Gaio Sallustio Crispo

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 448-457

Il primo grande storico

Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui si possono leggere per intero le opere principali, essendo andate perdute le Origines di Catone. La sua novità consiste nell’aver scelto di narrare non un lungo periodo della storia romana, ma singoli avvenimenti (la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta) che, pur essendo stati di breve durata, gli sembrarono decisivi per le conseguenze che avrebbero avuto sugli sviluppi successivi. Sallustio scelse dunque il genere della monografia, ovvero della «trattazione isolata».

In realtà, la monografia (dal greco μόνος, «singolo, isolato», e γράφειν, «scrivere») non è un vero e proprio genere letterario, ma un sottogenere della storiografia, che corrisponde alla scelta di trattare non una lunga epoca, ma un periodo circoscritto, un evento o un luogo isolato, che sembrano di particolare interesse per l’autore. Il modello ispiratore della scelta, in questo come in altri ambiti, fu Omero, che nell’Iliade narrò la guerra di Troia, per di più concentrandosi sugli eventi accaduti in cinquantuno giorni dell’ultimo anno di conflitto. Questa abilità di selezione fu lodata già da Aristotele, anche riguardo all’Odissea, in diversi passi della Poetica (p. es., 59a 30-37).

Venendo alla storiografia vera e propria, l’iniziatore della monografia fu l’ateniese Tucidide (c. 460-400 a.C.). Contrapponendosi al suo grande predecessore Erodoto, che aveva narrato la storia e le usanze di più popolazioni dalle origini fino alle guerre persiane, Tucidide decise di raccontare soltanto la guerra del Peloponneso (431-404), affermando nel proemio di aver capito (e a ragione) fin dall’inizio che si trattava di un fatto senza precedenti (I 1). Per sottolineare la novità di questo conflitto rispetto ai precedenti, dopo il proemio Tucidide inserì un lungo excursus sulla storia più antica – chiamato «archeologia» –, una scelta che sarebbe stata imitata da Sallustio nei capp. 6-13 del De Catilinae coniuratione.

Altri storici contemporanei di Tucidide scelsero la forma monografica in base non tanto all’evento, quanto al luogo: così Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo scrissero opere su singoli Paesi e popoli ricche di notazioni etnografiche o su singole genealogie di eroi, mentre Ippia di Reggio e Antioco di Siracusa si concentrarono sull’Italia meridionale. Nel IV secolo il genere monografico continuò a fiorire (in particolare, i numerosi autori di storie dell’Attica presero il nome di attidografi); alla fine del III secolo vi si affiancarono le monografie dedicate alle straordinarie imprese di Alessandro il Grande (tra gli autori si ricordano Tolemeo, Nearco e Callistene), che però scaddero ben presto nel romanzesco.

Com’è noto, la prima storiografia romana fu di tipo annalistico, ovvero di ampio respiro e scandita anno per anno, fosse essa scritta in poesia (gli Annales di Ennio) o in prosa (le Origines di Catone). Il primo scrittore romano che optò per l’impianto monografico fu Celio Antipatro (II secolo a.C.), autore di un’opera – andata perduta – sulla seconda guerra punica.

La scelta di Celio Antipatro rimase alquanto isolata, finché non fu ripresa da Sallustio, che dedicò le sue due più importanti opere alla congiura di Catilina (63) e alla guerra contro Giugurta (111-105), affermando esplicitamente di voler scrivere «su argomenti scelti» (carptim… perscribere, Cat. 4, 2). Dopo queste due monografie, l’autore praticò anche l’annalistica componendo le Historiae, che narravano i fatti avvenuti dal 78 a.C. in poi.

Anche il più grande storico di età imperiale, Tacito, che ebbe Sallustio come modello di composizione, etica e stile, praticò entrambi i generi: oltre agli Annales e alle Historiae, che raccontano gli accadimenti dalla morte di Augusto, Tacito compose anche una monografia etnografica sui Germani (De origine et situ Germanorum) e un breve De vita Iulii Agricolae, che, pur essendo di per sé un elogio funebre, è in realtà un quadro monografico sul principato di Domiziano.

Insomma, ad avvenimenti brevi Sallustio dedicò opere brevi; malgrado questa caratteristica, le monografie contengono riflessioni che mostrano una lucidità e un’intelligenza proprie di chi ha partecipato attivamente alla vita politica per un lungo tratto della sua vita. il cupo pessimismo dell’autore e la sua tragica visione della Storia si riflettono in uno stile personalissimo, che rifugge dall’eleganza esornativa ciceroniana e fa largo uso di forme poetiche e arcaiche.

Maestro di Marradi. L’espulsione di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto da Roma. Tempera e oro su tavola, XV secolo. Collezione privata.

La vita: dalla politica attiva all’otium letterario

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina (oggi vicino a L’Aquila), il 1 ottobre 86, da una famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati alla res publica; egli era perciò un homo novus, come il suo conterraneo Marco Porcio Catone il Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Sallustio compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica, in un’epoca abbastanza convulsa per lo Stato romano. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e contro Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dovette subire la vendetta degli optimates: nel 50 fu espulso dal Senato per indegnità morale.

Dopo lo scoppio della guerra civile, Sallustio combatté per la causa di Cesare e fu riammesso nel venerando consesso dopo la vittoria di quest’ultimo: la sua carriera politica riprese rapida, tanto che nel 46 era già arrivato a essere pretore. Una volta sconfitti i pompeiani anche in Africa a Tapso, Cesare nominò Sallustio governatore della nuova provincia, costituita in gran parte dalle annessioni dal regno di Numidia, tolto a Giuba che aveva appoggiato il nemico. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità, e al suo rientro a Roma, a fine mandato, fu colpito dall’accusa de repetundis. Per evitargli una sicura condanna e una nuova espulsione dal Senato, probabilmente Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da quel momento in poi che, presumibilmente, Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le opere

Sallustio, dunque, si dedicò alla storiografia quando le circostanze gli impedirono di partecipare ancora alla vita politica. Questo dato biografico è il punto di partenza della riflessione sulla Storia e sul ruolo dello storico che egli svolge nei proemi delle due monografie, il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate forse fra il 43 e il 40. Egli segue una prassi propria della storiografia classica, consistente nell’esordire svolgendo alcuni temi di carattere generale e affermando, prima di tutto, l’utilità della Storia: essa è per lo storico latino tanto più importante, rispetto ai suoi predecessori greci, in quanto la mentalità romana considerava assolutamente primaria la partecipazione alla vita pubblica e guardava con sospetto alle attività intellettuali che comportassero il distacco dalla res publica e il prevalere degli interessi privati.

Appunto contro le resistenze di questo sistema di valori tradizionali Sallustio vuole rivendicare l’importanza dell’opera dello storico. Per tale processo di legittimazione egli parte da premesse filosofiche e precisamente dal tema platonico del dualismo dell’essere umano, composto da animus e corpus: il primo è di origine divina ed è chiamato a funzioni di guida, mentre il secondo, che è mortale e che l’uomo ha in comune con gli altri animali, deve obbedire al primo. È dunque solennemente proclamata la superiorità della parte spirituale dell’uomo su quella fisica: all’animus, appunto, l’autore riconduce tutte le occupazioni nobili ed elevate, quelle apportatrici di fama, che consentono di trascendere i limiti mortali della vita umana.

Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V, copriva il periodo fra il 78 e il 67, cioè dalla morte di Silla alla conclusione della guerra piratica di Pompeo, riallacciandosi alla narrazione di Cornelio Sisenna (c. 120-67 a.C.); ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di vaste dimensioni ( parte del proemio, quattro discorsi e due lettere). Opere spurie sono considerate le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l’Invectiva in Ciceronem.

Come si è visto, dopo un’iniziale, intensa partecipazione attiva alla vita pubblica, ovvero al negotium, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò all’attività letteraria, ovvero all’otium. Poiché i Romani concepivano l’otium in maniera potenzialmente negativa, cioè come tempo sottratto alla cura degli affari e della politica, Sallustio sentì il bisogno di giustificarsi per il passaggio dal negotium all’otium, e lo fece nei due lunghi proemi che antepose alle sue monografie. Sebbene si nutrano di luoghi comuni della filosofia divulgativa, questi proemi rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia era compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone – anch’egli in testi proemiali – a proposito delle sue opere filosofiche; ma in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Tuttavia, l’attività politica non è più praticabile, a detta di Sallustio, perché a Roma trionfa ormai la corruzione.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita pubblica dei cittadini, e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto si sa della sua carriera disonesta di amministratore. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Questo approccio serve a dare conto dell’impianto monografico delle due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia latina. Proprio l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il De Catilinae coniuratione illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità fino ad allora ignota alla res publica; il Bellum Iugurthinum, invece, affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas ormai corrotta a difendere lo Stato, e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica della poesia e la scelta della monografia portò Sallustio a elaborare un nuovo stile storiografico.

Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della guerra. Olio su tela, c. 1640. Collezione privata.

Il De Catilinae coniuratione

Sallustio sceglie come argomento della sua prima monografia la congiura di Lucio Sergio Catilina, repressa da Cicerone console nel 63, perché vi scorge una pericolosa novità: il tentativo di coalizzare contro lo strapotere del Senato una sorta di “blocco sociale” costituito dalle masse di diseredati del proletariato urbano, dei poveri delle campagne, dai membri decaduti del patriziato, forse persino da frotte di servi. Il fenomeno catilinario aveva suscitato nei gruppi dirigenti dell’Urbe timori che possono apparire eccessivi, ma senza la paura dei ceti possidenti nei confronti degli strati inferiori della società non si comprende l’importanza che fu attribuita alla congiura.

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel sovversivismo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui soffriva la società romana. A essa lo storico, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi all’inizio dell’opera (capp. 6-13): si tratta della cosiddetta «archeologia», che, sul modello tucidideo, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Anche se con il senno di poi la congiura di Catilina può sembrare un evento di modesta portata, ingigantito da Cicerone per aumentare i propri meriti e da Sallustio per finalità storiografiche, resta il fatto che fece una grande impressione presso i contemporanei. A partire dall’epoca di Gracchi (133-120 a.C.), passando per i tumulti di Saturnino (100) e Druso (91) e per lo scontro tra Mario e Silla (88-82), la violenza civile a Roma era aumentata a dismisura e in modo incontrollato, finché Catilina non fece il grande passo: per la prima volta qualcuno tramava segretamente contro la res publica. Catilina era pronto a massacrare in un attimo i membri di quel Senato che frequentava abitualmente e i magistrati con cui si intratteneva ogni giorno come se nulla fosse. Sallustio, dunque, si è chiesto come sia stato possibile giungere a tanto. Mentre uno storico moderno spiegherebbe i fatti attraverso motivazioni economiche, politiche e sociali, Sallustio – storico moralista e “tragico” – addita una causa di natura collettiva, cioè la decadenza morale di tutta Roma e una di natura individuale, cioè la malvagità d’animo del protagonista e di tutti coloro che avevano scelto di seguirlo.

I capitoli 9-11, che espongono la prima delle due ragioni, sono estratti dalla cosiddetta «archeologia», l’excursus che presenta l’ascesa di Roma dal periodo della fondazione al presente dell’autore. La tesi di Sallustio è che fino alla distruzione di Cartagine (146) i Romani, valorosi in guerra e giusti e miti in tempo di pace, abbiano mantenuto boni mores; ma, una volta scomparso il grande rivale, l’Urbe è precipitata in un baratro di corruzione e violenza, culminato nella dittatura di Lucio Cornelio Silla.

[9.1] Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. [2] iurgia discordias simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. in suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. [3] duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. [4] quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; [5] in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.

[10.1] Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] haec primo paulatim crescere,interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

[11.1] Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. [2] nam gloriam honorem imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit. [3] avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit: ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat, semper infinita ‹et› insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur. [4] sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, trahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. [5] huc adcedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant: [6] ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare potare, signa tabulas pictas vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. [7] igitur ei milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil relicui victis fecere. [8] quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi conruptis moribus victoriae temperarent.

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

[9.1] In pace e in guerra, dunque, era onorata la buona condotta; regnava la concordia, non si conosceva brama di arricchire. Il diritto e l’onestà erano osservati non in forza di leggi ma per impulso naturale. [2] Alterchi, discordie, contese se ne avevano solo con i nemici esterni: tra concittadini si gareggiava soltanto per il valore. Erano splendidi nel culto reso agli dèi, parsimoniosi nella loro vita privata e leali agli amici. [3

]Sia nella vita privata sia in quella pubblica, si attendevano a due principi, spietati in guerra, erano equi quando era tornata la pace. [4] Sono cose di cui potrei addurre documenti irrefutabili, perché in guerra è accaduto di dover punire soldati per essersi lanciati sul nemico contro gli ordini o attardati a combattere dopo il segnale della ritirata, più spesso che per aver disertato o ceduto terreno sotto la pressione degli avversari. [5] In tempo di pace, d’altro canto, esercitavano il loro dominio più con la benevolenza che con il terrore e preferivano perdonare alle offese ricevute anziché punirne i responsabili.

