La battaglia di Teutoburgo – settembre 9 d.C. (Vell. II 117-119)

Nel 9 d.C., l’esperto generale romano Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, seguendo le informazioni fornite da Arminio, fidato comandante cherusco e praefectus di un contingente di auxilia germanico, si pose alla guida di un’armata per reprimere una rivolta scoppiata all’estremità settentrionale dell’Impero in un territorio solo parzialmente sottomesso. Anziché incontrare gli attesi rinforzi promessi dai Cherusci, Varo cadde in un’imboscata, approntata nientemeno che dallo stesso Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Circondato su tre lati da pendici boscose, paludi e terrapieni erbosi, l’esercito romano resse l’urto iniziale; durante la marcia in territorio “amico”, le truppe si erano però distanziate in modo talmente disordinato da rendere in definitiva impossibile un disimpegno. I continui attacchi “mordi e fuggi” degli assalitori germanici aumentarono la confusione e il panico nei ranghi di Varo e solo alcuni soldati superstiti riuscirono a riattraversare il Reno. Il sito della catastrofe (clades Variana) è stato localizzato dagli studiosi nei pressi dell’altura di Kalkriese, vicino a Osnabrück.

La distruzione di tre “invincibili” legioni romane a opera dei “barbari” germani scosse Roma fin nel profondo. La battaglia della foresta di Teutoburgo (saltus Teutoburgensis), passata alla storia come una delle più importanti in assoluto, cambiò effettivamente il corso della storia. Secondo Svetonio (Aug. 23, 2), come ricevette la notizia, il princeps avrebbe iniziato a battere violentemente la testa contro le pareti, gridando: Quinctili Vare, legiones redde! («Quintilio Varo, rendimi le legioni!»). Il numero delle unità coinvolte – XVII, XVIII e XIX – non furono mai più utilizzati, in parte per vergogna e in parte per superstizione.

The Varian disaster, 9 CE. Illustrazione di A. McBride.

Il biasimo, comunque, non è da attribuire ai soldati: secondo il contemporaneo Velleio Patercolo, la responsabilità ultima della disgregazione e della distruzione dell’esercito di Varo era dovuta alla mediocrità dello stesso comandante e alla codardia dimostrata dai suoi subalterni. Quella che segue è la versione dei fatti trasmessa dallo storico (Vell. II 117-119):

Tantum quod ultimam imposuerat Pannonico ac Delmatico bello Caesar manum cum intra quinque consummati tanti operis dies funestae ex Germania epistulae caesi Vari trucidatarumque legionum trium totidiemque alarum et sex cohortium ***, velut in hoc saltem tantummodo indulgente nobis Fortuna, ne occupato duce ‹tanta clades inferretur. Sed› et causa ‹et› persona mora exigit.

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis, moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant, posse iure mulceri. Quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine trahebat aestiva. At illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure terminarentur, in summam socordiam perduxere Quinctilium, usque eo ut se praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui praeesse crederet.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi vultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, ‹cum› iure etiam civitatis Rom‹an›ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis securitatem. Primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit; opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus insidiarum constituit. Id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis, Segesten, indicatur. Postulabat etiam ‹vinciri socios. Sed praevalebant iam› fata consiliis omnemque animi eius aciem praestrinxerat; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus ‹est› deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. Negat itaque se credere spe‹cie›mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. Nec diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur exponere: nunc summa deflenda est. Exercitus omnium fortissimus, disciplina, manu experientiaque bellorum inter Romanos milites principes, marcore ducis, perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio iis, in quantum voluerant, data esset immunis, castigatis etiam quibusdam gravi poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent, inclusus silvis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc venia temperaret. Duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. At e praefectis castrorum duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum longe maximam partem absumpisset acies, auctor deditionis supplicio quam proelio mori maluit. At Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed desertor occidit. […] Vari corpus semiustum hostis laceraverat feritas; caput eius abscisum latumque ad Maroboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen tumuli sepultura honoratum est.

Cenotafio di Marco Celio, centurione della legio XVIII (CIL XIII 8648). Edicola con iscrizione, c. 9-14, da Colonia Ulpia Traiana (od. Xanten). Bonn, Rhein. Landesmus.

