, quando la fece riedificare perché era andata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’è un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno, c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni specie. [2] Negli altri ambienti, ogni cosa era rivestita d’oro, di gemme preziose e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era a lastre d’avorio mobili e forate, cosicché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. Il salone principale era circolare e ruotava su sé stesso tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la Terra. Nelle sale da pranzo scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, finiti i lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente, poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo». [3] Intraprese anche la costruzione di una piscina coperta, cinta da porticati, da Miseno al lago d’Averno, dove far convogliare le acque termali di Baia, e un canale, dall’Averno a Ostia, per potervisi recare in nave, senza affrontare il mare aperto: sarebbe stato lungo centosessanta miglia e largo tanto da consentire il passaggio simultaneo di due quinqueremi che viaggiassero in direzione opposta. Per realizzare tali opere aveva ordinato di deportare in Italia tutti i detenuti da qualsiasi luogo si trovassero e di comminare a tutti i condannati, per qualsiasi crimine, i lavori forzati.

[4] A tale frenesia di spese fu spinto, oltre che dalla fiducia nel proprio potere, anche da una certa speranza, sorta all’improvviso, di poter scoprire immensi giacimenti sommersi, dietro rivelazione di un cavaliere romano, il quale sosteneva con certezza che le ricchezze dell’antichissimo tesoro che Didone, fuggendo da Tiro, aveva condotto con sé, erano nascoste in Africa, in enormi caverne e si potevano estrarre con pochissima fatica.

Grottesca (particolare). Affresco, c. 65-68 dalla Sala delle Maschere, Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.

L’espropriazione di una parte tanto rilevante del centro urbano suscitò meraviglia e malumori da parte del popolo, che pure amava l’imperatore. Le proteste si limitarono tuttavia a bisbigli e sarcasmo. Un celebre epigramma che, a detta di Svetonio (Nero 39), circolava in quel periodo – una sorta di “pasquinata” – era il seguente: Roma domus fiet: Veios migrate, Quirites / si non et Veios occupat ista domus («Roma diventa una casa: emigrate a Veio, o Quiriti! / Sempre che questa dimora non giunga fino a Veio!»). Dopo la fine di Nerone, Vespasiano si affrettò a restituire al pubblico un patrimonio architettonico e paesaggistico di simile valore, che comunque fu in gran parte smantellato. Il lago artificiale fu ricoperto e la valletta nella quale era stato realizzato servì per la costruzione dell’anfiteatro Flavio, nei pressi del quale fu collocata la statua colossale di Nerone. Anche le terme di Traiano e il tempio di Venere (cfr. SHA Hadr. 19, 12-13) sorsero sul colle Oppio, un tempo occupato dalla Domus aurea. Nel giro di quarant’anni il sito in cui sorgeva la “Casa d’Oro” fu colmato di nuovi edifici. Questo fatto rappresentò, paradossalmente, una fortuna: inglobati nelle fondamenta delle costruzioni successive, i resti dell’enorme residenza conservarono, protetti dall’umidità, i pregevoli affreschi e le decorazioni parietali (le cosiddette “grottesche”)

La Domus aurea venne alla luce incidentalmente, quando, alla fine del XV secolo, un giovane romano cadde in una fessura sul versante del colle Oppio, ritrovandosi in una delle stanze dipinte del palazzo. Le “grottesche”, costituite da ghirlande di elementi vegetali, animali e creature fantastiche, suscitarono l’interesse degli artisti del Rinascimento come Pinturicchio, Michelangelo e Raffaello, che si fecero calare nei cunicoli per poter studiare da vicino queste immagini e copiarle sui loro taccuini. Questo genere di decorazioni ebbe un impatto di straordinaria importanza sullo sviluppo dell’arte rinascimentale e successiva: dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento i motivi “a grottesca” furono utilizzati praticamente ovunque, diventando una specie di ossessione. Si ricordi, tanto per fare un esempio, gli stucchi delle Logge Vaticane e quelle di Villa Madama, a opera di Giovanni da Udine (1487-1564).

Achille a Sciro. Affresco, c. 65-68, dalla Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.

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La frontiera britannica: il vallum Hadriani e il vallum Antonini

La creazione di una frontiera settentrionale fortificata in Britannia iniziò durante il principato di Traiano (98-117), in particolare dal 103, formando una vera e propria linea di demarcazione fra la provincia romana e le tribù caledoni del Nord, tra le più bellicose e restie all’integrazione culturale dell’Impero. Il tracciato del limes correva lungo l’istmo tra la foce del Tyne e l’estuario del Solway, seguendo parallelamente a una via militaris, tracciata a scopo strategico, la cosiddetta Stanegate (ang. strada di pietra). La frontiera comprendeva un complesso di fortificazioni, torri di guardia, fossati e una palizzata, nonché una serie di accampamenti: il fulcro di questo sistema difensivo era costituito dal forte di Vindolanda (od. Chesterholm), eretto poco prima del 90. Cinque anni dopo l’avvento di Adriano, nel 122 o più tardi, fu ordinata la costruzione di una fortificazione di frontiera permanente a nord della Stanegate, sotto la supervisione di Aulo Platorio Nepote, legatus Augusti pro praetore della Britannia dal 122 al 125 (AE 1959, 155).

Ricostruzione di una torre di guardia del vallo adrianeo a Vindolanda.

Secondo il progetto originario, il limes dal Tyne al Solway sarebbe stato costituito da un bastione di pietra. In realtà, a ovest del fiume Irthing, questo terrapieno fu inizialmente costruito con la torba, forse a causa della mancanza di malta di calce. Davanti al bastione correva un fossato, che la morfologia del terreno rendeva più o meno superfluo. Lungo il muro dovevano trovarsi singoli castella, posti a un miglio romano l’uno dall’altro; inoltre, a intervalli regolari, si ergevano delle torrette di guardia, una ogni due fortini. Per rafforzare ulteriormente le difese, al di qua delle fortificazioni sorgevano a breve distanza dei castra, in cui erano alloggiate delle guarnigioni. Alcuni forti legionari furono poi integrati direttamente nel bastione. In totale questi forti furono sedici: Segedunum (od. Wallsend), Pons Aelius (od. Newcastle), Condercum (od. Benwell), Vindobala (od. Rudchester), Onnum (od. Halton Chesters), Cilurnum (od. Chesters), Brocolitia (od. Carrawburgh), Vercovicium (od. Housesteads), Aesica (od. Great Chesters), Magnae (od. Carvoran), Banna (od. Birdoswald), Camboglanna (od. Castlesteads), Uxelodunum (od. Stanwix), Aballava (od. Burgh-by-Sands), Congavata (od. Drumburgh), Maia (od. Bowness-on-Solway). Un ulteriore elemento difensivo era un’ampia trincea con due bastioni, il vallum, subito dietro la fortificazione principale. I lavori sul limes furono, dunque, completati in una decina d’anni: la poderosa struttura raggiunse la lunghezza di 80 miglia romane (c. 120 km). Così ne parla Elio Sparziano, il biografo dell’imperatore: «In quel tempo, come spesso fece anche in molti altri luoghi, dove i territori dei barbari non erano limitati dai fiumi, ma da confini artificiali, [Adriano] fece erigere una barriera di divisione a guisa di muraglia, formata da pali fitti e conficcati profondamente nel suolo» (SHA Hadr. 12, 6, Per ea tempora et alias frequenter in plurimis locis, in quibus barbari non fluminibus sed limitibus dividuntur, stipitibus magnis in modum muralis saepis funditus iactis atque conexis barbaros separavit).