[10.1] Ma come la res publica, con la tenacia e la giustizia, si espanse e i re più potenti furono soggiogati e le genti barbare e le grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu rasa al suolo dalle fondamenta e si erano aperti tutti quanti i mari e le terre, la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. [2] Per quelle stesse persone che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, la tranquillità e il benessere, beni d’altro canto desiderabili, si trasformarono in travagli e sciagure. [3] La brama di ricchezza e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. [4] Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse la gente all’arroganza, alla crudeltà, alla noncuranza verso gli dèi, alla convinzione che non ci fosse cosa che non fosse in vendita. [5] L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e ad averne un altro pronto sulla lingua, a considerare amici e nemici non per i loro reali meriti, ma secondo il proprio tornaconto, a sembrare onesti più che a esserlo davvero. [6]

 Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma più il contagio si diffuse come una pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile.

[11.1] Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia tormentava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano dal pregio. [2] Infatti, alla gloria, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, l’uomo di valore e l’incapace; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la meta con la frode e il raggiro. [3] L’avidità contiene in sé la brama di denaro, che nessun sapiente ha mai desiderato e desidera. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, infiacchisce il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non si attenua né per abbondanza né per difetto. [4] Ma, dopo che Lucio Silla, preso il potere con le armi, fece seguire fatti atroci nonostante i fausti inizi, tutti si diedero a commettere stupri e rapine, chi bramava una casa, chi i poderi, i vincitori non conoscevano freno né misura, compivano atrocità e crudeltà contro i concittadini. [5] A ciò si aggiungeva il fatto che Lucio Silla aveva lasciato vivere nel lusso e trattato con eccessiva liberalità, contrariamente al costume degli avi nostri, l’esercito che aveva condotto con sé in Asia per renderselo leale. L’amenità e la molle piacevolezza dei luoghi avevano rapidamente fiaccato nell’ozio lo spirito fiero di quei soldati. [6] Laggiù per la pima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, ad amoreggiare, a bere smodatamente, ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri e vasellame cesellato, e incominciò a rubarli dalle case private e dai luoghi pubblici, a spogliare i templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. [7] Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono niente ai vinti. [8] La prosperità corrompe perfino l’animo del saggio: figuriamoci se quei degenerati avrebbero saputo moderarsi nella vittoria!

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: L(ucius) Sulla. Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, reggente una foglia di palma.

Nella visione pessimistica di Sallustio, la società romana del suo tempo era ormai minata da un processo irreversibile di degenerazione morale, che aveva rovesciato i boni mores che un tempo avevano fatto la grandezza di Roma. In quest’ottica, un episodio come la congiura di Catilina rappresenta il culmine di una “malattia” che ha progressivamente corroso il tessuto sociale, e per capirne le implicazioni è necessario rileggere lo sviluppo storico che ha portato dagli antichi fasti all’attuale decadenza della res publica. È questa, come più volte si è detto, la funzione della cosiddetta «archeologia», in cui, sul modello dell’analoga digressione di Tucidide, Sallustio interrompe la linea narrativa della monografia per tracciare una sorta di “storia morale” di Roma, dall’età mitica fino al suo presente, una storia di progressiva, inesorabile decadenza.

Mentre i primi quattro capitoli dell’excursus sono dedicati all’elogio della moralità arcaica, gli ultimi quattro, in perfetta simmetria, descrivono la china “discendente” di questa parabola. Il punto di svolta, per l’autore, è la distruzione di Cartagine (10, 1), e da qui in poi si apre l’elenco delle “tappe della rovina”. Sallustio è attento alla scansione temporale dei fenomeni, come mostra l’abbondanza di indicatori cronologici. L’autore cita questo evento come coronamento delle vittorie ottenute da Roma, fra III e II secolo a.C., contro reges magni (Pirro d’Epiro, Perseo di Macedonia e Antioco di Siria), nationes ferae e populi ingentes. L’idea che a partire da questo fatto fosse iniziata la decadenza dell’Urbe circolava già da qualche tempo: nel II secolo, infatti, lo storico Polibio di Megalopoli aveva notato come la paura per il nemico stimolasse la concordia fra i concittadini, mentre il benessere che segue alla sconfitta del nemico e alla conquista di nuovi territori avviasse un processo di decadenza (è la cosiddetta “teoria del metus hostilis”). In quest’ottica, però, è interessante notare come Sallustio attribuisca all’azione della fortuna l’inizio del rovinoso processo, o meglio al fatto che la virtus, indebolendosi, lasciò spazio al gioco della fortuna. Inoltre, i primi segni della decadenza sono l’insorgere della cupido pecuniae e poi della cupido imperii (10, 3), ai cui effetti, avaritia e ambitio, sono dedicati i successivi paragrafi. Si inserisce, a questo punto, il secondo evento cruciale, cioè la dittatura di Silla (11, 4-7), che, nella visione di Sallustio, diede modo all’avaritia di scatenarsi senza più ritegno, tra proscrizioni, permissività nei confronti di militari corrotti, e crudeltà crescente fra concittadini. In chiusura, una frase sentenziosa denuncia il carattere inevitabile di tale processo e l’inconciliabilità delle secundae res con la conservazione dei boni mores (11, 8).

L’immagine della Roma antica che emerge da questa pagina sallustiana è fortemente idealizzata: l’autore evita di fare qualsiasi cenno alle lotte fra patrizi e plebei, che ebbero luogo nei primi secoli della storia repubblicana, per aumentare il contrasto fra questa età e la successiva decadenza, macchiata da ben più cruente stragi fra i cives. Di quel periodo Sallustio ricorda solo gli episodi più edificanti, per quanto sconcertanti, come si scorge in 9, 4: l’immagine del soldato romano che rischia di essere punito più per un eccesso di ardimento che per essere fuggito allude all’episodio di Tito Manlio Torquato, console nel 340, che condannò all’esecuzione capitale il proprio figlio per aver combattuto contravvenendo ai suoi ordini. Il paragrafo 9, 5, invece, celebra l’imperialismo romano come un dominio basato sulla benevolenza e la mitezza, piuttosto che su un regime di terrore nei confronti delle popolazioni sottomesse.

Anche l’idea che i boni mores vigessero più per istinto naturale che per la forza delle leggi è un elemento fortemente idealizzante, che si ritrova nell’immagine “aurea” del virgiliano regno di Saturno (Verg. Aen. VII 203) e diventa ben presto luogo comune (per es., Hor. Carm. III 24, 35-36). Un altro tratto elogiativo è il contrasto fra la parsimonia privata e la magnificenza del culto divino, per cui Sallustio trae probabilmente spunto da un’orazione di Demostene (Dem. 3, 25), che opponeva il fasto dei templi all’umiltà delle abitazioni private nell’antica Atene.

Catilina incarna in sé, portandoli al massimo grado, i vizi della società contemporanea: le sue colpe sono le stesse della civitas, come Sallustio riconosce verso la fine del ritratto del protagonista (5). Perciò, al termine dell’excursus “archeologico”, ecco di nuovo e subito Catilina, che questa degenerazione ricapitola e impersona (14).

[14.1] In tanta tamque conrupta civitate Catilina, id quod factu facillumum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. [2] Nam quicumque inpudicus adulter, ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, [3] praeterea omnes undique parricidae sacrilegi convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ii Catilinae proxumi familiaresque erant. [4] Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cotidiano usu atque inlecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. [5] Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat: eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. [6] Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canis atque equos mercari; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. [7] Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[14.1] In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. [2] Non c’era, infatti, degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era uno indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, [3] non c’era un parricida o un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di sentenza, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse tra i suoi. [4] E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, di entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri. [5] Cercava, soprattutto, di attirare i giovani: le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania. [6] Infatti egli li assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. [7] So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti i giovani che frequentavano la casa di Catilina; ma erano voci, congetture basate su tutto il contorno, non su fatti accertati.

In questo breve capitolo Sallustio mostra come un Catilina si trovasse perfettamente a suo agio in mezzo alla corruzione di Roma, essendone alimentato e alimentandola a sua volta con i suoi misfatti. In particolare, qui l’autore allude all’immoralità sessuale dei suoi seguaci, sulla quale Catilina poteva fare leva per attirarli: con lui c’era ogni inpudicus, adulter e quicumque… pene bona patria laceraverat, perciò a Catilina bastava scorta praebere («procurare prostitute»). Queste accuse erano sicuramente gravi per la rigida morale sessuale dei Romani, ma ancora tollerabili: la prostituzione era accettata, purché non mettesse in discussione la famiglia e restasse nell’ambito eterosessuale.

L’accusa più grave è quella di pederastia contenuta in 14, 7, espressa per litote con parum honeste pudicitiam habuisse. Sallustio, però, ne prende onestamente le distanze, definendola basata genericamente ex aliis rebus, ben sapendo che nella lotta politica il pettegolezzo sessuale contro gli avversari (soprattutto su forme di sessualità eterodossa) era un’arma diffusissima. Cicerone nell’orazione pro Caelio (56 a.C.) avrebbe riportato le voci sull’amore incestuoso di Clodia (la catulliana Lesbia) con il fratello Clodio, il tribuno che lo aveva mandato in esilio; a sua volta, Cicerone fu accusato di intrattenere rapporti incestuosi con l’amatissima figlia Tullia. E già un secolo prima, il grande commediografo Terenzio era stato accusato di essere l’amasio di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, e di farsi comporre le commedie proprio da loro.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera (capp. 37-39), denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dittatura sillana alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e gli optimates: da un lato i demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro i nobiles e gli equites, che si fanno paladini della dignità del Senato, ma combattono in realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio scorge un legame organico fra la faziosità delle parti contrapposte e il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità” diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente al riparo da quel pericolo.

La condanna del «regime delle factiones» è in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare. Da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi della res publica, ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta Italia. La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio – anche qui non troppo diversamente da Cicerone – doveva sentirsi disgustato dall’inquinamento del Senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel De coniuratione Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares.

Nel riferire la seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C., in cui fu decisa la condanna a morte dei complici del complotto (Cat. 51), Sallustio fa pronunciare a Cesare un lungo discorso che, per sconsigliare l’estremo supplizio, fa largo appello a considerazioni legalitarie. Il discorso “rifatto” da Sallustio non è, a quanto pare, una sostanziale falsificazione; ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nell’intervento effettivamente pronunciato da Cesare in quell’occasione, è soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni, quale mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico sallustiano. La preoccupazione per l’ordine e la legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare fin dal 63, Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del Senato, l’autore delinea i ritratti di Marco Porcio Catone e di Cesare, che in quell’occasione avevano espresso pareri opposti (Cat. 54). L’idea del confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in Utica, e alla quale aveva preso parte lo stesso Cesare con l’Anticato. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una riflessione pacata, che approda a una sorta di ideale “conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria; le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia. Malgrado ciò, «pari era in loro la grandezza d’animo, pari era la fama» (magnitudo animi par, item gloria). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo Stato romano, anzi nelle loro virtù individuava aspetti complementari; in particolare, nei principi etico-politici affermati da Catone, Sallustio – al di là dei dissensi sul ruolo del ceto nobiliare cui Catone dava voce – riconosceva un fondamento irrinunciabile per la res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi Romani dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione dei fatti, la figura del console, che si era trovato a reprimere il complotto, appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i vanti che lo stesso Arpinate si era largamente prodigato. Il Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa il suo dovere, pur non essendo un eroe, superando inquietudini e incertezze.

Attinge, invece, una sua grandezza, sia pure malefica, il personaggio di Catilina stesso, del quale l’autore delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti (Cat. 5), sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di depravazione. Ne emerge il tipo dell’«eroe nero», che con la sua tensione verso il male mette in moto nella Storia le dinamiche più rovinose.

[5.1] L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. [2] Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. [3] Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. [4] Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5] Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. [6] Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat.[7] Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato (dettaglio). Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

[5.1] Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. [2] Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi anni giovanili. [3] Aveva un fisico incredibilmente resistente al digiuno, al freddo, alla veglia; [4] uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del proprio; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; [5] un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. [6] Finito il dispotismo di Lucio Silla, egli fu preso dalla smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli. [7] Quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. [8] Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano ormai due vizi diversi ma parimenti funesti, il lusso e la cupidigia.

I ritratti sono dedicati a personalità illustri ed eccezionali, nel bene e nel male; ciò corrisponde a una visione della Storia che è fatta soprattutto dal confronto e dallo scontro di grandi uomini, più che da fattori socio-economici e politici, ai quali uno storico moderno darebbe maggiore importanza. Sicuramente in queste scelta giocano un ruolo notevole anche le esigenze della storiografia antica, comunemente concepita più come operazione letteraria e artistica che come attività divulgativa di tipo scientifico. I ritratti dei grandi personaggi del passato costituiscono un elemento di comune impiego nelle opere storiografiche antiche, dove fornivano esempi illustri ai quali i lettori avrebbero potuto conformarsi. Ebbene, tale funzione paradigmatica in Sallustio viene per lo più a cadere: ciò che egli vuole imprimere nel suo pubblico è l’ammirazione per le potenti manifestazioni di grandi personalità, tanto che anche un personaggio del tutto negativo come Catilina non manca di suscitare una certa forma di rispetto per la sua grandezza perversa e per la sua virtus, benché rivolta al male. Il giudizio morale è netto e senza appello: Catilina, patrizio decaduto, ex sillano, divenuto un popularis estremista in cerca di appoggi presso i diseredati e addirittura fra gli schiavi, non trova benevolenza presso un moderato come Sallustio.

