Sia nelle 𝐴𝑟𝑔𝑜𝑛𝑎𝑢𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 di Apollonio Rodio (III secolo a.C.) sia nell’omonimo poema scritto da Valerio Flacco in età flavia, la figura che rimane più impressa di tutto il mito argonautico è sicuramente Medea, la giovane maga della Colchide che si innamora dell’eroe greco Giasone e che, proprio in nome dell’amore, non esita a favorire lo straniero nella conquista del vello d’oro e a fuggire con lui alla volta di Iolco, ignara di incamminarsi verso un destino di morte e distruzione. Se il mito di Medea nel suo complesso ha ispirato, nei secoli, numerose opere teatrali, letterarie, artistiche e musicali, da Euripide al XX secolo, il personaggio di questa ragazza che scopre l’amore ha esercitato sulla cultura di ogni tempo una fascinazione non meno potente. La passione per il giovane aitante forestiero ha infiammato l’animo di Medea. Il brano descrive con raffinati tocchi d’introspezione psicologica il tormento e l’agitazione della donna, che, sollecitata dalla dea Giunone (che le è apparsa in sogno sotto le mentite spoglie della sorella), mostra ormai tutti i segni di un amore inestinguibile.
At regina uirum (neque enim deus amouet ignem)
persequitur lustrans oculisque ardentibus haeret.
et iam laeta minus praesentis imagine pugnae
castigatque metus et quas alit inscia curas
respiciens an uera soror; nec credere falsos
audet atrox uultus eademque in gaudia rursus
labitur et saeuae trahitur dulcedine flammae.
ac uelut ante comas ac summa cacumina siluae
lenibus adludit flabris leuis Auster, at illum
protinus immanem miserae ‹sensere› carinae
talis ad extremos agitur Medea furores.
interdum blandae derepta monilia diuae
contrectat miseroque aptat flagrantia collo,
quaque dedit teneros aurum furiale per artus
deficit; ac sua uirgo deae gestamina reddit
non gemmis, non illa leui turbata metallo,
sed facibus, sed mole dei, quem pectore toto
iam tenet; extremus roseo pudor errat in ore.
ac prior his: “credisne patrem promissa daturum,
o soror, Argolicus cui dis melioribus hospes
contigit? aut belli quantum iam restat acerbi?
heu quibus ignota sese pro gente periclis
obicit!” haec fantem medio in sermone reliquit
incepti iam Iuno potens securaque fraudis.

Ma la regina – poiché la dea non estingue il fuoco –
continua a seguire l’eroe con lo sguardo e non stacca da lui gli occhi ardenti.
E già meno allietata dalla scena della battaglia in corso
raffrena le paure e le ansie che senza saperlo alimenta
riflettendo se la sorella sia vera; e inesorabile
non osa credere falso quel volto e di nuovo s’abbandona alla gioia
e si fa trascinare dalla dolcezza della fiamma funesta.
E come all’inizio l’Austro lieve gioca soffiando
mite sulle chiome e le creste del bosco,
ma poi d’improvviso le navi malcapitate lo sentono devastare,
così Medea è tratta all’estremo delirio.
Ogni tanto maneggia collane sottratte alla dea piena di lusinghe
e le pone a splendere sul suo collo d’infelice,
e quando affida alle tenebre membra l’oro che fa delirare
si sente mancare; e la vergine alla dea ridà gli ornamenti,
confusa non dalle gemme, non dal leggero metallo,
ma dal fuoco, dalla potenza divina che ospita ormai
in ogni piega del cuore; un ultimo pudore vaga sul volto di rosa.
E inizia così: “Credi che il padre manterrà la promessa,
sorella, ora che, assistito da dèi più propizi, gli è toccato
un ospite greco? E quanto ancora durerà l’aspra guerra?
Ahimè, a quali rischi espone se stesso per una nazione
di estranei!”. Mentre parlava così, a metà del discorso, Giunone
la lasciò, ormai padrona del suo pianto, sicura del tranello.
La storia d’amore fra Medea e Giasone, che occupa i libri VI-VIII degli 𝐴𝑟𝑔𝑜𝑛𝑎𝑢𝑡𝑖𝑐𝑎, dà modo a Valerio Flacco di dispiegare il suo gusto per il 𝑝𝑎𝑡ℎ𝑜𝑠 e la psicologizzazione del racconto, nella narrazione della nascita della passione nella protagonista e delle sue ansie e tormenti, causati dal dissidio fra l’amore per Giasone e l’affetto per il padre. L’archetipo del personaggio di Medea va ovviamente ricercato nel poema di Apollonio Rodio, in cui già questa vicenda amorosa aveva largo spazio, ma Valerio Flacco tiene indubbiamente presente anche la lezione della tragedia, che aveva più volte trattato la storia di Medea.
Tuttavia, il modello che forse più d’altri ha influenzato la rappresentazione del poeta latino è quello della Didone virgiliana, il cui tragico amore per Enea ha costituito certamente una sorta di filtro per il racconto degli 𝐴𝑟𝑔𝑜𝑛𝑎𝑢𝑡𝑖𝑐𝑎 valeriani. Il rapporto con il testo virgiliano è reso del resto immediatamente percepibile dal lettore attraverso precisi richiami linguistici, come mostra, per esempio, l’attacco del brano appena riportato; questa Medea, ormai preda dell’amore per l’eroe greco, ha in sé qualcosa quell’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 del IV libro dell’𝐸𝑛𝑒𝑖𝑑𝑒: 𝐴𝑡 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑢𝑖 𝑖𝑎𝑚𝑑𝑢𝑚 𝑠𝑎𝑢𝑐𝑖𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑎 / 𝑢𝑢𝑙𝑛𝑢𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑡 𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑒𝑡 𝑐𝑎𝑒𝑐𝑜 𝑐𝑎𝑟𝑝𝑖𝑡𝑢𝑟 𝑖𝑔𝑛𝑖. / 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑎 𝑢𝑖𝑟𝑖 𝑢𝑖𝑟𝑡𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑜 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑟𝑠𝑎𝑡 / 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑠 ℎ𝑜𝑛𝑜𝑠, ℎ𝑎𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑖𝑛𝑓𝑖𝑥𝑖 𝑝𝑒𝑐𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑢𝑢𝑙𝑡𝑢𝑠 / 𝑢𝑒𝑟𝑏𝑎𝑞𝑢𝑒 𝑛𝑒𝑐 𝑝𝑙𝑎𝑐𝑖𝑑𝑎𝑚 𝑚𝑒𝑚𝑏𝑟𝑖𝑠 𝑑𝑎𝑡 𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑞𝑢𝑖𝑒𝑡𝑒𝑚 («Ma la regina, da tempo tormentata da grave pena, nutre nelle proprie vene una ferita e si strugge di una fiamma segreta. Il grande valore dell’eroe e la grande gloria della stirpe le ritornano di continuo alla mente; le sue parole e il suo volto restano infissi nel cuore; l’affanno non concede alle membra placida quiete»).
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