«Cesare aveva appena portato a termine la campagna dalmato-pannonica, quando, cinque giorni dopo che si era conclusa questa così grande impresa, delle lettere di malaugurio dalla Germania recarono la notizia che Varo era stato ucciso ed erano state massacrate tre legioni, altrettanti squadroni di cavalleria e sei coorti [ausiliarie]***, come se, almeno riguardo a ciò, soltanto la Sorte fosse stata benevola verso di noi, non ci sarebbe stato il pericolo che, impegnato il comandante, ci venisse inferta una simile disfatta. Ma i prodromi [di questa sciagura] e il personaggio richiedono che io mi soffermi un poco.

Quintilio Varo, nato da una famiglia più illustre che nobile, era un uomo di indole mansueta, tranquillo di carattere, alquanto lento sia nel corpo sia nella mente, avvezzo più all’inattività nell’accampamento che alle fatiche della guerra; ma che non disprezzasse il denaro, invero, lo provò la provincia di Siria, della quale era stato governatore, dove entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca; egli, allorché ebbe assunto il comando dell’armata di stanza in Germania, credette che fossero uomini quegli esseri che non avevano nulla di umano fuorché la voce e le membra e che quelli che non potevano essere domati con le armi, potessero essere ammansiti con il diritto. A questo scopo, penetrato nel cuore della Germania, come se [si trovasse] fra persone che godevano dei frutti della pace, conduceva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e presiedendo i tribunali.

Eppure quelli [= i Cheruschi] – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale esperienza – astutissimi pur nella massima rozzezza, razza nata per la menzogna, simulando una serie di finte querele, ora provocandosi a vicenda in contese e ora mostrandosi riconoscenti, perché quelle fossero ricomposte dalla giustizia romana, la loro indole selvaggia fosse addolcita dalla novità di una disciplina sconosciuta e fossero determinate col diritto quelle cose che si era soliti decidere con le armi, ridussero Quintilio ad un’eccessiva indolenza, al tal punto che egli credeva di esercitare il diritto nel foro come un pretore urbano anziché di avere il comando di un esercito nel bel mezzo della Germania.

Fu allora che un giovane di nobile stirpe, di nome Arminio – figlio di Sigimero, capo di questa tribù, vigoroso, acuto di mente, d’ingegno superiore a quello di un barbaro, che mostrava nello sguardo e nel volto l’ardore del suo animo, fedele compagno d’armi nella nostra precedente campagna, gratificato del diritto di cittadinanza romana, conseguendo anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’indolenza del generale per ordire il suo misfatto, poiché non senza saggezza aveva considerato che nessuno può essere eliminato più rapidamente di chi non ha nessun timore e che la troppa sicurezza molto spesso sia il principio di una disgrazia. Dapprima fece partecipi del suo piano pochi dei suoi, poi molti altri. Disse – e li convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla decisione l’azione, stabilì il momento opportuno per l’agguato. Ciò venne riferito a Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre, Segeste. Chiedeva anche di ‹arrestare i cospiratori, ma ormai› il destino ‹prevaleva› sulle decisioni [poiché] aveva completamente offuscato il lume della ragione. Così, infatti, vanno le cose che per lo più la divinità, quando intende cambiare la Fortuna di qualcuno, gli sconvolge la mente e fa in modo che – e questa è la cosa più triste – quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la sfortuna si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare [da parte dei Germani] in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne un altro.

Anch’io, come altri [scrittori], cercherò di esporre in un’opera di maggior respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza in guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo comandante, della perfidia del nemico, dell’iniquità della Sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi e al coraggio, da veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà. Il generale mostrò nella morte maggior coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio, il quale, quando la battaglia aveva già portato via la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in combattimento. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo e onesto, fu autore di uno scelleratissimo esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. […] La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa mozzata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia».

The Battle of Teutoburg Forest (Germany, AD 9). Illustrazione di A. McBride.

Una delle conseguenze del disastro di Teutoburgo fu il definitivo abbandono dei piani per un eventuale controllo della Germania Magna. Roma non effettuò ulteriori tentativi di annessione dei territori transrenani e per i successivi quattro secoli il fiume segnò il confine dell’Impero romano.

