ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 42.
I dati biografici e, soprattutto, cronologici relativi a Nicandro, nato a Claros presso Colofone, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio, appaiono piuttosto confusi già nelle fonti antiche. Alcuni lo considerarono infatti contemporaneo di Teocrito, altri lo assegnarono alla generazione successiva e altri ancora lo vollero coetaneo di Attalo III Filometore, che regnò su Pergamo dal 138 al 133 a.C. Tale incertezza sembra essere stata causata dall’esistenza di un altro Nicandro, storico e antiquario, forse antenato di questo autore, contemporaneo e amico di Teocrito, vissuto al tempo di Attalo I (241-197 a.C.) e ricordato come poeta epico in un’iscrizione delfica (Syll.³ 452). Al più giovane Nicandro, figlio di Dameo (quello più antico è figlio di Anassagora), sono attribuiti due poemi didascalici, uno intitolato Θηριακά (Rimedi contro i veleni animali) e l’altro Ἀλεξιφάρμακα (Antidoti, o Contravveleni)[1]. Il primo (958 versi), dedicato a un certo Ermesianatte, amico del poeta, si apre con alcune notizie generali sull’origine dei veleni, che sarebbero nati dal sangue dei Titani; poi, si descrive ogni specie animale letale, spiegando gli effetti dei loro sieri; quindi, si prendono in considerazione i rimedi più comuni contro i veleni animali, mescolando in modo abbastanza generico nozioni scientifiche e credenze popolari. Successivamente, il poeta dedica un’ampia trattazione al veleno dei serpenti, indicando i periodi dell’anno in cui essi sono più pericolosi e ritenendo le femmine più micidiali dei maschi. Segue un’ultima parte, dedicata ai rimedi contro le punture dei ragni e degli scorpioni. L’Ἀλεξιφάρμακα (630 versi), invece, descrive i vari tipi di pozione velenifera, i miasmi tossici e gli eventuali antidoti. Secondo le fonti antiche, il materiale di questi trattati proverrebbe dalle opere di due autori didascalici: Numenio, discepolo del medico Dieucle di Eraclea, vissuto verso la metà del III secolo a.C., e un tale Apollodoro, la cui attività risale agli inizi dello stesso secolo.
Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου Ἀλεξιφάρμακα, f. 48r. Un pastore nel bosco.
In ogni caso, la fortuna dei Θηριακά e degli Ἀλεξιφάρμακα nel mondo antico fu notevole: il successo dei due poemetti si dové alla loro utilità per il vasto pubblico, alla perfezione dei versi (Nicandro era uno dei più fedeli assertori della perfezione armonica dell’esametro callimacheo), e a un’abile e innovativa manipolazione del linguaggio. Nicandro, infatti, aveva abilmente inserito nel verso dell’epica i termini zoologici e tossicologici più oscuri: di conseguenza, gli hapax legomena di queste opere divennero il terreno di caccia ideale per i grammatici antichi e tardi. Leggere questi testi è tuttavia esteticamente frustrante per i moderni: Nicandro ha accolto con indifferenza l’uniformità compilativa dei suoi modelli, intensificandola nei suoi trattati in versi: negli Ἀλεξιφάρμακα, dunque, si passano in rassegna le caratteristiche di ciascun veleno, la sintomatologia dei loro effetti, i possibili antidoti; nei Θηριακά si forniscono accurate descrizioni dei segni identificativi dei serpenti e dei sintomi del loro morso. Le digressioni perdono il loro effetto di animare la trattazione e mantengono una funzione eminentemente tecnica (per esempio, quella di segnare il passaggio da un capitolo all’altro).
Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου θηριακά, f. 6r. Una vipera maschio; una vipera femmina che attacca un uomo.
Altri poemi didascalici a cui è associato il nome di Nicandro, alcuni dei quali sono noti solo da frammenti o dal loro titolo, mostrano chiaramente l’ambizione di creare un’enciclopedia in versi: i due libri di Γεωργικά sulla coltivazione dei campi e sul giardinaggio[2]; i Μελισσουργικά, sull’apicultura; gli Ὀφιακά, una monografia sui serpenti e una raccolta di figure mitiche morse da questi rettili. A queste opere si aggiungono altri due titoli: Περὶ χρηστηρίων πάντων (Sulle medicine utili) e Ἰάσεων συναγωγή (Una raccolta di terapie). Ci sono alcuni indizi di due ulteriori testi che dovevano trattare rispettivamente di cinegetica e di mineralogia. Un’altra opera perduta dello stesso Nicandro, i Προγνωστικά, sarebbe, secondo la Suda, una parafrasi in esametri dell’omonimo trattato pseudo-ippocratico.
Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne. Olio su tavola, 1470. London, National Gallery.
Fra le opere non pervenute di Nicandro, però, non si può non ricordare il poema mitologico, intitolato Ἑτεροιούμενα (Metamorfosi), dedicato, secondo una consuetudine iniziata dagli Aἴτια callimachei, a leggende di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. I pochissimi versi sopravvissuti di quelli che dovevano essere quattro o cinque libri di poesia non potrebbero bastare a darci un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti, contenuti in un’opera di Partenio e nel compendio realizzato da Antonino Liberale, forse liberto di Antonino Pio. Non è certo che quest’opera abbia influenzato le Metamorfosiovidiane.
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Bibliografia:
Cᴀᴍᴇʀᴏɴ A., 𝐶𝑎𝑙𝑙𝑖𝑚𝑎𝑐ℎ𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑖𝑠 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑠, Princeton 1995, 194-207.
Per un aggiornamento bibliografico, si vd. il sito A Hellenistic Bibliography [sites.google.com].
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Note:
[1] Ciononostante, Cameron (1995) attribuisce entrambi i poemi didascalici al Nicandro più vecchio e segue, perciò (se si dà credito alle vitae Arati), l’antica opinione che il poeta di Soli e questo autore fossero contemporanei.
[2] Il retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo, ci ha conservato circa cento versi di questo poema didascalico sull’agricoltura, che, secondo Quintiliano (Inst. X 1, 56), avrebbe fornito numerosi spunti all’omonima opera di Virgilio; ma si tratta di un’affermazione tutta da dimostrare, dato che non sembra che nessuno dei frammenti superstiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore, sia mai stato utilizzato da Virgilio.
di W. Blösel, I Gracchi e la disgregazione della nobilitas fino alla dittatura di Silla (dal 133 al 78), in Id., Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. Colla), Torino, Einaudi, 2016, pp. 133-138.
I due fratelli che dovevano dare un forte impulso alla storia degli anni dal 133 al 121 appartenevano all’alta nobilitas, e in certo modo vi erano quindi predestinati. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162, e suo fratello Gaio, più giovane di nove anni, avevano per padre un uomo che era stato due volte console (nel 177 e nel 163) e aveva celebrato un trionfo, e per madre Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano. Inoltre la loro sorella Sempronia aveva sposato Scipione Emilano. All’età di soli quindici anni, Tiberio Gracco, al comando di suo cognato, aveva ottenuto la corona muralis, perché per primo era salito sulle mura di Cartagine. Aveva poi sposato la figlia di Appio Claudio Pulcro, il censore del 136, appartenente anch’egli alla più elevata nobilitas. Ma la vergogna di aver concordato e redatto nel 137, quand’era questore, gli articoli del trattato della capitolazione di Mancino di fronte ai Numantini parve aver posto termine alla sua carriera prima ancora che fosse cominciata. Perciò, Tiberio Gracco cercò di riacquistare popolarità come tribuno della plebe.
Al massimo dall’inizio del III secolo, però, il tribunato della plebe non era più, fatte salve poche eccezioni, come quello di Gaio Flaminio nel 232, un mezzo per imporre le richieste dei semplici cittadini, ma piuttosto un metodo impiegato dall’aristocrazia senatoria per soffocare sul nascere, grazie al veto tribunizio, le iniziative di legge dei sommi magistrati che fossero ad essa sgradite, e per produrre consenso all’interno del ceto dirigente.
Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.
Contro le iniziative di legge di Gracco l’opposizione di molti tra i senatori era garantita: infatti, egli mirava a limitare fortemente l’utilizzazione dell’ager publicus da parte dei Romani ricchi, che fino a quel momento l’avevano occupato quasi completamente. Ognuno di essi avrebbe dovuto occuparne infatti soltanto cinquecento iugera(= centoventicinque ettari), e in aggiunta altri duecentocinquanta iugera (= sessantadue ettari e mezzo) per ogni figlio. Agli attuali proprietari doveva quindi rimanere ancora una parte considerevole dell’agro pubblico, e inoltre in pieno diritto di proprietà. L’agro pubblico così recuperato doveva essere distribuito agli agricoltori poveri: ognuno doveva riceverne da venti a trenta iugeri (= da cinque a sette ettari e mezzo), sufficienti al mantenimento di una famiglia. I nuovi possessori dovevano inoltre versare un piccolo vectigal allo Stato, anche a indicare che non erano proprietari del lotto di terreno, che doveva restare inalienabile. In generale, la proposta di legge agraria avanzata da Gracco può essere considerata di ispirazione moderata, tanto più che il limite legale di cinquecento iugeri di agro pubblico sussisteva già almeno dal 167, anche se evidentemente non era mai stato rispettato con rigore. Dietro alla sua iniziativa c’erano comunque anche il suocero, Appio Claudio Pulcro, poi Publio Mucio Scevola, il noto giurista, oltre che console per il 133, e suo fratello Publio Licinio Crasso Divite Muciano, il futuro console del 131: tutti pesi massimi, nella scena politica romana. Probabilmente, l’idea fu di Pulcro, un uomo estremamente sicuro di sé, che intendeva in tal modo toccare problemi che angustiavano una molteplicità di cittadini e acquistarsi così una popolarità legata a contenuti concreti. Già nel 145, però, o forse nel 140, una proposta simile di distribuzione delle terre, presentata da Gaio Lelio, era fallita per l’opposizione dei senatori. Per questo motivo Gracco presentò la propria proposta direttamente al popolo per il voto, senza consultare precedentemente il senato, in modo che un parere negativo di quest’ultimo non potesse incidere sulle sue possibilità di fronte ai comizi.
Gruppo dell’Aratore. Statuetta, bronzo, 430-400 a.C. ca. da Arezzo. Roma, Museo di Villa Giulia.
Nell’adottare questa insolita procedura, Tiberio Gracco approfittò di una recente innovazione. Infatti, la Lex Gabinia tabellaria, del 139, e la Lex Cassia, del 137, avevano prescritto la votazione per mezzo di tabellae (schede), quindi segreta, nell’elezione dei magistrati e nel tribunale popolare. Per i voti sulle proposte di legge, questo avvenne certamente soltanto nel 131, grazie alla Lex Papiria. Prima, i cittadini romani avevano sempre espresso a voce il loro voto di fronte allo scrutatore. Gli stretti passaggi sui quali votavano, i pontes, erano però abbastanza ampi da permettere il controllo da parte dei loro patroni. L’introduzione delle schede indica già quindi un precedente allentamento delle relazioni clientelari tra ceti elevati e semplici cittadini, mentre per la massa dei Romani che si erano riversati nella metropoli nel corso del II secolo certamente ci si possono attendere soltanto deboli legami con i patroni. E però, proprio la votazione segreta verosimilmente puntellò il sistema clientelare, in quanto in questo modo un cittadino legato a più patroni poteva evitare di mettere in pubblico questa sua situazione conflittuale. E le parecchie migliaia di sostenitori che accompagnavano Tiberio Gracco nelle sue apparizioni pubbliche stanno a dimostrare che era riuscito a legare politicamente a sé moltissimi cittadini.
Aspettandosi violente orazioni a lui contrarie da parte dei senatori nelle tre contiones che precedevano il voto, la strategia oratoria di Gracco fu aggressiva fin dall’inizio. Secondo Plutarco[1], che riporta almeno nel suo indirizzo generale l’orazione di Gracco, nota ancora alle generazioni successive, egli compianse il dolore dei soldati-agricoltori romani, che venivano chiamati da generali ipocriti a difendere sepolcri e santuari ma che non erano più nemmeno padroni di se stessi, che erano celebrati come signori del mondo ma non potevano dire propria neppure una zolla di terra. Erano costretti, infatti, a combattere soltanto a beneficio di altri.
C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.
La sua forte polemica contro la nobilitas spiega la dura opposizione da parte dei senatori, per i quali la restituzione di parte dell’agro pubblico già utilizzato avrebbe significato la perdita degli investimenti fatti per le coltivazioni di ulivi e altri alberi da frutto. Verosimilmente, nella legge agraria gli agricoltori più poveri fiutarono invece la possibilità di disporre di mezzi e terreno sufficienti per vivere, e anche quella di essere reclutati come legionari. La legge offriva infatti la possibilità di allargare notevolmente la base del reclutamento per l’esercito, sempre più stretta. Oltre alla sostanziale fondatezza degli argomenti di Gracco, forse i cittadini gli si avvicinarono nella prospettiva di non essere più solo un mero serbatoio di voti, utile al ceto superiore, ma di poter acquisire un proprio peso politico come forza d’opposizione, diventando quindi una sorta di «ago della bilancia». Comunque, l’aristocrazia senatoria tracciò una linea di sbarramento, inducendo un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, a opporre il veto alla lettura della proposta. Gracco annunciò allora la sospensione generale di tutte le attività amministrative (iustitium). Di fronte alla plebs urbana schierata con Gracco, non ebbe effetto il rituale squalor dei senatori, che si vestirono a lutto. In seguito alle preghiere rivoltegli da due consolari, Gracco accettò di trattare ancora con i senatori. Ma il loro contegno duramente ostile rese impossibile il compromesso, e Gracco rifiutò ulteriori incontri. Per quanto la cultura politica di Roma repubblicana richiedesse, in caso di forti conflitti d’opinione, di fare concessioni reciproche per salvare la faccia e giungere a un accordo, Gracco non poté accondiscendere alle richieste eccessive dei senatori e ritirare la legge agraria, tanto più che la plebe ne aveva riconosciuto l’assoluta fondatezza. Quando Ottavio pose duramente il proprio voto, Gracco fece votare dall’assemblea popolare la sua destituzione dalla carica, poiché Ottavio, per quanto fosse tribuno della plebe, non agiva nell’interesse del popolo. Nel pensiero di Gracco, l’idea astratta della volontà popolare era al di sopra di tute le funzioni di controllo e di creazione del consenso che il tribunato della plebe aveva esercitato nei due secoli precedenti. Dopo che già diciassette delle trentacinque tribù ebbero votato per la destituzione di Ottavio, prima della lettura del voto decisivo, quello della diciottesima, Gracco chiese ancora una volta a Ottavio di ritirare il proprio veto. Come la cittadinanza riunita in assemblea giudicasse la destituzione, del tutto priva di precedenti e molto dubbia dal punto di vista costituzionale, di un regolare tribuno della plebe, si comprese facilmente a destituzione avvenuta, perché subito dopo cercò, pur vanamente, di linciarlo.
