Πρῶτοι εὑρεταί: dèi, eroi, uomini

trad. it. a cura di F. Cerato di L. Zhmud, The Origin of the History of Science in Classical Antiquity, Berlin-New York 2006, 23-29.

In linea teorica, uno studio sulle origini della Scienza nel mondo antico dovrebbe partire dal momento in cui Storia e Scienza si sono incontrate per la prima volta, ovvero da una rassegna delle scoperte scientifiche avvenute nel passato. Il punto, tuttavia, è che tali resoconti erano ignoti prima della seconda metà del IV secolo a.C., mentre gli sporadici accenni che gli storici (primo tra tutti Erodoto) fecero delle acquisizioni scientifiche non appartenevano tanto alla storiografia quanto all’eurematografia. Ma questo non è l’unico motivo per considerare l’eurematografia – genere assolutamente non scientifico e che ben poco ha da offrire alla ricerca storica – come uno dei prototipi della divulgazione scientifica. Ciononostante, essa ha sollevato la questione di come si originano e si trasmettono le conoscenze e le capacità pratiche molto prima della comparsa della storia della scienza, e le varie soluzioni risalgono ai suoi albori. Ecco perché le origini dell’interesse verso i πρῶτοι εὑρεταί, comune ad entrambi i generi, possono essere ricondotte a questo materiale “primitivo”.

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L’interesse per il passato è un elemento insito, in varia misura, in tutte le società umane, comprese quelle pre-letterate. Le sue manifestazioni nell’antichità sono state assai varie, ma nel complesso si sono inserite dagli interpreti nella tipologia, ormai da tempo elaborata, del folklore e dei primissimi generi letterari. Tra quelli folcloristici vanno citati innanzitutto i miti cosmogonici ed eziologici, e quindi l’epica eroica, che in molte culture, anche se non in tutte, divenne il primo genere letterario. Un altro filone, assai precoce e significativo, è quello della cronaca storica, caratteristico, per esempio, della civiltà cinese e, in misura minore, di quella giudaica. Naturalmente l’elenco dei generi non esaurirebbe la varietà di interrogativi che gli antichi si posero sul loro passato, ma semplicemente ridurrebbe la presente analisi a una serie di temi definiti che hanno suscitato un interesse costante e hanno portato alla formazione di generi specifici. Perciò, un mito cosmogonico rispondeva alla domanda sull’origine dell’universo, un mito eziologico spiegava l’origine di particolari aspetti di una civiltà, ovvero un mestiere o un prodotto importante in una determinata cultura, come la birra a Sumer o il vino in Grecia. L’epica eroica e, più tardi, la cronaca, raccontavano cose ancora più rilevanti: le imprese gloriose degli antenati.

Pittore Antifonte. Un artigiano decora un elmo (particolare). Pittura vascolare su cratere attico a figure rosse, c. 480 a.C.

L’antica Grecia, la cui storia letteraria e culturale inizia con l’epica omerica ed esiodea, manifesta le medesime tendenze. L’Iliade racconta le gesta eroiche degli Achei e dei Troiani, la Teogonia, con il suo peculiare approccio “genealogico”, descrive l’origine del mondo abitato dagli dèi e dagli uomini. Ma l’interesse verso il passato che caratterizza l’epica arcaica non è identico a quello storiografico strictu sensu: il primo si accontenta delle leggende sugli dèi e sugli eroi; il secondo, orientato principalmente agli uomini e alle loro imprese, cerca di spiegare il presente collegandolo al passato. Nonostante l’unicità delle epopee omeriche ed esiodee, esse hanno ben poco che faccia pensare che i loro autori avessero un interesse propriamente storico. È naturale, quindi, non trovare né in Omero né in Esiodo alcuna traccia di una tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί e le relative invenzioni (Erren 1981; Schneider 1989).

La prima testimonianza superstite sui πρῶτοι εὑρεταί si trova in un frammento della Foronide, un poema epico del VII secolo dedicato alle gesta di Foroneo e ad altre leggende dell’Argolide arcaica (Schol. Apoll. Rhod. I, 1129-1131b). Tra l’altro, in esso si parla anche dei Dattili Idei (Δάκτυλοι Ἰδαῖοι), creature mitiche che prendevano il nome dalla catena montuosa dell’Ida in Troade (Hemberg 1952).

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

In origine, questi Dattili erano rappresentati come fabbri-nani, ma nella Foronide assunsero una forma del tutto diversa. Innanzitutto, l’aedo li considerava dei maghi frigi (γόητες Ἰδαῖοι, / Φρύγες ἄνδρες), i primi ad aver inventato il mestiere di fabbro (οἳ πρῶτοι τέχνηις πολυμήτιος Ἡφαίστοιο / εὗρον). Sebbene la questione del πρῶτος εὑρετής sia di per sé nuova ([Hes.] F 282 M-W, Rzach 1912, Schwartz 1960), essa viene applicata al materiale tradizionale, pur in qualche modo rimaneggiato: dagli antichissimi fabbri-nani, dunque, i Dattili dell’Ida si trasformarono stregoni, scopritori dell’arte patrocinata da Efesto. In seguito, tale funzione sarebbe stata attribuita al medesimo dio, considerato egli stesso il “primo inventore” (secondo uno schema abbastanza consolidato). Ma l’autore della Foronide, pur ritenendo che la metallurgia costituisse «l’arte dell’astuto Efesto», ne riferì la scoperta a degli “esperti stranieri” (frigi, appunto), dotati comunque di qualità soprannaturali. La tecnologia del metallo fu così trasferita dalla sfera divina all’ambito umano, per quanto curiosa e insolita fosse la comunità in questione, e assegnata a una civiltà limitrofa a quella greca (Hemberg 1950, Dasen 1993).

Interpretando questa testimonianza secondo il metodo della razionalizzazione evemeristica del mito, vi si potrebbe ravvisare una reminiscenza della storia reale, ossia di come la metallurgia del ferro, scoperta dagli Ittiti, si sia diffusa dall’Asia Minore alla Grecia. Sarebbe comunque infondato supporre che l’autore della Foronide, attivo ad Argo all’inizio del VII secolo, abbia sentito parlare di questa storia o si sia interessato ad essa. Le prime ricerche dei πρῶτοι εὑρεταί si concentravano, notoriamente, non tanto sulla loro identità e sul loro retroterra storico, quanto sui risultati tecnici e culturali in quanto tali (Thraede 1962; Thraede 1962a): «X scoprì Y» è una formula tipica dell’eurematografia, che riporta semplicemente il nome dell’inventore e, in rarissimi casi, la sua provenienza. Il momento della scoperta non è quasi mai registrato, né tanto meno le circostanze, mentre lo scopritore stesso risulta ben lungi dall’essere una figura concreta. Nella tradizione eurematografica, pervenuta attraverso i cataloghi delle scoperte di epoca imperiale, gli dèi-artefici (Atena, Apollo, Demetra, Efesto) e gli eroi culturali (Trittolemo, Palamede, Dedalo, ecc.) sono stati pressoché accostati agli altri due grandi categorie: i personaggi realmente esistiti (Fidone, Stesicoro, Talete, ecc.) e le città greche e le nazioni barbariche.