Resti del castello miliare (milecastle) n° 39 (Castle Nick), lungo il vallum Hadriani, a Steel Rigg.

Dopo la morte di Adriano, sotto il principato di Antonino Pio (138-161), Quinto Lollio Urbico fu inviato in Britannia come nuovo legatus Augusti pro praetore (CIL VII 1125; RIB 1, 2192). Giulio Capitolino, nella biografia dell’imperatore, afferma che il princeps «condusse a termine molte operazioni militari per mezzo dei suoi legati; infatti, grazie a Lollio Urbico vinse i Britanni» (SHA Anton. 5, 4, per legatos suos plurima bella gessit, nam et Britannos per Lollium Urbicum vicit legatum). Il governatore della provincia, dopo aver ristrutturato il forte di Coria (od. Corbridge) tra il 139 e il 140 (RIB 1147; 1148), nei due anni successivi in nome di Antonino lanciò un’offensiva contro i Caledoni, riuscendo a strappare loro il controllo delle attuali Lowlands scozzesi; il successo della spedizione è testimoniato dall’emissione di monete che celebrano la vittoria sulla Britannia (RIC 745). Per proteggere la recente conquista da possibili contrattacchi, Urbico sovrintese ai lavori per la costruzione di un vallum più a nord di quello adrianeo (RIB 2191; 2192): la nuova barriera correva tra gli estuari del Clyde e del Forth, per una lunghezza di circa 40 miglia romane (c. 60 km). Come attesta sempre il biografo del principe, il nuovo sistema difensivo fu costruito secondo la tecnica del murus caespiticus (SHA Anton. 5, 4, alio muro caespiticio summotis barbaris ducto), cioè principalmente con zolle erbose su fondazioni di pietra larghe tra i 4,3 e i 4,9 m, con un’altezza (compreso il parapetto) di 3 m. Di fronte alla barriera si svolgeva un fossato a “V”, mentre alle sue spalle correva una via militaris. Con una frequenza superiore a quella dei fortini adrianei, il complesso difensivo di Antonino Pio era rinforzato da ben 16 castra, che ospitavano guarnigioni di auxilia.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Sesterzio, Roma, c. 143-144. Æ 23,70 g. Rovescio: Imperator II Britann(ia). Personificazione della Britannia assisa con piede su roccia, lancia nella destra e braccio sinistro appoggiato a uno scudo.

Il vallum Antonini rimase effettivamente in uso per un brevissimo periodo: circa otto anni dopo il suo completamento, intorno al 162/3, esso fu evacuato, a quanto pare sotto la pressione delle tribù settentrionali, per poi essere riconquistato nel 165/6 e, infine, essere abbandonato definitivamente poco prima del 168. La ragione dello sgombero di questo complesso difensivo non è chiara. La frontiera fu attestata sul vallum Hadriani, che, a parte il periodo tra il 208 e il 210 della campagna contro Caledoni e Meati di Settimio Severo (193-211), segnò il confine dell’Impero in Britannia fino alla fine dell’amministrazione provinciale romana negli anni 407-410.

La reale funzione svolta dal vallo di Adriano e in particolare la sua natura militare sono tuttora oggetto di estese e controverse dispute tra gli studiosi. Peraltro, quest’opera difensiva non dev’essere intesa solo come una postazione di combattimento in senso stretto: è evidente che essa, oltre naturalmente ad alloggiare forze armate da impiegare per un pronto intervento in caso di necessità, ebbe anche il compito fondamentale di regolare i traffici commerciali attraverso la frontiera. Dopo il governatorato di Lucio Alfeno Senecione (CIL VII 269; 270; 513; 1346; AE 1930, 111; 113), che tra il 206 e il 207 condusse una serie di vittoriose campagne contro i Caledoni, e la spedizione britannica di Settimio Severo, la provincia godette di una relativa tranquillità e diverse strutture fortificate del vallum caddero in disuso.

Pietra tombale di Flavino, vessillifero a cavallo. Hexham, Abbazia di Sant’Andrea

La funzione bellica del complesso fu brevemente riesumata da Costanzo Cloro, morto a Eburacum (od. York) nel 306, per le sue spedizioni nella regione. Le fortificazioni erette nel IV secolo ebbero però caratteristiche marcatamente differenti da quelle più antiche; gli insediamenti civili maggiori (vici), sorti nelle prossimità di questi castra, furono abbandonati; alcune modeste abitazioni rustiche all’interno dei fortini testimoniano della presenza di piccoli nuclei familiari. La consistenza delle guarnigioni, tuttavia, diminuì secondo un processo di smobilitazione durato per tutto il IV secolo. Non è certo se il vallum Hadriani sia stato veramente scavalcato dalle forze della cosiddetta barbarica conspiratio (Amm. Marc. XXVII-XXVIII), nel 367/8, a seguito di un ammutinamento delle guarnigioni di frontiera, che avrebbero permesso ai Pitti di dilagare nel territorio romano, e a una contemporanea serie di assalti degli Attacotti e degli Scoti dall’Hibernia (od. Irlanda) e dei Sassoni dal continente. Nonostante la riscossa di Flavio Teodosio il Vecchio, comes Britanniarum, nel 368/9, dopo questi eventi l’abbandono del vallum fu completo. La presenza di strutture lignee di epoca più tarda, ritrovate presso i granai del forte di Camboglanna (od. Birdoswald), indicano che il complesso difensivo fu riutilizzato dalle comunità locali ormai indipendenti dall’amministrazione imperiale.