Giannino Castiglioni, Mensor romano intento all’utilizzo della groma per tracciare allineamenti ortogonali. Scultura, fusione di bronzo a cera persa, 1936-1937. Reggio Emilia, Museo della Civiltà Romana.
Nella commissione preposta all’applicazione della legge agraria, Gracco fece eleggere se stesso, suo fratello Gaio, allora impegnato come soldato nell’assedio di Numanzia, e suo suocero, Appio Claudio Pulcro. Il senato, però, negò alla commissione i fondi necessari. Più ancora, il suo lavoro fu impedito dalla mancanza di esatti rilievi catastali dei territori dell’Italia meridionale. Inoltre, spesso venivano spostate le pietre di confine, terreni sottoposti a diverso regime giuridico venivano confusi insieme, o ancora una porzione di agro pubblico era stata venduta, contro la legge, e i nuovi possessori non volevano restituirla. La commissione agraria fu subissata perciò di denunce. Vista la situazione, Gracco con una legge le affidò quindi anche l’arbitrato nei conflitti, e il ceto superiore perse così ogni voce in capitolo contro questa magistratura, che riuniva in sé la fase istruttoria e quella giurisdizionale.
Alla mancanza di fondi della commissione agraria venne poi in soccorso una circostanza favorevole e insperata: Attalo III, re di Pergamo, nel suo testamento lasciò in eredità il proprio regno ai Romani. Infatti, dopo la guerra di Perseo del 168, le continue vessazioni di Roma contro il regno di Pergamo avevano indotto Attalo ad affidarne la responsabilità direttamente ai Romani, dopo la sua morte (che avvenne poi nel 133). Gracco, proponendo per legge di utilizzare gli introiti provenienti dall’eredità di Pergamo per coprire le spese della legge agraria, sorpassò il senato nel suo ambito precipuo, la politica estera e finanziaria. Il senato rischiava perciò di essere messo ai margini dall’assemblea popolare. In seguito a questo attacco frontale, Gracco doveva aspettarsi, al termine della carica, di essere accusato davanti a un tribunale composto esclusivamente da senatori. Il suo rientro nei ranghi della nobilitas non pareva più possibile. Per evitare la fine della propria vicenda, non gli rimaneva che cercare di proseguire nella carica, restando in tal modo giuridicamente inattaccabile.
Quando, nell’estate del 133, si presentò per essere rieletto, molti dei suoi sostenitori, provenienti dalla campagna, non poterono essere presenti, perché era il pieno periodo della mietitura. Il pontifex maximusPublio Cornelio Scipione Nasica riunì allora un folto gruppo di senatori per cercare insieme la svolta decisiva. Diffusero quindi ad arte la voce per cui Gracco avrebbe in realtà mirato al regno, e si sarebbe già addirittura procurato il diadema regale di Attalo. Poi, infuriati, sempre con il sommo sacerdote in testa, assaltarono con i loro accoliti il Campidoglio, dove si svolgevano i comizi elettorali, e il popolino alla vista di tutti quei senatori armati di pietre e randelli arretrò. Due tribuni della plebe colpirono allora Gracco con una gamba di seggio; in totale persero la vita circa duecento Romani. Il cadavere di Gracco fu gettato poi nel Tevere, per impedire che si potesse identificare un luogo preciso dove ricordare e venerare la sua figura di martire politico. Nei mesi seguenti, molti dei suoi sostenitori vennero condannati a morte, senza possibilità di difesa.
L’uccisione di Tiberio Gracco. Illustrazione di Denis Gordeev.
Un assassinio nel cuore per definizione pacificato della repubblica, anzi addirittura nel centro religioso di Roma, rappresentava un salto di qualità, nella lotta politica. La particolare forma in cui si era manifestata la violenza dei senatori, che non avevano scelto la spada, come sarebbe stato nella consuetudine aristocratica, ma si erano presentati al popolo con armi come pietre e randelli, come se fossero stati essi stessi popolo, doveva far pensare a un tirannicidio.
Tiberio Gracco aveva mirato a sottrarsi al consueto controllo da parte degli appartenenti al suo ordine destituendo il suo collega, facendosi rieleggere e stabilendo l’inoppugnabilità delle decisioni della commissione agraria. Lo sfruttamento delle competenze proprie del tribunato della plebe aveva liberato l’enorme potenziale di questa magistratura, nato nella fase rivoluzionaria della sua fondazione, e aveva creato un precedente che apriva nuove, allettanti prospettive ai giovani aristocratici, in un’epoca di aspra concorrenza e di diminuite risorse.
Questa esplosione di violenza mostra chiaramente il pericolo a cui era esposto il sistema politico di Roma quando le complesse trattative all’interno del suo ceto dirigente venivano bloccate: entrambe le parti erano diventate rappresentative di grandi gruppi, e questo rendeva impossibile qualsiasi concessione, anche parziale. Il consolidamento degli interessi particolari divise la cittadinanza romana, e condusse infine a una sua duratura lacerazione. A tutta questa situazione, si aggiunse l’ambizione personale di Tiberio Gracco, che con la sua proposta clamorosa voleva compensare la perdita d’immagine seguita alle trattative per la capitolazione di Mancino. Soccombere allo strapotere dei nobiles avrebbe significato la fine della sua carriera politica. Secondo il giudizio di uno storico del mondo antico, Bernhard Linke, egli «finì in fuorigioco per la dinamica propria della sua disponibilità al rischio».
di M. PAPINI, Avere “occhi eruditi” a Roma. Arte greca – e sensi di colpa romani – nelle opere di Cicerone, in I giorni di Roma. L’età della conquista, Milano 2010, pp. 125-135).
70 a.C.: anno del clamoroso processo contro Gaio Verre, di famiglia non blasonata, il quale già nel compimento della sua legatio al seguito di C. Cornelio Dolabella nell’80 a.C. ad Atene aveva promosso lo scippo di gran quantità d’oro dal Partenone e in Asia aveva fatto man bassa di quadri e statue (Verrine, II 1, 45-50). Dopo la conclusione della propretura in Sicilia, conseguita nel 73 e prolungata fino al 71 a.C., varie città dell’isola, a causa delle sue plurime malversazioni, manifestarono contro di lui un furore tale da abbatterne le statue; il governatore venne così processato de pecuniis repetundis, per concussione, e Cicerone su richiesta dei Siciliani assunse il compito di accusatore. L’Actio prima iniziò il 5 agosto del 70 a.C., e, dopo un’interruzione dell’attività giudiziaria, la seconda fase fu rinviata alla metà di settembre; siccome Verre scelse la via dell’esilio volontario, all’eventuale rapida ripresa delle accuse seguì la sentenza che inflisse un’ammenda modesta all’imputato, il quale continuò a vivere tra le ricchezze a Marsiglia, dove però Antonio nel 43 a.C. lo fece proscrivere a causa del rifiuto di donargli i suoi bronzi corinzi (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 6). Al termine Cicerone redasse le Verrine, costituite dall’Actio prima e dalle cinque orazioni mai pronunciate dell’Actio secunda, ibrido tra una requisitoria e un’opera di finzione letteraria. Il quarto libro dell’Actio secunda, la De Signis, stigmatizza, in un folto dossier, le sottrazioni di opere d’arte perpetrate in Sicilia da Verre, descritto come un ignorante convinto di poter comprare tutto: un homo locuples, eruditus, sine ulla bona arte, sine humanitate, sine ingenio e sine litteris, con la pretesa di esprimere giudizi sottili e di essere il solo a intendere; peccato solo che il Graeculus di greco non sapesse neppure un parola (Verrine, II 4, 127). Così, schiavo di un’insana smania (morbus), egli derubò dei privati cittadini, Greci e Romani, e persino dei principi reali e non si fece scrupolo di carpire opere d’arte a città o a santuari circondati da profonda venerazione, senza distinguere tra privato e pubblico o profano e sacro (II 4, 2); in più, non sempre riuscì a esibire i libri contabili e a precisare le eventuali modalità d’acquisto, a differenza di generali vittoriosi come lo scrupoloso P. Servilio Vatia, console nel 79 e trionfatore nel 74 a.C., membro della giuria nel processo, il quale, sottomessa la regione dell’Isauria, annotò nei documenti pubblici numero, grandezza, aspetto e atteggiamento di tutte le statue fatte sfilare nel trionfo (II 1, 57). La scaltra argomentazione-narrazione di Cicerone, incline a mischiare il piano legale con le forti reazioni emotive dei derubati (II 4, 47; 106-115), si trasforma oggi anche in una preziosa fonte di informazioni sul frenetico mondo delle collezioni del I secolo a.C. e sulla coesistenza delle diverse valenze, non solo estetiche, veicolate da ogni opera d’arte; ad esempio, una statua di Apollo con su iscritto sulla coscia il nome di Mirone per gli Agrigentini costituiva allo stesso tempo un dono di un generale romano, un oggetto legato al culto della loro comunità, un ornamento urbano, una testimonianza di un evento vittorioso e una prova dell’alleanza con i Romani (II 4, 93). Ma Cicerone prende di mira soprattutto l’inosservanza della sanctitas e della religio da parte di Verre a causa del furto di antichi manufatti trasmessi dagli antenati, preoccupazione del resto ben avvertita in occasione del trasferimento di bottini di guerra, quando il Senato esortava il collegio dei pontefici a determinare la categoria di appartenenza di signa o altri ornamenta (sacra o profana: Livio, XXVI 34, 12; XXXVIII 44, 5). Un esempio: i due principi reali di Siria, i fratelli Antioco e Seleuco, di passaggio dalla Sicilia, non avevano ancora potuto dedicare in Campidoglio, come nelle loro intenzioni, un magnifico candelabro tempestato di gemme, perché il tempio di Giove Ottimo Massimo, dopo un incendio dell’83 a.C., non aveva ancora finito; e di quel manufatto, un dono votivo in potenza da loro consacrato già mente et cogitatione, Verre, spacciandosi per un ospite dai tratti signorili, riuscì ad appropriarsi, con il pretesto di volerlo esaminare (Verrine, II 4, 61-68).
Eros (o Thanatos). Statua, marmo pario, copia romana del II secolo d.C. da un originale di Prassitele. Roma, Musei Capitolini.
A Messina, città favorevole al governatore, risiedeva una delle sue vittime più illustri, il ricco Gaio Eio, individuo pieno di humanitas, pietas e religio, che al dibattito partecipò nella duplice veste di privato e capo-delegazione per la laudatio dell’accusato (II 4, 3-18). La sua casa, accessibile ai visitatori per tutto l’anno, costituiva un vanto per la città, tanto che i visitatori (compresi i magistrati romani) godevano del libero accesso alla raccolta fatta di splendide statue greche, ereditate dagli antenati, che egli poteva prestare: infatti, C. Claudio Pulcro durante la sua edilità curule nel 99 a.C. ottenne per pochi giorni un Cupido in marmo di Prassitele per adornare il Foro a Roma in onore degli dèi e del popolo (modo per aumentare la magnificentia degli spettacoli e per raccomandarsi le tappe future del cursus honorum), ma fu puntuale nel restituirlo. Nell’abitazione di Eio un sacrarium ospitava da una parte l’opera di Prassitele appena citata e dall’altra un Ercole in bronzo egregie factus attribuito a Mirone; due altarini davanti davano un tocco di sacralità a un impianto altrimenti più somigliante a un “museo” in miniatura; inoltre, di due Canefore, statue in bronzo, di modeste proporzioni ma eximia venustate, sostenenti sul capo un canestro con qualche oggetto sacro non meglio determinato, si sbandierava l’attribuzione a Policleto: tutti artisti di primissimo ordine – ma attenzione ai falsi! – , che consentono di istituire un parallelo con la Casa di Hermes a Delo, della seconda metà del II secolo a.C., ospitante in un vano una statua perduta di cui si conserva solo la base con la firma di Prassitele, ritenuta di fatto riferibile al IV secolo a.C. Verre dalla cappella tutti trafugò, salvo una statua lignea molto antica forse della dea Buona Fortuna, lì lasciata o perché meno stimata o per dare la parvenza di non voler eccedere nei sacrilegi: a ogni modo, è l’unica per la quale Cicerone non nomina l’artefice. Ebbene, obietta un interlocutore fittizio, Eio si lasciò sedurre da una somma elevata, ma Cicerone non ci sta e replica: le statue, come riscontrabile sui registri, furono sì vendute per seimilacinquecento sesterzi, cifra però tanto ridicola per simili capolavori da far fiutare una simulatio emptionis. Insomma, Eio non vendette le sue preziose statue volontariamente, confidava lo stesso Mamertino, indifferente al denaro e ai manufatti solo ornamentali (le Canefore): ma i simulacri degli dèi, quelli sì, egli li rivoleva assolutamente indietro.
E a che servivano le rapine? Per ornare non i monumenti pubblici, bensì le residenze di Verre, spettacolo sgradevole e non raro, purtroppo, in tempi in cui ormai «[…] l’intera Asia e l’Acaia e la Grecia e la Sicilia si sono raccolte negli spazi interni di un ristretto numero di ville» (Verrine, II 5, 127). Così due statue un tempo collocate davanti ai battenti del tempio di Hera a Samo erano finite nell’atrio, il luogo di presentazione delle virtù ancestrali, della sua domus (II 1, 61), altresì un tempo stracolma di sculture davanti alle colonne, tra gli intercolumni dei portici e in una silva (II 1, 50-51); alcune poi le aveva affidate in deposito ad amici e altre ancora offerte in dono (II 4, 36), tenue indizio da moderni commentatori considerato, assieme ad altri (produzione di vasi e tessuti preziosi realizzati in appositi laboratori), rivelatore di una presunta natura almeno in parte mercantile dell’attività di Verre quale art dealer, saltuariamente insultato da Cicerone con metafore del genere mercator cum imperio (II 4, 8; si vd. anche II 1, 60). Eppure, se così davvero fosse stato, l’Arpinate non avrebbe mancato di farne denuncia più esplicita, stante il suo punto di vista in genere polemico nei confronti della magna mercatura; più naturale, quindi, che Verre si fosse avvalso delle spoliazioni anche alla stregua di un’arma politica per procacciarsi una fitta rete di amici e familiarissimi in seno alla nobilitas: si sa, ad esempio, che nel 75 a.C. prestò statue e dipinti proprio al suo futuro difensore, Q. Ortensio Ortalo, per la celebrazione della sua edilità mediante l’abbellimento del Foro e del Comizio (II 1, 58); e quest’ultimo ricevette dal suo cliente una preziosa sfinge in bronzo (corinzio?), alla quale fu tanto legato da portarla sempre con sé in viaggio (Plinio, XXXIV 48; Quintiliano, Institutio oratoria, VI 3, 98; per Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 8, la sfinge, d’avorio, la ottenne come compenso per il suo intervento durante la discussione in cui si fissò l’ammenda; si vd. anche Plutarco, Moralia, 205b).