Pittore Antimene. Incontro fra Dioniso ed Efesto sulla strada per l’Olimpo. Pittura vascolare su anfora attica a figure nere, c. 520 a.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Che il passaggio dell’eurematografia dalla mitografia alla narrazione di eventi reali sia avvenuto gradualmente, ma sia rimasto essenzialmente incompiuto, non sorprende. La storiografia greca, rappresentata da Ecateo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo, seguì lo stesso percorso. In assenza di testimonianze scritte e di metodi adeguati all’analisi delle fonti, l’eurematografia (così come la storiografia) avrebbe potuto diventare “storica” unicamente rivolgendosi agli avvenimenti recenti o contemporanei. Quando si cercava di “ricostruire” il passato remoto così come era stato registrato, all’occorrenza, dalla tradizione orale, si ricorreva alle combinazioni più fantasiose: «Quanto più arbitraria era la prima supposizione, tanto maggiori erano le possibilità che venisse accolta come vera» (Thraede 1962a).

Di conseguenza, il significato delle testimonianze sui Dattili Idei non sta nell’indicare i reali inventori della lavorazione dei metalli; anzi, oltre a marcare il terminus ante quem del periodo in cui si manifestò l’interesse per i πρῶτοι εὑρεταί, il racconto contiene in nuce due importanti tendenze che si sarebbero sviluppate in seguito: innanzitutto, la graduale e incompleta sostituzione degli dèi con figure semi-divine o eroiche e poi con persone; in secondo luogo, la propensione dei Greci ad attribuire le invenzioni, comprese le proprie, ai vicini orientali. Non si trattò di un fenomeno uniforme; talvolta le grandi innovazioni furono attribuite a personaggi alterni. A seconda della mentalità del pubblico, delle peculiarità di ogni singola opera, degli scopi e delle attitudini dell’autore e, non da ultimo, del carattere dell’invenzione stessa, di volta in volta figure diverse erano poste in primo piano (cfr. Hec. FGrHist 1 F 20, Andron. FGrHist 10 F 9, Scam. FGrHist 476 F 3). Un personaggio di una tradizione più antica, che era finito in secondo piano, poteva riapparire accanto agli inventori più recenti. Se l’eurematografia registra, nel complesso, poche scoperte “umane” rispetto a quelle associate a divinità ed eroi, ciò è dovuto alla naturale inclinazione a riferire gli inizi della civiltà all’aiuto divino e all’oscurità e all’anonimato dei veri inventori del passato. Bisogna anche tener conto della propensione, propria della letteratura epidittica, a onorare gli artefici divini, attribuendo loro il maggior numero possibile di acquisizioni; nei tardi cataloghi delle scoperte, tale tendenza portava ad attribuire la stessa invenzione a diversi dèi ed eroi, di solito senza mettere in atto alcun tentativo di far combaciare le versioni che si escludevano a vicenda (Thraede 1962, Cole 1966).

Diego Velázquez, La fucina di Vulcano. Olio su tela, 1630. Madrid, Museo del Prado.

Dalla fine del V secolo in poi, la letteratura tecnica che si occupava prima della storia della poesia e della musica e poi di quella della filosofia, della scienza e della medicina ridimensionò al minimo la componente divina ed eroica delle scoperte. Mentre la storia della musica, in particolare quella delle sue prime fasi, proponeva ancora i nomi di Orfeo, Museo o Marsia, le storie della filosofia, dell’astronomia e della geometria includevano solo personaggi storici realmente esistiti. Da questo punto di vista, in effetti, la storiografia peripatetica si rivela ancor più rigorosa di molte opere simili del XVII e persino del XVIII secolo, con resoconti sull’astronomia inizianti con Atlante, Urano e altre figure mitologiche. Certo, nell’antichità la storicità della trattazione dipendeva non tanto dal momento in cui una determinata opera era stata composta, quanto dal suo genere. L’autore di un encomio, di un inno, di una tragedia o di un trattato Sulle scoperte (Περὶ εὑρημάτων) raramente si sarebbe preoccupato dell’attendibilità delle informazioni riportate. In ambiti come la dossografia o la storia della scienza, di solito gli autori evitavano di riprodurre storie palesemente inventate, sebbene riprendessero trovate altrui.

C’è un’altra ragione per cui la sequenza “dei : eroi : uomini” non era rigorosamente lineare. In Omero ed Esiodo e, naturalmente, prima di loro, gli dèi greci erano rappresentati non come i primi scopritori, ma come «donatori di beni», patroni di mestieri che avevano insegnato agli uomini (cfr. Od. VI 232-234, ἀνὴρ / ἴδρις, ὃν Ἥφαιστος δέδαεν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη / τέχνην παντοίην, «… un artefice esperto, che Pallade Atena ed Efesto iniziarono ai segreti dell’arte»; cfr. Od. XX 72): essi divennero πρῶτοι εὑρεταί solo dopo che la fama degli inventori umani si era ormai diffusa in tutto il mondo ellenico. La curiosità nei confronti dei primi scopritori in senso assoluto, cioè di coloro che avevano inventato la metallurgia, l’agricoltura, la scrittura o la musica, si risvegliò man mano, stimolata dalla crescente attenzione per le innovazioni in quanto tali e per la questione della priorità nella loro realizzazione. Sebbene il rapido sviluppo sociale e culturale della Grecia tra IX e VII secolo a.C. abbia portato a molte scoperte in tutte gli ambiti della vita, occorse un certo lasso di tempo perché l’interesse specifico nei loro confronti sorgesse e si affermasse. A giudicare dalle testimonianze pervenute, i veri creatori di innovazioni tecniche e culturali – inventori, poeti, musicisti, pittori, scultori – si imposero all’attenzione pubblica soltanto all’inizio del VII secolo.

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

A tal proposito, è significativo un frammento di uno dei primi lirici, Alcmane, in cui egli professa la propria ammirazione per coloro che l’hanno preceduto, che «insegnarono agli uomini suoni meravigliosi, dolci e nuovi» (Alcm. F 4. I, 4-6 Page, σαυ]μαστὰ δ᾿ ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / γαρύματα μαλσακὰ̣ … / νεόχμ᾿ ἔδειξαν). Il lessico di questo frammento, e in particolare l’espressione ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / ἔδειξαν, è molto vicino a quello utilizzato nella tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί (Davies 1986), benché il motivo del primo scopritore sia qui solo implicito. Sebbene i poeti antichi avessero proposto sonorità inedite, Alcmane doveva avere in mente la loro originalità relativa piuttosto che quella assoluta: i concetti di πρῶτοι e εὗρον, però, mancavano ancora. In un altro frammento, invece, compare l’espressione ϝέπη τάδε καὶ μέλος Ἀλκμὰν εὗρε (Alcm. F 39 Page), con la quale il poeta sembra rivendicare per sé lo status di “primo scopritore”. L’Inno omerico a Ermes (Hom. Hymn. IV 24-61) attribuisce al dio l’invenzione della lira a sette corde, sebbene, al tempo in cui fu composto, esistesse una leggenda che conferiva il merito della scoperta a Terpandro (Schmid, Stählin 1974, Janko 1982) e il dio non fosse comunemente associato alla musica (Pind. F 125 Snell).