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Riferimenti bibliografici:

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Arminio, eroe e traditore

La fama di Arminio è fortemente influenzata dall’appellativo di liberator… Germaniae, coniato da Tacito (Ann. II 88, 2). L’autore riferisce che ceterum Arminius, abscendentibus Romanis et pulso Maroboduo regnum adfectans, libertatem popularium adversam habuit, petitusque armis cum varia fortuna certaret, dolo propinquorum cecidit: liberator hau‹d› dubie Germaniae et qui non primordia populi Romani, sicut alii reges ducesque, sed florentissimum imperium lacessierit, proeliis ambiguus, bello non victus («d’altra parte, Arminio, aspirando al regno, partiti i Romani e cacciato Maroboduo, suscitò contro di sé il desiderio di libertà dei propri connazionali; assalito con le armi e combattendo con alterna fortuna, alla fine, cadde per il tradimento dei suoi. Senza alcun dubbio, egli fu il liberatore della Germania, colui che sfidò il popolo romano non al principio della sua potenza, come avevano fatto altri re e condottieri, ma nel momento più splendido del suo Impero; se ebbe incerta fortuna nelle battaglie, uscì invitto dalla guerra»).

Il cosiddetto «Arminio». Busto, marmo, I sec. d.C. ca. Moskva, Puškin Museum.
Il cosiddetto «Arminio». Busto, marmo, I sec. d.C. ca. Moskva, Puškin Museum.

Le informazioni biografiche sul conto di Arminio sono assai scarse: si sa che apparteneva a una famiglia nobile (stirps regia, Tac. Ann. XI 16, 1), era a capo dei Cherusci (tribù che si era stanziata tra gli od. Osnabrück e Hannover), suo padre era Segimero, e septem et triginta annos vitae, duodecim potentiae explevit («morì a trentasette anni, dopo dodici anni di signoria», Ann. II 88, 3). Sulla base di queste informazioni, gli studiosi hanno ipotizzato che Arminio visse all’incirca tra il 16 a.C. e il 21 d.C.

Dopo essere diventato capo-tribù (ductor popularium), servì nell’esercito romano sotto Tiberio durante la campagna germanica del 5 e poi durante la rivolta dalmato-pannonica 6-9, assurgendo al rango equestre di praefectus alla guida di un contingente di ausiliari cherusci. Apprese il latino (nam pleraque Latino sermone interiaciebat, Tac. Ann. II 10) e ottenne anche la cittadinanza romana (Vell. II 118). Al comando dei suoi auxilia, condusse la famosissima imboscata a Teutoburgo contro le unità di Publio Quintilio Varo nell’autunno del 9. Quello che era iniziato come un ammutinamento si trasformò ben presto in una lotta per la libertà germanica, alla quale presero parte anche altri gruppi tribali. Prima e dopo la sollevazione, tra i capi germanici c’erano sia fedeli sostenitori sia fieri oppositori della causa romana: mentre Arminio istigava i suoi a ribellarsi, Segeste, un altro princeps cherusco, più volte, in varie occasioni, tentò di avvertire Varo del complotto, proponendosi di togliere di mezzo il rivale (Tac. Ann. I 55, 2). Le ragioni della ribellione, come lasciano intendere le proteste contro l’introduzione del sistema giuridico e tributario romano, furono sia un brusco passaggio da un’amministrazione militare a una civile provinciale (Vell. II 117; Flor. II 34-35; DCass. LVI 8, 2-3) sia l’inasprirsi delle lotte interne ai Cherusci per il potere. La pesantissima disfatta nella foresta di Teutoburgo (Teutoburgiensis Saltus), le cui esatte dinamiche sono assai poco chiare, portò al massacro di ben tre legioni e altre unità di rincalzo. Con ogni probabilità, il luogo dello scontro fu la località di Kalkrieser Berg, perché offriva le condizioni topografiche ideali per l’imboscata in cui Arminio attirò i Romani (DCass. LVI 18, 5-19, 5). Il panico suscitato dall’attacco a tutto campo dei Germani fu il motivo della drammatica reazione di Roma (Suet. Aug. 23; 25, 2; DCass. LVI 23), ma Arminio non riuscì a portare dalla propria parte anche Maroboduo, re dei Marcomanni, pur facendogli portare la testa di Varo (Vell. II 119, 5).