Danzatrice. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.
Per ingigantire gli indecorosi abusi di Verre Cicerone usa – e “costruisce” – dei modelli positivi attinti a un passato idealizzato, visto l’irreversibile deterioramento nel presente dell’immagine della classe politica. Spicca M. Claudio Marcello (Verrine, II 4, 115-121), conquistatore di Siracusa nel 212 a.C., la più grande e più bella di tutte le città greche. Secondo la storiografia antica l’impresa, inscrivibile nella cornice delle dispute per il prestigio tra imperatores impegnati a sfidarsi a suon di bottini di guerra sempre più fantasmagorici, sancì una svolta con la quale l’ammirazione per le arti greche si impose grazie all’importazione in massa di signa e tabulae (donde iniziò la pessima abitudine di spogliare sacra e profana che finì per rivolgersi contro gli stessi dèi romani: Livio, XXV 40, 2-3). Plutarco (Vita di Marcello, 21) schizza un quadro affascinante di Roma come città rude e primitiva, piena di armi barbare e trofei, incapace di offrire uno spettacolo gioioso o tranquillo, un «sacro recinto del bellicosissimo Ares» per dirla con le parole di Pindaro (Pitiche, 2, 1); meno male che Marcello ingentilì l’Urbe con opere che procuravano piacere alla vista e sprigionavano bellezza (ēdonḗ) e fascino (cháris) greco; tuttavia, i più anziani, dalla mentalità conservatrice, preferivano la condotta moderata di Q. Fabio Massimo, vincitore su Taranto, che nel 209 a.C. si appagò di confiscare ricchezze e tesori e pronunciò le famose parole, da non prendere però alla lettera: «Lasciamo ai Tarantini questi dèi irritati». Sempre Plutarco fa rivivere la reazione del popolo, che, dimentico della propria indole guerriera, prese a trascorrere intere giornate immerso in discussioni su arti e artisti, dal che l’«eroe filelleno» Marcello si gloriò persino davanti ai Greci (!), fiero di avere insegnato ai Romani a onorare e ammirare le loro belle opere. Forse una storiella congegnata a distanza di tempo, ma che quei capi militari del II secolo a.C. ne subissero l’attrazione anche artistica è mostrato dal fatto che essi talvolta portarono con sé artifices dall’Asia Minore o dalla Grecia (come L. Cornelio Scipione Asiageno o M. Fulvio Nubiliore: Livio, XXXIX 22, 10; 22, 2). In modo significativo gran parte dei tesori siracusani fu destinata a ornare un santuario presso Porta Capena con due templi gemelli affiancati, votato dallo stesso Marcello nel 222 a.C. e visitato dagli stranieri proprio per l’excellentia dei suoi ornamenta, di cui però poco restava quasi due secoli dopo, ai giorni di Livio (XXV 40, 3): l’aedes Honoris et Virtutis, personificazioni di concetti cardinali, per cui le opere trafugate concorsero anche a glorificare la religione e il potere di Roma. La loro importazione non fu però indolore perché finì al centro della discussione intorno alla data di inizio della corruzione dei costumi romani, derivante dalla progressiva espansione dell’Impero secondo le ricostruzioni moralistiche di quegli eventi. Polibio (IX 10), su base però pragmatica, rimprovera ai Romani di aver tradito i principi di semplicità e compiuto un errore tattico nell’abbandonare le usanze dei vincitori per imitare i gusti dei vinti, attirandosi così sul lungo periodo il loro odio, e per cosa poi? Per prede belliche che non aggiungevano alcun lustro, anche se, continua lo storico, almeno la loro distribuzione nella specifica occasione risultò appropriata, perché gli oggetti strappati a private dimore a Roma finirono in proprietà privata, mentre gli ornamenti pubblici divennero possesso statale. Le opere siracusane vengono definite infesta signa in un discorso del 195 a.C. posto da Livio (XXXIV 4, 3-4) sulle labbra dell’arcigno difensore del mos maiorum del II secolo a.C., il celebre censore del 184 a.C., M. Porcio Catone, che sempre in quell’occasione mise in guardia dai troppi lodatori degli ornamenta di Corinto e Atene a spese delle antefisse fittili degli dèi romani, dopo aver espresso il timore che le attrattive della dissolutezza incontrate in Grecia e in Asia e i tesori regali conquistassero i Romani piuttosto che essere da loro conquistati (ma davvero si espresse con queste precise parole?). A depurare comunque l’immagine di Marcello dei tratti più scomodi provvede già Cicerone, secondo il quale egli si astenne da appropriazioni indebite a uso privato e trattò Siracusa con humanitas, senza spogliarla del tutto e senza compiere scelleratezze contro le divinità. Quale differenza da Verre, che dalla cella del locale Athenaion depredò una pugna equestris del re Agatocle (305-289 a.C.) dipinta su parecchie tabulae, non toccate da Marcello, religione impeditus, che tuttavia con la sua vittoria rese tutte le cose profana; di lì rubò anche una galleria di altri ventisette quadri con ritratti di re e tiranni della Sicilia, ammirati non solo per la maestria dei pittori, ma anche perché facevano conoscere l’aspetto e rinfrescavano il ricordo di quelle figure storiche; infine, dai battenti del tempio asportò degli stupendi soggetti cesellati in avorio e staccò finanche parecchie borchie d’oro, attratto dal peso; ecco messo a nudo il suo interesse per i valori non solo artistici ma anche venali dei manufatti. Risultato: a Siracusa una volta le guide additavano le principali opere in ciascun luogo; dopo Verre non potevano che mostrare cosa era stato portato via (Verrine, II 4, 132).
Sileno. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.
In contrasto con la sua libido Cicerone adduce poi la temperantia e l’intelligentia del distruttore di Cartagine del 146 a.C., P. Cornelio Scipione Emiliano, homo doctissimus e humanissimus, che invitò proprio gli ambasciatori delle città siciliane a identificare tra le opere d’arte confiscate quelle loro sottratte nel passato dagli stessi Cartaginesi, perché capì che siffatta bellezza fu concepita non per il lusso degli uomini, ma per l’ornamento di santuari e città (II 4, 98). E Verre invece? A Engio osò sottrarre da un santuario le offerte di quel benefattore e a Segesta rimosse dapprima una maestosa statua bronzea di Diana, lì meta di pellegrinaggio da parte dei forestieri, e in un secondo momento, per oscurare la vicenda, anche il suo alto piedistallo con l’iscrizione recante a grandi carattere sempre il nome del condottiero (II 4, 72-83).
Stesso anno decisivo per il crollo dei costumi (Plinio, XXXIII 150), ma altro conquistatore: il ferus L. Mummio, vincitore di Corinto, che dall’Acaia riportò un immane bottino e secondo un filone deformante della tradizione storiografica peccò d’ignoranza sprezzante verso l’arte. Stando a Cicerone, a Tespie in Beozia l’Eros di Prassitele, un’attrazione turistica e persino l’unico motivo per recarsi in quella città, egli non lo toccò perché consecratus (ma più avanti nel tempo ci pensarono altri Romani, tra cui prima Caligola e poi Nerone, ad arraffarlo). Di Mummio Plinio esalta altresì l’abstinentia per aver riempito Roma di statue senza tenerle per sé, tanto da lasciare senza dote la figlia (XXXIV 36); e inoltre egli fu il primo a conferire auctoritas ai quadri stranieri a Roma, il che fu degno di lode perché avvenuto nel contesto pubblico (XXXV 24), attraverso la collocazione di una tabula di Aristide, pittore tebano della seconda metà del IV secolo a.C., nel tempio di Cerere: ennesima riprova dell’intreccio arte-religione, tanto più che molti oggetti paiono di grande valore solo per il fatto di essere consacrati nei templi, dichiara sempre Plinio (praef. 19)!
In breve, un conto fu la publica magnificentia, irrinunciabile, un altro la privata luxuria, tanto insopportabile (a parole) quanto inarrestabile, sfere che la classe dirigente tentò disperatamente, ma invano, di bilanciare: la crisi del sistema fu solo ritardata, vista l’artificiosità della contrapposizione, in quanto dopotutto i vizi si diffondono al meglio proprio tramite la via pubblica (Plinio, XXXVI 5). La dissipazione e lo spreco innescati dall’aumento di ricchezza sociale inocularono nei precari equilibri interni della res publica un veleno mortale, cui già Catone provò a tener testa in diversi discorsi, noti in frammenti, che, nel condannare non l’arte greca in blocco ma i suoi usi più eversivi, trattano del lusso abitativo, del buon uso e delle legittime modalità di acquisizione delle prede belliche e della mania di esporre nelle abitazioni le statue di divinità quale suppellettile; e l’ultima apprensione non perse d’attualità negli ultimi decenni del I secolo a.C., allorché M. Vipsanio Agrippa tenne una stupenda orazione intorno alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i signa e le tabulae senza «condannarli all’esilio» nelle ville (Plinio, XXXV 26).
Fortuna huiusce diei. Testa colossale, marmo, 101 a.C. dal Tempio ‘B’ di Largo Torre Argentina. Roma, Centrale Montemartini.
Per Cicerone (Verrine, II 4, 126) chi desiderava contemplare opere d’arte di alto livello poteva visitare monumenti pubblici come: il tempio di Felicitas, votato durante la campagna militare di Spagna del 151 a.C. e costruito dopo il 146 a.C. da L. Licinio Lucullo, il quale per l’inaugurazione si fece prestare le statue da L. Mummio senza ridarle però indietro, con il pretesto che ormai erano sacre e appartenevano agli dèi – e Mummio, soprassedendo, si guadagnò una reputazione migliore: Strabone, VIII 6, 23; Cassio Dione, XXII 76, 2; il tempio della Fortuna huiusce diei, votato nel 101 a.C. dopo la vittoria sui Cimbri da Q. Lutazio Catulo, presso il quale si trovavano un’Atena e due signa palliata nientemeno che di Fidia; la porticus di Q. Cecilio Metello Macedonico, iniziata nel 146 a.C. dopo il trionfo sulla Macedonia e ospitante la turma Alexandri, asportata dal santuario di Zeus a Dion. Ma Cicerone deve anche riconoscere come per vedere i capolavori occorresse darsi da fare per essere ammessi nelle ricche ville dei signori di Tusculum, seppur con seguente riflessione: la passione di signa e tabulae viene invero meglio soddisfatta dalle persone di ceto modesto rispetto a chi ne possiede un gran numero; difatti, nella capitale la sfera pubblica abbonda di opere di ogni sorta, mentre chi le tiene segregate in ambito privato anzitutto non può averne così tante sotto gli occhi e per di più le riesce a vedere di rado, solo recandosi nella propria residenza rurale; infine, i privati inevitabilmente provano qualche rimorso (quos tamen pungit aliquid) non appena si rammentano come se le sono procurate (Tuscolane, V 102).
In breve, arduo separare pubblico e privato. Poteva così capitare che una statua finisse coinvolta in un’oscillazione continua tra i due poli, come un Ercole tunicato presso i Rostri del Foro, di cui ben tre iscrizioni consentivano di ricostruire la storia (Plinio, XXXIV 93): la prima «dal bottino del generale Lucullo» ne segnalava lo status di preda di guerra del ricchissimo trionfatore del 63 a.C., L. Licinio Lucullo (le manubiae, in proprietà pubblica, potevano essere controllate, ma senza abusarne, dai generali); la seconda «il figlio minorenne di Lucullo (M. Licinio Lucullo) l’ha dedicata per decreto del Senato» si riferiva a una sua pubblica dedicatio tra 56 e 49 a.C.; la terza «Tito Settimio Sabino edile curule restituì al pubblico dominio la statua già proprietà privata» ne implicava un ritorno al pubblico – nel 30 a.C.? – dopo un interludio privato. Non solo statue però: quattro colonne in marmo luculleo, alte circa 11, 24 metri, utilizzate per un teatro provvisorio allestito da M. Emilio Scauro, furono reimpiegate nell’atrio tetrastilo della sua enorme dimora in Palatio (Plinio, XXXVI 6) per poi essere collocate da Augusto in regia theatri del teatro di Marcello (Asconio, In Scaurianam, 45).
Il cosiddetto Tempio ‘B’ dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. alla Fortuna huiusce diei, in Largo Torre Argentina, Roma.
Torniamo a Verre, bramoso anche di manufatti di pregio, ancor più tipici della privata luxuria. Egli razziò drappi attalici (stoffe tessute con filigrana d’oro, un’invenzione asiatica), anelli d’oro e una grande tavola di cedro (mensa citrea); Plinio (XIII 92) tramanda però come lo stesso Cicerone pagò per un’analoga mensa cinquecentomila sesterzi, cifra tanto più sorprendente sullo sfondo della sua personale situazione economica non ottimale. L’appetito insaziabile del governatore fu poi solleticato dal vasellame prezioso e dalle argenterie cesellate o decorate da rilievi, talora funzionali a sacrifici: ormai da tempo era tramontata la verecundia, il pudore di comprare siffatti articoli nelle vendite pubbliche di beni regali, fine con precisione databile per Plinio (XXXIII 149) nel 132 a.C., quando Attalo III di Pergamo lasciò in eredità il regno (e tesori annessi) ai Romani, che cominciarono per loro sventura ad amare l’opulenza straniera; e ancora più lontani i giorni in cui si poteva essere estromessi dal Senato per il possesso di dieci libbre di vasellame d’argento, come accaduto nel 275 a.C. a P. Cornelio Rufino (Valerio Massimo, II 9, 4). A ogni modo, se essere esperti di argenterie equivaleva per Cicerone a trastullo (Verrine, II 4, 33), tuttavia, nota il grande erudito del I secolo a.C., M. Terenzio Varrone (De lingua Latina, VIII 16, 31), rientrava ormai anche nelle precipue qualità dell’humanitas la voglia di non avere solo servizi soltanto utili al cibo, ma anche roba bella e artistica: per un uomo assetato basta un bicchiere qualsiasi, per un uomo raffinato no, se non è bello. Il problema si poneva però quando si oltrepassava il limite del necessario.