La graduale trasformazione degli dèi in primi scopritori è confermata dall’Inno omerico ad Afrodite (Hom. Hymn. V 12-15): qui Atena è indicata come colei che per prima insegnò (πρώτη… ἐδίδαξε) agli artigiani l’arte di fabbricare carri e carrozze e alle ancelle quella dei lavori domestici (probabilmente la tessitura); benché πρώτη, il merito della dea non era tanto l’invenzione dei mestieri, quanto la loro divulgazione agli uomini (Hom. Hymn. XX 2-3, Solon. F 13, 49, Pind. Ol. VIII 50-51, Orph. H. F 178-179 Kern). Se, in seguito, le città greche rinomate per le loro attività artigianali furono accreditate dell’invenzione di cose precedentemente considerate sotto il patrocinio divino (DK 88 B 1, 10, 12, Pind. Ol. XIII 18, cfr. Hdt. I 23), ciò non significa affatto che in origine il πρῶτος εὑρετής fosse stato elaborato sul materiale mitologico e applicato solo agli dèi (Schol. in Oppian. halieutica I 78).

Noël Coypel, Apollo e Mercurio. Olio su tela, 1688. Château de Versailles.

Dal momento che la letteratura greca prima del VI secolo è costituita solo da generi poetici, naturalmente sono meglio note le vicende degli innovatori della musica e della poesia. Quando Glauco di Reggio (fine del V secolo) tentò nel suo Περὶ τῶν ἀρχαίων ποιητῶν τε καὶ μουσικῶν (Sugli antichi poeti e musicisti, cfr. [Plut.] De musica IV 1132e; VII 1133f) una delle prime sistemazioni dell’arte greca, raccontò soprattutto chi aveva inventato cosa, chi aveva preso in prestito cosa da chi, ecc. Eppure, la tradizione orale ed epigrafica conservatasi fino a tempi successivi dimostra che si registravano pure le invenzioni in altri settori. Per esempio, il tiranno argivo Fidone (prima metà del VII secolo), ritenuto l’inventore di un avanzato sistema di pesi e misure, i cosiddetti Φειδών[ε]ια μέτρα (Hdt. VI 127, Her. Pont. F 152, Aristot. Pol. 1310b, 19-20, Ephor. FGrHist 70 F 115, 176), superò in fama l’eroe Palamede (cfr. Senof. 21 B 4, Hdt. I 94); così Aminocle di Corinto, inventore della trireme, fu invitato a costruire navi a Samo intorno alla metà del VII secolo, o forse anche prima (cfr. Thuc. I 13, 3). Dagli inizi del VII secolo, vasai, ceramografi e scultori cominciarono a firmare le loro opere (Jeffery 1990, Philipp 1968, Walter-Karydi 1999), al punto da essere ritenuti i πρῶτοι εὑρεταί nella propria arte (Thraede 1962a). Per esempio, Butade di Sicione (VII secolo), il leggendario inventore della ceroplastica, le cui opere, firmate e dedicate al tempio, si conservarono a Corinto fino all’epoca ellenistica (Robert 1897, Fuchs, Floren 1987); Glauco di Chio (inizi VI secolo), un rinomato artigiano, che Erodoto identificò come l’inventore della saldatura del ferro (σιδήρου κόλλησις), realizzò e firmò un cratere d’argento, che più tardi il re lidio Aliatte dedicò a Delfi (Hdt. I 25, cfr. Paus. X 2-3); Mandrocle di Samo, l’architetto che progettò il ponte sul Bosforo per la spedizione di Dario contro gli Sciti (513 a.C.), ritornato in patria, investì parte della sua generosa ricompensa per commissionare un quadro del ponte, che dedicò al tempio di Hera e lo corredò con un epigramma menzionante il suo nome (Hdt. IV 87-89).

Queste testimonianze, seppur parziali, di età arcaica attestano che la ricerca dei πρῶτοι εὑρεταί rifletteva una controversia sulla loro precedenza temporale – questione tipica della cultura greca. Allo stesso modo, le vicende dei primi scopritori riflettono il problema della priorità di ogni genere di innovazione sociale, culturale e tecnica – un aspetto molto più ampio affrontato sia dall’eurematografia sia dalla storiografia scientifica.

Carpentiere all’opera (dettaglio). Affresco, ante 79, dalla casa dei Vettii, Pompei.

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Riferimenti bibliografici:

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Erren 1981 = M. Erren, Die Geschichte der Technik bei Hesiod, in. W. Marg, G. Kurz, D. Müller, W. Nicolai (eds.), Gnomosyne. Menschliches Denken und Handeln in der frühgriechischen Literatur. Festschrift für Walter Marg zum 70. Geburtstag, München 1981, 155-166.

Fuchs, Floren 1987 = W. Fuchs, J. Floren, Die griechische Plastik, 1. Die geometrische und archaische Plastik, München 1987.

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Jeffery 1990 = L.H. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece: A Study of the Origin of the Greek Alphabet and Its Development from the Eighth to the Fifth Centuries B.C., Oxford 1990².

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Philipp 1968 = H. Philipp, Tektonon Daidala, Berlin 1968.

Robert 1897 = C. Robert, s.v. Butades, RE 3 (1897), 1079.

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Schneider 1989 = H. Schneider, Das griechische Technikverständnis, Darmstadt 1989.

Schwartz 1960 = J. Schwartz, Pseudo-Hesiodea : Recherches sur la composition, la diffusion et la disparition ancienne d’œvres attribuées à Hésiode, Leiden 1960.

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Thraede 1962a = K. Thraede, s.v. Erfinder II, RLAC 5 (1962), 1191-1278.

Walter-Karydi 1999 = E. Walter-Karydi, Die Entstehung des beschrifteten Bildwerks, Gymnasium 106 (1999), 289-317.

Zaicev 1993 = A. Zaicev, Das griechische Wunder: Die Entstehung der griechischen Zivilisation, Konstanz 1993.

Zhmud 2001 = L. Zhmud, Πρῶτοι εὑρεταί – Götter oder Menschen?, ANR 11 (2001), 9-21.

L’uomo vitruviano (Vitr. III 1, 1-4)

da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 220-222.

All’inizio del III libro del De architectura, che apre la sezione dedicata all’architettura templare (la più nobile fra le forme di quest’arte) Vitruvio premette una riflessione sulla simmetria, osservando che gli antichi hanno fatto bene a impostare la progettazione dei templi su sistemi modulari, in quanto l’ordine cosmico risponde a criteri di simmetria che possono essere espressi con proporzioni numeriche. Il corpo umano, per esempio, ha proporzioni tanto perfette che può essere inscritto in un cerchio e in un quadrato.