Benché la terribile disfatta del 9 avesse segnato una drastica battuta d’arresto all’espansione di Roma, il disastro non si tradusse in un completo fallimento della politica estera in Germania. Augusto, per evitare che il nemico assalisse la Gallia e che le province appena pacificate potessero rivoltarsi nuovamente, assegnò a Tiberio il comando delle legioni renane (DCass. LVI 24; Suet. Tib. 18-19): il futuro imperatore adottò una condotta particolarmente prudente, assumendo ogni decisione insieme al suo consiglio di guerra e mantenendo fra i soldati una ferrea disciplina; in questo modo poté conseguire numerose vittorie e consolidare il confine lungo il fiume (10-12 d.C.).

Tuttavia, tra il 14 e il 16 Arminio si trovò in una posizione di potere rafforzata e alla guida di una coalizione tribale più ampia per affrontare Germanico. A opporsi all’influenza di Arminio c’era ancora Segeste, che, grazie all’intervento romano, era riuscito a riscattare la propria figlia Thusnelda: Arminio l’aveva rapita, resa sua moglie e perfino messa incinta. La liberazione della ragazza fu un ulteriore pretesto per costringere Arminio a scendere in campo (Tac. Ann. I 57-59). Le offensive guidate dall’ambizioso Germanico, che Tacito descrive come la campagna per la conquista della Germania Magna, condussero le armate romane in profondità, ma le esposero anche al pericolo dei nemici. Alla fine, comunque, l’impresa si rivelò inefficace: l’ostinata resistenza dei popoli indigeni indusse Tiberio a richiamare il nipote Germanico a Roma (16 d.C.) e ad abbandonare una politica estera aggressiva nei confronti delle regioni transrenane. Nel frattempo Arminio era riuscito a staccare Longobardi e Semnoni dall’alleanza con Maroboduo e ad attirarli alla sua causa, costringendo i Marcomanni a ritirarsi (Tac. Ann. II 46). Alla fine, però, lo stesso Arminio non seppe consolidare ulteriormente il proprio potere presso i suoi Cherusci: accusato di aspirare a farsi re, intorno al 21 d.C. egli fu aggredito e assassinato dai propri parenti (Ann. II 88).

Andreas Gagelmann, Arminio, Teutoburgo, 9 d.C.
Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.

La tradizione sul conto di Arminio quale campione della libertà germanica è, dunque, fortemente viziata dal resoconto di Tacito, ma in età moderna assunse tratti quasi leggendari. Sembra che tutto, o quasi, sia cominciato nel 1523, quando il letterato e polemista Ulrich von Hutten (1488-1523) pubblicò un dialogo dal titolo Arminius, nel quale «un uomo amatissimo della patria celebra l’elogio della Patria». Il contesto era quello della Riforma luterana, di cui von Hutten fu tra i fautori più accaniti, perciò l’eroe, descritto come «il più libero, il più invitto, il più tedesco degli uomini», assurse così a campione della rivolta contro la Chiesa romana. Arminio, dopo secoli di oblio, risorgeva allora a cominciare dal nome: il latino Arminius, dall’antico germanico Irmin («possente, forte»), ai tempi di Luther si trasformò in Hermann («guerriero», da Heer, «esercito», e Mann, «uomo»), e l’antica lotta tra Germani e Romani tornò di attualità sotto diverse spoglie. La nuova sollevazione “tedesca” era ora rivolta contro la “corte papale” e il nuovo Varo diventava il Pontefice, esattore dell’odiato obolo per l’edificazione di una nuova San Pietro. Die Bibel («il Libro»), volgarizzata in tedesco, si ergeva contro la Bibbia latina. E, ancora, il tópos tacitiano della rilassatezza dei costumi romani – stavolta incarnati dalle gerarchie ecclesiastiche, più attente ad accrescere e gestire il proprio potere economico e politico che a badare alla cura d’anime e alla diffusione del messaggio evangelico – si contrapponeva alla tempra morale e al vigore pratico dei Germani. Eroe dell’intera nazione tedesca, che vedeva in lui l’emblema mitico delle proprie più alte virtù, dalla seconda metà del Settecento – in accordo con la riscoperta delle identità nazionali portata avanti con ardore dal Romanticismo – Arminio divenne quindi protagonista di moltissime opere letterarie.