Verre sguinzagliò ovunque due autentici cani da caccia, i fratelli Tlepolemo e Gerone, un modellatore in cera e un pittore da Cibira in Frigia, già conosciuti durante la permanenza in Asia, e arraffò, ad esempio, delle falere appartenute al tiranno di Siracusa Gerone II (270-216 a.C.), una pesante idria cesellata di Boethos, toreuta greco del III o II secolo a.C. (quale tra i diversi artisti conosciuti con tal nome?), dei bicchieri d’argento terminanti con una testina di cavallo e gli immancabili e ambitissimi vasi corinzi, dei quali era l’unico, osserva Cicerone, in grado di penetrare i segreti della composizione (Verrine, II 4, 98; a distanza di circa un secolo un altro “competente”, Trimalchione, andrà orgoglioso di conoscerne l’origine, ma in modo ridicolo: Petronio, Satyricon, 50): infatti, l’epiteto Corinthius applicato a vasi, statue e oggetti di altra sorta fu un marchio d’eccellenza in grado persino di infiammare il furor dei raffinati intenditori, tanto da essere di norma associato nei discorsi moralistici alla dismisura e al lusso (si legga però la puntualizzazione di Plinio (XXXIV 6) a proposito della lega corinzia, determinatasi per caso – si raccontava – in occasione dell’incendio di Corinto nel 146 a.C.).
Alessandro a cavallo. Statuetta, bronzo, II-I secolo a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Verre bramò poi, senza neppure averle viste, delle tazze fabbricate da Mentore, il più famoso cesellatore greco della prima metà del IV secolo a.C., del quale si diceva avesse fatto solo quattro paia di vasi (Plinio, XXXIII 154), quantunque a Roma specie nel I secolo d.C. circolassero parecchie sue opere – dei falsi? – con quotazioni stratosferiche; già alla fine del II secolo a.C. dall’oratore L. Licinio Crasso furono acquistate per centomila sesterzi due sue coppe d’argento, di cui mai osò servirsi proprio per la verecundia (Plinio, XXXIII 147): prima l’acquisto e poi il non uso, bel modo per non sporcarsi la coscienza; e con i suoi tanti triclinia aerata (Plinio, XXXIV 14), letti con appliques in bronzo, che fece? Senz’altro non si fece scrupolo ad usarli.
In assenza di vasi vistosi Verre si accontentò di spiantare i rilievi incastonati nei turiboli o nei piatti e nelle coppe per banchetti, oggetti antiquo opere e summo artificio (Verrine, II 4, 46-49; 52): così stavolta volle mostrare interesse per il valore artistico degli oggetti, non per l’argento, commenta, con sarcasmo, Cicerone. Eppure, la raccolta di tanti fregi uno scopo l’ebbe (II 4, 54). Infatti, egli impiantò un grande laboratorio nell’ex palazzo reale di Siracusa, dove raccolse e rinchiuse per otto mesi parecchi cesellatori ed esperti nella fabbricazione di vasi preziosi; essi, senza fermarsi, crearono moltissimi vasi d’oro, ben superiori al bisogno personale, ai quali furono applicati i vecchi rilievi, con precisione e abilità tali da dare l’impressione che fossero stati persino concepiti per quella destinazione. A qual fine tali pasticci? Senz’altro non per dissimularne la provenienza, ma per possedere manufatti ancor più lussuosi rispetto allo stadio iniziale! Come se non bastasse, allo stesso governatore piacque trascorrere la maggior parte della giornata in officina, indossando vesti indegne di un magistrato romano, una tunica scura di lana grezza (da schiavo/operaio) e un mantello di tipo greco, il pallium; è lampante il suo atteggiarsi alla maniera di un sovrano ellenistico, come Alessandro Magno, habitué della bottega del grande pittore Apelle (Plinio, XXXV 85), o Antioco IV, avvezzo a discutere con toreuti e altri artigiani di questioni tecniche (Polibio, XXVI 1).
Nella presentazione di Cicerone Verre è in fin dei conti un collezionista squilibrato e un po’ spaccone, infervorato di sculture e manufatti di notevole antichità, di forte valore commemorativo e/o di grandi artisti, senza cura per la loro provenienza, arrogandosi qualità d’intenditore. E Cicerone? Va premesso che per lui sono i Greci a nutrire, al di là dello zelo religioso, un’incredibile passione per oggetti invece insignificanti agli occhi dei Romani, i cui antenati, anzi, con magnanimità, permisero di tenere presso di sé le opere d’arte agli alleati quali garanzia di una vita il più possibile prospera e ai tributari (vectigalii e stipendiarii) come oblectamenta e come solacia servitutis (fonti di piacere e sollievo nella condizione di subalternità: Verrine, II 4, 134): benché le cose non stessero esattamente così, in gioco erano questioni di identità nazionale.
Satiro ebbro. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’Arpinate descrive le statue in modo succinto, con un ventaglio di aggettivi ripetitivi che ne esaltano le qualità (egregius, elegans, nobilis, optimus, perfectus, praeclarus, pulcherrimus, singularis, eximia venustate, summo artificio e così via): nessun stupore, è un’orazione, non un trattato d’arte. Tuttavia, egli sa stabilire dei confronti sulla base di species, forma e pulchritudo tra diverse opere (Verrine, II 4, 129-130), anche perché ne ha visto un gran numero, benché ciò non lo abbia aiutato a farne un intenditore raffinato, e riesce a distinguere tra loro pregi o difetti, capacità in fondo obbediente a una sorta di istinto inconscio: gli uomini, infatti, possono giudicare pitture e statue, ancorché per natura forniti di un numero limitato di strumenti per la loro comprensione (intelligentia: De oratore, III 90, 195). A più riprese egli si compiace nel negare una competenza in materia, in quanto profano, idiota (Verrine, II 4, 4), strategia in parte strettamente funzionale al processo, perché si rivolge a un pubblico ancora diffidente di un’eccessiva considerazione fine a se stessa dell’arte greca, e dissimulatio volta ad accrescere per contrasto il prestigio della propria gravitas. A proposito delle statue nel sacrarium di Eio si meraviglia di avere imparato i nomi degli artisti durante la raccolta delle prove e si industria a tradire qualche impaccio nelle attribuzioni, anche quando sicure! Così si chiede per le Canefore: l’artista che le ha fatte, chi era? Risposta: ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto. Certo, uno stratagemma volto a fingere una non praeparata oratio (Quintiliano, IX 2, 61); ma, al di là degli artifici oratori, Cicerone, pur al corrente delle valutazioni delle opere d’arte sul mercato, con la misura del loro valore proporzionale alla libido nutrita per esse, non rientrava affatto nella schiera dei fanatici studiosi, intellegentes o elegantes che del collezionismo facevano il loro unico scopo di vita. In breve: nel campo delle arti figurative egli non è né competente né ignorante, la sua è un’attitudine non da peritus ma da “dilettante”, conscio del piacere da esse suscitato, che però può pericolosamente trasformarsi in un intrattenimento privo di utilitas. Un parallelo si può istituire per certi versi con il rapporto ambivalente con la cultura greca, distintivo secondo Cicerone dei suoi maestri, gli oratori L. Licinio Crasso e Marco Antonio, ben coscienti delle insidie del bilinguismo, positivo solo se sfruttato al fine dell’affermazione della romanità e non per una sua mera assimilazione alla grecità: l’uno, esperto di greco, voleva comunque dare l’impressione di disprezzare i Greci a favore della saggezza dei concittadini, mentre l’altro addirittura ne negava la conoscenza, malgrado si fosse tanto appassionato a dotti dibattiti durante una permanenza ad Atene e a Rodi (De oratore, II 1, 3-4).
Come si comportò l’Arpinate nell’ornamento delle sue ville (ben sette ne possedette, oltre a quella di Arpino ereditata dal padre)? Esse solo in parte continuarono a essere dotate di parti funzionali alla produzione e rappresentarono soprattutto luoghi di un otium raffinato e propizio alla studio o rifugi in periodi di dolore o forzato allontanamento dall’impegno pubblico: uno spazio esistenziale alternativo ai negotia della burrascosa arena politica, impossibile però da lasciarsi del tutto alle spalle, tanto più se lì tendevano comunque a riversarsi masse di clienti (ad Atticum, II 14, 2; V 2, 2). Dimore e ville lussuose con l’indebolimento dell’autorità senatoria e con l’espansione della sfera dell’otium si ridussero sempre più a simboli di affermazione personale, tanto che i senatori, come poté rimarcare Catone Uticense durante un dibattito sulla pena da applicare ai complici di Catilina, le avevano sempre apprezzate, insieme ai signa e alle tabulae, persino più del bene della Repubblica (Sallustio, De Catilinae coniuratione, 52, 5). La profusione di spese sfociò così in una gara sfrenata, cui solo gli incendi per fortuna potevano porre un limite: ad esempio, se nel 78 a.C. non v’era abitazione più bella di quella di Marco Lepido, nel giro di soli trentacinque anni nella graduatoria delle case più sontuose essa era scesa persino sotto il centesimo posto, tanto si erano incrementate le spese regali, la quantità dei marmi e le opere dei pittori (Plinio, XXXVI 109-110). Nell’opera De officiis (I 39, 139-140), scritta proprio ai giorni del boom del lusso (44 a.C.), nel momento del profondo rinnovamento delle residenze del Palatino ben tangibile anche nella documentazione archeologica, Cicerone al riguardo dell’aedificatio privata giustifica il bisogno di una casa di rappresentanza all’altezza della dignitas e di un homo honoratus et princeps e dunque abbastanza ampia per accogliere ospiti e clienti, ma senza troppo sfarzo, nel rispetto della giusta misura, e fa appello al senso di responsabilità dei principes civitatis, chiamati a fornire un simile modello per gli altri, cavalieri o liberti, che tendono a imitarli (si vd. anche De legibus, III 13, 30-31), in ossequio a un modello di etica sociale poi assimilato dall’ideologia augustea. A ogni modo, alla luce delle condizioni di generale agiatezza e delle possibilità di “bella vita”, era in fondo inutile continuare a riproporre l’antica virtù della più rigida continenza, ormai anacronistica e introvabile persino nelle carte, se non in quelle ingiallite, e la realtà, seppur intrisa di vizio, consentiva comunque delle scelte positive e graduate, senza dover rendersi insensibili ai piaceri: questa la constatazione di Cicerone nella cornice di una nuova e disinvolta “proposta educativa” per la gioventù esposta nel 56 a.C. (Pro M. Caelio, 40).
Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Ed egli come si regolò per par suo? L’abitazione urbana, acquisita alla fine del 62 a.C., gli costò la somma di tre milioni e mezzo di sesterzi, spesa esorbitante ma necessaria per dare visibilità allo status raggiunto – fu eletto console nel 63 a.C. – , mentre una domus davvero contrassegnata da mediocritas sul Quirinale e un po’ demodé la possedette piuttosto l’amico T. Pomponio Attico, che, malgrado il cospicuo patrimonio, si distinse più per il buon gusto e disprezzò falsi beni come pavimenti marmorei o soffitti a cassettoni (De legibus, II 1, 2): non a caso, egli, elegans, non magnificus, splendidus, non sumptuosus (Cornelio Nepote, Vita Attici, 13, 5), non fu un membro della nobilitas e si astenne dalla vita politica attiva, stomacato dalle sue degenerazioni.
La casa a due piani di Cicerone si trovava sulla pendice settentrionale del Palatino, verso le Carinae, in un’area vicinissima al Foro e naturalmente in bella vista (in conspectu prope totius urbis), esigenza, questa, avvertita dai domini a tal punto che M. Livio Druso nei primi anni del I secolo a.C. pretese una dimora parimenti in Palatio edificata in maniera tale che tutti potessero vedere quello che il proprietario svolgeva all’interno, contrariamente ai progetti iniziali dell’architetto (Velleio Patercolo, 2, 14). L’abitazione dell’Arpinate possedeva una palaestra (ad Atticum, II 4, 7), un’ambulatio, un laconicum (quest’ultimo ambiente adibito al bagno secco tipico della palestra: ad Atticum, IV 10, 2) e horti (ad Quintum fratrem, III 1, 14); le ultime tre componenti sono assicurate almeno a partire dalla restituzione sotto forma di villa urbana, seguita al saccheggio e alla demolizione di una sua parte a opera del vicino, l’avventuriero P. Clodio Pulcro, il quale, approfittando dell’esilio di Cicerone nel 58 a.C., volle allargarsi per abitare alla grande e superare laxitate et dignitate le domus di tutti gli altri (Pro domo sua, 116); e lo stesso Pulcro comprò poi nel 52 a.C. anche la già citata casa sul Palatino di M. Emilio Scauro per la cifra record di quattordici milioni e ottocentomila sesterzi (Plinio, XXXVI 103).
Dall’epistolario tra il 68 e il 65 a.C. con Attico, di stanza ad Atene, si apprendono parecchi dettagli sull’acquisizione di opere d’arte per la villa prediletta, comperata da Cicerone nel 68 a.C. e già appartenuta a Silla, a L. Lutazio Catulo, console del 78 a.C., e a L. Vettio, in quella Tusculum piena di palazzi “regali” (Strabone, V 3, 12) dove egli ama ambientare i propri dialoghi, ma dove c’era da competere con parecchi principes civitatis, amanti particolarmente della pittura. Per eccitare la plebe, nel 67 a.C. il tribuno A. Gabinio in contionibus si servì a mo’ di aiuto visuale di una pittura a illustrazione dei fasti della villa di L. Licinio Lucullo (Pro P. Sexto, 93; peccato però che quella in costruzione dello stesso Gabinio risultasse talmente grande da farla apparire come un tugurium); Lucullo fu comunque uno dei maggiori collezionisti di quadri tanto da avere acquistato ad Atene per due talenti la copia di un’opera, La venditrice di ghirlande, del pittore greco del IV secolo a.C., Pausia di Sicione (Plinio, XXXV 125). Il già citato oratore Ortensio nella propria villa di Tusculum intorno a una tabula di un altro pittore sempre del IV secolo a.C., Cidia, rappresentante gli Argonauti e pagata centocinquantaquattomila sesterzi, fece costruire un tempietto (Plinio, XXXV 130); e sempre Ortensio nel 55 a.C. dissuase Pompeo e Crasso, promotori di una lex sumptuaria, dall’aprire una contraddizione tra la proposta e il loro tenore di vita (Cassio Dione, XXXIX 37, 2). Infine, nella villa tuscolana di M. Emilio Scauro furono portati tutti gli oggetti rimasti della decorazione del teatro provvisorio – perché destinato a durare un solo mese – montato nel 58 a.C. durante la sua edilità, nel quale esibì tremila statue di bronzo tra trecentosessanta colonne di una scena a tre piani, stoffe attaliche, dipinti e altri arredi; e quando gli schiavi in rivolta la bruciarono, se ne andarono in fumo trenta milioni di sesterzi (Plinio, XXXVI 115-116); plausibile che diversi quadri fossero stati da lui comprati a Sicione, la patria della pittura, costretta a vendere all’asta tutte le tabulae del patrimonio pubblico per riscattare un debito (Plinio, XXXV 127).