Riferimenti bibliografici:

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L’età degli imperatori per adozione

1. Un secolo di stabilità politica

Il periodo che comincia con il principato di Nerva (96) e arriva fino alla morte di Commodo (192) è – se si eccettuano gli ultimi dodici anni, quelli, appunto, del principato di Commodo! – un secolo intero di stabilità, che non ha uguali (per durata e benefici effetti) in nessun altro periodo della storia romana. Se il primo secolo dell’Impero era stato caratterizzato da tensioni e conflitti di governo, il secondo è contraddistinto da una sostanziale uniformità di conduzione del potere. Ormai saldo nei suoi confini, consapevole della sua grandezza, capace di romanizzare intimamente le genti assoggettate nei secoli, l’Impero sembrava effettivamente tutto pervaso di iustitia e humanitas, quale nessun’altra espressione politica antica conobbe mai. Gli imperatori che si succedettero nell’arco di tempo considerato fecero sincera professione di mitezza e di generosità e alcuni di loro furono addirittura fini intellettuali, di cultura estremamente aristocratica.

M. Cocceio Nerva. Statua equestre, bronzo, fine I sec. da Miseno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il Senato, di fatto ormai esautorato, ritrovò una sua parvenza di potere nei confronti dell’imperatore e finì per adattarsi a un ruolo limitato, o meglio subordinato, ma non più esposto a quelle aggressioni insultanti e violente che avevano segnato tanto negativamente il governo dei Caesares del I secolo.

Il problema della successione dei principi trovò, dunque, una soluzione soddisfacente nel sistema dell’adozione: e questo garantì, almeno fino a Marco Aurelio, una serie di imperatori dotati di alte qualità personali. La stabilità raggiunta dall’ordinamento governativo attenuò quello che era stato l’assillo continuo di congiure e ribellioni gestite dai grandi generali dell’esercito, pronti a servirsi della propria forza militare per realizzare personali ambizioni di potere; e consentì anche agli stessi principi di procedere a riforme istituzionali e sociali prima del tutto inattuabili.

M. Cocceio Nerva. Statua, marmo, fine I sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti.

In varia misura, ma con costanza, i provinciali furono ammessi a cariche pubbliche di prim’ordine, il che mostra come l’Impero sapesse valersi assennatamente di tutti gli uomini abili e onesti. E perciò tutti sentivano in Roma la loro patria e dalle più lontane regioni guardavano a lei come alla μήτηρ καὶ πατρὶς κοινὴ πάντων («madre e patria comune di tutti») e pregavano, come nell’encomio Εἰς Ῥώμην (Or. 26) del retore asiatico Publio Elio Aristide, che essa durasse in eterno. Fu questo pure il periodo in cui procedette instancabile l’opera di trasformazione dei centri urbani, processo che giustamente è stato definito «urbanizzazione dell’Impero», ma fu anche l’epoca in cui strade, commerci e opere pubbliche raggiunsero il massimo sviluppo.

2. Da Nerva a Traiano

2.1. L’adozione di Traiano e la romanizzazione dell’Occidente

Eliminato Domiziano con una congiura del 96, il Senato e i mandanti dell’esecuzione si accordarono sulla scelta di un illustre senatore, ormai anziano (aveva sessantasei anni) e privo di figli, Marco Cocceio Nerva, leale servitore dell’Impero e legato alla dinastia Flavia. Come primo atto formale, il nuovo principe giurò pubblicamente che sotto il suo governo non ci sarebbero state condanne a morte contro membri dell’aristocrazia, abolì i processi de maiestate, concesse l’amnistia e la restituzione delle proprietà confiscate sotto il predecessore, ma non riuscì comunque a coinvolgere il venerando consesso nella politica di governo; anzi, le sue relazioni con la fazione che aveva sostenuto i Flavi lo esposero a tentativi di congiura e ad ammutinamenti. Asceso al potere per volontà del Senato, Nerva cercò di guadagnarsi il consenso del popolo e dell’esercito con donativi, assegnazioni fondiarie e sgravi fiscali, depauperando così le casse dello Stato. Le misure adottate contro la crisi economica e finanziaria, e cioè l’istituzione di una commissione per ridurre la spesa corrente (i V viri minuendis publicis sumptibus), o la coniazione di monete con il metallo prezioso ricavato dalla fusione delle statue abbattute di Domiziano, non potevano avere una reale efficacia.

M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 96 d.C. AR 3,28 g. Rovescio: concordia exercituum. Simbolo della coniunctio dextrarum davanti a un’insegna legionaria su prora navale.

Presso l’esercito, inoltre, era ancora alto il prestigio del predecessore e Nerva mancava del sostegno di una forza militare. Quando destituì il prefetto del pretorio Tito Petronio, uno degli ufficiali coinvolti dell’assassinio di Domiziano, il vecchio Nerva non assecondò le richieste dei pretoriani che ne desideravano la messa a morte. L’insoddisfazione dei soldati sfociò in aperta rivolta: le guardie assediarono il palazzo e presero l’imperatore in ostaggio; Tito Petronio e altri congiurati furono uccisi. Il nuovo prefetto, Casperio Eliano, e i suoi uomini pretesero con minacce e violenze che il principe pronunciasse pubblici ringraziamenti per l’atto benemerito.

Quell’episodio di alto rischio indusse Nerva a cercare un’altra via per rafforzare la propria posizione e garantire continuità nell’Impero: gli eventi lo costrinsero, dunque, ad adottare e a scegliere come proprio successore il governatore della Germania Superior, Marco Ulpio Traiano. Costui, nato nel municipium di Italica nell’Hispania Baetica (od. Andalusia), poteva contare sul sostegno di un’armata e godeva di grande prestigio e di un’altissima reputazione presso i quadri militari di tutto l’Impero. Dotato di grandi capacità organizzative e strategiche e di ampia autorevolezza, quest’uomo avrebbe certamente contribuito alla soluzione della crisi e restituire all’imperatore il prestigio compromesso.

M. Cocceio Nerva in veste di Giove. Statua, marmo, fine I sec. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Nerva sarebbe rimasto a capo dello Stato ancora per poco; eppure, ebbe il tempo di iniziare un’importante svolta politica: ritornando alla collaborazione con il Senato, cui restituì alcune responsabilità giudiziarie che il predecessore aveva avocato a sé, tacitando il pretorio con lauti donativi e tenendo buono il popolino con alcuni sgravi fiscali, Nerva addossò all’amministrazione pubblica una serie di incombenze, come il cursus publicus (il sistema postale), prima a carico degli Italici. Una benemerita iniziativa fu senz’altro l’istituzione dei cosiddetti alimenta, un provvedimento in favore dei bambini bisognosi, legittimi e illegittimi, dell’Italia romana: il principe si impegnava, di tasca propria, ad assicurare a centinaia di bambini un futuro sereno e dignitoso. Questo programma, portato avanti dai successori di Nerva, costituì l’avvio della politica filantropica che segnò il secondo secolo dell’Impero. Nerva morì nel gennaio del 98, dopo appena un anno e quattro mesi di governo; gli successe Traiano senza incidenti.  