L’introspezione prende la forma dell’antitesi: lo stile raffigura con evidenza il conflitto interiore di aspetti contrari compresenti in una stessa personalità. Per rendere questa opposizione interiore l’autore si serve di una prosa concitata, in cui la variatio riflette la frantumazione della personalità. Infatti, man mano che il ritratto prende forma, anche il soggetto grammaticale non è più il personaggio, ma i singoli elementi che lo compongono (corpo, animo, passioni, ecc.): dopo aver scomposto Catilina in corpus e animus, nella parte conclusiva del ritratto, dove il periodare si fa più disteso, sono le passioni a divenire il soggetto: lubido, inopia e conscientia scelerum “invadono” il personaggio e dilagano sulla pagina.

Il Bellum Iugurthinum

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105 a.C.) fu la prima occasione in cui «si osò andare contro l’insolenza della nobiltà». In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente romana nella crisi della res publica.

Giugurta, infatti, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia capitolina inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Quinto Cecilio Metello, inviato in Africa, aveva ottenuto successi notevoli, ma non decisivi; Gaio Mario, suo luogotenente, dopo lunghe insistenze ottenne da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto sommo magistrato per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione dell’esercito, arruolando i capite censi. Il conflitto riprese con alterne vicende e si concluse solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradì Giugurta, suo potente alleato e suocero, e lo consegnò ai Romani.

Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica romana: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro le classi superiori corrotte il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella monografia precedente, lo storico inserisce al centro dell’opera un excursus (Iug. 41-42), che indica nel «regime delle fazioni» (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e nella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel De coniuratio. Nella seconda monografia, il bersaglio polemico è la nobilitas e nell’excursus traspare, per esempio, la preoccupazione di non condannare la politica graccana in maniera globale, ma solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobilitas come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la frangia più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Gaio Memmio (Iug. 31) per protestare contro l’operato inconcludente di certa parte del Senato, e successiva da Gaio Mario (Iug. 85), quando quest’ultimo convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue gli interventi rappresentano i migliori valori etico-politici espressi dalla causa mariana nella lotta contro lo strapotere della nobilitas. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci ed enumera i mali del loro regime: il tradimento degli interessi della cosa pubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, il monopolio sulle ricchezze, sulle risorse e sulle cariche politiche.

Nel discorso di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali, sulle qualità e le competenze di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli (Iug. 85, 18-30). Mario si richiama ai valori antichi che avevano fatto la grandezza di Roma, quei valori che in un’epoca remota avevano permesso di emergere agli stessi capostipiti delle gentes patrizie, ormai tralignanti e caratterizzate solo da inettitudine.

Presunto ritratto di Gaio Mario. Testa, marmo, I secolo a.C. München, Glyptothek.

[85.18] Invident honori meo: ergo invideant labori, innocentiae, periculis etiam meis, quoniam per haec illum cepi. [19] Verum homines conrupti superbia ita aetatem agunt, quasi vostros honores contemnant; ita hos petunt, quasi honeste vixerint. [20] Ne illi falsi sunt, qui divorsissumas res pariter exspectant, ignaviae voluptatem et praemia virtutis. [21] Atque etiam, cum apud vos aut in senatu verba faciunt, pleraque oratione maiores suos extollunt: eorum fortia facta memorando clariores sese putant. [22] Quod contra est: nam quanto vita illorum praeclarior, tanto horum socordia flagitiosior. [23] Et profecto ita se res habet: maiorum gloria posteris quasi lumen est, neque bona neque mala eorum in occulto patitur. [24] Huiusce rei ego inopiam fateor, Quirites; verum, id quod multo praeclarius est, meamet facta mihi dicere licet. Nunc videte quam iniqui sint. [25] Quod ex aliena virtute sibi adrogant, id mihi ex mea non concedunt, scilicet quia imagines non habeo, et quia mihi nova nobilitas est, quam certe peperisse melius est quam acceptam corrupisse. [26] Equidem ego non ignoro, si iam mihi respondere velint, abunde illis facundam et compositam orationem fore. Sed in vostro maxumo beneficio cum omnibus locis me vosque maledictis lacerent, non placuit reticere, nequis modestiam in conscientiam duceret. [27] Nam me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest: quippe vera necesse est bene praedicet, falsam vita moresque mei superant. [28] Sed quoniam vostra consilia accusantur, qui mihi summum honorem et maxumum negotium inposuistis, etiam atque etiam reputate, num eorum paenitendum sit. [29] Non possum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas vexillum phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. [30] Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae egomet meis plurumis laboribus et periculis quaesivi.

[85.18] Sono invidiosi della mia posizione: e che lo siano dunque anche della fatica, dell’integrità che me l’hanno procurata! [19] Invece, uomini bacati dall’ambizione, vivono come se avessero a disdegno le cariche che voi conferite e le brigano come se vivessero onestamente. [20] Quanto s’ingannano nel pretendere di conseguire insieme due cose incompatibili, il piacere dell’ozio e i premi della virtù! [21]Aggiungo che, quando si alzano a parlare davanti a voi o in Senato, riempiono i loro interventi delle lodi degli antenati, convinti di accrescere il proprio lustro con il ricordo delle gesta di quelli. [22] Accade invece l’esatto contrario: quanto più è illustre la gloria degli avi, tanto più è infame la viltà dei posteri! [23] Giacché questa è la verità: la gloria degli antenati, per i discendenti, è una specie di fiaccola che non lascia nell’ombra virtù né vizi. [24] Confesso, o Quiriti, che questa fiaccola mi manca: eppure, cosa molto più onorifica, io sono in grado di elencare le mie proprie gesta! [25] Constatate, ora, l’iniquità del loro atteggiamento: quel che si arrogano in nome del merito altrui non vogliono concedermelo in nome del mio! [26] E il motivo? Io non possiedo stemmi nobiliari ed è di fresco conio la mia nobiltà: ma resta pur vero che è meglio acquistarsela di persona che disonorarla dopo averla ricevuta in eredità! [27] Che con tutto questo riconosco che, se volessero controbattere, avrebbero larga scelta fra discorsi eloquenti e ben elaborati: tuttavia, poiché offendono me e voi a proposito di una carica da voi generosamente conferita, non ho voluto tacere, temendo che il mio silenzio potesse essere interpretato come un’ammissione di colpevolezza! [28] Del resto, sono profondamente convinto che nessun discorso potrebbe nuocermi: giacché, se veritiero, dovrebbe dir bene di me, se falso, sarebbe senz’altro smentito dalla condotta della mia vita. ma, dacché si è messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi la più alta magistratura e il più difficile degli incarichi, esaminate a fondo se dobbiate pentirvene. [29] È vero: non sono in grado di offrirvi in garanzia ritratti, trionfi o consolati di antenati illustri; bensì, se sarà il caso, lance, stendardi, piastrine e altre decorazioni militari, per non parlare delle ferite ricevute in pieno petto! [30] Questi sono i miei stemmi, questa la mia nobiltà: sono titoli che non ho ereditato, come è stato per i miei detrattori, ma che ho acquistato di persona fra sacrifici e rischi innumerevoli!».

Gaio Mario. Busto, marmo, c. I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’oratore si rivolge ai convenuti chiamandoli con l’appellativo che li indicava nella loro totalità: Quirites, che i Romani derivavano da Quirinus, nome con cui Romolo fu assunto tra gli dèi, ma che deriva, in realtà, da *co-viri, «uomini riuniti». Mario non intende fare come gli altri politici, che, quando cercano voti e consensi, sono pronti a mille promesse e, una volta eletti, se ne dimenticano, diventando da affabili boriosi. Piuttosto, egli vuole presentarsi come l’esatto opposto: per lui la vera fatica non è la campagna elettorale, ma comincia dopo, quando si entra in carica; dovrà dimostrarsi all’altezza dell’incarico affidatogli, perché i suoi rivali aspetteranno solo un suo passo falso, e non potrà difendersi dietro alla gloria della sua stirpe. Ma egli ammette di sentirsi tranquillo da questo punto di vista, perché ha dalla sua l’esperienza pratica. Egli è un homo novus, che non può vantare tra i propri avi nessun console o pretore o edile curule. Il suo discorso ruota attorno all’antitesi fra la presunta nobiltà degli aristocratici, fatta solo di teoria e vuote parole, e la virtus di chi, come Mario, si è fatto da sé. Anzi, a ogni supposta gloria degli avversari egli contrappone, con gesto plateale e quasi patetico, ben altri tipi di trionfo: medaglie, cicatrici e forza fisica. E, siccome Mario tiene questo discorso per convincere il popolo ad arruolarsi, sottolinea con forza che questo è ciò che saprà insegnare a chi vorrà seguirlo.

Nel complesso, l’intervento di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere; tuttavia, il giudizio complessivo di Sallustio su di lui rimane segnato da ambivalenze e sfumature spesso difficili da cogliere nella loro reale portata. L’ammirazione per l’uomo che ha saputo opporsi all’arroganza dei pauci è in qualche modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura. Sallustio non sembra approvare il provvedimento – in cui si individuava comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali che avrebbero distrutto la res publica – e pare anzi che egli veda come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di homo novus) esalta nel proprio discorso. Il fondamentale moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare importanti riserve sull’uomo che, nella lotta antinobiliare, non aveva esitato ad agitare la feccia plebea e a porre quasi le sorti dello Stato nelle mani del popolino.

Non si può abbandonare la trattazione del Bellum Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta (Iug. 6-8): come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se di una virtus depravata. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re numida è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diventa progressivamente. Il seme della degenerazione è gettato in lui durante l’assedio di Numantia, da nobili e da homines novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua indole si è ormai irrimediabilmente traviata, è solo un piccolo e perfido tiranno, ambizioso e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui: agli occhi dello storico romano le ragioni dell’imperialismo erano tanto evidenti da apparire indiscutibili.

Regno di Numidia. Dramma, Cirta c. 118-106 a.C., AR 3,14 g. Recto: Testa laureata di Giugurta voltata a sinistra.

Le Historiae

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non è chiaro fino a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i frammenti che restano non vanno comunque oltre il 67). Dopo gli esperimenti monografici, l’autore si cimentava ora in un’impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per i moderni perduta, ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura dell’età augustea. Alcuni frammenti superstiti sono particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi – per esempio, quello del tribuno Gaio Licinio Macro per la restaurazione della tribunicia potestas, nel 73; quello di Marco Emilio Lepido contro il sistema di governo dei sillani; quello di Lucio Marcio Filippo, una violenta reazione al demagogismo dell’intervento di Lepido – e di un paio di lettere, una di Gneo Pompeo Magno e una di re Mitridate VI Dionisio Eupatore del Ponto. Di queste lettere ha particolare importanza quella che l’autore immagina scritta proprio dal sovrano orientale (Hist. IV F 69 Maurenbrecher): dalle sue parole, infatti, affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma e la sola ragione che i Romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere (cupido profunda imperii et divitiarum). Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte poche nobili eccezioni (come Sertorio, campione di libertas, che, ribelle a Silla e al prepotente potere degli optimates, aveva fondato nella Penisola iberica una nuova res publica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta più alcun salvatore.

Mitridate VI del Ponto, con leontea. Busto, copia romana del I sec. d.C. da originale greco di sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Lo stile

L’epoca che aveva portato alla massima elaborazione formale sia la prosa artistica sia la poesia si aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. A questo riguardo, Cicerone pensava a uno stile armonioso e fluido e considerava la storiografia opus oratorium maxime («un genere che dev’essere più di tutto oratorio»): un’idea che risaliva al retore Isocrate, maestro di alcuni storici molto apprezzati dai Romani e che appare tanto più comprensibile se si pensa che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità almeno una generazione prima della storiografia.

E, invece, fu proprio Sallustio a fissare lo stile della futura storiografia (anche se non in modo esclusivo): nutrendosi della lezione di Tucidide e di Catone il Censore, egli elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana della simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, e variationes. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sapesse frenarlo dall’altra produceva un effetto di gravitas austera e maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

A tale gravitas contribuisce parecchio la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e, in genere, omissione di legami sintattici, ellissi di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti (con effetto intensivo). L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma al contempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare emozioni e, perciò, ispirata a uno stile di narrazione vivace e, per così dire, “realistico”. Ma la limitazione approda a una drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sono scelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modello

Il generale dell’esercito romano nel I secolo a.C.

di E. GABBA, in M. SORDI (a c. di ), Guerra e diritto nel mondo greco e romano. Contributi dell’Istituto di storia antica, vol. XXVIII, Milano 2002, pp. 155-162.

Questo intervento si basa su alcuni miei lavori precedenti. Come si vedrà dai testi, io sostanzialmente farò riferimento a una serie di scritti che si collocano lungo un percorso cronologico che, pur incominciando dalla fine del IV secolo, in realtà è centrato sul I secolo a.C.