Un esemplare dalla coppia dei “Corridori”. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Frattanto, mentre le residenze brillavano sempre più dei colori delle tabulae greche, che succedeva alla Repubblica? Si stava perdendo, proprio come un dipinto antico, di cui non ci si preoccupava di ravvivare né le tinte originarie né il disegno né le linee di contorno (Cicerone, De re publica, V 1).
Per il proprio Tusculanum l’Arpinate allestì delle installazioni battezzate con nomi greci evocativi dell’universo del ginnasio, tra cui uno xystus (quest’ultimo nell’accezione romana un ambulacro scoperto, mentre secondo la denominazione greca era un portico per le esercitazioni degli atleti durante l’inverno: Vitruvio, VI 7, 5), il Lyceum con annessa biblioteca e, su una terrazza più bassa, l’Academia: le ultime due dovevano consistere in peristili, lunghi porticati con un vasto giardino, ben adatti per lo svolgimento di conversazioni filosofiche e letterarie. Si delinea insomma il quadro quasi di una villa philosopha a rimprovero dell’insania di altre ville, per parafrasare le parole dello stesso Cicerone relative a quella del fratello Quinto a Laterium, non priva però di piacevoli abbellimenti, come le statue di palliati che tra gli intercolumni sembravano fare i giardinieri e vendere l’edera sparsa ovunque dal decoratore del giardino (ad Quintum fratrem, III 21, 5: 54 a.C.). Al desiderio del recupero dei simboli della tradizione culturale greca contribuì anche l’amore di Cicerone per Atene – la Grecia allo stato puro –, dove ebbe modo di risiedere per sei mesi durante un viaggio d’istruzione del 78-79 a.C., come dimostra il suo progetto di realizzarvi poi qualche monumentum, tanto da proporre la costruzione di un propylon per l’Accademia (ad Atticum, VI 1, 26); e siccome i suoi posti un tempo frequentati da illustri e ammirati ingegni costituivano dei luoghi di memoria colmi di una vis admonitionis stimolante la loro imitazione e non una pretta curiosità antiquaria, se ne comprende il perché dell’evocativo e virtuale “trapianto” all’interno degli spazi romani, dove si poteva persino “imitare” la letteratura. Infatti, nel De oratore di Cicerone composto nel 55 a.C. e ambientato nel Tusculanum di L. Licinio Crasso, gli interlocutori si siedono sotto un platano per imitare l’atteggiamento di Socrate nel Fedro di Platone, sdraiato sull’erba sotto un albero per pronunciare le parole ispirate da un dio, con la differenza, non da poco, che nel nuovo scenario romano era ormai possibile godere del comfort di sedili e cuscini (I 7, 28); e nel Brutus (24), terminato nel 46 a.C., i protagonisti conversano in un praticello propter Platonis statuam, forse all’interno di un peristilio nella casa sul Palatino di Cicerone.
L’Arpinate preme su Pomponio Attico (ad Atticum, I 5, 7; I 6, 2) perché gli procuri, oltre a una biblioteca, anche degli ornamenti scultorei adatti per diversi ambienti: desidera degli ornamenta da ginnasio (gymnasióde: l’espressione può includere statue tanto di atleti quanto di divinità o eroi); si rallegra al solo pensiero di ricevere quanto prima delle erme in marmo pentelico con teste di bronzo; pretende statue conformi: al luogo (ginnasio e xystus), alla sua passione e al gusto (elegantia) di Attico; ammette così di esser preso da un tale studius (passione) da meritare quasi una nota di biasimo (I 8, 2); attende con ansia i signa di Megara, pagati ventiquattromilaquattrocento sesterzi a un certo L. Cincio, e le erme e richiede altre cose che ad Attico appaiono il più possibile idonee per l’Accademia (I 9, 2); ordina la spedizione per nave delle sue statue e delle erme di Eracle e lo prega di nuovo di trovargli qualcosa di adeguato a una palestra e a un ginnasio, nonché dei bassorilievi da includere nell’intonaco dell’atrio secondario e due puteali con figure (I 10, 3); prova piacere a leggere quel che l’amico scrive su una Hermathena, ornamento a puntino per l’Accademia, perché, se Hermes si addice a tutti i ginnasi, Minerva, dea della sapienza, dà particolare lustro al suo impianto, e dice poi che gli sarà grato se riuscirà ad adornare quel luogo anche con altri pezzi in grande quantità (I 4, 3); e l’erma non solo riesce a delectare Cicerone, ma trova anche una collocazione sì adeguata che l’intero ginnasio sembra trasformarsi in un dono votivo (anáthema) in onore di quella dea (I 1, 5) con la quale egli intrattiene un rapporto strettissimo (è, infatti, la consigliera delle sue decisioni: Pro domo sua, 144) e che richiama l’Accademia di Atene, contenente appunto un santuario di Atena; la struttura si ammanta dunque di un’aurea religiosa, altra scappatoia per addolcire la contraddizione tra un modello di vita improntato alla salvaguardia, per quanto non ottusa, del mos maiorum e l’esigenza di vivere all’altezza del proprio rango sociale.
Athena Promachos. Statua, marmo bianco, I secolo a.C. dal tablinium della Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Per riepilogare, Cicerone, benché non privo di un entusiasmo di cui quasi si vergogna, non è “maniaco” come Verre, delega le scelte all’amico, dei soggetti si interessa in modo generico ed è piuttosto sensibile alla loro capacità, in congruità con l’ambiente, di creare una determinata atmosfera; reclama non capolavori di artisti celebri ma l’acquisto del più ampio numero possibile di opere (quam plurima: ad Atticum, I 8, 2) e a buon prezzo (I 3, 2). Queste, in definitiva, le virtuose ricette per procurarsi un’“arte ambientale” al servizio di aspirazioni culturali e per evitare ogni senso di colpa.
E in caso di infrazione della regola della conformità al contesto? Cicerone si seccava. Difatti, in una sua lettera del 46 a.C. (?) all’amico M. Fabio Gallo, al cui gusto di uomo in omni iudicio elegantissimus era solito affidarsi (ad familiares, 7, 23), rende conto di un affare infelice. Costui gli aveva acquistato a un prezzo esagerato da un certo C. Avianio Evandro quattro-cinque statue di piccole proporzioni, ritenute degne del suo gusto e in grado di delectare, tra cui delle baccanti carine (pulchellae); quanto ad Avianio Evandro, deve essere lo stesso scultore – e toreuta – assai attivo ad Atene negli anni cinquanta; di lì si trasferì al seguito di Antonio ad Alessandria (36 a.C.) e fu poi portato a Roma sotto Augusto nel 30 a.C.; e nel tempio di Apollo del Palatino gli fu affidato il restauro della testa di una statua di Diana scolpita da Timoteo (Plinio, XXXVI 32). A ogni modo, l’Arpinate si lamenta del paragone istituito a sproposito da Gallo con un gruppo di muse di Metello (venduto sub hasta?), che comunque non avrebbe mai considerato confacente a tanto prezzo – anche se appropriato per una biblioteca –, mentre le baccanti non costituivano un soggetto conforme alla propria casa, tanto più visto il suo vezzo di comprare statue per la palestra ad similitudinem gymnasiorum; egli, oltretutto, le baccanti le conosceva benissimo e le aveva spesso viste ad Atene, per cui, se le avesse desiderate per davvero, non avrebbe mancato di istruirlo in merito. In aggiunta, Cicerone deplora anche un altro acquisto, una statua di Marte, poco adatta per un fautore della pace come lui, mentre invece si dichiara disponibile a prendere un trapezophorum qualora Gallo, deciso a tenerselo, avesse cambiato idea. Transazione del tutto sballata pertanto, ma il ritardo nel pagamento lasciava aperto un minimo spiraglio per scaricare il gruppetto delle sgradite sculture a Damasippo (lo stesso interlocutore di Orazio nelle Satyrae, 2, 3, commerciante d’arte divenuto insanis a forza di acquistare vecchie statue) o a uno come lui.
Ora, sebbene a Cicerone le baccanti non piacessero, esse di fatto rientravano nell’offerta tesa a soddisfare la famelica domanda dei soggetti dionisiaci destinati a un frequente impiego “decorativo” nei giardini delle ville romane a partire dall’epoca tardo-repubblicana, mentre Dioniso e satiri scarseggiavano invece nelle dimore di Delo.
Dioniso. Erma, bronzo, 80 a.C. ca. dal relitto di Mahdia. Alaoui, Musée Nationale.
Ad esempio, nella Casa del Fauno di Pompei dal tardo II secolo a.C. sul bordo dell’impluvio dell’atrio principale danzava la statuetta di bronzo di un satiro, mentre l’incontro erotico sempre di un satiro con una menade era inscenato su un emblema musivo del cubicolo 28. Del carico commerciale del relitto di Mahdia (Tunisia), nell’insieme ben esemplificativo delle richieste degli acquirenti romani a cavallo tra il II e il I secolo a.C., faceva parte sì di un’erma, in bronzo, ma di Dioniso, firmata sull’attacco del braccio destro da Boeto di Calcedonia, scultore e toreuta della prima metà del II secolo a.C., peraltro già usata e trasportata quindi per un riutilizzo.
Vale poi la pena di menzionare un complesso di sculture di modulo inferiore al vero da un villa di Fianello Sabino nel Lazio, per lo più riferibili al periodo tra il II e il I secolo a.C.: in virtù del materiale, in prevalenza marmo “grechetto” – forse pario – , se ne è postulata la provenienza quasi in un’unica fornitura da una o più botteghe di Delo, attivissime proprio in tale periodo anche nella produzione dei bronzi, attribuzione congetturabile anche per i diversi triclinia aerata dal relitto di Mahdia – e il Gaio Eio delle Verrine è stato identificato con un C. Heius T. f. Libo, magister di un collegio religioso attestato nell’isola. Tra i rinvenimenti di Fianello Sabino spicca una statuetta di menade con pelle di pantera in atto di incedere (anch’essa pulchella?) forse parte di un unico corteo dionisiaco assieme a un sileno e a una danzatrice acefala. Lo stesso nucleo, testimone in chiave formale di un ampio spettro di scelte adattate ai temi, contiene anche ornamenti più in linea con un ambiente “ginnasiale” e perciò con i gusti di Cicerone: un giovane lottatore, un altro fanciullo impegnato forse in una performance sportiva e un Eracle con clava; inoltre, una piccola doppia erma barbata, con il volto di Demostene ancora riconoscibile (abbinato a Eschine?), riporta alla mente la presenza di una imago in bronzo del grande oratore attico insieme alle immagini degli antenati nella villa di Tusculum di M. Giunio Bruto (De oratore, 31, 110). Infine, sempre da Fianello Sabino derivano altri manufatti marmorei, tra cui sei rari esemplari di lussuose lucerne a forma di corona a otto fiammelle, le quali, affini per la peculiare forma a tipologie in uso in santuari, potevano spargere un’aria sacrale: un po’ alla maniera dei candelabri in marmo, altra categoria di manufatti “inventata” per il mercato romano, della quale, non a caso, sempre il relitto di Mahdia conteneva almeno cinque esemplari prodotti in serie all’interno di atelier ateniese del II –I secolo a.C., e un po’ anche alla maniera degli altarini del sacrarium di Eio.
Un satiro e una ninfa. Mosaico pavimentale dal cubiculum 28 della Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Immagini attinenti al tiaso dionisiaco e al mondo della palestra abbondano anche tra i tanti reperti scultorei da diversi ambienti nella Villa dei Papiri di Ercolano, inquadrabili tra il terzo quarto del I secolo a.C. e, in numero minore, gli ultimi anni di vita del complesso: senza comporre un “programma” leggibile in termini troppo rigidi, tra di essi, caratterizzati da una forte eterogeneità dei modelli formali, si annoverano repliche di originali greci e creazioni ex novo, affiancate con pari dignità; e non manca neppure Atena, sotto forma di una promachos in marmo pentelico, dal cosiddetto tablinium, secondo un tipo arcaizzante elaborato proprio nel I secolo a.C. e trasmesso anche dai frammenti di un altro esemplare dall’area dell’acropoli di Atene. Siccome alla formazione di ogni collezione, per quanto nell’insieme standardizzata, dovette contribuire anche qualche scelta più personalizzata, è concepibile che Cicerone non sarebbe stato troppo interessato a quei ritratti dei sovrani ellenistici esposti in gran copia nella Villa dei Papiri accanto ai volti di filosofi e poeti, attraverso i quali il proprietario poté mirare quasi alla ricreazione di una corte dinastica e all’associazione con grandi personaggi carismatici del passato, modelli di riferimento per i protagonisti della vita pubblica e militare dell’ultima generazione della Repubblica. Di certo i ritratti greci vennero amati non tanto per le loro qualità artistiche quanto piuttosto per la fama dei personaggi: sintomatico il comportamento nel 56 a.C. di Catone Uticense in missione a Cipro per annettere l’isola a Roma e confiscare i beni di Tolomeo, in quanto si astenne dal vendere una sola statua, quella del fondatore della scuola stoica, Zenone, non perché sedotto dal bronzo o dall’arte, ma perché immagine di un filosofo (Plinio, XXXIV 92).
È inappurabile se l’ornamento del Tusculanum, come non escludibile, prevedesse repliche di celebri originali greci; ma si può stabilire a quali grandi scultori andasse la preferenza di Cicerone grazie a plurimi brani che instaurano delle analogie tra retorica e arti visive, sempre con la dovuta premessa: queste ultime sono mediocres, di ordine minore. Egli ama quindi il ristretto canone degli artisti del V secolo a.C., del calibro di Policleto e Fidia, scelta scontata perché la loro eccellenza fu comunemente riconosciuta nell’antichità: secondo una visione storico-artistica già tardo-ellenistica, di impostazione classicistica, le statue del primo, almeno a suo parere, risultavano iam plane perfecta perché perfezionarono un processo di progressivo avvicinamento alla veritas, avviato sin dall’inizio del V secolo a.C. (Brutus, 70; con tale brano si imparenta poi un più articolato passo di Quintiliano – XII 10, 7-9 – , che attinge alla medesima fonte greca); e il secondo viene elogiato in quanto nello scolpire lo Zeus di Olimpia o l’Atena del Partenone ebbe insita nella mente una perfetta immagine di bellezza in grado di indirizzare la sua mano nell’attuazione concreta (De oratore, II 8-9), evidente riflesso di un’altra teoria estetica, quella della phantasia, sottintendente una visione idealistica del processo creativo, stavolta non limitato alla mimesi della natura, ed elaborata forse già nel II-I secolo a.C. sulla base di spunti platonici, aristotelici o stoici.