I primi tentativi – dopo il monumentale (3076 pagine in ottavo grande!) romanzo barocco di Daniel Casper von Lohenstein (1635-1683) Großmütiger Feldherr, Arminius oder Herrmann, Als ein tapferer Beschirmer der deutschen Freyheit [Arminio, il magnanimo condottiero, ovvero Ermanno, coraggioso campione della libertà tedesca], in cui la vicenda diventa pretesto per una vera e propria enciclopedia della storia tedesca passata e presente e l’eroe è l’alter ego dell’imperatore Leopoldo – ebbero scarsa risonanza, eccezion fatta per l’Hermann di Johann Elias Schlegel (1719-1749), pubblicato nel 1743. Questa ultima opera, che in realtà si risolve nel dramma dell’amore di Flavo, fratello traditore di Arminio, per la di lui moglie Thusnelda, eroina invece fedele al marito e alla patria, ispirerà parzialmente la assai più importante trilogia di Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803). I tre drammi – Hermanns Schlacht (La battaglia di Arminio, 1769), Hermann und die Fürsten (Arminio e i principi, 1784), Hermanns Tod (La morte di Arminio, 1787) – furono definiti «barditi» dal poeta stesso, poiché intendevano rifarsi a una mitica poesia squisitamente germanica, propria dei bardi, esemplata sul modello dell’Edda di Snorri (da poco riscoperta) e dell’Ossian (all’epoca ritenuta poesia originale dell’antica Scozia). Il progetto di Klopstock, molto ambizioso, rimase però incompiuto, forse per le intrinseche difficoltà a conferire valore drammatico a un’epopea dai toni decisamente arcaizzanti: non per nulla Schiller lo definì «freddo, insipido, grottesco, senza vita e senza verità». «Così crolla l’egemonia di Roma di fronte allo scherzo della selva, e a me sembra, invero, come lo sciocco colpo di un ragazzo»: sono due versi, epigrafici e per questo assai efficaci, dell’altrimenti esasperato e a tratti visionario dramma Die Hermannsschlacht [La battaglia di Arminio] di Heinrich von Kleist (1777-1811), scritto nel 1808 ma pubblicato per la prima volta solo nel 1821 in una raccolta di scritti postumi a cura di Ludwig Tieck. La “prima” andò in scena il 18 ottobre 1860 a Breslau con l’adattamento di Fedor Wehl. Il testo, scritto nel clima infuocato delle invasioni napoleoniche, risente del violento odio dell’autore (addirittura imprigionato negli stessi anni in carcere!) suscitato dall’atteggiamento tirannico del Bonaparte, che, dopo la sua autoproclamazione imperiale (1804), aveva proceduto in Germania a una notevole semplificazione della carta politica, culminata nella soppressione (1806) del Sacro Romano Impero. Proprio per i suoi forti e orgogliosi accenti patriottici, il dramma conobbe un clamoroso successo sotto il Nazismo: per fare un solo esempio, nell’annata teatrale 1933-34 fu messo in scena la bellezza di 146 volte!

Johann Heinrich Tischbein, Der Triumph Hermanns nach dem Sieg über Varu. Olio su tela, 1772. Schloss Arolsen
Johann Heinrich Tischbein, Der Triumph Hermanns nach dem Sieg über Varu. Olio su tela, 1772. Schloss Arolsen