Il concetto base, che rappresenta anche la conclusione, è che la caratteristica del comandante militare romano nel I secolo a.C. è strettamente collegata con un profondo mutamento, intervenuto nella composizione della forza militare romana, che emerge con nette caratteristiche in opposizione alle situazioni precedenti. La connotazione del generale nel I secolo a.C. è, infatti, fondamentalmente militare e sta in rapporto alla situazione socio-politica dell’esercito, che è venuta acquisendo i suoi lineamenti dalla fine del II secolo a.C. e che ha modificato profondamente il rapporto precedente fra il generale e le sue truppe.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Io mi sono già occupato dell’esercito professionale che si contrappone – non in maniera totalmente drastica ma in modo molto evidente – al precedente tipo di esercito che era una milizia cittadina[1]. Il generale del I secolo non è più visto in relazione ai cittadini che si ritrovano nella milizia, dove la distinzione fra chi comanda e chi obbedisce si fonda sul riconoscimento, da parte dei cittadini militi, di una superiorità della propria classe dirigente tradizionale per virtù civiche, politiche e militari. Questo riconoscimento, che prescinde dalla divaricazione di carattere sociale – che fra IV e III secolo a.C. non è così grave come sarà poi –, è testimoniato molto bene dagli elogi degli Scipioni, cioè la messa in epigrafe di laudationes funebri, che si rivolgono al pubblico – almeno quelle del Barbato e del figlio –; in esse c’è il riconoscimento del cittadino, che esercita la sua attività e poi va a combattere nella milizia, nei confronti del suo comandante, il quale a sua volta è un cittadino di grado più elevato di cui si riconosce una certa serie di meriti[2].

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Un altro esempio curioso: in Livio IX 16, 11 ss. c’è l’elogio funebre di Papirio Cursore che fu console nel 326, 320, 319, 315, 313 e dittatore nel 310 a.C. In tale elogio si dice che il cognomen Cursor dipendeva dal fatto che costui sapeva correre molto bene, vale a dire sapeva combattere con velocità, poi si elogia la sua capacità di mangiare, di bere molto e di sopportare bene le fatiche della guerra, cioè delle caratteristiche estrinseche e tuttavia interessanti. Un altro esempio ancora è il decalogo della laudatio funebris pronunciata nel 221 a.C. dal figlio per L. Cecilio Metello (Oratorum Romanorum fragmenta, ed. E. Malcovati, IV edizione, p. 10)[3] dove si dice che Metello si vantava di aver raggiunto dieci aspetti fondamentali nella vita politico-militare, fra i quali non figurano né il favore degli dèi, né i rapporti con i suoi cives: sono esclusivamente virtù e capacità personali che sono emerse nell’esercizio della sua attività politico-militare come cittadino romano dell’oligarchia.

L’avvio al riconoscimento al generale di un potere carismatico avviene in seguito con Scipione Africano, che rappresenta però nel suo contesto storico un’eccezione[4]. Mi limito a citare l’episodio di Carthago Nova nel 209 a.C., quando si trattava di dare l’assalto a questa fortezza cartaginese in Spagna. L’episodio è circondato da un alone carismatico che sfiora la leggenda. In Polibio X 2, 2-20 e in Livio XXVI 41, 3-25 (con un discorso che però qui non interessa) la giustificazione dell’impresa militare data dal generale ai suoi soldati è il motivo dell’appoggio divino, che sarà poi tradizionalmente connesso con la personalità di Scipione; è determinante questa affermazione nel rapporto verso i militi, per convincerli che l’impresa non sia disperata e perché ritengano invece possibile compierla. A questa giustificazione si sommano altre due caratteristiche: Scipione è presentato come esempio di continenza e di disinteresse. Si tratta di un caso abbastanza isolato. La motivazione dell’appoggio divino per il comandante militare è una cosa molto diversa dagli onori divini che il mondo greco attribuisce ai generali romani che combattono in Oriente.

Littore. Statuetta, bronzo, I sec. d.C. London, British Museum.

La situazione cambia completamente nel corso del II secolo a.C. e in proposito vi sono alcuni testi assolutamente fondamentali[5]. Mi riferisco al caso di Tiberio Gracco che nel 133 a.C. presenta la sua legge agraria. Come è noto, le due fonti principali sono le Guerre Civili di Appiano I 1 e la biografia dei due fratelli Gracchi di Plutarco, riportano dei brani di discorsi che Tiberio Gracco ha tenuto (non entro nel problema complicatissimo delle fonti, ma è ammesso che questi sono frammenti fededegni). Le argomentazioni che Tiberio adduceva erano di due tipi: quelle di fronte al Senato e quelle di fronte al popolo. Quello che ci interessa è uno dei discorsi tenuti davanti al popolo, in cui Tiberio afferma che i generali, quando tengono i loro discorsi ai soldati prima della battaglia raccontano delle cose inattuali allorché sostengono che il combattimento avviene pro aris et focis: siamo al di fuori di questa mentalità, perché la maggior parte dei soldati non ha neanche la tana che hanno le bestie, né focolari, né tombe da difendere. Perciò tale discorso giustificativo non è più attuale. Naturalmente dietro a questa inattualità c’è il fatto che i ceti medi che fornivano gli adsidui sono decaduti e si sono proletarizzati; perciò non c’è più una corrispondenza fra la realtà sociale della milizia alla quale i generali si rivolgono con gli argomenti antichi e le realtà che sono invece completamente nuove.

Questo è interessante perché fornisce un altro argomento a dei ragionamenti che troviamo, più che nel testo di Tiberio, negli scritti di Sallustio. Alla base di questo nuovo modo di ragionare, cioè l’assenza di corrispondenza fra la realtà sociale e i motivi tradizionali con i quali i soldati venivano incitati alla battaglia dai loro generali, emerge un ragionamento già presente in pensatori greci anche del V e del IV secolo a.C.: combatte volentieri chi ha qualcosa da difendere; chi non ha nulla da difendere combatte semplicemente per guadagno; da qui la famosa frase di Sallustio et omnia cum pretio honesta videntur, vale a dire tutte le cose diventano onorevoli se però c’è un contraccambio[6]. Sallustio presta questa tematica – peraltro ricorrente nella sua opera – anche alla fine del II secolo a.C. con un riverbero però di situazioni successive. Comunque nel discorso di Tiberio Gracco, il generale con quelle sue giustificazioni non è più in grado di corrispondere alla realtà sociale delle sue truppe.

Nel 106 a.C., Bellum Iugurthinum di Sallustio cap. 85, su cui ha scritto anche la collega Sordi[7], è il famoso discorso di Mario dopo la sua elezione, dove ci sono nuovi motivi dell’età triumvirale (quando, cioè, scrive Sallustio, che è in polemica con l’età triumvirale ma anche con Cicerone volendo rappresentare il declino della nobiltà oligarchica, che Sallustio fa risalire appunto al periodo della guerra giugurtina). In questo discorso ci sono almeno quattro punti da tener presenti: Mario elogia i suoi mores che non dipendono dalla tradizione ma sono di buona gente contadina, esalta la sua novitas – motivo caricato di significato dall’età triumvirale –, combatte l’avaritia dei generali dell’oligarchia (par. 45) e fa balenare la speranza di preda per i soldati. Siamo quindi di fronte a una realtà nuova e, in linea con gli argomenti del discorso di Tiberio Gracco, incomincia a far capolino l’accusa di avaritia ai generali dell’oligarchia, alla quale si contrappone Mario con i suoi mores intemerati che derivano dalla sua novitas, ma c’è anche la speranza di preda. Qualunque sia l’aderenza del discorso più o meno attuale, tuttavia esso conferma i frammenti di Tiberio Gracco, vale a dire che il richiamo di valori ideali per la truppa è ormai al di fuori di ogni attualità.

La milizia cittadina che si richiamava ai valori ideali è in via di sparizione; in questo contesto avviene la teorizzazione della necessità di arruolare truppe volontarie, che sono disposte a fare tutto agli ordini del generale per essere ricompensate, e così vengono meno la difesa del patrimonio e l’amor patrio. Il prestigio del generale si va sempre più appoggiando anche a interventi della divinità. Gli dèi intervenivano nella discussione polemica sull’imperialismo romano del II secolo a.C. come motivo giustificatorio verso l’esterno: sono numerosissime le iscrizioni di II secolo in cui è presente questo tema. Ora riprendiamo il motivo già presente in Scipione dell’appoggio della divinità, che diventa motivo strumentale interno per il rapporto fra il comandante e i suoi soldati; l’esempio più tipico è quello di Silla che addirittura assunse il cognome di Felix, nel senso di «fortunato», che nell’appellativo greco di ἐπαφρόδιτος veniva ad assumere il senso di essere appoggiato da Afrodite. Il generale dalla fine del II secolo a.C. ritiene normale richiamare questi motivi carismatici come evento legittimante, che sostituisce l’ideale della difesa della patria e rappresenta anche, come sappiamo, un contesto assolutamente nuovo.

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, tenente una foglia di palma (L. Sulla).

La personalità del generale, i suoi comportamenti e i suoi rapporti con le truppe diventano oggetto di una teorizzazione, che non era mai esistita in precedenza, se non negli accenni che prima ho fatto, e questa teorizzazione si collocava verso gli anni ‘60 del I secolo a.C. e si sviluppa attraverso il confronto fra due grandi personalità: il più grande generale dell’oligarchia del tempo, L. Licinio Lucullo, e Pompeo Magno. Il confronto avviene al momento della sostituzione di Lucullo con Pompeo nella conduzione della guerra mitridatica, cioè attorno al 67-66 a.C. La fonte principale è l’orazione De imperio Cnei Pompei del 67 a.C. per la legge Manilia e i passi che vedremo rappresentano una lunga trattazione dal par. 28 al par. 48[8].

Qui si pone un altro problema: se dietro all’orazione ci sia non solo una rielaborazione del testo pronunciato, ma anche una lunga discussione sulla figura del comandante, perché il problema è affrontato anche in modo esplicito nella biografia di Lucullo di Plutarco capp. 7 e 32-35, dove c’è una lunga spiegazione del modo di comportarsi di Lucullo, di cui si riconoscono i meriti militari indiscutibili, ma si accenna anche al fatto che tutte le campagne militari da lui condotte non hanno mai rappresentato il colpo decisivo per distruggere Mitridate. Questa discussione dei comportamenti di Lucullo si basa sopra alcuni motivi ben precisi: il suo distacco fortissimo verso le truppe – egli trascurava, cioè, le ragioni di soldati che combattevano da decenni in Asia –, il suo disprezzo per le loro esigenze di remunerazione e le accuse di approfittarsi della guerra e dei bottini. La biografia di Lucullo dipende dalle Historiae di Sallustio, come dice Plutarco; sarebbe interessante vedere se il testo di Sallustio, ripreso da Plutarco, risponde all’orazione ciceroniana e se ci siano alla base delle riflessioni dello stesso Cesare.

Cicerone (De imperio Cn. Pompei, par. 28) dice: in summo imperatore quattuor has res inesse oportere, scientiam rei militaris, virtutem, auctoritatem, felicitatem e poi spiega che con scientia rei militaris si intende che il generale deve essere competente. Questa è un’esigenza sempre più precisa anche quando la professione del generale ha un suo valore autonomo; nel IV secolo e ancora in seguito nessuno pretendeva che ci fosse una scientia rei militaris, al massimo si suppliva con un legato esperto. La virtus è il valore, il generale deve impersonare il valore militare, deve essere capace cioè di tradurre la scientia rei militaris in un’azione diretta. Poi l’auctoritas, come spiega Cicerone, significa avere autorevolezza sui soldati, allontanando da sé ogni accusa di avaritia. Infine la felicitas, cioè la fortuna: bisogna mostrare che il generale ha avuto l’appoggio degli dèi. Tutte qualità che non si ritrovano combinate in Lucullo. Ne emerge una figura di generale completamente nuova che corrisponde al nuovo rapporto che si è stabilito fra lui e le sue truppe, mentre passa del tutto in secondo piano il fatto che il generale rappresenti la res publica. Nel Bellum Hispaniense[9] si dice che un sottoufficiale, che aveva combattuto con Pompeo, passa dalla parte di Cesare perché il suo generale non aveva più avuto fortuna. Non si tratta di un “ribaltone”: semplicemente bisogna passare dalla parte di chi ha l’appoggio degli dèi. Siamo di fronte a una consapevolezza nuova.

«Minerva Giustiniani». Statua, marmo pario, seconda metà I sec. d.C. ca. dal Tempio di Minerva Medica sull’Esquilino. Roma, Musei Vaticani.

Mi sono occupato del problema in un volumetto sulle rivolte militari romane pubblicato nel 1974, dove avevo già precisato questi punti ma senza questo approfondimento. Nel De bello Gallico I 40, 12-13, al momento dello scontro militare di Cesare con Ariovisto a Vesontio (Besançon), ci sono i prodromi di una rivolta militare nella raffigurazione piena di sarcasmo che Cesare dà dei soldati e soprattutto dell’ufficialità, venuta al seguito del generale nella speranza del bottino, quando, resa nota la descrizione dei soldati di Ariovisto, si diffonde un timor panico in tutto l’esercito. Cesare interviene con questo discorso in cui chiede da quando in qua i soldati discutono col generale il diritto al comando: se il generale dà un ordine vuol dire che questo è possibile (scientia rei militaris), d’altra parte gli risulta che nei casi in cui un qualche esercito si sia rifiutato di ubbidire dipendeva dal fatto o che nelle campagne militari precedenti era mancata la fortuna (aut male re gesta fortunam defuisse) o aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam, in seguito a qualche mal fatto era legittima l’accusa di avaritia verso il generale.