Dinasta ellenistico (forse Eumene II di Pergamo). Busto, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Cicerone ha idee ancora più chiare nel campo della pittura, l’arte che più riesce a dilettarlo (ad familiares, VI 23, 3). I gusti sono tanti: poiché un criterio per un giudizio assoluto non v’è, qualcuno ama le pitture rozze e qualcuno quelle più nitide, vivaci e piene di luce (De oratore, XI 36); ma nel De oratore (III 25, 98) il protagonista, Crasso, rileva come le pitture nuove che appaiono più brillanti (floridiora) per pulchritudo e varietas dei colori, attirino sì al primo sguardo, ma senza saper dilettare a lungo, mentre si rivela forte l’attrazione del colore rozzo e antiquato delle tabulae antiche. In sostanza, nella pittura – e non solo – conviene il senso della misura (De oratore, XXII 73). Tra i pittori greci Cicerone loda i grandi nomi del V secolo a.C., Zeusi, Polignoto, Timante e le formae e i liniamenta di coloro che usarono un sistema tetracromatico (a quattro colori), mentre vede la piena maturità coincidente con la fase finale del IV secolo a.C. (Ezione, Nicomaco, Protogene, Apelle: Brutus, 70). Indubbio è che il suo Tusculanum, pur senza poter ostentare tabulae greche originali al pari delle ville “rivali”, poté almeno vantare una pittura romana di argomento storico immortalante uno dei suoi precedenti proprietari, Silla, in atto di ricevere la corona ossidionale da parte dell’esercito nella sua funzione di legato contro i Marsi, episodio occorso nel 149 a.C. (Plinio, XXII 12).
Chiunque sia solo un poco “umano” non può non conoscere l’eccellenza di Prassitele, asserisce Varrone in un brano riportato da Aulo Gellio in Noctes Atticae (XIII 17), il quale spiega come “umano” significhi qui l’essere dotato di una certa cultura e dottrina, consistenti anche nella conoscenza, dai libri e dalla storia, di chi fosse Prassitele, e come l’humanitas implichi un’educazione nelle arti liberali; e con l’humanitas di Varrone dovette armonizzarsi anche il possesso di un’opera in marmo Gli amorini alati in atto di giocare con una leonessa di uno scultore da lui tanto stimato e attivo nella prima metà del I secolo a.C., Arcesilao, familiaris probabilmente di M. Licinio Lucullo (Plinio, XXXVI 41). Chissà, forse anche questo tema “rococò”, il cui schema è rappresentato su tre quadretti musivi, di cui uno da Anzio del I secolo a.C., non sarebbe stato molto apprezzato da Cicerone, ma non era questo il punto; piuttosto era da stolti provare uno smodato piacere per statue, quadri, argenterie cesellate, vasi corinzi e magnifici palazzi. Così, nel figurarsi uno dei sedicenti principes civitatis come inebetito davanti a un quadro di Ezione o ad una statua di Policleto, egli afferma (Paradoxa stoicorum, V 2, 36-38): «anche senza porre la domanda di come e da dove ti sia procurato tali capolavori, quando ti vedo fermo a gridare lodi e ad ammirarli, ti considero un servo di tali quisquilie, amabili sì, ma riducibili a trastulli da ragazzi (oblectamenta puerorum)».
Ciononostante, egli stesso deve alla fine confessare di avere «occhi eruditi», perché nessuno ormai poteva più sfuggire al processo di acculturazione visiva prodotto dall’appropriazione e dalla diffusione delle opere greche: niente di male, a patto però di non farsene troppo abbindolare.
di Z. Stewart, Il culto del sovrano, trad. it. R. Torelli, in Storia e civiltà dei Greci, Vol. 8 – La società ellenistica: economia, diritto, religione (dir. R. Bianchi Bandinelli), Bompiani, Milano 1990, pp. 562 sgg.
Svetonio racconta che Augusto, in età già avanzata, mentre viaggiava per mare nei pressi di Pozzuoli, fu salutato con le manifestazioni proprie dell’adorazione dovuta a una divinità. Abbigliati e inghirlandati come per una cerimonia religiosa e bruciando incenso, essi lo sommersero di espressioni augurali e di lodi stravaganti: «grazie a lui essi erano vivi, grazie a lui potevano navigare, grazie a lui godevano libertà e fortuna»[1]. Dimostrazioni spontanee di gratitudine e ammirazione di tal genere, che giungevano a prendere la forma di adorazione, erano allora familiari nel mondo greco e traevano origine da usi anteriori all’ellenismo. Espressioni analoghe compaiono persino in un autore controllato come Aristotele, in un’opera ben anteriore all’ascesa al trono dei successori di Alessandro. Nella Politicaegli scrive:
«Se (nello Stato) esistono uno o più individui così eccelsi per virtù, che né la virtù né la capacità politica di tutti gli altri possano esser paragonate a quelle di questi o di costoro… essi non devono assolutamente essere considerati come membri dello Stato; poiché si farebbe loro un torto, trattandoli alla pari, mentre in realtà sono tanto diversi per virtù e capacità politiche. Un uomo siffatto può davvero essere considerato un dio tra gli uomini»[2].
Arsinoe II e Tolomeo II Filadelfo in abiti egizi. Stele, 280-268 a.C. ca. London, British Museum.
Circa mezzo secolo dopo, quando Tolomeo II fece divinizzare i propri genitori come theoì sōtêres (“dèi salvatori”), la sua iniziativa aveva alle spalle una lunga preparazione nella tradizione greca e nello stesso tempo appariva naturale nel contesto delle usanze locali egiziane. Per gli Egizi, i Tolomei erano succeduti ai faraoni come personificazioni dell’attività religiosa, e i loro titoli greci erano stati aggiunti dai sacerdoti alle liste dei tradizionali titoli egiziani che proclamavano il loro rango divino. In Egitto e in Asia, e particolarmente in Mesopotamia, i nuovi sovrani greci ereditarono agli occhi dei loro sudditi orientali la condizione di sommi sacerdoti o di rappresentanti divini; il che forse ha in seguito influenzato il mondo in cui gli stessi sovrani hanno finito per considerare la propria posizione e le forme in cui la loro divinità si sono venute esprimendo. Forse l’egizio ka e il persiano fravaši fu appunto assimilato alla divinità tutelare del re (daímōn), e si pensò che egli fosse accompagnato dal persiano hvareno («illuminazione»). Queste caratteristiche erano elementi propri del mondo orientale e riguardano il rapporto tra il sovrano e la popolazione e i templi indigeni. Ciò che costituisce la novità del periodo che stiamo considerando, e ciò che dobbiamo soprattutto notare, è il rapporto dei successori di Alessandro con i loro sudditi greci e le origini del culto del sovrano nel mondo ellenico.
Arsinoe II. Statua, calcare egizio, post 270 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
Vi erano nell’antichità due motivi principali che potevano spingere gli uomini a considerare un particolare individuo come un essere divino. E questi motivi sono evidenti nei passi di Svetonio e di Aristotele che abbiamo citato. Prima di tutto vi è il sentimento di gratitudine per i benefici ricevuti; più importante è il beneficio, maggiore è l’espressione di lode e di devozione. Ciò finì con il diventare così comune, perfino nelle relazioni personali, che uno scrittore cristiano del II secolo d.C. poteva esortare i propri lettori a compiere atti di carità e di beneficenza affermando che il donatore «diventa un dio per coloro che ricevono il suo aiuto»[3]. Nelle questioni personali di vita e di morte, e nel più vasto ambito del potere politico, le espressioni di gratitudine potevano essere ben più che una semplice metafora; e, infatti, nel mondo greco quest’idea finì con l’acquistare una forma ben definita. Cominciamo con l’osservare che nel racconto di Svetonio la nave giungeva ad Alessandria: la divinizzazione di esseri umani era sconosciuta alla tradizione romana, nonostante la leggenda (creata senza dubbio sotto l’influsso greco) dell’assunzione in cielo di Romolo come Quirino. Questa forma di glorificazione derivava dal retaggio ellenistico dell’Impero romano, anche se il linguaggio di Cicerone, come prima quello di Terenzio, mostra che, almeno come metafora, era già nota ai tempi della Repubblica. In secondo luogo la divinizzazione di esseri umani, dai tempi di Omero in poi, traeva semplicemente origine dal riconoscimento in taluni individui di caratteri sotto certi aspetti più che umani, che li facevano definire theîoi, cioè esseri divini o simili agli dèi. Motivi per ottenere tale riconoscimento erano una speciale sapienza, come quella dei filosofi o degli indovini, la forza, le conquiste, le attività civilizzatrici, e persino la bellezza. Sembrerà naturale più tardi, come si è visto nelle parole di Aristotele, ritenere che avesse particolare diritto a questa distinzione colui il quale si veniva a trovare in primo piano nel più vasto agone politico. Prima dell’inizio delle imprese di Alessandro nel mondo greco più di un personaggio aveva già ricevuto onori divini mentre era ancora in vita: Lisandro, per esempio, era stato divinizzato dagli aristocratici di Samo, Dionisio e Dione dai loro partigiani siracusani, e Platone da alcuni suoi seguaci. Vi era stata perfino una particolare esplosione di casi di persone che, in forma quasi psicopatica, avevano preteso di essere delle divinità; di questi casi l’esempio più famoso è quello del medico siracusano Menecrate.
Nel considerare i precedenti greci nel culto del sovrano dobbiamo tener presente tre punti di fondamentale importanza. Il primo è che il concetto greco di divinità si estendeva dal dio supremo fino alla più oscura divinità, dal signore Zeus alla ninfa silvestre o al daímōn, e che, d’altro lato, lo stesso concetto di uomo aveva una sua certa estensione. Il precetto delfico e la norma civile del VII e VI secolo a.C. mettevano continuamente in evidenza il dovere dell’uomo di conoscere se stesso e di restare nei limiti della sua natura umana. A ragione s’insisteva su questi precetti giacché esisteva una forte tendenza nella direzione opposta. «Non cercare di diventare un dio», afferma Pindaro[4]. E anche ai suoi tempi dobbiamo fare i conti con la credenza esoterica nelle iniziazioni e nelle rinascite che potevano condurre l’individuo al rango di un dio, e con il culto dionisiaco che culminava nell’idea che il fedele potesse diventare un bákchos. Alcune figure profetiche, come Empedocle, assunsero le caratteristiche di thèioi àntrōpoi; a questo proposito gli studiosi moderni hanno parlato di «sciamanismo». Sia il poeta sia l’indovino e il profeta potevano assumere quest’atteggiamento: Platone, infatti, nel Fedro (244), si riferisce a tutti costoro. Anche Pindaro nel glorificare i protagonisti umani dei suoi epinici colloca accanto a loro un livello di azioni divine: nel lodare Ierone per la sua vittoria sui Cartaginesi e sugli Etruschi, naturalmente evoca, all’inizio, una raffigurazione di Zeus in atto di sconfiggere i Giganti (Pyth. I, 13 sgg.); rivolgendosi ad Arcesilao di Cirene, prega che il re perdoni il suo patrono, esiliato politico, e chiude con le parole: «E l’immortale Zeus liberò i Titani» (Pyth. IV, 291). Oppure si chiede: «Oh! Quale dio, quale eroe e quale uomo venereremo nel canto?» e parallelamente menziona Zeus, Eracle e Terone (Olymp. II, 2 sgg.). L’antica tradizione greca di confrontare un essere umano degno di gloria con i personaggi mitologici e di porre il soggetto glorificato in un contesto mitologico, fu ulteriormente perseguita e ampliata dall’arte e dalla poesia ellenistica. Non dobbiamo certo prendere troppo sul serio le metafore o le iperboli dei versi encomiastici diffusi sia in Grecia che più tardi a Roma, ma nello stesso tempo non dobbiamo dimenticare che esse rappresentano un modo di considerare le realizzazioni umane, che non è possibile ignorare se si vuole comprendere quest’aspetto del mondo antico. Il desiderio delle famiglie importanti e delle case regnanti di arrogarsi discendenza divina per mezzo di un eroe o di un’eroina è senz’altro di questa tendenza l’espressione più concreta.
Seleuco I Nicatore. Tetradramma, Seleucia 296-281 a.C. ca., Ar. 17, 30 gr. Recto: testa laureata di Zeus rivolta verso destra.
Il secondo punto è che una sola parola timḕ racchiudeva i concetti di “onore” e “culto” ed era usata con eguale libertà nel rendere omaggio a un dio o a un uomo che avesse compiuto una grande impresa o disponesse di grandi poteri. L’impossibilità di fare una netta distinzione tra gli onori resi a un uomo o a un dio risulta chiarissima proprio da questo termine; ma anche altri vocaboli esprimono la stessa ambiguità: così, ad esempio sōtḕr (“salvatore”) ed euergétēs (“benefattore”), o proskynéin (“rendere omaggio”) che si riferiva non solo a un’azione compiuta in presenza della divinità o davanti a un re orientale o a persona di più alto rango, ma anche in un contesto meno elevato, a un bacio o a qualunque forma di saluto rispettoso; inoltre i termini comunemente usati per indicare il culto e l’adorazione degli dèi, therapèia e latrèia, erano usato anche per definire semplici atti attinenti alla sfera del lavoro e dei servizi umani. In questo senso, rivelatore è l’uso linguistico, poiché illustra una fusione di categorie che noi tendiamo a mantenere separate; probabilmente quello stesso uso rafforzava tale fusione.