Tabula alimentaria traianea. Iscrizione (CIL XI 1147), bronzo, c. 107-114, da Lugagnano Val d’Arda (PC). Parma, Museo Archeologico Nazionale.

Di origini iberiche, anche se la sua famiglia vantasse antiche origini umbre, Marco Ulpio Traiano fu il primo provinciale assurto ai fastigi imperiali, segnando la fine della supremazia italica in Senato e nell’esercito, inaugurando la tendenza a preferire alla guida dell’Impero uomini provenienti dalle classi dirigenti provinciali. Il processo di “romanizzazione” dell’Occidente era ormai un fatto compiuto; l’Italia perdeva progressivamente il proprio prestigio rispetto alle altre regioni dell’Impero, e le nuove aristocrazie si dimostravano sempre più vicine agli interessi dei ceti medi in ascesa.

M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 97 d.C. AR. 3,26 g. Dritto: Imp(erator) Nerva Caes(ar) Aug(ustus) P(ontifex) M(aximus) tr(ibunicia) pot(estate). Testa laureata dell’imperatore voltata a destra.

Dopo gli eccessi di Domiziano, Traiano ripropose il modello del princeps che, primus inter pares, operava al servizio della res publica; inoltre, egli cercò una nuova intesa tra il principato e l’ideale tradizionale della libertas, fondata sul riconoscimento della funzione e dei privilegi delle classi dirigenti, e sull’adesione di queste al buon governo dell’imperatore.

2.2. L’espansionismo militare di Traiano

Quando seppe dell’adozione imperiale, Traiano non ebbe fretta di raggiungere Roma, ma preferì potenziare le misure di sicurezza: sostituì la tradizionale guardia del corpo imperiale (i corporis custodes) con 500 (e poi 1000) equites singulares, selezionati con cura dalla cavalleria ausiliaria (il pretorio, invece, continuò a essere prevalentemente composto da italici); privilegiò l’attività militare, rinverdendo una politica di conquiste in grande stile, accantonata dai tempi di Augusto.

M. Ulpio Traiano. Busto con paludamentum del tipo Decennalia, marmo, c. 108. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Sotto Traiano, perciò, l’Impero riprese la sua espansione militare, raggiungendo la massima estensione con una serie di conquiste, destinate però a rivelarsi in gran parte effimere. Il nuovo slancio della politica militare fu determinato, al di là delle motivazioni occasionali che scatenarono i singoli conflitti, dall’aggravarsi della crisi economica e finanziaria, che imponeva l’acquisizione di nuove risorse da sfruttare. Una guerra si imponeva su tutte: quella di rivincita su Decebalo, re dei Daci, che aveva umiliato Domiziano e Roma. Il casus belli fu offerto dalla pressione esercitata ai confini settentrionali, lungo il corso del medio e basso Danubio: fatto che richiese l’intervento immediato dei Romani; in realtà, il vero obiettivo di Traiano era quello di assicurare all’Impero il controllo dei ricchi giacimenti auriferi che il territorio dacico custodiva.

All’inizio del II secolo l’esercito romano contava ormai un effettivo di trenta legioni, per un totale stimato di 180.000 uomini, tra i reparti legionari, quasi tutti di provenienza provinciale, e oltre 200.000 auxilia. Traiano poté, dunque, disporre di una forza armata davvero considerevole.

Arco di Traiano. Arco celebrativo, fornice unico, pietra calcarea, opera quadrata e marmo pario, c. 114-117. Benevento.

La conquista e la sottomissione della Dacia furono completate dopo due serie di operazioni: una prima campagna, nel 101-102, con la sonora sconfitta di Decebalo e dei suoi a Tapae, portò alla riduzione del territorio transdanubiano a regno-cliente di Roma. La seconda spedizione, nel 105-106, che si configurò come un’invasione massiccia di truppe romane in risposta a un tentativo di riscossa di Decebalo, si concluse con la presa della capitale, Sarmizegetusa e il suicidio del re. La Dacia fu redatta in provincia e in breve presidiata e romanizzata. La Colonna Traiana, ultimata nel 113, conserva la più splendida illustrazione di queste campagne daciche, mentre la contemporanea documentazione storico-letteraria è andata irrimediabilmente perduta. Fu questa l’ultima grande conquista romana, che fruttò all’aerarium un immenso bottino: l’afflusso dell’oro dei Daci risolse per parecchio tempo i problemi di liquidità finanziaria dell’Impero.

La battaglia di Tapae (XXIV, Cichorius). Rilievo, marmo, 113 d.C. dalla Colonna Traiana.

Negli stessi anni 105-106 Traiano operò anche l’annessione dell’Arabia Petraea (od. Giordania), già un regno-cliente di Roma, che controllava gran parte del vitale e proficuo commercio carovaniero con l’Oriente e occupava un’area strategicamente nevralgica. Negli anni successivi, tra il 107 e il 113, l’imperatore si dedicò al riassetto interno, con particolare riguardo per i problemi delle province, nelle quali promosse imponenti lavori di edilizia pubblica e introdusse su vasta scala i curatores civitatis, funzionari imperiali addetti al controllo delle finanze cittadine su mandato governativo centrale. Siccome, poi, numerosi erano ormai in Senato gli elementi provinciali con interessi locali, Traiano impose loro di investire un terzo del proprio patrimonio in terreni italici, onde incrementarne il valore e rinsanguarne la redditività – in linea, peraltro, con l’orientamento politico di Domiziano. L’Italia, infatti, avvezza da secoli a vivere sulle risorse delle province, subiva ormai la concorrenza di quelle più prospere e urbanizzate, come le Galliae e le Hispaniae. Traiano, inoltre, perfezionò e razionalizzò l’iniziativa del predecessore a beneficio dei bambini poveri: gli interessi sui prestiti concessi ai piccoli proprietari terrieri furono devoluti agli alimenta, che, come si è visto, costituivano una struttura assistenziale per raccogliere in comunità gli orfani italici. Questi bambini, allevati ed educati, avrebbero potuto accedere ai quadri dell’amministrazione pubblica e all’esercito.

Traiano, però, era stato sempre un militare: si comprende quindi che egli desiderasse lasciare traccia di sé nella storia di Roma, specialmente con imprese militari. E proprio la vocazione guerresca avrebbe finito col tradirlo, spingendolo a un’impresa ben al di là delle forze e delle risorse a sua disposizione: l’ossessione di Traiano era di liquidare il Regno dei Parti, che, nel 113, con l’ascesa al trono di Osroe I, aveva ripreso le ostilità con rinnovate pretese sul trono d’Armenia.