 

[1, 1] Aedium compositio constat ex symmetria, cuius rationem diligentissime architecti tenere debent. ea autem paritur a proportione, quae graece ἀναλογία dicitur. Proportio est ratae partis membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum. namque non potest aedis ulla sine symmetria atque proportione rationem habere compositionis, nisi uti hominis bene figurati membrorum habuerit exactam rationem. [2] corpus enim hominis ita natura composuit, uti os capitis a mento ad frontem summam et radices imas capilli esset decimae partis, item manus pansa ab articulo ad extremum medium digitum tantundem, caput a mento ad summum uerticem octauae, cum ceruicibus imis ab summo pectore ad imas radices capillorum sextae, ‹a medio pectore› ad summum uerticem quartae. ipsius autem oris altitudinis tertia est pars ab imo mento ad imas nares, nasum ab imis naribus ad finem mediûm superciliorum tantundem, ab ea fine ad imas radices capilli frons efficitur item tertiae partis. pes uero altitudinis corporis sextae, cubitum quartae, pectus item quartae. reliqua quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti. [3] similiter uero sacrarum aedium membra ad uniuersam totius magnitudinis summam ex partibus singulis conuenientissimum debent habere commensus responsum. item corporis centrum medium naturaliter est umbilicus. namque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque manuum et pedum digiti linea tangentur. non minus quemadmodum schema rotundationis in corpore efficitur, item quadrata designatio in eo inuenietur. nam si a pedibus imis ad summum caput mensum erit eaque mensura relata fuerit ad manus pansas, inuenietur eadem latitudo uti altitudo, quemadmodum areae, quae ad normam sunt quadratae. [4] ergo si ita natura composuit corpus hominis, uti proportionibus membra ad summam figurationem eius respondeant, cum causa constituisse uidentur antiqui, ut etiam in operum perfectionibus singulorum membrorum ad uniuersam figurae speciem habeant commensus exactionem. igitur cum in omnibus operibus ordines traderent, maxime in aedibus deorum, ‹quod eorum› operum et laudes et culpae aeternae solent permanere.

 

Costruzione di un edificio sepolcrale, gru e apoteosi della defunta. Rilievo, marmo, inizio II sec. a.C. dalla Tomba degli Haterii su via Labicana (Roma). Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.

 

[1, 1] La composizione dei templi risulta dalla “simmetria”, e gli architetti devono osservare in modo estremamente scrupoloso i suoi principi. Ed essa nasce dalla proporzione, che in greco è detta analoghìa[1]. La proporzione è la commensurabilità sulla base di un’unità determinata delle membrature di ogni impianto e in tutta quanta tale opera, con cui viene tradotto in atto il criterio delle relazioni modulari. E infatti non può alcun tempio avere della composizione senza “simmetria” e proporzione, se non l’ha avuto aderente al principio razionale precisamente definito proprio dalle membra di un uomo dalla bella forma[2] [2] Poiché il corpo dell’uomo è così composto per natura, che nella testa il volto dal mento alla sommità della fronte e all’attaccatura inferiore dei capelli costituisce la decima parte[3], così pure il palmo della mano dal polso all’estremità del dito medio altrettanto, la testa dal mento alla sommità del cranio l’ottava, dalla sommità del petto con la parte più bassa del collo alle radici inferiori dei capelli la sesta, dal petto alla sommità del capo la quarta. E dalla stessa altezza del volto la parte dal limite inferiore del mento a quello delle narici è la terza, il naso dal limite inferiore delle narici al tratto intermedio della linea delle sopracciglia altrettanto. Da tale linea all’inizio inferiore della chioma la fronte è resa pure la terza parte. E il piede è la sesta parte dell’altezza del corpo, il cubito[4] la quarta, il petto pure la quarta. Anche le altre membra hanno le loro proporzioni reciprocamente commensurabili, valorizzando le quali pure rinomati antichi pittori e statuari conseguirono lodi grandi e illimitate. [3] E allo stesso modo le membrature dei sacri templi devono essere assai convenientemente rispondenti per commensurabilità alla somma totale di tutta quanta la grandezza risultante dalle singole parti. Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E, infatti, se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato nel suo ombelico[5], descrivendo una circonferenza, le dita di entrambe le mani e dei piedi sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato. Infatti, se si misura dalle piante dei piedi alla sommità del capo e tale misura è riferita alle mani distese, si trova che pure la larghezza è come l’altezza, come le aree che sono quadrate regolari[6]. [4] Pertanto, se così la natura compose il corpo umano, che nelle proporzioni le membra rispondono alla figura generale, sembra che gli antichi con ragione abbiano disposto che anche nella realizzazione di impianti questi presentino la perfezione della “simmetria” delle singole membrature rispetto alla configurazione complessiva della figura. Pertanto, come trasmisero le regole di tutte le opere, lo fecero anche e soprattutto nell’ambito dei templi degli dèi, costruzioni delle quali sia le lodi sia le colpe sogliono permanere in eterno.

 

Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano. Penna e inchiostro su carta, 1490 c. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

 

Da questo passo emerge con chiarezza la convinzione, presente in tutta la cultura greca, che la bellezza sia strettamente connessa con una serie di esatte proporzioni numeriche. In particolare l’affermazione di III 1, 3, in base alla quale ogni singola parte deve avere una relazione di proporzione con l’insieme e che il centro dell’edificio (l’umbilicus) rappresenti il punto di convergenza di ciascun elemento dell’insieme, ad alcuni interpreti ha fatto pensare che qui Vitruvio abbia voluto richiamare la tendenza dell’architettura greca, in particolare di età periclea, a far gravitare lo spazio architettonico attorno a centri nevralgici nodali, grazie all’uso di moduli prestabiliti (si pensi, per esempio, al Partenone secondo il progetto di Ictino, che in molte parti rivela l’impiego del modulo del rettangolo aureo). Tale punto focale dello spazio architettonico può essere messo in relazione con il concetto di καιρός, «giusta misura», che nella cultura greca ha anche il significato pregnante di «momento giusto», ossia tempo adatto per intraprendere un’azione positiva e feconda. Il καιρός personificato, l’Occasione, era ritenuto una vera e propria divinità e, non a caso, il grande scultore Lisippo dedicò a questo dio una statua rimasta celebre per l’esattezza delle sue proporzioni.

 

Rappresentazione dello schema delle proporzioni (sezione aurea = 1.1,618) sul Doriforo di Policleto (Di Dio, Macaluso, Rizzolatti, 2007).

 

La possibilità di inserire la figura umana nel quadrato, oltre che nel cerchio, è una teoria di ascendenza pitagorica ripresa anche nell’ambito della scuola peripatetica: si tratta di una teoria particolarmente interessante perché permette all’architetto di fondare le proprie proporzioni su numeri razionali, dato che invece le misure inerenti alla circonferenza portano a numeri irrazionali. In ciò, dunque, si avverte l’eco del dibattito circa la possibilità di teorizzare una “quadratura” del cerchio, ossia di costruire un quadrato che abbia la medesima area di un cerchio dato. In un certo senso, inscrivere la figura umana nel cerchio significa sottolinearne l’irrazionalità, o meglio l’irriducibilità a proporzioni rigorosamente razionali, mentre inscriverla in un quadrato vale l’opposto.

 

Rappresentazione della sezione aurea applicata al Partenone.

 

Vitruvio adombra per l’architetto una funzione alta e importante, in quanto egli è chiamato in un certo senso a creare nel tempio un edificio che riproduca le proporzioni che regolano l’armonia dell’universo, e di cui l’uomo è espressione suprema. L’architettura come arte in sé ne risulta assai nobilitata, poiché ha una funzione di mimesi rispetto alla natura, riproducendone le perfette proporzioni. In questo senso come arte si pone sullo stesso piano della scultura e della pittura, che per vocazione sono mimesi della natura. Vitruvio, infatti, sottolinea che gli antichi maestri, che hanno rispettato le esatte proporzioni nella raffigurazione del corpo umano, hanno ottenuto la massima lode: Reliquia quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti (III 1, 2).

 

Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.