A proposito del culto del sovrano merita infine particolare attenzione il fatto che era stata usanza comune nel mondo ellenico la pratica del culto eroico per il fondatore (ktístēs o oikistḕs) di una pólis. Nelle città più antiche era sempre venerato come fondatore un dio o un eroe mitico, mentre all’epoca della colonizzazione greca, era designato un fondatore che aveva poteri assoluti sulla colonia fino al completamento della fondazione della nuova città. Dopo la sua morte, sulla sua tomba veniva osservato il culto riservato agli eroi, che non differiva molto da quello prestato a entità ctonie. Un episodio della guerra del Peloponneso illustra assai bene gli atteggiamenti diffusi al riguardo e forse la tendenza a un allentamento dei vincoli morali arcaici che è caratteristico dei secoli successivi. Brasida era l’energico generale spartano che colpì duramente gli interessi di Atene in Tracia catturando Anfipoli e altri centri importanti. In seguito alla sua morte, avvenuta durante una battaglia vittoriosa contro gli Ateniesi nel 422 a.C., i cittadini di Anfipoli lo seppellirono in un luogo ben visibile, costruirono un recinto intorno alla sua tomba e istituirono in suo onore un culto annuale con relativi giochi; come dice Tucidide, Brasida era considerato il salvatore e il nuovo fondatore della città. I monumenti del vero fondatore, a quel tempo ancora vivo, furono abbattuti. Le imprese più rilevanti, in campo sia politico sia militare, venivano così riconosciute con il culto piuttosto che con la semplice lode, e per di più con un culto che infrangeva le regole tradizionali.
Tolomeo II Filadelfo. Busto, bronzo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Il rango di fondatore era tuttavia quello di un eroe, il quale, anche se divino, non poteva essere considerato un vero e proprio dio. I sovrani ellenistici, come fondatori di città, avevano diritto, per tradizione, al rango di eroi. Il culto di Seleuco I, nelle città da lui create, era, in effetti, quello proprio di un fondatore, e sembra che i suoi successori siano stati semplicemente associati al suo culto. Ma perché come dèi e non come eroi? La risposta si può forse trovare nelle due seguenti considerazioni. In primo luogo, la parola “eroe” era venuta gradualmente perdendo il suo primo significato e venne così ampiamente impiegata che la tomba di un qualsiasi cittadino ricco poteva senz’altro essere chiamata hērōon. Secondariamente, il rango divino dei re orientali o dei faraoni aveva forse finito con l’influenzare la terminologia; senza presumere che i Greci adottassero le credenze e le usanze persiane, egiziane, o mesopotamiche riguardanti la famiglia reale, non possiamo però trascurare il fatto che i generali di Alessandro s’insediarono come sovrani in una posizione che li collocava nei loro regni del Vicino Oriente in particolare rapporto con la divinità. Vi era stato un ulteriore precedente nell’intenso dibattito e, poi, nei fatti, verificatisi nelle città-stato greche in relazione alla divinità di Alessandro quando questi era ancora vivente. E c’era infine il fatto che alcune tra le dinastie dei diadochi facevano risalire la propria origine, attraverso la casa reale macedone, a Eracle, così come i Seleucidi si pretendevano discendenti da Apollo e, più tardi, Mitridate da Perseo e perciò da Zeus[5]. Va tuttavia segnalato un importante aspetto nella divinizzazione dei sovrani. Non vi è quasi alcuna testimonianza che da loro, sia viventi sia morti ci si aspettassero atti soprannaturali propri di un dio; essi conseguentemente non ricevevano quasi mai voti o preghiere. Al contrario, in numerosi documenti in cui i re sono chiamati dèi, troviamo espressioni augurali di salute e salvezza; parimenti numerosi atti di culto agli dèi erano compiuti in loro favore da città o da singoli individui. Il culto dei sovrani consisteva soprattutto nell’attribuire loro rango sommo e onori supremi in riconoscimento di un potere eccezionale o del raggiungimento di mete importanti; solo occasionalmente accadeva che i sentimenti si esaltassero al punto di far mostra di credere che si trattasse di esseri veramente soprannaturali. In breve, nonostante la terminologia, non vi fu mai completa confusione tra i limiti dell’umano e del divino.
Demetrio I Poliorcete, raffigurato con corna di toro. Busto, copia romana in marmo del I sec. da un originale ellenistico del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico.
Nel 332/31 a.C. Alessandro aveva compiuto una lunga e difficoltosa marcia nel deserto fino all’oracolo di Ammone (identificato dai Greci con Zeus) e la sua propaganda più tardi fece sì che si sapesse che era stato riconosciuto colà come figlio del dio. Verso la fine della sua vita, in molte città greche, vennero fatti passi ufficiali perché egli venisse considerato come un dio, forse su esplicita richiesta di Alessandro o più verosimilmente poiché erano ormai noti i suoi desideri e le sue tendenze; questo significò forse la pura e semplice aggiunta del suo nome all’elenco delle divinità venerate dalla pólis. Alla morte di Alessandro, la sua divinità fu quasi universalmente accettata e nessuno formalmente pretese, in tutto o in parte, il rango attribuitogli. I suoi tipi monetali furono gli unici usati in Egitto per circa dieci anni, e in altri paesi per circa vent’anni: anche se morto, quindi, egli continuava a vivere. Tra il 306 e il 304 a.C., i generali suoi successori presero il titolo di basileús, “re”. Nell’antichità molte cariche implicavano o avevano come conseguenza una sorta di fondamento religioso. In Macedonia ciò non costituiva una novità, poiché le istituzioni della monarchia avevano forme ereditarie fisse e, eccezion fatta per alcune forme di culto pubblico, non vi era necessità di nuove formule religiose. Altrove invece i Greci erano estranei alla tradizione monarchica, salvo che a Sparta nella sua forma costituzionale, e l’esistenza del sovrano portava con sé nuovi tipi di rapporto con i sudditi. Un chiaro indizio ci viene al riguardo dalla monetazione. Per tradizione, sulle monete si era usi raffigurare solamente un dio o un eroe (o una figura semi-eroica, come Pitagora). Perfino Alessandro si limitò in genere a far rappresentare Eracle con i propri lineamenti, un accenno a un ritratto qual era stato anticipato dal dinasta della Caria, Mausolo, per sé e per sua moglie Artemisia. Quando i diadochi assunsero il titolo regale si diffuse l’uso di riprodurre i tratti del volto, spesso accompagnati da emblemi o attributi della divinità. Ciò comportava l’assunzione di una sorta di posa divina ed era, in un certo senso, la risposta dei re all’omaggio adulatorio e letterario tributato a essi da poeti, artisti e autori di dediche o decreti ufficiali. Non era cosa eccezionale come l’assunzione di abiti divini, come fece Demetrio Poliorcete, un uso anche questo attribuito ad Alessandro. È degno di nota il fatto che anche i re divinizzati nelle forme più complesse, nella corrispondenza ufficiale non facessero mai uso alcuno dei loro titoli divini né si appellassero a un presunto rango divino. Non vi è nulla di paragonabile all’uso più tardo del “diritto divino” o dei suoi precedenti tra cui quello persiano. Se si considera, infatti, il caso-limite di ritratto divino e di assunzione di posa divina, quello di Antioco IV Epifane nel II secolo a.C., l’intento appare quello di dar gloria tanto alle divinità favorite dalla sua famiglia quanto a se stesso. Nelle prime monete egli viene raffigurato con la corona radiata del dio-sole, forse come simbolo del progettato dominio sul mondo. Più tardi egli unisce una raffigurazione di Zeus con la leggenda «Del re Antioco il dio manifesto (theoû epiphanoûs)» e all’incirca negli stessi anni colloca una copia di Zeus Olimpio di Fidia nel tempio di Apollo a Dafne (un sobborgo della sua capitale, Antiochia). A lui si deve l’inizio della costruzione di un grande tempio a Zeus Olimpio ad Atene; sotto i suoi auspici il Tempio di Gerusalemme viene convertito al culto di Zeus Olimpio; e ancora, come Zeus Hadad, egli “sposa” Atargatide a Bambice. Tuttavia Antioco non istituì affatto un vero e proprio culto divino della propria persona. È stato motivatamente argomentato che nell’ultimo caso Antioco aveva agito come sostituto terreno del dio, mentre l’adozione di epiphanḕs come epiteto significò dapprima null’altro che la manifestazione, in lui come in Tolomeo V (che pure usò questo epiteto), di un eccezionale potere dimostrato in occasione di brillanti imprese, come ad esempio l’invasione dell’Egitto: era in lui visibile la potenza di Zeus. Allo stesso modo, quando Mitridate (o un imperatore romano), molto più tardi, fu chiamato “nuovo Dioniso”, ciò forse significava semplicemente che egli aveva la forza, il vigore, lo splendore che si era soliti attribuire a quella divinità, e non che egli fosse una reale incarnazione del dio.
Cleopatra II, in veste di Iside. Busto, calcare, II secolo a.C., da Hierapolis (od. El Ashmunein, Egitto). Paris, Musée du Louvre.
L’adorazione, cioè il tributo di onori divini, nel culto dei re ebbe quattro forme principali: quella resa dalle città nominalmente indipendenti all’interno del dominio del re o dalle città effettivamente indipendenti e poste all’esterno dei suoi domini; quella promessa dallo stesso re; quell’offerta da templi indipendenti o dall’insieme dei templi di un regno; quella infine resa da singoli individui che facevano costruire santuari o innalzavano dediche in onore del re. Come estensioni di quest’ultima forma di culto si possono considerare sia il linguaggio dei poeti che erano, o desideravano essere protetti dai monarchi, sia le formule di devozione o di rispetto usate da privati nelle petizioni al re per fini personali. Nel mondo di lingua greca l’iniziativa venne prima da parte delle città. Come abbiamo visto, il riconoscimento ufficiale della divinizzazione dei sovrani era almeno in discussione nelle città del continente greco durante gli ultimi anni della vita di Alessandro; nelle comunità greche d’Asia era già un fatto riconosciuto. Quando i diadochi ereditarono la capacità di condurre una propria politica di potere in campo internazionale che contraddistinse le lotte svoltesi alla fine del IV secolo a.C., forse come naturale conseguenza, le comunità continuarono a comportarsi in egual maniera di fronte a personaggi che disponevano di un potere così grande ed esteso. Antigono già dominava da alcuni anni l’Asia Minore e le isole dell’Egeo, quando sappiamo che Scepside, nel 311 a.C., aggiunse un recinto e un altare agli onori divini che già gli aveva accordato[6]. Nel 304 a.C. avendo Tolomeo I liberato i Rodii dall’assedio di Demetrio figlio di Antigono, questi gli attribuirono l’epiteto di Sōtḕr (“Salvatore”) e gli dedicarono un culto incentrato in uno splendido Ptolemaèion, all’interno della città. È stato spesso sottolineato che il riconoscimento di onori divini a Tolomeo ebbe inizio proprio a Rodi e non in Egitto. I Rodii avevano agito con cautela e secondo le norme, dopo aver consultato l’oracolo di Ammone[7]. Una reazione di gran lunga più entusiastica ottenne Demetrio quando nel 307 a.C., per conto di suo padre, liberò Atene dal dominio macedone. Antigono e Demetrio furono acclamati come re; furono venerati come “dèi salvatori” con altari e feste religiose, le loro statue dorate furono poste tra quelle dei tirannicidi Armodio e Aristogitone; fu inoltre decretato che si provvedesse a intessere i loro ritratti nel mantello di Atena e che essi potessero essere avvicinati, a somiglianza degli dèi di Olimpia e di Delo, esclusivamente da ambascerie sacre. Nel luogo dove Demetrio discese dal carro, fu innalzato un altare a «Demetrio che scende dal carro» e gli fu chiesto come a un dio di dare oracoli. Furono create due nuove tribù, l’Antigonide e la Demetriade; infine fu decretato che Demetrio, a ogni suo ritorno ad Atene, fosse acclamato con gli onori dovuti a Dioniso e Demetra[8]. Diciassette anni più tardi egli entrò nuovamente nella città e in quell’occasione fu composto in suo onore un inno che, in una parte del testo, rivela lo spirito che è alla base della tendenza a conferire onori divini:
«Gli altri dèi sono lontani, o non hanno orecchie o non esistono o non si curano di noi; ma ti vediamo fra noi, non in legno o in pietra, ma nella realtà. E perciò ti preghiamo. Per prima cosa, dacci la pace, o carissimo, poiché tu ne hai il potere!»[9].
Antioco III. Tetradramma, Asia Minore 213-204 a.C. Ar. 17,01 gr. Verso: ΒΑΣΙΛΕΩΣ ΑΝΤΙΟΧΟΥ, Apollo assiso sull’omphalos, con arco e freccia.
Ci occuperemo in seguito del tipo di onori decretati regolarmente da comunità grate, fedeli o ambiziose. Se prendiamo in considerazione il culto istituito dai sovrani stessi, ci troviamo di fronte ad un eccezionale ritegno. La divinizzazione del sovrano ebbe inizio come divinizzazione della prima generazione dei diadochi da parte della seconda. Negli anni successivi al 283 a.C. Tolomeo II divinizzò i propri genitori, Tolomeo e Berenice come theoì sōtêres[10]. Quest’usanza era simile a quella greca di eroizzare i morti, ma si serviva del termine più forte: il che non sorprende se si considerano gli onori che venivano tributati ai sovrani viventi e il culto che era già stato istituito a Menfi per Alessandro dopo la sua morte. All’incirca nella stessa epoca, nel regno rivale di Siria, Seleuco I veniva divinizzato con il nome di “Seleuco Zeus Nicatore”, e il suo successore Antioco I ricevette più tardi l’apoteosi con il nome di “Antioco Apollo Sotere”. Queste identificazioni sono per noi piuttosto difficili da comprendere, ma si avvicinavano al carattere dell’epiteto di “nuovo Dioniso” di cui ci siamo precedentemente occupati. Dobbiamo inoltre ricordare che Zeus poteva essere identificato con molte divinità locali senza con ciò implicare confusioni sostanziali di sorta. Questo fatto è forse assai ben illustrato da un rilievo del II secolo d.C. rinvenuto a Dura Europos che mostra Seleuco, fondatore della città, in atto di incoronare Zeus suo protettore; di questo periodo è anche un’iscrizione che fa menzione di un sacerdote di Seleuco (Nicatore)[11]. Si deve notare che nell’impero seleucide quasi tutte le attestazioni del culto del sovrano si debbono a iniziative di singole comunità. Un documento unico e piuttosto tardo (noto attraverso due copie epigrafiche) costituisce la sola indicazione che abbiamo del fatto che gli stessi sovrani istituivano formalmente il culto attraverso la nomina di sommi sacerdoti o sacerdotesse nelle singole satrapie in cui era diviso il loro regno. Forse ispirandosi ai Tolomei, e precorrendo l’usanza degli imperatori romani, essi conferivano in tal modo al culto regale dignità di ordine sociale. A Pergamo, nella stessa epoca, gli Attalidi, la più ellenica delle dinastie asiatiche, non istituirono mai un culto per un sovrano vivente ma solo dopo la sua morte. Inoltre, nelle terre sottoposte al potere degli Attalidi, è frequente un uso che troviamo in tutto il mondo greco, e cioè quello del riconoscimento di onori divini a una famiglia e ai suoi membri scomparsi, quali l’istituzione di feste (Attáleia, Euméneia, Philetáireia) o la ridenominazione di tribù e mesi dell’anno con il nome di costoro; i re e le regine, anche se non divinizzati, avevano in vita sacerdoti e sacerdotesse. L’ultimo membro della dinastia, Attalo III, sembra abbia goduto di una speciale predilezione per l’onore che gli veniva conferito associando il suo nome al culto di altre divinità, tanto che i nostri documenti ci presentano Zeus, Asclepio ed Estia a Pergamo, quasi come suoi compagni nel culto piuttosto che come semplici protettori. Ma anche in questo caso non siamo ancora di fronte ad una formale divinizzazione di sovrani viventi.