M. Ulpio Traiano. Aureus, Roma 116 d.C. AV 7,37 g. Rovescio: P(ontifex) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestas) co(n)s(ul) VI p(ater) p(atriae) SPQR – Parthia capta. Trofeo fra due prigionieri partici seduti.

Nell’ottobre dello stesso anno Traiano lanciò un’offensiva militare in grande stile: nel giro di tre anni, dopo aver annesso l’Armenia, istituito le province di Mesopotamia Superior e Assyria ed espugnato persino una delle capitali reali, Ctesiphon, le forze romane raggiunsero il Golfo Persico. Senonché i Parti fecero quadrato contro gli invasori: nel 116 la Mesopotamia meridionale si sollevò in una sommossa generale, mentre gli attacchi nel nord del Paese e nelle altre regioni occupate logorarono l’esercito, mettendo a repentaglio le linee di comunicazioni romane. Nel frattempo, tutto il Vicino Oriente romano era in ebollizione per violente sommosse giudaiche. L’imperatore ritenne perciò opportuno ritirarsi prima che accadesse l’irreparabile. Giunto in Cilicia, Traiano morì improvvisamente ai primi di agosto del 117, lasciando una situazione oggettivamente precaria, nonostante l’appellativo di optimus princeps con cui sarebbe passato alla storia. Il suo successore, Publio Elio Adriano, preferì rinunciare alle nuove conquiste, sanzionando di fatto il fallimento delle spedizioni di Traiano. L’Armenia, dunque, tornava a essere uno Stato cuscinetto sotto un re nominato dall’imperatore romano.

3. Adriano e gli Antonini

3.1. L’età d’oro del principato

L’epoca di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio rappresenta già nella coscienza dei contemporanei un periodo felice nella vita dell’Impero romano. Il nuovo corso inaugurato da Adriano rispetto alla politica aggressiva del suo predecessore porta all’affermazione di un nuovo tipo di “monarca illuminato”, amante della cultura e delle arti, che si richiama ad Augusto in opposizione a Cesare: «Non cesarizzarti!» era il monito che Marco Aurelio ripeteva a sé stesso prendendo le distanze dalla gloria della vittoria militare e del potere. Alle differenze tra le singole personalità di questi principi e tra le varie vicende dei loro governi corrisponde un comune schema ideologico e una concezione condivisa del potere imperiale, tanto da incarnare il mito platonico del governo affidato ai filosofi.

P. Elio Adriano. Dracma, Alessandria d’Egitto, 133-134. R – L IH Iside Pharia in atto di reggere una vela, mentre naviga verso la città egizia, rappresentata dal Faro a destra.

3.2. L’impero umanistico di Adriano (117-138)

Nel giro di due giorni, Adriano, un parente alla lontana di Traiano, allora ad Antiochia ad Orontem come governatore della Syria, apprese delle ultime volontà dell’imperatore e della propria adozione: ricevette così l’acclamazione imperiale. In effetti, la designazione tardiva a successore di Traiano alimentò il sospetto di una montatura ordita da Adriano in accordo con la moglie del defunto, Plotina, che avrebbe tenuto nascosta la morte dell’Augusto sposo fino all’avvenuta acclamazione del nuovo Caesar da parte degli eserciti.

P. Elio Adriano. Statua, bronzo, 117 d.C. ca. Jerusalem, Israel Museum.

Con Adriano, cugino di Traiano e come lui di origini iberiche, Roma abbandonò la politica di espansionismo militare ritornando a una strategia difensiva, realizzata anche attraverso la costruzione di fortificazioni permanenti lungo i limites dell’Impero, come il celeberrimo “Vallo di Adriano” al confine settentrionale della Britannia. Il nuovo princeps era convinto che impegolarsi in ulteriori avventure orientali avrebbe portato le risorse umane e finanziarie dell’Impero all’esaurimento; rinunciò così alle province di nuova istituzione e si accontentò di insediare ove possibile reguli clienti. Adriano per questo motivo incontrò l’opposizione del Senato e di alti ufficiali dell’esercito, scandalizzati dalla rinuncia alla gloria e alle annessioni, sempre fruttuose: l’imperatore dovette porvi rimedio con durezza, portando all’esecuzione di eminenti consolari. Non coglie peraltro nel segno la polemica contrapposizione – già sostenuta nell’antichità – fra l’imperatore conquistatore e condottiero d’eserciti (Traiano) e il principe portatore di pace (Adriano). Il nuovo capo dello Stato romano, infatti, si era formato sotto le armi e non rinunciò a usarle quando necessario.

P. Elio Adriano rientra a Roma accolto dal Genio del Senato, dal Genio del Popolo e dalla dea Roma. Rilievo, marmo, inizi II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

Per rendersi conto delle necessità urgenti e ovviare agli inconvenienti, Adriano viaggiò instancabilmente per tutto l’Impero da Oriente a Occidente, informandosi ovunque andasse delle condizioni e dei bisogni degli abitanti, per sopperirvi concretamente e partecipare attivamente all’amministrazione delle province. In ogni luogo trascorso, egli promosse inoltre la costruzione o il restauro di infrastrutture e opere pubbliche, ma non mancò di saziare la propria curiosità intellettuale e l’indubbia propensione per le lettere e le arti. Raffinato ellenizzante ed esteta, imbevuto di sapienza greca, Adriano colse l’occasione di visitare luoghi e monumenti, promuovendo manifestazioni culturali e sportive, cimentandosi personalmente nelle dispute dei dotti e dei letterati del suo tempo. Testimonianze architettoniche per eccellenza dei suoi gusti restano la tenuta di Tibur (od. Tivoli), che fece riedificare e ampliare (Villa Adriana), nella quale volle che fossero riprodotti i più importanti edifici e ambienti dei luoghi che aveva visitato; ma anche il rifacimento, con la pianta circolare, del Pantheon di Agrippa.

P. Elio Adriano. Aureus, Roma, c. 120-121, AV 7,26 g. Rovescio: P(ontefix) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul) III. Marte stante di fronte con lancia e scudo.