 

Oltre a ciò, l’architettura, pur rimanendo una ars, in quanto arte mimetica, può essere accostata alla poesia, che era in genere ritenuta come l’espressione più nobile delle facoltà dell’ingegno dell’uomo (tanto che a essa è lecito che si dedichino anche gli uomini liberi). L’architetto, quindi, è dedito a un’attività nobile, come Vitruvio specifica con cura nella prefazione all’intera opera, e non necessita solo di conoscenze tecniche, ma ha bisogno di un sapere completo, che si fondi anche sulla filosofia, sulla storia e sulla letteratura, in maniera simile al perfetto oratore delineato da Cicerone.

***

Note al testo latino:

[1] Il termine è usato da Platone e dai matematici greci per indicare un sistema numerico nel quale siano ravvisabili relazioni ricorrenti. I retori, successivamente, impiegarono la stessa parola per esprimere la tendenza di un sistema linguistico a sottostare a leggi costanti.

[2] La concezione in base alla quale la simmetria sia fondamento dell’armonia e della bellezza ha probabilmente avuto origine nella scuola pitagorica; fu tuttavia affermato con chiarezza da Policleto, alla metà del V secolo a.C., non solo mediante le sue opere, ma anche attraverso il suo trattato sul Canone.

[3] Le misure riferite da Vitruvio risalgono innanzitutto a Policleto, di cui il Doriforo esprime le concezioni artistiche, ma ci sono influenze anche di trattatisti e artisti successivi.

[4] Letteralmente significa “gomito”, quindi indica l’intero avambraccio: è un’unità di misura greca del valore di 45 cm circa.

[5] La concezione in base alla quale l’ombelico sia il centro del corpo è assai diffusa nella cultura greca fin dalle sue origini, così come l’abitudine di avvalersi dello stesso termine per indicare il centro di qualsiasi entità spaziale: nel tempio di Apollo a Delfi, per esempio, era conservata una pietra ritenuta l’ombelico (cioè il centro) del mondo.

[6] La convinzione che il cerchio e il quadrato siano figure perfette è di origine pitagorica.

Il teatro e gli strumenti della μίμησις

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.

Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.

Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).

Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):

ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· εἶτα μελοποιία καὶ λέξις, ἐν τούτοις γὰρ ποιοῦνται τὴν μίμησιν.

Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.

Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).

A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.

Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].
La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.

Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.

Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.

Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.

In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.

La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.

Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.

La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.

Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.

I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.

Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’architettura del tempio

di E. Lippolis, M. Livadiotti, G. Rocco, Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della pólis dalle origini al V secolo, Milano-Torino 2007, 863-883.

1.L’ordine dorico

L’ordine dorico, così come più in generale l’ordine architettonico, costituisce una formalizzazione del sistema costruttivo trilitico sviluppatasi in Madrepatria e nelle colonie occidentali; si compone quindi di elementi verticali portanti (colonne, ante, pilastri) ed elementi orizzontali portati (trabeazione). Nell’ordine dorico le colonne si presentano prive di base e con proporzioni inizialmente piuttosto pesanti. La colonna è costituita da un fusto, di forma assimilabile a un tronco di cono, la cui superficie è generalmente ritmata da scanalature verticali dal profilo leggermente concavo; a raccordare il fusto alla struttura orizzontale portata, la trabeazione, è un capitello, formato da un ampio abaco parallelepipedo, il vero e proprio piano d’appoggio per l’architrave, collegato al sottostante fusto da un elemento, l’echino, assimilabile a un solido di rotazione la cui generatrice presenta un profilo iperboloidico. Alla base di quest’ultimo vi sono alcuni anelli concentrici rilevati, gli anuli, mentre ancora al di sotto si trova il collarino, costituito dalla parte terminale superiore del fusto scanalato, dal quale la separano alcune incisioni a sezione triangolare, l’hypotrachḗlion, forse il ricordo di una qualche corona decorativa che mascherava il raccordo tra fusto in legno e capitello in pietra nelle fasi iniziali di formazione dell’ordine.

L’ordine dorico e il capitello dorico (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).
L’ordine dorico e il capitello dorico (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

Altre forme di sostegni verticali che arricchiscono il repertorio di possibilità compositive sono il pilastro e l’anta, i quali si presenteranno nei due ordini con proprie forme caratteristiche. Da un punto di vista strutturale, nell’anta si identifica la particolare configurazione assunta dalla testa dei muri longitudinali di un edificio. L’anta dorica è caratterizzata da un’evidente asimmetria dei suoi risvolti, più ampi verso l’interno del pronao, ridotti verso l’esterno. Ciò si spiega con le caratteristiche planimetriche del tempio periptero dorico, in cui l’edificio della cella non è strutturalmente legato alla circostante peristasi; l’ampiezza del risvolto interno dell’anta, infatti, è determinata dall’allineamento con le colonne presenti tra le ante stesse e dal fatto che partecipa con queste a sostenere il medesimo architrave; il risvolto esterno, invece, non essendo allineato con le colonne della peristasi, deriva dalla configurazione della trabeazione, poiché dipende dalla dimensione del triglifo angolare e dalla sottostante regula. Nell’ordine dorico l’anta è priva di base, come la colonna, ed è coronata da uno specifico capitello, comune anche al pilastro, composto da un abaco parallelepipedo posto su un profilo a becco di civetta, il kýma dorico, alla cui base si trova un collarino costituito da una semplice fascia aggettante.

L’elemento orizzontale portato dell’ordine, la trabeazione, è a sua volta composta da tre parti principali: l’architrave, il fregio e la cornice. L’architrave, direttamente sovrapposto ai capitelli, svolge una prevalente funzione strutturale ed è costituito da un parallelepipedo liscio coronato da una semplice fascia, la taenia, al di sotto della quale, a intervalli regolari, si posizionano brevi listelli, le regulae, dal cui bordo inferiore sporgono piccoli elementi di forma cilindrica o troncoconica, le guttae. Al di sopra dell’architrave è il fregio, che nell’ordine dorico è caratterizzato dall’alternanza di triglifi e metope; i triglifi, di forma rettangolare allungata, presentano una superficie segnata da profondi intagli triangolari verticali (glifi) separati da fasce piane (femori) e coronata da una fascia orizzontale aggettante (capitello del triglifo); le metope, quadrangolari e piane, sono pure bordate superiormente da una bassa fascia aggettante e possono presentare scene figurate, dipinte o scolpite. L’alternanza di triglifi e metope nel fregio trova stretta corrispondenza nell’architrave, dove le regulae sono disposte in corrispondenza dei triglifi e presentano la medesima ampiezza.

Anta dorica (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).
Anta dorica (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

La trabeazione è completata dalla cornice, elemento sporgente chiaramente destinato a proteggere i prospetti dall’acqua meteorica. È possibile distinguere una cornice orizzontale, che corre tutto intorno all’edificio, e una cornice frontonale, disposta lungo le falde dei lati brevi del tetto. La cornice orizzontale si compone di due parti, la sottocornice e il gocciolatoio; la prima è costituita dai mutuli, elementi parallelepipedi aggettanti, inclinati verso l’esterno e separati da intervalli regolari, le viae; essi presentano sulla faccia inferiore gli stessi elementi già descritti per le regulae, le guttae, ma disposti su più file parallele. I mutuli hanno la stessa larghezza dei triglifi e delle regulae e si allineano con questi, ma sono presenti anche in corrispondenza e al centro delle metope dove, in età arcaica, si differenziano per una minore ampiezza. Il gocciolatoio è costituito da una fascia piana desinente in basso in una profonda incisione la cui funzione primaria è proprio quella di impedire all’acqua piovana di scorrere lungo gli elementi della trabeazione. A coronamento del gocciolatoio è comunemente un kýma dorico, che raccorda la cornice al bordo del tetto costituito dalle tegole di bordo con le antefisse o dalla síma. La cornice frontonale, che racchiude e protegge il timpano, si presenta invece priva di sottocornice e si configura come un elemento sporgente, concavo nella superficie inferiore, che funziona da gocciolatoio, a sua volta coronato e raccordato al timpano da ulteriori kýmata dorici.