L’Ottocento tedesco, del resto, vide una sfilza interminabile di drammi e poemi ispirati ad Arminio, ma nessuno di questi fu davvero memorabile. Non rimase immune nemmeno, pur con accenti e toni totalmente diversi, l’Italia: l’Arminio di Ippolito Pindemonte (1753-1828), tragedia in cinque atti pubblicata nel 1804, ribaltava completamente la prospettiva facendo del principe cherusco una sorta di tiranno che aspirava a diventare re in scorno alla volontà degli altri guerrieri e della sua gente, che invece intendeva mantenere la propria libertà. Le opposte aspirazioni si scontreranno a Teutoburgo: il figlio di Arminio, Baldero, pur di non uccidere il padre, si toglierà la vita; il tiranno sarà sconfitto in battaglia dal genero Telgaste e, ferito, si suiciderà. La fortuna di Arminio si sarebbe presto fatta sentire anche nel teatro d’opera. Forse il primo a musicare la sua vicenda fu Heinrich Ignaz Franz von Biber (1644-1704) su libretto di Francesco Maria Raffaelini. Arminio, ossia Chi la dura la vince, è il titolo dell’opera che tra il 1690 e il 1692 andò in scena a Salisburgo con la dedica all’arcivescovo Johann Ernst, conte di Thune in Hohenstein. A seguire, ecco Alessandro Scarlatti (1660-1725) su libretto di Antonio Salvi con un dramma in tre atti rappresentato per la prima volta nel settembre del 1703 a Pratolino. Nel 1707 fu rappresentata a Düsseldorf l’opera di Agostino Steffani (1655-1728); nel 1722 fu poi la volta di quella di Carlo Francesco Pollarolo (1653-1723) a Venezia. Il 12 gennaio 1737 toccò a uno dei massimi geni del tempo, Georg Friedrich Händel (1685-1759), far esordire al Covent Garden di Londra il suo Arminius. Sette anni prima, nel 1730, a Milano si era cimentato sullo stesso tema e con molta più fortuna anche Johann Adolph Hasse (1699-1783). Si ricordano anche i lavori omonimi di Baldassarre Galuppi (1706-87, rappresentato nel 1747), di Giacomo Tritto (1733-1824), Roma 1786, di Angelo Tarchi (1760-1814), Mantova 1786, di Nicolas Étienne Méhul (1763-1817), di Max Bruch (1838-1920), per coro misto e orchestra (1875). Nessuno di questi, a torto o a ragione, è oggi compreso nei cartelloni delle maggiori stagioni operistiche mondiali: segno che, tutto sommato, si tratta di lavori quando va bene molto storicizzati, e comunque non certo imperdibili.

Nel 1871 la Germania di Bismarck e di Guglielmo I sconfisse la Francia di Napoleone III, ottenendo, grazie al Trattato di Francoforte, l’Alsazia e la Lorena, ribattezzate «terre d’impero» e poste sotto la diretta sovranità del Kaiser tedesco. Il trionfo della guerra franco-prussiana fu celebrato, nel 1875, con l’inaugurazione a Detmold, non lontano dal luogo della battaglia di Teutoburgo, del colossale Hermannsdenkmal in lastre di rame e un monumento eretto da Theodore Mommsen (1817-1903), che grazie ai suoi studi sulla clades Variana, contribuì non poco a sostenere la politica unificatrice e il Kulturkampf di Bismarck.

Ernst von Bandel, Arminio. Statua, lastre di rame, 1875. Detmold, Hermannsdenkmal
Ernst von Bandel, Arminio. Statua, lastre di rame, 1875. Detmold, Hermannsdenkmal.

Se è vero che, come scrisse Heinrich Heine (1797-1856), «Hermann vinse la battaglia, / i Romani vennero scacciati, / Varo fu vinto con le sue legioni, / e noi siamo rimasti tedeschi», lo è altrettanto che il Nazionalsocialismo, col suo voler individuare negli antenati germanici i più fulgidi esemplari della razza ariana, non poteva restare insensibile alla possente figura di Arminio dalla chioma bionda e dall’occhio ceruleo, così come si era peraltro imposta nella memoria collettiva grazie alle tele di innumerevoli artisti, tra cui Josef Abel (1768-1818), Angelika Kauffmann (1741-1807), Johann Heinrich Tischbein il vecchio (1722-89), Wilhelm Lindenschmidt il Vecchio (1806-48), Johannes Gehrts (1855-1921), Carl Theodor Piloty (1826-86), Peter Janssen il Vecchio (1844-1908), Friedrich Tüshaus (1832-85), e via dicendo. Del resto, la Grande Guerra l’aveva sfruttata come collante della nazione, ancora una volta, contro il nemico francese; Hitler poteva ben utilizzarla per gli stessi motivi. Sarebbe lungo citare tutta la casistica: basti dire che le stesse SS, durante le feste comandate del Reich, come in quella del raccolto o del sole, si schieravano travestite da guerrieri di Arminio per sfilare davanti a un carro che trasportava il disco solare. E forse non è un caso – anche in considerazione dell’ormai acclarato legame tra nazismo ed esoterismo – che Heinrich Himmler, “inventore” di questo corpo paramilitare, scegliesse come luoghi simbolo il castello di Wewelsburg e le Externsteine, entrambi non troppo distanti dal luogo della battaglia di Teutoburgo. L’oggettistica di quegli anni, del resto, sfruttava spesso – e non senza cadere nel Kitsch – l’immagine di Arminio/Hermann per supportare le idee nazionaliste del Reich. Quale miglior veicolo di diffusione, per esempio, di stampe e cartoline postali, quali quelle in cui Hitler in uniforme e col braccio disteso, in primo piano, replicava il gesto della statua di Arminio di Detmold sullo sfondo, oppure dove dietro lo stesso monumento sorgeva – altro che Sol dell’avvenire! – un’enorme svastica raggiata? Nemmeno la propaganda di sinistra, comunque, rimase immune al mito di Hermann, se si pensa che nel 1975, durante una rappresentazione del dramma di Kleist nella Repubblica Democratica Tedesca, le antiche tribù germaniche furono messe in scena come improbabili soviet di lavoratori tedeschi dell’est e dell’ovest riuniti!