Antioco I di Commagene stringe la mano ad Eracle. Bassorilievo, calcare, 64-38 a.C. da Arsameia del Ninfeo.
La prima divinizzazione ufficiale di sovrani viventi si ebbe con l’inclusione di Tolomeo II e di Arsinoe come theoí adelphoí nel culto reale di Alessandro ad Alessandria. Ciò avvenne poco tempo prima che Arsinoe morisse nel 270 a.C. Gli anni precedenti avevano rappresentato l’età dell’oro per l’Egitto tolemaico, e senza dubbio la forte personalità di Arsinoe aveva dato forma al tentativo di fare dell’Egitto il centro culturale del mondo di lingua greca. Fu questo un momento di eccezionale potere politico e militare della dinastia, proprio la circostanza in cui l’adulazione entusiastica poteva essere indotta a esprimersi in forma così clamorosa. E tuttavia anche in quest’occasione non vi fu istituzione di un nuovo culto, ma piuttosto l’inclusione in un culto già precedentemente stabilito: le statue di Tolomeo e Arsinoe sarebbero state poste nel tempio monumentale di Alessandro ed essi avrebbero avuto in comune i sacerdoti eponimi di questi; così fecero in seguito i re e le regine tolemaiche tramutando quell’innovazione in una tradizione regolare. Anche i Seleucidi sono presenti nel culto accanto ai loro fondatori e avi, ma non conosciamo esattamente l’inizio di questa pratica. Sono state formulate molte ipotesi sul perché Tolomeo I e Berenice abbiano ricevuto dopo la morte un culto separato e perché solo molto più tardi siano stati inclusi (quasi per una sorta di coerenza) in quello di Alessandro; la spiegazione più semplice è che il corpo di Alessandro solamente in seguito, durante il regno di Tolomeo II, fu trasportato da Menfi ad Alessandria dove venne data forma stabile al suo culto. Con la morte di Arsinoe, oltre alla continuazione dei culti precedenti, si ebbe una fioritura di nuovi onori che la collegavano ad Afrodite e che stabilivano un culto ufficiale separato ad Alessandria. Poiché ci è noto che in questo primo periodo altri membri della casa regnante furono divinizzati dopo la loro morte, appare chiaro che questa pratica era divenuta semplicemente una forma più vistosa di eroizzazione. È da notare, tuttavia, che fra tutte le varie personalità, alcune delle quali eccezionali, del periodo ellenistico, nessun sovrano da vivo istituì direttamente un culto indipendente per la propria persona; né vi è alcuna analogia evidente con la passione di Caligola per il culto della propria persona e con i suoi deliberati atti tendenti a stabilirlo o promuoverlo. L’unico caso in cui si può notare un’analogia è quello, verificatosi all’incirca alla fine del II secolo a.C. in Egitto, quando Cleopatra II e Cleopatra III nelle loro lotte e aspirazioni politiche, finirono, sembra, con il promuovere l’assegnazione di onori divini allo scopo di accrescere la propria personale importanza. Questo fatto può essere attribuito in parte anche alle crescenti tendenze filo-egiziane all’interno della famiglia reale, dal momento che gli elementi indigeni cominciavano a prevalere su quelli greci in tutto il territorio. Un secolo più tardi, le grandiose fondazioni di Antioco I di Commagene furono istituite in previsione di avvenimenti futuri, simili in ciò al comportamento di chi costruisca la propria tomba o istituisca un lascito per il rito funebre, e il suo culto doveva essere accomunato con quello di quattro grandi divinità greco-persiane. Questi avvenimenti richiedono perciò speciale considerazione.
Menas. Alessandro in nudità eroica. Statua, marmo, III sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
Quando consideriamo il culto istituito da templi o gruppi di templi, siamo soliti riferirci soprattutto all’Egitto e, come si è notato poc’anzi, abbiamo visto in atto ben precise limitazioni. Un sovrano greco assumendo il rango di faraone, diventava automaticamente il capo della religione nazionale, il sacerdote per eccellenza, del quale gli altri sacerdoti non erano che rappresentanti; egli era quindi un personaggio dotato di un carisma divino che dipendeva dai suoi attributi ufficiali e non da quelli personali. I Tolomei vennero a trovarsi automaticamente in questa situazione, e così l’antica e complessa titolatura variò solamente per l’inclusione degli epiteti cultuali greci, sōtḕr e simili, tradotti in egiziano. Ciò nonostante dei mutamenti vi furono. Precedentemente ogni faraone era stato, in vita, il portatore della divinità monarchica; dopo la morte invece egli non riceveva altra manifestazione di adorazione all’infuori di quella tributatagli nei templi dedicati al suo culto funerario. Ma i Tolomei fecero il loro ingresso nel culto indigeno in quanto dinastia e i loro nomi vennero fatti segno di adorazione continua sia a livello nazionale sia locale. Vi fu anche un’altra innovazione, l’istituzione dei sinodi sacerdotali che si radunavano per votare gli onori speciali da tributare in tutto il paese ai singoli membri delle famiglie tolemaiche. In questo come in altri casi, la causa determinante fu probabilmente il desiderio del sovrano, fosse esso conosciuto o semplicemente immaginato, e il fatto che fossero altri a dare inizio alla procedura era in gran parte una finzione giuridica. Tuttavia, ai loro occhi la finzione appariva utile e, di fatto, necessaria. Conseguentemente a ciò la città doveva iscrivere il nuovo dio fra i propri e il clero doveva collocare l’immagine del dio fra quelle ufficialmente venerate. La finzione giuridica giunse a tal punto che il sinodo sacerdotale di Canopo “autorizzò” la celebrazione domestica dei giorni sacri a Berenice. Naturalmente il re aveva la sua autorità e ancora, al pari di un qualsiasi privato, poteva venerare come dio un avo o un parente morto; in questo caso il suo esempio avrebbe avuto particolare peso. Purtuttavia, il culto era principalmente un fatto di onori, di timḕ, e traeva origine da coloro i quali tributavano quegli onori e cercavano una formula per ricevere una sanzione ufficiale.
Le forme comuni di onori divini decretate pubblicamente dalle città o dalle comunità consistevano nella creazione di un recinto particolare per il culto, nel costruire un altare o un tempio, nell’erigere una statua con apposite iscrizioni e nello stabilire una processione o feste, giochi e gare in date fisse e con nomi appropriati; da ogni parte del mondo ellenistico sono giunte a noi testimonianze epigrafiche di varie combinazioni di queste usanze, che potevano anche consistere nella creazione di una nuova tribù della città o nella ridenominazione di una tribù già esistente o di un mese del calendario. Così si giunse a celebrare regolari Antigóneia, Demétria, Ptolemáia e Attáleia, mentre statue e recinti sacri andavano moltiplicandosi, a volte associati al tempio di una divinità preesistente, specialmente in Egitto. Come abbiamo già visto, il re o la regina potevano essere chiamati con il nome di un dio, per identificarli in qualche modo con questi e nelle dediche private ciò poteva assumere anche forme insolite. Ma la caratteristica peculiare del culto del sovrano è evidente nelle numerose iscrizioni dedicatorie del tipo: «A Zeus in favore del tale sovrano divinizzato»; certo non si sarebbe fatta una dedica «A Zeus in favore di Artemide». Queste espressioni di lode e di gratitudine si trovano variamente combinate nella sfera religiosa. Un delicato atto di omaggio venne reso al tempo di Seleuco II: Smirne consacrò un tempio ad Afrodite Stratonicide, l’Afrodite di Stratonice, la nonna del re. Questo tempio fu costruito dietro indicazione dell’oracolo di Delfi; a quanto sembra, quest’oracolo era rivolto a Seleuco II e raccomandava che tanto il santuario quanto la città di Smirne fossero riconosciuti come «sacri e intoccabili», garantendo loro così il diritto d’asilo, divenuto in questo periodo un diffuso privilegio onorifico.
Il linguaggio usato nei decreti e nelle dediche, a volte entusiastico, più spesso formale e relativamente contenuto, divenne stereotipo. Il linguaggio del mito e dell’apoteosi è quello dei poeti di corte, particolarmente in epoca più antica ad Alessandria. Così Callimaco, quando racconta come un ricciolo dei capelli di Berenice fu tramutato in un costellazione[12], riprende il diffuso motivo ellenistico del trasferimento di cose e personaggi mitologici nel cielo stellato. In seguito la poesia non si astenne dal concludere che il titolo di divinità dovesse comportare la possibilità di agire come un dio, senza cioè quelle limitazioni di spazio e di tempo che sono d’ostacolo anche al più eccelso tra i mortali. Così Teocrito dice che, grazie ad Afrodite, «la bella Berenice non passò sul triste Acheronte», ma venne portata via di peso e posta nel tempio della dea ed ebbe una parte delle sue prerogative; adesso «dolcemente respira in tutti gli amori dei mortali»[13]. Ritroviamo qui non soltanto l’antico motivo mitologico della traslazione del corpo di un essere umano prescelto da parte di un dio, ma anche implicita l’idea che Afrodite avesse incluso Berenice nel corteggio divino di Peithò, Eros, Himeros e di altri che nella nostra letteratura formano la sua cerchia. In termini mitologici, ciò non era dopo tutto tanto assurdo. Come Luciano ironicamente insinua, «non avevano gli dèi abbandonato mille anni prima tutti i loro amori e i loro odi?». E ancora, in termini di potenza, Teocrito parla di Tolomeo Sotere e della consorte sua, entrambi divinizzati, definendoli «capaci di aiutare tutti sulla terra» (v.125), e Posidippo in un epigramma[14], riferendosi ad Afrodite-Arsinoe, in un tempio eretto in suo onore dall’ammiraglio Callicrate a Capo Zefirione, dice: «Ella assicurerà una buona navigazione, e in pieno inverno acquieterà il mare per coloro che la invocano»[15].
Queste sono le fantasie nate nella fase più antica e, per così dire, “sperimentale” del processo di divinizzazione dei sovrani e non abbiamo prove che esse riflettano un qualsivoglia sentimento popolare. Dobbiamo pensare che questo linguaggio poetico altro non fosse che una variante dell’adulazione di corte. Se più in generale consideriamo la struttura concettuale del tempo, riguardo alle idee particolari sulle quali si basa il culto del sovrano, vi troviamo taluni elementi rilevanti. Alcuni storici hanno dato la massima importanza al concetto di daímōn. In Grecia questo concetto è molto antico ed è un termine alquanto fluido, cioè un più vago equivalente di theòs, più personalizzato però in relazione a una famiglia (che aveva il suo agathós daímōn, “spirito protettore”) o a un singolo individuo. Come vediamo ad esempio in Menandro, e anche prima di lui, daímōn venne in pratica a significare il lato soprannaturale dell’individuo[16]. Ora nel periodo ellenistico si diffuse l’usanza di giurare sul daímōn del re; ciò indica un possibile collegamento tra un termine specificatamente greco e la tradizione da lungo tempo in uso nel Vicino Oriente. Forse più importante risulta la crescente sensazione che gli antichi dèi erano troppo lontani e non si occupavano degli eventi umani, posti invece completamente sotto il controllo dell’indifferente e sorda Tychē (“fortuna”, “fato” o “caso”), a un cui cenno del capo tutto accade. Per la maggior parte dei cittadini, il sovrano era ora un rappresentante di questa nuova divinità: aveva il potere della Fortuna ma non la sua indifferenza alle preghiere e alle lodi. Un’altra importante caratteristica di questo periodo è il proseguire delle già avviate speculazioni intorno alle origini della religione, accanto ad un nuovo interesse per la teoria e la pratica della regalità. Evemero di Messana era del parere che gli dèi non fossero altro che grandi re dell’antichità adorati dadi loro sudditi devoti; se non esistono prove che la sua opera abbia avuto particolare influenza, essa però dimostra che quelle idee erano già nell’aria. Nell’importante discussione filosofica intorno al potere del sovrano, specialmente verso la fine del periodo ellenistico, il rinnovato interesse per Platone mise in evidenza la sua concezione di un re filosofo quasi divino, e il contrasto fra re e tiranno che era già stato ereditato dagli stoici. Gli scritti neopitagorici di epoca imperiale sviluppano un’elaborata teoria sul potere del sovrano che forse trae origine dalla tradizione pitagorico-platonica. È vero naturalmente che alcuni consideravano i sovrani solamente despoti che disprezzavano la legge e la decenza. D’altro canto, Filone di Alessandria considera il governo di Dio diverso da quello del tiranno e caratterizzato proprio dalle qualità comunemente attribuite ai sovrani: generosità (tò euergetikón), salute eterna (tò sōtḕrion) e filantropia (philantrōpía)[17]. A un livello completamente differente, il pensiero del tempo trova espressione in un catechismo familiare a domanda e risposta conservato in un papiro di Freiburg: «Che cos’è Dio? Ciò che è forte. Che cos’è un re? Ciò che è pari al divino».
T. Quinzio Flaminino. Testa colossale, marmo, II secolo a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
Nell’epoca della dominazione romana, le forme e i sentimenti propri del culto del sovrano continuarono senza interruzione, ma con nuovi sviluppi. I generali e i proconsoli della Repubblica furono in quella forma onorati nei territori di lingua greca, seguiti in ciò e su ben più vasta scala dagli imperatori. Tito Quinzio Flaminino, salvatore e difensore della Grecia, ottenne l’onore mai concesso ai sovrani ellenistici, della precedenza sulle singole divinità in una pubblica iscrizione. Nel 191 a.C. i Calcidesi eressero due monumenti, uno «a Tito e a Eracle» e l’altro «a Tito e ad Apollo». Le fortune del mondo ellenistico stavano così passando in nuove mani[18].
[2]Aristotele, Politica, III, 1284a. Il culto dei sovrani in età ellenistica è spesso paragonato, e talvolta confuso, con il culto imperiale romano; esso è stato studiato sotto diversi punti di vista, occasionalmente come un aspetto della divinità e del culto dei sovrani in generale.
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