Da notare la stretta corrispondenza, sulla verticale, di alcune delle parti della trabeazione: infatti regulae, triglifi e mutuli, oltre a essere della stessa ampiezza, sono posti in allineamento esatto. Anche al di sopra delle metope, al centro, è posto uno dei mutuli della sottocornice, al quale però non corrisponde una regula all’altezza dell’architrave. Si ritiene generalmente che il motivo di questa stretta corrispondenza potrebbe risiedere nella derivazione dell’ordine da una primitiva costruzione in legno, di cui gli elementi stessi ricorderebbero parti specifiche della carpenteria e i loro rapporti reciproci. Questa tesi non è universalmente accettata e il tema centrale del dibattito, ancora molto acceso, si riduce alla definizione del modello originario sul quale si venne a configurare l’ordine. Ci si confronta quindi principalmente tra chi sostiene che l’ordine sia il risultato di una sorta di pietrificazione dell’originario modello ligneo e chi invece ritiene che si tratti di un’architettura formatasi attraverso l’assimilazione dei caratteri decorativi e formali maturali presso più antiche ed evolute civiltà mediterranee, specie quella egizia, o mutuati da elementi decorativi da tempo consolidatisi nell’arte ellenica.

Trabeazione dorica (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994)
Trabeazione dorica (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

2.Il problema del conflitto angolare

Nella trabeazione dorica, l’insieme regula-triglifo-mutulo rispetta un’esatta corrispondenza; analogamente, nell’ambito dell’ordine, tale combinazione di elementi doveva allinearsi rispettivamente con l’asse dei sostegni verticali, ante e colonne, e con il centro degli intercolumni e disporsi inoltre in corrispondenza dell’angolo dell’edificio. Qualora tali regole entrino in contrasto tra loro, si determina quel particolare fenomeno noto come “conflitto angolare”.

Un’ipotetica architettura arcaica lignea in cui l’architrave presenti uno spessore contenuto, pari alla larghezza del triglifo, rappresenta una situazione ideale in cui entrambe le esigenze, quella di allineare il triglifo con la colonna e quella di disporlo in angolo, si troverebbero a essere soddisfatte. In questo caso, quindi, il conflitto angolare non sussiste.

Nel momento in cui gli originari elementi dell’architettura dorica vennero costruiti in pietra, a causa delle caratteristiche meccaniche del materiale, meno elastico del legno, si impose un ridimensionamento delle parti componenti l’ordine, che si risolse in un marcato aumento dimensionale sia delle colonne sia dell’architrave. Persa quindi la corrispondenza dimensionale fra ampiezza del triglifo e spessore dell’architrave, ne derivò l’impossibilità di collocare il triglifo al tempo stesso in corrispondenza dell’asse della colonna e dell’angolo della peristasi, venendosi così a produrre il conflitto angolare; rapportare il triglifo alla stessa misura dell’architrave avrebbe d’altronde significato un aumento considerevole dell’altezza del fregio, con perdita di proporzionalità tra le componenti della trabeazione, mentre traslare verso l’interno l’architrave d’angolo sarebbe stato staticamente inconcepibile.

Il problema del conflitto angolare e le sue soluzioni (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).
Il problema del conflitto angolare e le sue soluzioni (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

Apparentemente il problema prevede solo due soluzioni: o il triglifo trova posto sull’asse della colonna e in angolo si trova una porzione di metopa pari alla metà della differenza tra larghezza del triglifo e spessore dell’architrave, come proposto da Vitruvio (De Architectura, IV 3, 2, 4), oppure il triglifo viene posto in angolo e allora l’ultima metopa risulta ampliata della stessa misura. Mentre la prima soluzione è pressoché sconosciuta al mondo greco, la seconda, presente sporadicamente in alcuni edifici di età arcaica nella Madrepatria, era largamente diffusa in Occidente e diede spunto all’elaborazione di una soluzione più raffinata, finalizzata a mantenere il più possibile invariate le relazioni reciproche tra le parti.

Il conflitto angolare venne presto risolto nella Madrepatria attraverso l’adozione di un espediente noto come “contrazione angolare”: si trattava infatti di recuperare quel valore eccedente, cioè la metà della differenza tra larghezza del triglifo e spessore dell’architrave, contraendo adeguatamente l’interasse d’angolo e lasciando invariato il fregio. Un sistema alternativo, elaborato in Occidente forse per influsso cicladico, con maggiore efficacia ma con minor rigore, si concretò nella doppia contrazione angolare, che ripartiva in maniera asimmetrica l’eccedenza tra gli ultimi due intercolumni d’angolo, rendendo meno percepibile la contrazione, ma disallineando anche la seconda colonna dal corrispondente triglifo.

Naturalmente si tratta di semplificazioni: nella realtà, proprio per rendere tali variazioni dimensionali meno percepibili, furono adottati schemi più complessi, in cui una parte dell’eccedenza, circa due terzi, veniva assorbita dalla contrazione dell’intercolumnio d’angolo, semplice o doppia, mentre il terzo residuo veniva risolo ampliando gli elementi del fregio in corrispondenza degli intercolumni interessati.

3.L’ordine ionico

L’ordine ionico, al pari del dorico, nasce dalla formalizzazione del sistema costruttivo trilitico; si compone quindi di elementi verticali portanti (colonne, ante, pilastri) ed elementi orizzontali portati (trabeazione). Sviluppatosi in un contesto profondamente diverso, quale l’Egeo centrale e la vicina costa microasiatica, giunge alla formulazione di un linguaggio fortemente influenzato dalle vicine civiltà anatoliche e orientali.

Nell’ordine ionico le colonne si presentano con proporzioni piuttosto slanciate e sollevate su una base modanata. La base presenta varianti tipiche delle diverse aree in cui l’ordine si sviluppa: di queste, la base attica è composta da una scozia, bordata da due sottili listelli e inserita tra due modanature a toro, liscio o decorato con motivi a treccia o a embrice; la base asiatica, invece, è formata da una sequenza di due gole bordate da coppie di tondini e sormontate da un toro generalmente scanalato. A quest’ultima tipologia si affianca la base cosiddetta samia, costituita da un’alta spira scanalata sormontata da un toro, pure scanalato. Sia la base attica sia quella asiatica possono a loro volta essere sollevate su plinti parallelepipedi. La colonna è formata da un fusto, rastremato e molto snello, la cui superficie è generalmente ritmata da scanalature verticali del profilo a sezione semicircolare; alle estremità, il fusto si espande leggermente, costituendo, subito sopra il diametro inferiore (imoscapo), un’apofige inferiore e, subito sotto il diametro superiore (sommoscapo), un’apofige superiore, entrambe concluse da un listello e da un tondino; a differenza delle scanalature dell’ordine dorico, quelle della colonna ionica terminano in corrispondenza delle apofigi in un volume concavo a quarto di sfera, il cymbium.