Adriano, con il suo regime, affermò il primato della politica interna su quella estera, dimostrandosi amministratore capace e sensibile ai mutamenti della società. Rispetto a Traiano, l’avvento di Adriano aveva segnato l’inizio di una politica moderata anche nella questione giudaico-cristiana; ma, negli ultimi anni del suo principato, l’imperatore dovette fronteggiare una nuova rivolta, che faceva centro su Gerusalemme. Il mondo giudaico, in fermento fin dai tempi di Caligola, costituiva da sempre un grosso problema per l’Impero romano, tollerante verso ogni religione e cultura che non ponesse problemi politici e di ordine pubblico, ma spietato nel reprimere atteggiamenti non consoni alla prassi imperiale. Ormai il Giudaismo si configurava come un “movimento insurrezionale” e in quanto tale andava soffocato. L’ultima grande rivolta, capeggiata da Simon Bar Kochba, un leader dalle pretese messianiche, impegnò le forze romane per tre anni (132-135). Alla fine, i Romani ebbero ragione dei ribelli, ma a caro prezzo: la repressione fu durissima con centinaia di migliaia di morti. Gerusalemme vide cancellato il proprio nome, mutato ufficialmente in Aelia Capitolina.

La battaglia di Ethri (134), durante la rivolta guidata da Bar Kochba. Illustrazione di P. Dennis.

3.3. Antonino Pio (138-161)

In assenza di eredi, Adriano si era posto il problema della successione. Per motivi che ai moderni sfuggono, ma che potrebbero affondare nei difficili rapporti con la moglie, il principe escluse dall’imperium lo scarso parentado, sopprimendone eventuali capaces a scanso di equivoci. Nel gennaio del 138, poco prima di passare a miglior vita, l’imperatore aveva adottò Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, esponente dell’aristocrazia che vantava origini galliche. Costui meritò il titolo di Pius per essersi battuto con tenacia per l’apoteosi del padre adottivo presso il Senato recalcitrante. Poiché gli erano premorti i due figli maschi, Antonino non ebbe difficoltà ad adottare a sua volta, su richiesta del predecessore, Lucio Vero e Marco Aurelio, suo genero, marito dell’unica figlia femmina, Faustina Minore: in seguito, la successione dei due optimi chiamati a esercitare in coppia il potere imperiale, con una maggiore garanzia di “costituzionalità”, avrebbe espresso l’adesione del principe agli ideali tradizionali del Senato romano.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Aureus, Roma, 151-152, AV 7,24 g. Rovescio: tr(ibunicia) pot(estate) XV co(n)s(ul) IIII. L’imperatore in toga con globo e pergamena.

Il lungo principato di Antonino Pio fu abbastanza tranquillo, senza scosse se non per una larvata minaccia degli Alani sui confini orientali. Il nuovo imperatore consolidò il sistema di governo del predecessore, perseguendo una politica di sgravi fiscali, resa possibile dallo sfruttamento delle risorse, ma anche dalla limitazione della spesa per le opere pubbliche. Amministratore attento e oculato, Antonino diede di sé l’immagine sobria del sovrano che agisce per il bene comune, con un continuo richiamo al passato di Roma, segno di una concezione tradizionalistica del potere. Il principe non si avventurò in operazioni militari che non fossero di stabilizzazione dello status quo: torbidi sulla frontiera britannica, causati dai Caledoni, lo indussero, dopo una repressione, ad avanzare le fortificazioni (vallum Antonini).

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Busto, marmo, metà II sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Anche per temperamento ed esperienza personale, essendosi formato in incarichi civili e amministrativi, sino a entrare nel consilium principis di Adriano, ormai tramutato in organo di governo istituzionalizzato, Antonino Pio non amava la guerra, e cercò nei limiti del possibile sempre l’accordo diplomatico, anche con l’eterno nemico partico. A differenza del predecessore, però, non si mosse mai da Roma, convinto che il principe dovesse governare dalla capitale.

T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Statua, marmo, metà II sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani-Museo Chiaramonti

Tradizionalista in ambito religioso, di condotta ispirata a principi dell’humanitas, anche nell’amministrazione della giustizia, Antonino si segnalò parimenti per l’attività evergetica, ampliando l’area di intervento a favore dei bisognosi e dei diseredati: promosse un piano di assistenza per le ragazze italiche orfane, raccolte e allevate in comunità come puellae Faustinianae (così chiamate in onore della moglie, Faustina Maggiore). Questa iniziativa rientrava nelle misure prese in favore dell’Italia, che Adriano aveva trattato alla stregua delle altre province, mentre Antonino, fedele al suo conservatorismo, volle riconfermare nel ruolo di padrona del mondo, potenziandone le infrastrutture e gli edifici pubblici.

3.4. Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo (161-180)

Dei due figli adottivi di Antonino, il genero Marco Aurelio, maggiore di età, precedette Lucio Vero in carriera, ricevendo già nel 146 l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas. Sul letto di morte, nel 161, il vecchio imperatore trasferì a lui soltanto l’autorità imperiale, ma volle che il Senato riconoscesse Lucio Vero come collega a tutti gli effetti. I due avrebbero governato congiuntamente, sebbene a Marco, come più anziano, sarebbe spettata una sorta di primato, sancito anche dall’investitura a pontifex maximus. Marco Aurelio, inoltre, era un esponente dello Stoicismo, che teorizzava il potere monarchico come la migliore forma di governo per il sapiens. Inaugurando così una prassi che non sarebbe rimasta isolata nella storia di Roma, il nuovo imperatore si associò con pari poteri il fratello adottivo: fu il primo esempio di una diarchia istituzionalizzata ai vertici dello Stato.

Antonino Pio adotta Marco Aurelio e Lucio Vero. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.

A Lucio fu affidato il compito di condurre una campagna militare contro i Parti: questi, nello stesso 161, in occasione dell’insediamento di re Soemo, protetto da Roma, dapprima invasero il Regno d’Armenia, imponendo sul trono Pacoro, fratello del loro re Vologase IV; poi sferrarono una temibile offensiva contro le province romane di Syria e Cappadocia. Il conflitto, protrattosi fino al 166, si concluse a favore dei Romani, che, cinquant’anni dopo Traiano, tornarono a occupare il territorio partico fino a Ctesiphon, che presero e rasero al suolo. Soemo fu restaurato re d’Armenia, e i territori conquistati a est dell’Eufrate costituirono la nuova provincia di Mesopotamia.

Scena di battaglia tra Romani e Parti. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.

Una nuova minaccia proveniva dal settore danubiano, dove alcune popolazioni germaniche, spinte da massicci movimenti migratori, avevano invaso la Pannonia. Nel 167 entrambi gli imperatori mossero contro il nemico, con un esercito nei cui ranghi si stava diffondendo un’epidemia di peste, importata dalla spedizione in Oriente e destinata con il tempo a desertificare intere contrade. All’arrivo dell’armata imperiale ad Aquileia, gli invasori si ritirarono e chiesero una tregua, ma Marco Aurelio preferì spingersi oltralpe per dare ai nemici una prova di forza. Dopo aver svernato ad Aquileia, la ripresa virulenta dell’epidemia consigliò il rientro a Roma; per via Lucio morì di un colpo apoplettico agli inizi del 169.