Ritornano nel discorso di Cesare almeno tre dei motivi fondamentali della connotazione che doveva esserci, secondo Cicerone, nel generale. Uno è il tema dell’avaritia, l’altro è quello della fortuna, cioè dell’appoggio degli dèi, e il terzo è quello della scientia rei militaris, e poi Cesare aggiunge che suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam, cioè la sua assoluta purezza di fronte all’avaritia era dimostrata da tutta la sua vita, mentre la sua fortuna era dimostrata dallo scontro da poco concluso con gli Elvezi.

Il passo è ricco di artifizi, perché nella vita di Cesare fino ad allora appariva ben poca innocentia, ma nessuno poteva negare la sua felicitas. Si può andare più a fondo: è noto che questo discorso è stato rielaborato in Cassio Dione XXXVIII 35[10], dove è riportato il discorso di Cesare, ma è molto sbiadita l’aderenza alla rivolte dell’esercito. Ma la questione che Cesare sottace e che emerge in Cassio Dione è che i dubbi degli ufficiali erano sulla legittimità della guerra e non sulle capacità di Cesare di combattere. Tanto è vero che poi Catone propose di consegnare Cesare ai nemici, perché questi andava al di là degli obblighi che gli derivavano dal suo comando in Gallia. È interessante vedere che ci sono chiarissimi riferimenti a Lucullo; per questo dicevo poc’anzi che la figura di Lucullo è stata oggetto di una grossa discussione negli anni fra il 60 e il 50 a.C.; qui siamo nel 58 a.C., e non è passato molto tempo dal ritorno di Lucullo e dall’orazione di Cicerone.

Cesare in più parti del De bello Gallico raffigura se stesso come comandante e in più punti dichiara di essere intervenuto direttamente nello scontro quasi fisico contro l’avversario e qui si collega con un altro passo di Cicerone, il De officiis I 81 (fine 44 a.C.). Cicerone testimonia la lettura estesa del De bello Gallico di Cesare pubblicato fra il 52 e il 51 a.C. nello stesso anno in cui vengono pubblicati anche i libri del De re publica. E nel De officiis afferma: «è cosa bestiale e selvaggia scendere a combattere il nemico in mezzo alle schiere», come aveva fatto Cesare[11]. L’unico caso in cui è lecito combattere direttamente è quando lo si fa per salvarsi dalla schiavitù, cioè per difendere la libertà, che è il tema centrale del De officiis di Cicerone.

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[1] In due memorie del 1949 e del 1951, raccolte poi in GABBA E., Esercito e società nella tarda repubblica romana, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 1 ss.; 47 ss.

[2] GABBA E., La concezione antica di aristocrazia, «Rend. Acc. Lincei», ser. IX, 6 (1995), pp. 464-468.

[3] ID., Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., ora in ID., Del buon uso della ricchezza, Guerini, Milano 1988, pp. 27-44.

[4] ID., P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, ora in ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Sansoni, Firenze 1993, pp. 113-132.

[5] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 37-55.

[6] ID., Esercito e società, pp. 31-45.

[7] SORDI M., L’arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell’azione politica di Mario, «Athenaeum», 60 (1972), pp. 379-385; cfr. GABBA E., «Athenaeum», 61 (1973), pp. 135-136.

[8] GABBA E., Le rivolte militari dal IV secolo a.C. ad Augusto, Sansoni, Firenze 1975, pp. 23-24.

[9] Bell. Hisp. 17, 1-2. GABBA E., Le rivolte militari, pp. 73-75.

[10] ID., Aspetti culturali dell’imperialismo romano, pp. 165-168.

[11] ID., Per un’interpretazione del de officiis di Cicerone, «Rend. Acc. Lincei», ser. VIII, 34 (1979) p. 126.

Le secessioni della plebe

di G. POMA, Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, in Diritto@Storia: Rivista Internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, N. 7 – 2008 – Memorie.

1. Considerazioni preliminari

Una premessa è d’obbligo, perché il tema è troppo vasto per poter essere racchiuso in una comunicazione, per cui toccherò solo alcuni dei tanti aspetti del problema “secessioni della plebe”, con particolare riferimento alla storiografia più recente, preferibilmente storica più che giuridica. Se tentiamo un bilancio critico della riflessione moderna su quel grumo di questioni che si addensano attorno alle secessioni, dobbiamo fronteggiare una serie impressionante di ipotesi, che spesso variamente si incrociano, e di questioni ancora aperte, come è ben noto a tutti. E in tutto questo, storici e giuristi colloquiano poco, con reciproco danno, io credo. Nella storiografia moderna, con le dovute eccezioni che vedremo, si sono venuti attenuando i dubbi sulla realtà storica di una o più secessioni della plebe, a partire da quella del 494 a.C.
Si è dissolta l’ipercritica di un Beloch[1] e di un Pais[2], e gli studiosi hanno assunto una posizione di relativa “confidenza” nei dati offerti dalla tradizione annalistica, ma certamente permangono intatte le difficoltà di uno studio di storia romana arcaica, terreno affascinante ma infido, che rende estremamente cauto il passo dello studioso moderno e che prevede scelte metodologiche precise.
Ad esemplificare, cito J.-Cl. Richard[3], che nella sua recensione al volume curato dal Serrao, Legge e società nella repubblica romana del 1981, scriveva: «La vulgata relativa alle lotte della plebe quale l’hanno fissata Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, a partire dai dati dell’annalistica, è per il V e IV secolo degna di fede» e questa fiducia nella tradizione è alla base anche dei tanti contributi di Tim Cornell[4] o dei lavori del Tondo[5], dell’Amirante[6] o del Serrao stesso[7]. Ma negli stessi anni ‘80 (1985) D. Gutherlet[8] esprimeva già nel titolo di un suo saggio una tesi opposta: la prima decade di Livio è fonte essenziale per l’analisi dell’età graccana e sillana, riaffermando la totale anti-storicità della narrazione dei primi secoli della repubblica, costruiti per così dire a calco anticipatorio dei decenni graccani e sillani. È una tesi estrema, nella sua negatività, così come è estrema la tesi di chi accetta in toto il dato della tradizione.
Sappiamo bene che le nostre fonti su questi problemi sono storici romani e greci che scrivono in momenti e contesti molto diversi da quelli in cui si sono svolti gli avvenimenti e che aprono un colloquio con lettori contemporanei che misurano quanto leggono in rapporto ai tempi in cui si trovano a vivere, e questo, a maggior ragione, vale per il lettore moderno, che porta con sé il bagaglio delle proprie idee, dei propri interessi e anche, talora, delle proprie ferite. E però una cosa, a mio parere, va pur detta. Vanno bene tutte le cautele e tutte le consapevolezze della distanza tra l’annalistica e i tempi della prima repubblica e dei suoi forti legami con impostazioni ora ideologiche ora gentilizie, ma pensare che, in ogni modo, un romano colto dell’età graccana o sillana o della fine della repubblica, che viveva in una città e in un ambiente familiare ricco di tradizioni e di segni – i Romani, si sa, sono formidabili allestitori della memoria – non fosse in grado di orientarsi, come noi, tra plebe del V secolo a.C. e plebe della sportula, mi pare, quanto meno, un po’ presuntuoso. La memoria, si sa, può essere truccata, ma non è detto che non possano restare intatti i fatti strutturali.
E allora, considerato che, in linea generale, i tentativi di interpretazione della tradizione sulle secessioni, come del resto su ogni altra vicenda arcaica, tendono a salvare questo o quell’altro aspetto, in un difficile gioco d’equilibrio tra elementi ritenuti anacronistici ed elementi ritenuti autentici, è evidente che il risultato, nel tempo, è stato tutto un intrecciarsi di ipotesi dentro cui è facile smarrirsi.
La prima impressione che si ricava, scorrendo i lavori più o meno recenti, è una certa qual “marginalità” dell’interesse per le secessioni. Mi spiego. Nella intensa secolare riflessione sulla Roma della prima età repubblicana, la secessione non è assente, ma ha una scarsa evidenza in sé e per sé. Ciò che soprattutto interessa chiarire sono i suoi esiti (il tribunato, la caduta del decemvirato e le leges Valeriae e Horatiae, il conubium, la parificazione tra plebisciti e leggi), e, oltre a ciò, necessariamente, la fisionomia della plebe, la natura della sua lotta, lo spazio che si conquista dentro la civitas[9].
Tant’è che, pur nell’ampia bibliografia su questo periodo storico, non mi pare ci sia uno studio monografico dedicato alle secessioni, pochi sono i saggi che ne toccano qualche aspetto, e rarefatti gli accenni, soprattutto nelle più recenti Storie di Roma, per non dire che la monumentale opera del Richard[10] sull’origine del dualismo patrizio e plebeo termina là dove iniziano le secessioni, che appena sono sfiorate.

 

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.
B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

 

 

2. La tradizione annalistica

La tradizione antica ricorda alcune secessioni attuate (quattro nel quadro complessivo offerto da Floro e da Ampelio), altre minacciate, accanto ad un evento, quello del 342 a.C., che ondeggia tra seditio e secessio (paene secessio fuit, scrive Livio, VII 42, 4; 7)[11]. Ma anche sulla terza, del 445 a.C., (che sarebbe avvenuta in connessione coi contrasti provocati dalla richiesta del tribuno Canuleio di eliminazione del divieto di conubium) e sulla quarta, del 367 a.C., (a sostegno delle rogationes Liciniae-Sextiae) secessioni testimoniate unicamente da Floro (Epitome I 23, 26) e da Ampelio (Liber memorialis XL 25, 1) gravano le medesime incertezze. La tradizione liviana parla per questi anni solo di accesi contrasti (per il 445 a.C., di una indignatio plebis e di finis contentionumAb Urbe condita IV 6, 3-4 – per il 337 a.C., più esplicitamente Livio accenna ad una domi seditio e, più avanti, ad una prope secessionem plebis, Ab Urbe condita VI 42, 9-10).
La secessione del 287 a.C. appartiene ad un periodo di più sicura storicità (e non a caso per il Beloch è l’unica degna di fede[12]), viene registrata dalla Periocha liviana[13] come conclusione di gravi e lunghe sedizioni motivate dal risorgente problema dei debiti, e alla stessa tradizione si rifà anche Plinio (Naturalis Historia XVI 15, 37).
È l’ultimo atto di lotta della plebe e come tale è assunto anche dalla storiografia moderna, con le debite eccezioni: di un Mitchell[14], ad esempio, che affermando l’invenzione tutta moderna della lotta degli ordini, denuncia l’artificiosità anche di questa data finale.
Ma c’è subito da sottolineare che gli autori antichi, anche se più di una volta la plebe sembra aver fatto ricorso alle secessioni, fanno riferimento, quando richiamano le lotte plebee, solo alla prima o, più raramente, alle prime due, che, quindi assumono il valore di secessioni per eccellenza. È illuminante Sallustio: maiores vestri … bis per secessionem armati Aventinum occupavere (Bellum Iugurthinum, 31), e così pure autori tra loro assai lontani, come Cicerone (De re publica, II 58, 63) Plinio (Naturalis Historia XIX 19, 56) e Orosio (II 5, 5), ricordano come essenziali solo le prime. La storiografia moderna non ha avuto problemi ad individuarne la ragione nel fatto che entrambe si collegano al tribunato della plebe, avvertito, specie in età graccana e sillana, come il momento più significativo e gravido di conseguenze delle vittorie plebee.
Quanto alla storicità delle secessioni, se andiamo ad esaminare gli orientamenti storiografici, vediamo emergere due tendenze, più o meno articolate al loro interno, quella che fa capo al Beloch e ancor prima al Meyer[15], che considera le prime due come reduplicazioni di quella unica storica del 287 a.C., in forza della convinzione che l’esercito del V secolo a.C. altro non fosse che la cavalleria patrizia, per cui mai la plebe avrebbe potuto osare una rivolta, e la seconda, maggioritaria, che accetta la data del 494 a.C. per la prima secessione e nel 449 a.C. per la seconda (in cui pone la restaurazione del tribunato, Mommsen[16], Binder[17], Niccolini[18] ed altri).
Tutto nasce, secondo il solito, da una tradizione annalistica che accoglie diverse memorie, al punto che non ci indica neppure con chiarezza i luoghi della secessione[19], e che non colloquia con la tradizione erudito-antiquaria, in questo caso, di Varrone.
Tra le varie opzioni presentate dalle fonti, Monte Sacro-Aventino-Crustumerio, i moderni o non hanno scelto (come il Ridley[20]), o hanno scelto l’una o l’altra, preferibilmente il Monte Sacro per la liviana frequentior fama, ma anche l’Aventino per la sua vocazione plebea (Guarino[21]) o hanno supposto due concomitanti secessioni (Fabbrini)[22].