Elaborazione grafica di Rocco, 2003 - L'ordine ionico
L’ordine ionico (elaborazione grafica di Rocco, 2003).

A raccordare il fusto alla struttura orizzontale portata, la trabeazione, è un capitello, che nell’ordine ionico assume una varietà di forme, attestate soprattutto in età arcaica, come il capitello a volute, orizzontali o verticali, a corona di foglie ricadenti, detto anche “a palma”, a echino semplice, a toro, semplice o scanalato. La più nota, che poi si affermerà come la soluzione canonica, è il capitello a volute orizzontali, composto principalmente da un elemento a volute, il pulvino, sovrapposto a un echino, strutturalmente simile all’analogo elemento del capitello dorico, ma generalmente caratterizzato da un profilo a ovolo decorato con un motivo a ovoli e lancette, il kýma ionico. Il pulvino è caratterizzato da due facce parallele, con due coppie di avvolgimenti a spirale, le volute, a sezione concava o convessa, raccordate tra loro da un tratto orizzontale, il canale delle volute; la terminazione dell’avvolgimento delle spirali può essere costituito da un semplice uncino, come accade negli esemplari di età arcaica, o dall’occhio della voluta, elemento circolare che può presentare varie decorazioni o essere lavorato a parte, in materiale diverso, e incastonato; due palmette mascherano il raccordo tra l’attacco delle volute e l’echino. Sui lati, il collegamento tra le volute delle facce contrapposte è costituito dal balaustrino, formato da due volumi troncoconici contrapposti e separati, a partire da una certa data, da un elemento centrale, il balteo; la superficie è generalmente scolpita con decorazioni di tipo vegetale. Al di sopra del pulvino è l’abaco che, assente negli esemplari arcaici, è generalmente profilato a ovolo o a gola rovescia; questo, analogamente al corrispettivo elemento dell’ordine dorico, costituisce il vero e proprio piano d’appoggio per l’architrave.

Base ionica - attica, asiatica, samia (elaborazione grafica da G. Rocco, 2003).
La base ionica: a) attica; b) asiatica; c) samia (elaborazione grafica da G. Rocco, 2003).

La particolare configurazione del capitello a volute, con due prospetti differenziati, quello frontale a volute e quello laterale a balaustrino, determina evidenti difficoltà nella collocazione dell’elemento in angolo, difficoltà che emergono sia nel caso di colonnati disposti a squadra, sia nei templi peripteri; inizialmente, tale problema fu forse evitato limitando l’impiego di capitelli a volute alla sola fronte dell’edificio e ricorrendo per i lati a tipologie meno problematiche (capitelli a toro o a echino semplice). Successivamente, ma di certo già a partire dalla seconda metà del VI secolo, venne adottata una soluzione più sofisticata che consiste nel disporre i prospetti a volute, invece che su due piani paralleli, su due piani adiacenti e ortogonali, in modo da presentare le facce a volute su entrambi i prospetti di una peristasi; l’impianto rettangolare del pulvino determina però l’interferenza delle volute dei due prospetti adiacenti, che venne risolta piegando a 45° la porzione più esterna di queste. Le due facce interne a contatto, quelle che presentano i balaustrini e che fanno da riscontro ai corrispondenti elementi dei capitelli lungo i due lati ortogonali della peristasi, potevano presentare volute intere o parti di voluta in base alle proporzioni più o meno allungate del pulvino. Un’altra soluzione, apparsa in età tardoclassica nel Peloponneso, cioè in un’area di cultura principalmente dorica, non comprendendo a fondo la tettonica del capitello ionico elude il problema sviluppando un elemento con volute inclinate a 45° su tutti e quattro i prospetti […].

L’elemento orizzontale portato dell’ordine, la trabeazione, può essere composto da tre parti, l’architrave, il fregio e la cornice, o solo da architrave e cornice. L’architrave, costituito da un parallelepipedo liscio o scandito sulla faccia esterna con due o tre fasce progressivamente aggettanti, è generalmente coronato da una o più modanature di raccordo con il fregio; quest’ultimo può presentare sul prospetto decorazioni figurate continue, dipinte o scolpite. Anche il fregio è coronato da modanature che non solo lo raccordano alla sottocornice, ma inquadrano e sottolineano le specchiature decorate. La soluzione bipartita, che comprende solo architrave e cornice, è presente soprattutto in edifici arcaici di minore impegno costruttivo e, in forma più costante, nelle architetture ioniche microasiatiche di età tardoclassica; nelle trabeazioni bipartite, contestualmente all’assenza del fregio, viene introdotta una consistente sottocornice, prevalentemente costituita da un elemento “a dentelli” (parallelepipedi aggettanti separati da spazi vuoti, le viae), che contribuisce ad accentuare lo sporto del gocciolatoio. Quest’ultimo completa la cornice e conclude la trabeazione in entrambe le tipologie: caratterizzato da consistente aggetto, è finalizzato a proteggere i prospetti e i fregi figurati dall’acqua meteorica e presenta un soffitto profilato a cavetto e un prospetto costituito da una fascia verticale piana coronata da una modanatura ionica. Nel caso dell’ordine ionico, il gocciolatoio situato lungo i lati lunghi dell’edificio non si differenzia da quello obliquo, che corre lungo i lati del timpano.

Capitello ionico a volute (elaborazione grafica da G. Rocco, 2003).
Il capitello ionico a volute (elaborazione grafica da G. Rocco, 2003).

4.Le correzioni ottiche

Nelle architetture, soprattutto templari, doriche e ioniche sono state osservate alcune deviazioni della geometria naturale delle parti componenti, note come “correzioni ottiche”, la cui natura intenzionale e gli scopi per cui furono applicate sono stati a lungo dibattuti. Questi accorgimenti sicuramente riflettono l’estrema raffinatezza a cui era giunta la progettazione nelle aree di cultura greca e, insieme, l’alto grado di sensibilità estetica che doveva caratterizzare non solo gli architetti ma la società greca nel suo complesso.

Allo stato attuale delle conoscenze sembra che le prime correzioni ottiche siano apparse nel corso del VI secolo, quando in edifici templari sia ionici sia dorici furono apportate alterazioni nella geometria di alcuni elementi, ma è soprattutto con gli inizi del secolo successivo che, specie nella progettazione dorica, la loro applicazione divenne un motivo ricorrente.

Nell’ambito delle correzioni ottiche è possibile operare una distinzione di massima tra curvature delle superfici, inclinazioni di assi o piani verticali, variazioni dimensionali degli elementi dell’ordine. Alla prima tipologia appartengono sia la curvatura dello stilobate e della trabeazione sia quel rigonfiamento del fusto delle colonne noto con il termine greco di éntasis.