L. Vero. Busto, marmo, II sec. d.C., dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

In quel torno di tempo, tuttavia, i Romani patirono due disastrose sconfitte a opera di alcuni popoli federati sotto i vessilli di Quadi e Marcomanni, che, dilagando un po’ ovunque, superarono perfino le Alpi e arrivarono a incendiare Opitergium (od. Oderzo) e ad assediare Aquileia. Come se non bastasse, bande di predoni scesi dai Carpazi penetrarono in Grecia, dove saccheggiarono Eleusi. Marco Aurelio, che nel frattempo era stato impegnato in una spedizione contro gli Iagyzi al di là del Danubio, dovette rientrare e organizzare un’ampia controffensiva: la messa in sicurezza del territorio romano fu lenta e faticosa, ma alla fine riportò l’ordine. L’imperatore consentì l’insediamento di grandi masse di nomadi in Dacia, Pannonia, Moesia, Germania e in alcune zone dell’Italia nordorientale, dove, alle dipendenze dei proprietari terrieri o del demanio, i nuovi arrivati si sarebbero impegnati a lavorare la terra e a difenderla da altri invasori.

Guerrieri transdanubiani. Illustrazione di G. Embleton.

Mentre si stava risolvendo, o tamponando, il problema delle frontiere settentrionali, si ebbe in Oriente la ribellione di Gaio Avidio Cassio, legatus Augusti in Syria, che era stato artefice del successo in Mesopotamia e allora era plenipotenziario per quel settore. Costui nel 175 accampò pretese alla porpora imperiale, avendo appreso che Marco, malato, era dato per spacciato. Ma quando i sostenitori di Cassio seppero che il principe si era ristabilito e si apprestava a marciare contro di loro, sconfessarono il loro capo e lo uccisero. Risolta così la crisi in Oriente, Marco poté riprendere la via del nord, per risolvere la questione germanica, ma ricadde malato e si spense a Vindobona (od. Vienna) il 17 marzo del 180. Ebbe la consecratio, che lo accomunò al già divinizzato Lucio Vero. Per ironia della storia, il principe-filosofo aveva dovuto operare quasi ininterrottamente sui campi di battaglia.

M. Aurelio Antonino. Statua equestre, bronzo, fine II sec. Roma, Musei Capitolini

Come si è visto, il suo equilibrato governo fu dunque attraversato da gravi difficoltà sul fronte esterno, per la pressione delle externae gentes ai confini; ma tali problemi ebbero ripercussioni su quello interno, poiché le difficoltà militari erano fattori d’instabilità politica, acuendo la crisi economico-finanziaria (l’impegno bellico aveva reso necessaria una nuova svalutazione della moneta). L’ultimo atto del principato di Marco Aurelio, in rottura con la prassi dei suoi predecessori, si rivelò dannoso. Rinnegando il principio dell’adozione, nel 176 il principe si era associato nell’imperium il figlio Commodo, che gli successe nel 180 a diciannove anni. In realtà, il principio dell’adizione non aveva mai ricevuto alcuna sanzione giuridica e da Nerva ad Antonino Pio si era trattato di una scelta obbligata, determinata dal fatto che gli imperatori non avessero avuto figli.

M. Aurelio Antonino in veste di pontifex maximus. Busto, marmo, fine II sec. d.C. London, British Museum.

4. Il principato di Commodo (180-192): la fine di un’epoca

A Marco Aurelio successe il figlio Commodo, di soli diciannove anni. Le fonti antiche, come Elio Lampridio, autore della Vita Commodi Antonini, e Cassio Dione, concordi nel giudizio negativo, sono da valutare con cautela, perché ostili per principio al sistema dinastico, che pure rientrava nella logica dei giochi di potere, in cui i vincoli di sangue erano avvertiti come essenziali per la stabilità del regime. Ma come tutti i paladini “del cambiamento”, anche Commodo si guadagnò una pessima nomea, essendo ritratto a tinte fosche. Eppure, attribuirgli tutte le responsabilità per una situazione socio-economica già abbastanza compromessa sarebbe assurdo. Sembra comunque che il giovane imperatore abbia voluto fin da subito imporsi come un autocrate, suscitando la naturale opposizione del Senato con una serie di congiure per eliminarlo. Commodo, ultimo degli Antonini, è considerato a parte rispetto alla gloriosa sequenza dei suoi predecessori: il suo regime costituisce quindi uno spartiacque nella storia dell’Impero, un nuovo capitolo nel quale si manifestarono in modo definitivo numerose trasformazioni nel mondo romano.

Commodo. Testa, marmo, fine II sec. d.C. Wien, Kunsthistorisches Museum.jpg

Conclusa in fretta la pace sul fronte danubiano e consolidatone il confine, Commodo rivelò sin da subito una concezione del potere antitetica rispetto a quella del padre, comportandosi con cinismo e furbizia, ma dimostrandosi altrettanto miope e ottuso. Resosi conto delle possibilità che derivavano dalla sua posizione nel governo, per non consentire ad altri di prevaricarlo tolse di mezzo molti membri del proprio entourage. Il suo fare sospettoso e paranoico e il clima di tensione a palazzo costrinsero alcuni cortigiani, fra i quali anche sua sorella Lucilla, a ordire già nel 182 un complotto ai danni del principe. La congiura fu però sventata e duramente repressa.

Privo di interesse per l’amministrazione dell’immenso dominio di Roma, il giovane imperatore lasciò le redini del governo nelle mani dei propri collaboratori: prima si affidò al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, poi, dopo averlo eliminato con l’accusa (falsa) di tradimento nel 185, lo sostituì con uno dei suoi liberti, Cleandro; ma anche questi, in seguito a una rivolta della plebe urbana nel 192, fu messo a morte da Commodo come capro espiatorio.

Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.

La politica interna del giovane imperatore fu tutta concentrata sui problemi della capitale, sulle dinamiche di palazzo e sull’organizzazione di spettacolari ludi circenses: tale atteggiamento, in breve, gli alienò le simpatie delle masse provinciali. La concezione autocratica del potere da una parte spinse Commodo a ricercare il consenso degli eserciti, aumentando le paghe e conferendo donativi, e del popolino, gratificandolo con congiaria e varie forme d’intrattenimento. Mostrò grande attenzione alla logistica annonaria, creando una nuova flotta, che doveva fare la spola tra l’Italia e l’Africa, e facendo ampliare i magazzini di Ostia. Inoltre, per fronteggiare l’aumentato costo della vita, il principe cercò di imporre un calmiere forzoso, ma questo provvedimento ebbe l’unico risultato di far sparire alcune merci dal mercato, aggravando la carestia e facendogli perdere credibilità.