3. La secessione: un problema di definizione

Che cosa è una secessione? Livio e Dionigi, come è naturale, descrivono, raccontando tutta una serie di avvenimenti messi in rapporto con vari esiti; non definiscono, e del resto non c’è bisogno di definizione, il significato è perspicuo: una separazione (se-cedo).
Il Fluss[23], nella voce della Pauly Wissowa, la definisce Abtrenung (“separazione”) e subito la storicizza: «si intende con questo la triplice sovversiva partenza della plebe da Roma»; l’Oxford Latin Dictionary[24] segnala un primo valore, diciamo cesariano, di «appartarsi» e un secondo che qui ci interessa di ritiro (with drawal) in una posizione separata, «che implica una non partecipazione alla comunità», per cui “secessione”.
Nella sua Storia di Roma, il Mommsen interpreta la secessione come un abbandono della città da parte dell’esercito in rivolta e un’occupazione di un colle nella contrada di Crustumerio, dove – egli scrive – si accinse a fondare una nuova città di plebei[25]. E questa valutazione dei fini della secessione ritorna in De Martino[26], per cui la lotta scelta dalla plebe sembra essere stata quella della rottura dell’unità cittadina e della minaccia di costituire una nuova città autonoma, la «città impossibile» di Giulia Piccaluga[27].
Non mi pare sia questa la prospettiva in cui si colloca in genere la storiografia moderna. I moderni si innamorano subito, ed è un innamoramento che risale alla rivoluzione francese, dell’idea di secessione come sciopero[28], ed è un’assimilazione che, il Catalano insegna[29], molto è servita nella discussione sulla configurazione giuridica dello sciopero generale. In questa assimilazione senz’altro ha pesato l’apologo di Menenio Agrippa, col suo richiamo al ritorno alla collaborazione, dopo il rifiuto delle membra di portare cibo allo stomaco, e la successiva e ripetuta opposizione dei tribuni alla leva militare, presentata dalle fonti come strumento abituale e forte della lotta plebea.
Quest’immagine, che ritorna anche nei più recenti saggi (Mitchell[30], Eder[31], Cornell,[32] ecc.) rischia di ridurre lo spettro contenutistico di quest’antico concetto, mettendo in ombra l’elemento anche etimologicamente caratterizzante, che è quello della separazione, dell’allontanamento. In altre parole, se il valutare il fenomeno della secessione attraverso la categoria contemporanea dello sciopero valorizza il momento dinamico delle mobilitazioni, rischia però di attenuare il senso forte della secessione. Andiamo alle fonti.
Nella tradizione liviana sulla prima secessione[33], l’accento cade sul timore patrizio che questa moltitudine possa muoversi ostilmente contro la città. Nella elaborazione più ampia di Dionigi, invece, affiora il progetto di una apóstasis apò tōn patrikíōn e della ricerca di una nuova patria, quale che sia, nella quale poter godere della libertà. A ciò vien fatto corrispondere, da parte patrizia, il disegno di colmare i vuoti con altri apporti di popolazione straniera, una migrazione, che di per sé, per Roma e il Lazio, non è fatto insolito (Dionigi ha buon gioco a richiamare Enea, Romolo; ed era appena giunto Attus Clausus con i suoi, Ab Urbe condita VI 73, 2; 79, 1; VI 80, 1). C’è enfasi retorica, senza dubbio, nella pagina di Dionigi, ma forse c’è anche un frammento di verità, nel momento in cui indica come la sua fonte interpretasse l’azione della plebe.
Una secessione, che può tradursi in un migrare che rende definitiva la separazione, è l’alternativa che Dionigi ci presenta, ma poiché è la via che non viene imboccata, in nessuno dei momenti in cui si fece ricorso alla secessione, il valore di separazione si attenua e sparisce. Ma resta nella memoria (annalistica), se è vero che anche dopo la conquista di Veio la plebe minaccia un trasferimento in massa nella città conquistata (Ab Urbe condita V 24, 5).
La secessione è un’innovazione nel quadro politico romano della prima repubblica, è un esito della seditio che insistente lacera la città dopo la morte di Tarquinio, e da quel primo episodio permane, attiva o latente, fino al 287 a.C.
Nell’interpretazione storiografica contemporanea, non mancano gli accenni a questa capacità innovativa della plebe, soprattutto sulla scia del Momigliano[34] che vede le secessioni, al pari delle creazioni dei tribuni e delle assemblee proprie, come i tratti caratterizzanti un’organizzazione estremamente efficiente di una plebe che guarderebbe ai modelli greci (e su questo punto riflettono soprattutto i giuristi, in riferimento alle leggi delle XII Tabulae, e gli storici delle religioni per il culto di Cerere). In genere, però, si opera una sorta di presa d’atto del ricorso alla secessione, al più, sociologicamente, ci si chiede che cosa essa rappresenti e, con l’Ellul[35], si può rispondere che una secessione è in sé un segno di debolezza, un ripiegarsi su se stessi. Che è una bella debolezza, visti gli esiti sempre positivi.
Stupisce che l’elemento della continuità nel ricorso ad una forma di lotta tanto forte che spesso basta che venga minacciata perché si ottenga un risultato favorevole, non abbia ottenuto una sufficiente attenzione in chi è convinto della storicità delle secessioni; fa eccezione il Lobrano[36], che vede nella capacità della plebe «di continuare a prospettare una scissione duratura di sé stessa» dal resto delle strutture organizzative del populus romanus, la prova del perdurare di una «autonoma struttura sociale» della plebe, di una sua omogeneità interna, cui corrisponderebbe una formale condizione “giuridica” di plebità.
A parte la tesi di fondo, che si può condividere o non condividere, la posizione del Lobrano è significativa, nel momento in cui individua nel ricorso alle secessioni il segno della peculiarità della plebe arcaica, ben diversa dalla plebe degli ultimi secoli della repubblica. A raffronto, colpisce come il Raaflaub[37], in una visione del conflitto tra gli ordini che si spezza in più fasi, di diverso carattere e complessità, sia totalmente indifferente di fronte al ripetersi delle secessioni come strumento di lotta, sia che esse vadano considerate o no un fatto autentico.
Al Raaflaub poco interessa lo strumento, interessa che, o con una massiccia rivolta o dopo una graduale evoluzione, i plebei siano emersi con la loro separata organizzazione e coi loro leader. Al contrario, il problema non è minimale, poiché non si può scindere la specificità del metodo politico della secessione dall’altrettanta specificità del tribunato della plebe, istituto che dalla secessione nasce. Lo ha ben chiaro Livio, quando ripetutamente pone sui colli della secessione l’inizio della libertà per la plebe e nella potestas sacrosancta del tribunato l’auxilium libertatis (Ab Urbe condita III 54, 8; III 61, 5; IV 44, 5).

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

4. I protagonisti della prima secessione

La riflessione moderna non ha dedicato molto interesse ai protagonisti di parte plebea e di parte patrizia, salvo che per Menenio Agrippa in virtù del suo apologo. Sul liviano Sicinio quodam auctore, l’anonimo Caio di Dione Cassio, il comandante del campo e presidente dell’assemblea della plebe secessionista in Dionigi, poco è stato detto e forse poco si può dire[38], eppure si tratta per la tradizione liviana dell’autore della secessione, colui che esce dalla massa e si pone alla testa del movimento collettivo.
È figura fantastica per il Pais[39], che vi vede l’anticipazione forse del tribuno del 76 a.C., C. Sicinio che aveva reclamato ed ottenuto la «restituzione al tribunato della pienezza della sua potestà imminuta da Silla» (e forse anche uno pseudo-antenato di quel tribuno T. Sicinio che al tempo di Camillo nel 395 con la sua proposta di migrazione di una parte dei cives a Veio (Ab Urbe condita V 24,7; Plutarco, Vita di Camillo, 7) aveva non poco agitato le acque in Roma).
Altri hanno supposto una confusione con la figura di Siccio Dentato, l’Achille romano, che divenuto tribuno citò in giudizio il console Romilio, storia minutamente raccontata da Dionigi (Antichità romane X 36-50) e mancante in Livio, ipotesi decisamente debole.
E il Richard[40], che riprende queste posizioni, ha pochi dubbi: Sicinio promotore della prima secessione e primo tribuno è figura priva di storicità, in quanto è il frutto di una manipolazione dei fasti tribunizi più antichi, favorita dal ricordo di più di un tribuno Sicinio storico. Che poi, se anche fosse al limite esistito, per il Richard resta irrecuperabile nella sua identità storica. E così Sicinio è spazzato via[41].
Sicinio muto in Livio, di poche parole in Dionigi, fa fatica, però, ad entrare anche nei fasti del primo tribunato, e questo è stato messo bene in luce già dalle ricerche del Niccolini[42] e in tempi più recenti ancora dal Richard[43]. Come sappiamo, la tradizione è tutt’altro che univoca sul numero dei primi tribuni, due o cinque. I nomi, per dirla con l’Ogilvie[44], sono fluidi e quello di Sicinio compare solo tra i cooptati in Livio; in Dionigi, invece, affianca Bruto, ai primi due posti[45].
Il testo di Dionigi presenta aspetti altrettanto problematici[46], quando, appunto, pone a fianco di Sicinio come capo della rivolta un L. Giunio Bruto, omonimo, specifica Dionigi, del Bruto liberatore del popolo dai Tarquini.
Su questa figura i moderni hanno assunto le più varie posizioni: Bruto è un patrizio in forza della gens Iunia patrizia (Mommsen[47], Ménager[48]), Bruto è plebeo[49], non è personaggio storico, ma “apocrifo”[50]. Per Mastrocinque[51], che ha dedicato notevoli sforzi a mettere ordine in tale controversa questione, Bruto è una sorta di doppio, il Bruto che in Dionigi guida i plebei alla prima secessione e tiene infuocati discorsi è la faccia plebea del Bruto fondatore della libertas repubblicana, patrizio[52].
La maggior parte degli studiosi moderni, quelli almeno che ne affermano la storicità, respinge invece la plebità di Bruto, che Mastrocinque salva, rimproverando ai moderni di essere caduti nella trappola delle falsificazioni annalistiche di fine II e inizi I secolo a.C., che avrebbe prodotto una sorta di epurazione delle presenze plebee. Una coincidenza di primo consolato e di primo tribunato nella stessa figura lascia però perplessi: salviamo il console e cancelliamo il tribuno?
A me pare che il problema dal piano storico vada passato al piano storiografico antico e possa essere letto in riferimento al tema ideologico della libertas: quella del popolo recuperata con la cacciata dei re, quella della plebe conquistata con la prima secessione. In entrambe le situazioni, per certi filoni di tradizione, che Dionigi accoglie, Bruto è presente.
Gli attori di parte patrizia occupano gran parte del campo nella vicenda della prima secessione, perché la tradizione sulle secessioni è stata gestita da chi plebeo non era.
E quindi giganteggia la figura di Menenio Agrippa[53], come risolutore della crisi, il vero eroe della secessione, il perpetuo exemplum della capacità di conciliazione, mentre un altro filone di tradizione, epigrafica e letteraria, pone in quel ruolo M. Valerio, il dittatore e l’augure. Gli studiosi moderni hanno dedicato il maggiore interesse alla figura di Menenio, intrigante per il suo essere oriundus dalla plebe, e, soprattutto, autore dell’apologo[54].
Gli studi del Ranouil[55] ripresi dal Richard[56] hanno cercato di chiarire l’appartenenza dei Menenii: per il Ranouil, sono una gens patrizia di origine etrusca, e i tribuni plebei potrebbero essere loro antichi clienti; per il Richard, Menenio Agrippa è un patrizio moderato, interpretato e sentito in quanto tale, da una certa parte della tradizione, come plebeo.
La storiografia antica ci presenta due chiavi interpretative delle secessioni, fides e concordia, e l’aver chiarito questo è uno dei risultati più interessanti, e direi anche più utili, della ricerca moderna. La fides, osserva il Bayet[57], indica una reciprocità totale e da essa dipendevano l’ordine e la stabilità della città. È il valore cardine dello Stato.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani

Tutto il racconto della prima secessione e della sua ricomposizione ruota attorno ad un rompersi e rinsaldarsi dei rapporti di fides. La colpa dei plebei, è una giusta osservazione della Piccaluga[58], è una colpa di perfidia: l’insolvenza dei plebei è un’infrazione della fides negoziale, cui corrisponde l’inadempiuta promessa dei patrizi dello scioglimento dei debiti. La rottura dell’equilibrio della fides spezza la comunità «in due metà ugualmente inservibili». Il superamento può avvenire solo attraverso il recupero della concordia.
Lo hanno messo bene in luce, in particolare, coloro (Nestle[59], Momigliano[60], Bertelli[61], Peppe[62]) che, analizzando l’apologo di Menenio Agrippa, hanno ricercato la genesi del criterio storiografico della concordia, individuando le ragioni del rimodellamento della narrazione della prima secessione, il Momigliano nell’esigenza di affermare l’ideale aristocratico in cui le diverse parti dello Stato sono subordinate ad un ordine superiore che garantisce l’equilibrio, il Bertelli, nelle tensioni ideologiche dell’età graccana che portano allo slogan politico della concordia ordinum, il Peppe nel formarsi di una più ampia concezione dello Stato e della convivenza civile. In Livio, la riscrittura in termini di concordia della prima secessione, coerentemente dalle battute iniziali con l’abdicazione del dittatore Valerio (Non placeo … concordiae auctor,  II 31, 9) alla conclusione (agi de concordia coeptum II 33, 1), porta ad edulcorare il fatto in sé, cancellando quegli aspetti di violenza[63] che poi trapelano sporadicamente (ad es. i campi saccheggiati di contro al rispetto per i raccolti[64]), al punto che Livio, recuperando dall’antica memoria degli annali il rito dittatoriale dell’infissione del chiodo, definisce le secessioni frutto di menti alienate dall’ira, che possono essere riportate a saggezza da un rito piaculatorio[65].
Nelle pagine di Dionigi[66] lo spazio di mediazione è condiviso da Manio Valerio, figura presente anche in Livio[67], ma limitatamente ai fatti che precedono la secessione, come dittatore filoplebeo, che abdica per protesta contro il rifiuto del Senato di deliberare de nexis. Da questo momento nelle pagine di Tito Livio sparisce; permane invece in quelle di Dionigi, come uno dei dieci ambasciatori inviati a mediare, anzi il più anziano e il più popolare, colui che torna a Roma a sancire l’accordo.
L’Elogium aretino di età augustea[68] (Inscr. Ital. 13, 78) lo indica come dittatore ed augure e lo celebra come colui che plebem de sacro monte deduxit / gratiam cum patribus reconciliavit / faenore gravi populum … liberavit.
Pesa su Manio Valerio una posizione molto diffusa nella storiografia contemporanea, quella di leggere i dati relativi ai Valerii nella tradizione annalistica come frutto di un intervento di rielaborazione operato da Valerio Anziate[69], così come la tradizione claudia, che ad essa si oppone, sarebbe debitrice a Claudio Quadrigario[70]. E nel caso di questo dittatore del V secolo a.C., nel suo ruolo di conciliatore, più di uno ha richiamato la preoccupante somiglianza con l’identico ruolo del dittatore Valerio per la sedizione/secessione del 342 a.C. Le quiete acque di un sostanziale disinteresse per questa figura sono state con buoni argomenti agitate da Vallocchia[71].
Ora il Vallocchia si rende conto benissimo della difficoltà che presenta questa associazione dittatura-augure (anche perché esiste un omonimo augure, ma le fonti lo pongono ben lontano dal tempo della secessione, nel 463 a.C.), ma ha senz’altro ragione di richiamare l’importanza degli atti che la plebe compie nel campo religioso (la consecratio del mons, l’erezione dell’ara a Iuppiter) e nell’insistere sulla figura di Valerio come garante della legalità e della regolarità delle procedure. Nella sua funzione di augure, egli avrebbe consentito «di porre le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la religio» e «possa lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum»[72].