Rappresentazione esagerata della curvatura dello stilobate del Partenone (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).
Atene. Partenone, rappresentazione esagerata della curvatura dello stilobate (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

La curvatura dello stilobate consiste nella trasformazione della superficie che costituisce il piano d’appoggio dell’elevato del tempio (peristasi e corpo centrale) in una superficie sferica: l’entità del grado di curvatura è molto bassa, con una freccia contenuta nell’ordine di 1,5-2 mm per metro lineare. Questo tipo di correzione, che spesso coinvolge l’euthyntēría e l’intera crepidine, in area dorica appare alla metà del VI secolo nel tempio di Apollo a Corinto, in quello di Aphaîa II a Egina, nel pre-Partenone ad Atene; l’applicazione raggiungerà le realizzazioni più sofisticate in età classica, nel Partenone e nel tempio di Atena ed Efesto, sempre ad Atene. In ambito ionico, precoce esempio di tale correzione può essere considerata la versione semplificata, riconducibile più che a una curva a un’ampia poligonale, nel tempio arcaico di Artemide a Efeso, mentre risale agli inizi del V secolo l’applicazione in area coloniale, riscontrata nel tempio ionico di Locri, costruito probabilmente da maestranze samie.

Vitruvio (De Architectura, III 4,5) spiega l’adozione della curvatura dello stilobate come l’applicazione di un accorgimento finalizzato a correggere l’effetto ottico di “insellamento” verso il basso che si verificherebbe qualora la base d’appoggio delle colonne fosse perfettamente piana. Per la realizzazione in cantiere di tale curvatura introduce il concetto di scamilli impares, rimandando per la spiegazione a un’illustrazione del suo trattato purtroppo perduta; ciò ha contribuito a generare una complessa questione, con diverse ipotesi, sul significato del termine, non ancora chiarito.

A ogni modo appare evidente l’incremento dei costi di costruzione che una tale lavorazione doveva comportare, considerando anche il fatto che la curvatura del piano d’appoggio dell’elevato implicava dirette ripercussioni sull’ordine: mantenendo infatti costante l’altezza delle colonne, è inevitabile che la curvatura si trasmetta anche alla trabeazione. È pure vero che la curvatura della parte alta della struttura, compreso il timpano, si riscontra anche indipendentemente da quella dello stilobate: il fenomeno, attestato in più edifici, è stato recentemente verificato anche in area ionica cicladica, come dimostra il fregio a profilo superiore poligonale del thēsaurós dei Sifni a Delfi, dove la curvatura dello stilobate non è presente.

Alla stessa categoria delle curvature di superfici appartiene anche l’éntasis, rigonfiamento del fusto della colonna che vede il suo diametro massimo in un punto compreso tra il primo terzo e la metà dell’altezza. L’entità dell’ingrossamento sembra variare nel tempo: molto evidente nel tempio di Hera I a Poseidonia, datato alla seconda metà del VI secolo, si riduce già nelle architetture di età classica. Appare anche in edifici ionici, come il tempio D di Metaponto, nei Propilei (colonne interne) e nell’Eretteo (portico nord) ad Atene; anche l’éntasis deve aver comportato non poche difficoltà di esecuzione e un sistema pratico di realizzazione è stato suggerito dal tracciamento geometrico inciso sulle pareti interne della cella del tempio di Apollo a Didyma. Un’applicazione particolarmente sofisticata è stata riscontrata nel Partenone, dove presentano l’éntasis  non solo le colonne, ma anche i muri perimetrali della cella.

Non tutti sono d’accordo sul fatto che si tratti effettivamente della correzione di una distorsione ottica, come affermato da Vitruvio (data l’altezza della colonna, l’occhio umano tenderebbe ad assottigliare il fusto al centro), quanto piuttosto di un tentativo di mimesi naturalistica, in cui sarebbe rappresentata la trasposizione in pietra dello schiacciamento che il peso doveva indurre nei fusti di legno delle più antiche colonne o anche, dato il significato di “tensione” implicito nella parola éntasis, la rappresentazione dello sforzo stesso di sostenere la parte alta dell’edificio.

Alla seconda tipologia di correzioni appartengono quegli interventi finalizzati alla deviazione dalla verticale dell’alzato del tempio: in particolare, i rocchi delle colonne della peristasi dei lati presentano piani di posa inclinati rispetto all’orizzontale, sia per compensare le deformazioni indotte dalla curvatura dello stilobate, sia per ottenere un’inclinazione delle colonne stesse verso l’interno del tempio; la deviazione dalla verticale può essere stata applicata solo ai lati lunghi o, come appare per esempio nel caso del Partenone e del tempio di Atena ed Efesto ad Atene, su tutti i lati della peristasi. In quest’ultimo caso appare evidente come le colonne angolari partecipino di una doppia inclinazione in quanto fanno parte di due lati tra loro ortogonali.

L’inclinazione delle colonne sarebbe stata applicata per correggere l’effetto ottico di incombenza che l’elevato altrimenti avrebbe avuto nei confronti di un osservatore posto ai piedi dell’edificio. La disposizione appare già nel tempio di Aphaîa II a Egina e si riscontra, in vari gradi, negli edifici di età successiva, attici e peloponnesiaci; tra i primi esempi in ambito ionico si registra quella delle colonne dell’Eretteo.

Rappresentazione esagerata della curvatura dello stilobate e della trabeazione del Partenone (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).
Atene. Partenone, rappresentazione esagerata della curvatura dello stilobate e della trabeazione del Partenone (elaborazione grafica da G. Rocco, 1994).

Anche la trabeazione appare inclinata rispetto al filo verticale dei prospetti: nel Partenone è stata riscontrata una lieve inclinazione verso l’interno di architrave e fregio, a fronte di una deviazione in senso opposto del gocciolatoio. Pure i muri longitudinali della cella appaiono, oltre che rastremati, leggermente deviati verso l’interno dell’edificio, rispondendo, secondo Vitruvio, alla stessa logica, cioè la correzione dell’effetto ottico di rovesciamento delle parti alte dell’edificio.

La terza categoria di alterazioni volute alla geometria dell’architettura finalizzate a correggere eventuali distorsioni della percezione comprende le variazioni dimensionali di alcune componenti, come per esempio l’ingrossamento del diametro della colonna d’angolo di una peristasi. La ragione, secondo Vitruvio, è da ricondurre al tentativo di correggere il fenomeno ottico di assottigliamento dovuto alla luce solare, maggiormente sensibile per le colonne angolari che non possono usufruire, se non in parte, dello sfondo scuro fornito dall’ombra dei porticati e dall’edificio della cella. Altri vedono in questo accorgimento esigenze di tipo statico, connesse con la necessità di rinforzare la struttura portante agli angoli dell’edificio, laddove il carico è maggiore.

Ricostruzione della facciata del Tempio di Zeus Olimpio, a Olimpia.
Olimpia, ricostruzione della facciata del Tempio di Zeus Olimpio.

Il problema di chiarire il motivo dell’introduzione delle correzioni ottiche e, quindi, di capire se a tutte vadano attribuite le medesime finalità continua ad essere oggetto di dibattito; l’interpretazione “ottica” ha un forte sostegno nelle fonti antiche, prima fra tutte Vitruvio il quale, pure scrivendone diversi secoli dopo, rispecchia una concezione dell’ottica che affonda le sue radici in età ellenistica. A questa lettura prevalente si contrappone un’interpretazione che vede nelle deviazioni dal rigido modello geometrico teorico la volontà di trasformare l’architettura stessa in un organismo vitale, creando minime violazioni alla regola per dare l’apparenza di una tensione interna.

Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).