Evidentemente, la figura (e la raffigurazione) di Arminio comunica ai Tedeschi qualcosa di innato, che affonda le radici in un passato ancestrale. Che cosa? Una suggestiva ipotesi fu avanzata dal filologo classico Ernst Bickel (1876-1961) e dallo studioso di epica norrena Otto Höfler (1901-1987), i quali sostenevano che dietro la figura di Arminio si celerebbe quella di uno dei maggiori eroi della mitologia antico germanica, Sigfrido. Tra i due personaggi, del resto, esistono parecchie corrispondenze che non possono essere certo frutto del caso. Innanzitutto, Sigfrido – il nome significherebbe «vittorioso nella salvaguardia della pace» – era figlio di re Sigmundr (ted. Sigemund), Arminio di Sigimero, «celebre per la vittoria» (lat. Segimer). Probabilmente, in accordo con l’usanza vetero-germanica di passare nel nome del figlio una parte di quello del padre, il nome di Arminio iniziava dunque con Seg-/Sig. Proseguendo coi dati “biografici”, il mito narra che Sigfrido neonato fu allattato da un daino e Arminio apparteneva alla tribù dei Cherusci, il cui etimo risale all’alto germanico *herut («cervo, daino»). Sigfrido crebbe nella cittadella di Xanten, nell’odierna regione della Nordrhein-Westfalen, sede dell’accampamento legionario di Castra Vetera, appartenente alla provincia della Germania inferiore: il luogo, guarda caso, dopo la battaglia di Teutoburgo divenne rifugio dei pochi sopravvissuti delle devastate legioni di Varo. Entrambi gli eroi, infine, furono assassinati da persone appartenenti alla loro stirpe (Sippe): Sigfrido dai parenti della moglie, Arminio da propinqui, ossia membri del clan, del suocero Segeste. Le similitudini continuano, anche arditamente, sul piano simbolico: Sigfrido uccise il drago Fáfnir, Arminio massacrò la “serpentina” delle legioni romane, lunga venti chilometri. Dove ciò avvenne è sorprendentemente affine: Sigfrido sconfisse la fiera in un luogo chiamato Gnitaheidhr (una brughiera rocciosa o piena di ghiaia, come suggerirebbe l’etimo), Arminio in un posto detto Gnidderhöi, da identificare con la brughiera nei pressi di Schötmar, da molti ritenuta una dei molti punti in cui furoreggiò la lunga battaglia.

Johannes Gehrts, L'addio di Arminio a Thusnelda. Olio su tela, 1884. Detmold, Lippisches Landesmuseum
Johannes Gehrts, L’addio di Arminio a Thusnelda. Olio su tela, 1884. Detmold, Lippisches Landesmuseum

Riferimenti bibliografici:

D. Timpe, Arminius-Studien, Heidelberg 1970.

H.-W. Goetz, K.-W. Welwei (eds.), Altes Germanien. Auszüge aus den antiken Quellen über die Germanen und ihre Beziehungen zum Römischen Reich. Quellen der Alten Gechichte bis zum Jahre 238 n. Chr., Darmstadt 1995.

R. Wiegels, W. Woesler (eds.), Arminius und die Varusschlacht: Geschichte, Mythos, Literatur, Paderborn 1995.