5. Le procedure di conciliazione. Aspetti giuridici rituali religiosi

Fin dall’inizio della riflessione storiografica moderna, si è posto il problema della verisimiglianza storica e giuridica del foedus che, a stare a Dionigi[73], e più velatamente a Livio[74], avrebbe sancito, per mezzo dei feziali, l’accordo finale della prima secessione.
E la questione è stata molto dibattuta[75] tra storici e giuristi, con varie argomentazioni ed anche con una ricerca di ipotesi conciliatorie tra le opposte posizioni[76] (poiché il problema che ne è al centro, ossia se uno strumento come il foedus che opera nei rapporti di carattere internazionale potesse essere stato legittimamente impiegato a regolare i rapporti tra patrizi e plebei, è problema che investe la natura della collettività plebea e il fondamento del tribunato della plebe[77]). Se la plebe costituiva una parte della cittadinanza e non una comunità autonoma[78], argomenta il De Martino[79], questo basta per impedire la conclusione del foedus e ancor di più l’ipotesi del foedus diventa insostenibile se si considera il carattere delle leggi sacrate, tipiche di un ordinamento in cui non vi erano sanzioni giuridiche riconosciute da una comunità come obbligatorie per tutti. Il trattato e le leggi sacrate costituirebbero categorie giuridiche incompatibili. La questione, direi, potrebbe dichiararsi chiarita dopo le ricerche del Catalano[80] sul cosiddetto “sistema sovrannazionale” romano, che hanno lucidamente mostrato come non sia corretto utilizzare le categorie moderne di diritto internazionale e diritto statuale rispetto alla nozione di foedus. Meglio ricondursi allo ius fetiale, uno ius percepito dai Romani come universale, che individua come suoi potenziali soggetti comunità che non corrispondono all’idea moderna di Stato. E su questa linea il Tondo[81] ritiene che l’accordo reso solenne dall’intervento dei feziali dovette consentire l’utilizzo, con qualche adattamento, del tipo di ius iurandum in uso per i trattati, quale strumento particolarmente idoneo a vincolare, nella maniera più efficace, l’intera comunità civica. Del tutto diversa la conclusione della secessione del 449 a.C. Piuttosto strano, così lo definisce il Bayet[82], lo schema che Livio propone del ritorno alla libera res publica dopo l’abdicazione dei decemviri, nient’altro avviene che la decisione senatoria di creare nuovi tribuni sotto la presidenza del pontefice massimo e di concedere l’amnistia per la secessione dei soldati e della plebe. Non c’è traccia di foedus, tutto avviene in comitiis e col recupero di quelle cerimonie sacrificali, di sapore magico per il Piganiol[83], che già avevano chiuso la prima secessione e che erano mirate a restituire ai tribuni quella sacrosanctitas il cui ricordo ormai era quasi svanito. Questo diverso andamento indica con chiarezza come già il movimento secessionistico del 449 a.C. avvenga in un contesto politico tanto mutato da portare ad una conclusione giuridicamente diversa, col riconoscimento del tribunato. Le secessioni, uguali nella dinamica, non possono essere considerate unitariamente quanto a motivazioni e conclusioni. Nella storiografia contemporanea, non trova molto spazio l’analisi degli aspetti rituali delle secessioni e delle ripercussioni che dovettero avere sul piano sacrale[84], anche se tutti sono consapevoli che, in una società come quella romana, politica e religione sono indissociabili, sono due facce della stessa realtà[85]. L’interesse si è facilmente focalizzato sull’istituzione del culto di Cerere, sia per quanto può testimoniare sulla situazione agraria del tempo, sia per il suo ruolo come centro degli tesori e degli archivi plebei, sia per l’incertezza della sua derivazione (greca per il Momigliano[86]) e, in particolare, per il suo supposto rappresentare, con la triade aventinese, un contraltare alla triade capitolina.
Sono restati in ombra quei risvolti religiosi della secessione, che ora in parte il Vallocchia recupera, cercando di chiarire la fondatezza o meno della qualificazione di augure che l’elogio epigrafico associa (ed è un unicum) alla dittatura di Manio Valerio. Dando il giusto rilievo agli atti rituali della plebe, giunge alla conclusione che la secessione non determina alcuna rottura sul piano religioso, anzi i plebei si pongono esplicitamente sotto la protezione degli dei della città e non affermano proprie scelte religiose. È anche la tesi del de Cazanove[87], che rilegge il modo con cui l’esercito si organizza al campo al tempo della prima secessione. I soldati, egli osserva, portano con sé le insegne militari, il cui valore sul piano religioso è ben colto da Dionigi, che le definisce statue divine, ídrymata theōn (VI 45, 2). Non praticano alcuna rottura in materia religiosa, anzi richiedono la presenza fisica degli dei di Roma; e soprattutto si pongono sotto la protezione di Iuppiter, facendo dell’altare votato sul Monte Sacro una replica di quello capitolino, solo che si tratta di Iuppiter Territor, a rammentare a tutti quale tremenda minaccia significhi una secessione.
Coerentemente con questa impostazione, il de Cazanove vede nel culto di Cerere non culto plebeo che si contrappone al culto capitolino, ma un culto integrato nel quadro dei culti civici. Solo attraverso un processo complesso il tempio di Cerere sarebbe divenuto il luogo privilegiato in cui si cristallizzano le istituzioni plebee, una sorta di contraltare rispetto al polo capitolino, non nel senso di una opposizione alla triade, ma piuttosto come complemento ad essa, poiché Iuppiter è garante della fides che regge il contratto sociale, ma quando la fides non basta più, ci vogliono anche gli archivi per conservare gli scritti che non mentono. Che cosa rappresenta la secessione nella storia della plebe del V secolo? Una suggestiva risposta è quella del Richard[88]: «Con la secessione la plebe entra nella storia», risposta che è giustificata dalla tesi che solo con le secessioni la plebe uscì da una condizione virtuale, divenendo forza politica.
Per la scuola che si rifà al Mommsen[89], la plebe entra con la secessione in uno stato di rivoluzione permanente. Di fronte allo stato di diritto, ossia alla res publica patrizia, la plebe incarna la forza illegale, che per due secoli resta ai margini della città, finché il tribunato e i concilia plebis furono assimilati al populus. Al Mommsen si ricollega espressamente il De Martino[90], che qualifica la plebe società rivoluzionaria dentro il comune. Ancora più deciso il Guarino[91], che intitola il suo saggio del 1975 alla rivoluzione della plebe, definita «grandiosa e fin oggi per più versi misteriosa, forse misconosciuta, l’unica sola vera rivoluzione registrata nella storia di Roma» (il saggio del Syme era già uscito da decenni). In realtà, nella storiografia moderna, la valutazione di rivoluzione/rivoluzionario ricorre frequentemente, ed è principalmente diretta a qualificare la natura del tribunato della plebe, spesso definito come tale, almeno nella sua genesi, e/o l’intero processo di formazione dello Stato patrizio-plebeo. Che sia dubbia la correttezza, per comprendere la realtà romana, dell’uso di concetti che appartengono ad esperienze moderne, ed anche ad ideologie ben precise, lo dimostrò quella riflessione importante condotta, da storici e giuristi, nell’incontro preparatorio del seminario cagliaritano del 1971, su “Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica”, in cui si fronteggiarono visioni opposte[92]. Le conclusioni di tale dibattito sono quelle enunciate, in particolare, dal Catalano[93]: «L’uso del concetto rivoluzione… è probabilmente utile per commisurarsi sul dato storico… ma non è certo sufficiente per afferrarlo nella sua interezza, …l’importante è cercare nell’esperienza e nei concetti antichi ciò che può essere utile al rinnovamento del pensiero e della società contemporanei», e su questo si può concordare.

 

 


[1] J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Krieg, Berlin 1926, 283.

[2] E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, 1, Roma 1913, 492 ss.

[3] J.-Cl. Richard, rec. a F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, REL, 60, 1982, 438.

[4] T.J. Cornell, The Failure of the Plebs, in Tria Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como 1983, 101-120; The Value of the Literary Tradition concerning Early Rome, in Social Struggles in Archaic Rome, Berkeley 1986, 52-76; The Beginnings of Rome, Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 BC), London 1995.

[5] S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981.

[6] L. Amirante, Una storia giuridica di Roma, I, Napoli 1985.

[7] F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981.

[8] D. Gutberlet, Die erste Dekade des Livius als Quelle zur gracchischen und sullanischen Zeit, Hildesheim-Zürich 1985.

[9] Ancora aperto e dibattuto il tema dell’origine della distinzione tra patriziato e plebe. Rilevava il Momigliano, in un ben noto articolo del 1967 dedicato all’Ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma (in RSI, 79, 1967, 297-312, ora in Quarto Contributo, 437-454), quel che definisce una stranezza, ossia il disinteresse che aveva colpito, negli ultimi 30 anni, uno dei temi classici, fin dall’800, della storiografia su Roma arcaica, quello delle lotte tra patrizi e plebei. Il Momigliano scriveva nel 1967 e l’unico lavoro originale che cita del trentennio è la Lex sacrata di F. Altheim (Amsterdam 1940). Ne attribuisce la causa non tanto e non solo al prevalente interesse per la ricerca archeologica che aveva visto la ripresa degli scavi a Roma Lavinio a Pyrgi a Veio e alle scoperte clamorose conseguenti, quanto soprattutto all’ingessatura che aveva subito la visione dei rapporti sociali arcaici, indotta dagli studi del Dumézil (ad es. Métiers et classes fonctionnelles chez diverses peuples indo-européennes, in AESC, 13, 1958, 716-724) sulla società indoeuropea (per cui Roma è erede del sistema tripartito delle caste indo-europee) e di Andreas Alföldi, con i suoi richiami alla comunanza tra Iranici e Latini o Latini Turchi (Der frührömische Reiteradel und seine Ehrenabzeichen, Baden-Baden 1952, Early Rome and the Latins, Ann Arbor s.d. (1965). In realtà l’insieme del lavori dedicati, tra le due guerre mondiali, alla plebe romana aveva visto il progressivo attenuarsi dell’interesse sul problema dell’origine (che tanto aveva appassionato dalla fine dell’800 e gli inizi del ‘900) e il prevalente concentrarsi dell’attenzione di storici e di giuristi sull’organizzazione che la plebe si era data dopo la prima secessione. Il lavoro dell’Altheim viene quasi a conclusione di un decennio assai fertile: basti pensare alle ricerche del Momigliano stesso sull’origine delle magistrature romane (il tribunato, 1932; l’edilità, 1933) e sugli ordinamenti centuriati (1938) o, sugli stessi temi, di G. De Sanctis sull’edilità plebea del 1932; sulle origini dell’ordinamento centuriato del 1933), del Niccolini (Il tribunato della plebe, 1932) del Siber (sulle magistrature plebee fino alla legge Ortensia del 1936), dell’Hoffman (sulla plebe, 1938), del Cornelius (sulla storia romana arcaica, 1940). In altre parole, non si ricerca più ciò che differenzia la plebe dai patrizi a partire da un passato più o meno lontano e quasi mitico, ma il problema della genesi della plebe diventa il problema della genesi degli istituti in cui si è venuta esprimendo la differenza tra patrizi e plebei. A questa svolta metodologica, alla metà degli anni ‘40 si aggiunge col lavoro del Last sulla riforma serviana (The Servian Reforms, in JRS, 35, 1945, 30-48) una forte svolta anche nei contenuti, con la decisa affermazione che la distinzione tra patrizi e plebei si sviluppò dopo la fine della monarchia, per effetto della sopraffazione politica di un gruppo di potenti famiglie che si chiusero in casta, tesi che sviluppava precedenti osservazioni del Soltau, Jordan, Meyer, Hulsen e che spazzava via (o tentava di farlo) il postulato niebhuriano praticato a lungo del privilegio patrizio di appartenenza alla cittadinanza (cfr. su ciò J.-Cl. Richard, Les origines cit., 76 s.).