Come Nerone si era dilettato di esibirsi in vesti di citaredo e di auriga, Commodo nel suoi dodici anni di principato diede nuovo impulso alle arti, facendo erigere monumenti alla gloria del padre – come la Colonna Antonina e la statua equestre di Marco Aurelio in Campidoglio –; tuttavia, egli colpì per la sua smania di scendere nell’arena per duellare contro i gladiatori o per prendere parte agli spettacoli di caccia (venationes), in parte ricollegandosi alla tradizione orientale, che vedeva nelle abilità venatorie dell’uomo la sua bravura militare.

Combattimento tra gladiatori. Mosaico, inizi III sec. d.C. da Lussemburgo.

Certamente in netto contrasto con la tradizione romana fu l’atto assunto in occasione dell’incendio scoppiato nella capitale nel 191: l’imperatore, facendo ricostruire i quartieri più colpiti dal disastro, volle rifondare l’Urbe con il nome di Colonia Commodiana. Oltretutto, pur essendo un devoto seguace di Iside, Commodo fu estremamente tollerante nei confronti di Giudei e Cristiani; ma soprattutto amò identificarsi con Ercole, al punto da impugnare la clava e vestire la leontea durante le sue apparizioni in pubblico e nell’arena. L’imperatore, infatti, assunse il titolo di Hercules Romanus, facendosi rappresentare in quella veste non solo in numerosi ritratti diffusi in tutto l’Impero, ma utilizzando la medesima effige persino sui coni monetali, nell’intento di proporsi ai sudditi come colui che si sarebbe preso cura di loro.

Commodo, come Hercules Romanus. Busto, marmo di Luni, 191-192 d.C. Roma, Museo del P.zzo dei Conservatori.

Una nuova congiura, però, nella notte di fine anno 192, ordita tra gli altri dalla concubina dell’imperatore, Marcia, e dal prefetto del pretorio, Quinto Emilio Leto, tolse di mezzo Commodo, il cui atteggiamento era ormai divenuto insostenibile: secondo le fonti, egli fu strangolato dal suo maestro di ginnastica, Narcisso. L’evento aprì la strada ai pronunciamenti militari, che avrebbero caratterizzato le successioni al soglio imperiale nel secolo incipiente.

Il Cippo del Foro

Durante la campagna di scavo del 1899, a Roma, l’archeologo Giacomo Boni portò alla luce il cosiddetto “Cippo del Foro” e lo associò a un frammento di Sesto Pompeo Festo, un grammatico latino di II-III secolo d.C., che riferiva:

Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romani morti destinatum, sed non usu obuenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium auum Tulli Hostilii regis.

«La pietra nera indica nel comizio un luogo funesto, che alcuni dicono destinato al sepolcro di Romolo, ma che non accadesse più che ivi si seppellisse, ma alcuni lo dicono destinato a tomba di Faustolo, suo patrigno, altri di Ostilio, avo di re Tullo Ostilio».

(Fᴇsᴛ. 𝐿.𝐿. p. 177 Lindsay)

Pianta del Comitium in età tardorepubblicana (in tratteggio più spesso la fase arcaica). Da COARELLI 1983.

La collocazione del cippo piramidale in pietra tufacea nell’area del Comitium, una zona del Foro Romano in cui, in epoca repubblicana, i cives Romani erano soliti adunarsi per eleggere i magistrati e votare le leggi, segnava un locus funestus, cioè il luogo in cui sarebbe scomparso il fondatore dell’Urbe. Lo scavo di Boni al di sotto del pavimento in marmo nero, risalente al I secolo a.C., portò alla luce un complesso monumentale molto arcaico, accessibile tramite una scaletta, costituito da una piattaforma con un altare a tre ante e a “U”, un tronco di stilobate (forse il basamento per una statua), e il cippo piramidale: quest’ultimo su ogni faccia recava un’iscrizione bustrofedica (da βουστροφηδόν, cioè «a somiglianza dei buoi che arano un campo»), in un alfabeto di derivazione greco-etrusca.

Data l’ubicazione e l’importanza del luogo, il testo inciso doveva essere destinato a un uso e a un pubblico particolari: siccome, in epoca molto antica, soltanto un’élite di cittadini sapeva leggere, l’epigrafe, per essere fruibile ai più, richiedeva la mediazione di un sacerdote-interprete e deteneva un carattere magico:

Lapis Niger (CIL I 1). Schema dell’iscrizione.

quoi·hon…|…·sakros·es|ed·sord…|…oka·fhas·|·recei·io…|…euam·|·quos·re…|…kalato|rem·hab…|…tod·iouxmen|ta·kapiad·otau…|…m·iter·pe…|…m·quoi·ha|uelod·nequ…|…iod·iouestod·louquiod·qo…

«Sia consacrato agli dèi Mani colui per colpa del quale questo termine venga rimosso. Chiunque abbia commesso impurità funerarie paghi al re, come saldo della multa, il patrimonio di famiglia. Qualora il re venisse a sapere che qualcuno transiti [per la via vicina al locus funestus], allora per voce dell’araldo, in ottemperanza a una legge pubblica, ne sequestri gli animali da strada… di chi voglia intraprendere il cammino sia la responsabilità: il re non consenta ad alcuno di intraprenderlo, se non per legittimo decreto…».

(CIL I 1)

Tutto il contesto fa pensare a una lex sacra, contenente norme e disposizioni relative alle penalità, se non addirittura alle ἀποτροπαί (“maledizioni”) da scagliare contro quanti avessero tentato di violare l’area consacrata. Non a caso, sul monumento compare la formula sakrod esed (corrispondente al latino “classico”, sacer esto). Il monito, inciso sul cippo, era reso perenne dalla pietra, rimasta esposta per cinque secoli, fino agli inizi del I secolo a.C., quando appunto l’area fu ricoperta da una pavimentazione in marmo nero. La storiografia romana di epoca repubblicana (soprattutto Livio e le sue fonti annalistiche) hanno abituato a pensare che fino alla seconda metà del V secolo a.C. i Tarquini spadroneggiassero su Roma senza legge, decidendo le sorti dei cittadini secondo il loro capriccio. Evidentemente, l’iscrizione del Lapis Niger dimostra l’esatto contrario, e cioè che almeno fin dalla metà del secolo precedente la comunità romana disponesse di un’auto-regolamentazione scritta.

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