Si riaccende un dibattito che è tuttora lontano dall’essersi concluso su quando e come si siano formati i privilegi patrizi (con le teorie sull’origine repubblicana del Last (op. cit.), del Magdelain (Auspicia ad patres redeunt, in Hommages à J. Bayet, Bruxelles 1964, 427-473), del Ranouil (Recherches sur le patriciat (509-366 avant J.-C.), Paris 1975), del Palmer (The archaic community of the Romans, Cambridge 1970), sul rapporto tra plebe e organizzazione centuriata (che vede contrapporsi la tesi del Momigliano – Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Les origines de la République romaine, Gèneve 1966, 199-221, ripubblicato nel Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, 419-436 – di un’esclusione della plebe dalla classis, alle opinioni di chi vede proprio nella presenza della plebe nell’ordinamento oplitico la ragione della forza delle secessioni e accetta il dato della tradizione che ci presenta il rifiuto delle leve come uno degli strumenti della lotta plebea), sui contenuti delle tante opposizioni patres/conscripti, adsidui/proletari, maiores/minores gentes (dibattito sollecitato dal Momigliano, e che investe in pieno la problematica relativa alla fisionomia sociale del V secolo a.C.), sulla proprietà delle terre e la attendibilità della tradizione quando pone una questione agraria in tali tempi (attendibilità fortemente negata dal Gabba – ad es. in Problemi di metodo per la storia di Roma antica, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Licei, Roma 1993, 12-24 –, ma da altri sostenuta). Una forte esigenza fu espressa dal Richard alla fine degli anni ‘70 (Les origines cit.), quella di mettersi decisamente alle spalle il problema più o meno inafferrabile dei primordia del dualismo patrizio-plebeo, sostituendo, sulla scia del Pallottino, il concetto di formazione, anzi di creazione continua, a quello di origine. Seguendo l’indicazione della tradizione annalistica, che colloca l’inizio del conflitto all’indomani della morte di Tarquinio, il Richard va a verificare le condizioni politiche e sociali che portano la plebe a diventare gruppo di pressione e forza politica. È evidente che se l’origine del conflitto si sposta all’inizio dell’età repubblicana, la prima secessione viene ad assumere un rilievo fondamentale, rappresentando il momento di genesi di un’organizzazione binaria, al punto che in abbastanza fresco manuale (Storia di Roma, Milano 2000) di Adam Ziolkowski si legge che «in realtà questo dualismo fu il risultato di un’espansione di un’organizzazione nata nel 494 a.C., di carattere affine ad un sindacato o a un partito moderno», visione attualizzante che si giustifica con l’enfasi che lo Ziolkowski pone sulla solidarietà di gruppo dei plebei. In questi ultimi decenni, un’altra svolta si è avuta nella ricerca di nuove prospettive per analizzare e comprendere la lotta tra gli ordini, con i contributi del Raaflaub (Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157) e di Eder (The Political Significance of the Codification of Law in Archaic Societies: an unconventional hypothesis, in K. Raaflaub (ed.), Social Struggles in Archaic Rome: new perspectives on the Conflict of the Orders, Berkeley 1986, 262-300), che hanno portato al centro del dibattito l’utilità di un’analisi comparativa tra le póleis greche arcaiche e Roma. Il Raaflaub cerca nel mondo greco modelli interpretativi utili e applicabili alla realtà economica e sociale romana, così come l’Eder propone interessanti analisi comparative sulle codificazioni aristocratiche, che portano alla non di poco innovativa ipotesi di vedere in esse l’esito di propositi auto-regolamentatori dei gruppi aristocratici. Tante ricerche, tante ipotesi, tanti diversi modelli interpretativi del conflitto, che lungi dall’aver trovato un ubi consistam abbastanza concorde, mi pare però abbiano portato a significative conclusioni: la conferma della centralità del ruolo delle secessioni come punto di genesi dell’organizzazione plebea, e una concezione meno rigida, più duttile, sia della fisionomia della plebe, intesa non più come corpo omogeneo e monolitico di tutti poveri, ma come un gruppo che presenta al proprio interno differenziazioni economiche e sociali, e quindi aspirazioni diverse, sia della natura e dell’articolazione del conflitto, che non resta immutato per quasi due secoli, ma si snoda in più momenti, di diverso carattere e complessità (cfr. i contributi in due importanti volumi, W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik, Stuttgart 1990; K. Raaflaub (ed.), Social Struggles, cit.; nonché Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.C., Rome 1990; Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993).

[10] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541 ss.

[11] Vedi G. Poma, Considerazioni sul processo di formazione della tradizione annalistica: Il caso della sedizione militare del 342 a.C., in W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit cit., 139 ss.

[12] J. Beloch, Römische Geschichte cit., 283.

[13] Vd. n. 11.

[14] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians. The Origin of the Roman State, Ithaca 1990, 131 ss.

[15] Ed. Meyer, Der Ursprung des Tribunats und die Gemeinde der vier Tribus -Anhang: Die Secessionen von 494 und 449, in Hermes, XXX, 1895, 1-24, ora in Kleine Schriften, Halle 1924, 331-379.

[16] Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, 2, 3a ed., 273-374, cfr. anche Storia di Roma antica, I, 1, Torino 1925 (a cura di E. Pais), 253 s.

[17] J. Binder, Die Plebs. Studien zur römischen Rechtsgeschichte, Leipzig 1909, 378.

[18] G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1934, 30-31.

[19] Per la prima secessione, la descrizione liviana (II 32, 2) ci presenta una seditio che matura entro l’esercito reduce e vittorioso che, chiamato artatamente ad un nuovo impegno militare, prima medita l’uccisione dei consoli per sciogliersi dal giuramento; poi su iniziativa di un tal Sicinio iniussu consulum si ritira, e qui sta pacificamente, in un campo munito sul Monte Sacro o sull’Aventino (che è versione più antica, risalendo a Pisone fr. 22 (Peter 1, 129), mentre quella relativa al Monte Sacro per l’Ogilvie (A commentary on Livy, books 1-5, Oxford 1965, 311) sembrerebbe risalire a Sempronio Tuditano). Per Cicerone, invece, va sul Monte Sacro e sull’Aventino (De re publica II 58 e 63), per Dionigi (Antichità romane VI 45, 2; X 35, 1) sul solo Monte Sacro, mentre Dione Cassio parla genericamente e prudentemente solo di un colle (fr. 17. 9). Più complessa è la dinamica della seconda secessione, che si collega alla caduta dei decemviri. Per Livio (Ab Urbe condita III 50-54), che si abbandona ad un ampio racconto, lo sviluppo è complesso: due sono gli eserciti negli accampamenti, uno era in monte Vecilio e spinto da Virginio occupa in armi l’Aventino, l’altro in Sabinis, da dove per iniziativa di Icilio e Numitore si ricongiunge ad esso; a questo movimento degli armati verso Roma si aggiunge la plebs urbana, mogli e figli insieme si spostano sul Monte Sacro, abbandonando la città, poi di nuovo, fatto l’accordo, sull’Aventino. Per Cicerone gli armati vanno (De re publica II 63) prima sul Monte Sacro e poi sull’Aventino, parlano del solo Aventino Sallustio (Bellum Iugurthinum XXXI 17), Dionigi (IX 43), Diodoro (Antichità romane XII 24, 5) e altri ancora. Intanto, queste complicate manovre sono, per l’Ogilvie (op. cit., loc. cit.), il frutto dell’incrocio di due tradizioni che collocano la secessione su due colli diversi (en passant, la mancanza di chiarezza è in Livio stesso che a distanza di poche righe definisce l’Aventino come il locus felix dove ebbe inizio la libertà della plebe (Ab Urbe condita III 54, 9) e il Monte Sacro come il colle in cui fu eletto il primo tribuno della plebe). Resta isolata la testimonianza di Varrone (De lingua latina V 81, 52 Collart): in secessione Crustumerina, che però non può essere trascurata, data la bontà del suo lavoro antiquario. E poiché la citazione di Varrone è relativa alla derivazione del nome dei tribuni dai tribuni militum, può essere intesa in più modi, riferita alla prima secessione (in tal caso potrebbe indicare un terzo luogo o identificare in altro modo ancora il Monte Sacro, così il Niccolini e i più) o riferita alla seconda, e collocante la prima elezione dei tribuni nel 449 a.C. Il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe nella storiografia romana, in Index, 3, 1972, 174-191) tra questi, che dà grande rilievo al fatto che per Varrone i tribuni della plebe sono ex tribunis militum primum … facti, per cui vi vede una conferma, non solo della natura originaria militare e rivoluzionaria del tribunato, ma anche del fatto che si tratti della seconda secessione scoppiata nell’esercito arroccato a difesa inter Fidenas Crustumeriamque, e poi passato in agrum sabinum (Ab Urbe condita III 43) – e non nella Sabina o sull’Algido, come è più diffusa tradizione – e che da questa secessione abbia avuto inizio il tribunato.

[20] R.T. Ridley, Notes on the Establishment of the Tribunate of the Plebs, in Latomus, 27, 1968, 535-554.

[21] A. Guarino, La rivoluzione della plebe, Napoli 1975.

[22] F. Fabbrini, v. Tribuni plebis, in NNDI, 1969, 778-822.

[23] Fluss, v. secessio, in PWRE, 2, A, 1, 1921, coll. 974-976.

[24] Oxford Latin Dictionary, v. secessio 2, ed. P.G.W. Glare, 1982, 17161; A. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, t. IV, 1965 (ed. an.), 2711.

[25] Th. Mommsen, Storia di Roma antica cit., 242.

[26] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, Napoli 1972 (2a ed.), 260 ss.

[27] G. Piccaluga, La colpa di ‘perfidia’ sullo sfondo della prima secessione della plebe, in Le délit religieux dans la cité antique, Rome 1981, 21-25.

[28] Vedi P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino 1971, 21 ss. Si deve a G. Grosso la proposizione del rapporto tra il moderno diritto di sciopero e l’azione della plebe (Il diritto di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe, in RISG, 89, 1952-1953, 397-401).

[29] P. Catalano, Tribunato e resistenza cit., 25.

[30] R.E. Mitchell, Patricians and Plebeians cit., 13.

[31] W. Eder, Zwischen Monarchie und Republik: das Volkstribunat in der Frühen Römischen Republik, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 97 s.

[32] T. Cornell, The Beginnings of Rome cit., 256 s.

[33] Ab Urbe condita II 32, 5.

[34] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 297 ss.

[35] J. Ellul, Réflexions sur la révolution, la plèbe et le tribunat de la plèbe, in Index, 3, 1972, 155-167.

[36] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, 199.

[37] K. Raaflaub, Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157, 151.

[38] F. Münzer, v. Sicinius (4), in PWRE 2, A, 2, coll. 2195-2199. Nel 487 a.C. un T. Sicinio (o Siccio, per Dionigi), che forse ha il cognomen Sabinus, infatti, parrebbe essere console nel 487 a.C., trionfatore sui Volsci (Ab Urbe condita II 40,14). In realtà i Sicinii, insieme con i Cassii, i Cominii, i Tullii, i Minucii rappresentano uno dei problemi più ostici da affrontare, quello annoso dei nomi plebei nelle liste consolari in età anteriore all’istituzione del tribunato consolare. La storiografia moderna ha tentato varie vie d’uscita, a cui è sottesa l’accettazione o meno dell’assunto liviano (Ab Urbe condita IV 4, 1) che il consolato dalla sua nascita sia stato ricoperto solo da patrizi: nomi frutto di tarde interpolazioni plebee, nomi in età arcaica portati da patrizi poi decaduti, nomi di coscripti, nomi autenticamente plebei che attestano come in età arcaica il consolato non fosse monopolio patrizio, coesistenza in una medesima gens di due stirpes, una patrizia, una plebea. Per un punto su tale dibattito, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 529; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, 96 ss.

[39] E. Pais, Storia critica di Roma cit., 126.

[40] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 527.

[41] L. Sicinius Vellutus o Bellutus, destinato a diventare tribuno nel 493, edile della plebe nel 492 e forse ancora tribuno nel 491 a.C. dà l’avvio ad una serie di Sicinii presenti nei fasti dei tribuni e degli edili, che si intrecciano e confondono con i Siccii, e che si interrompono dopo il 387, quando un L. Sicinius è autore di una rogatio de agro Pomptino (Ab Urbe condita VI 6, 1), lasciano il passo ai Licinii e ai Sestii, per poi ricomparire appunto nel 76 a.C. con un Cn. Sicinius. Una gens debolissima, non presente in incarichi di rilievo dopo il IV secolo a.C., in cui, a quanto pare, ebbe a cuore la questione agraria. Cfr. G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. Difficile pensare che questo ruolo di capofila di una dinastia di tribuni non sia una diretta conseguenza dell’altro ruolo di promotore della secessione che almeno Livio gli riconosce e altrettanto difficile pensare che non sia un plebeo. Semmai si potrebbe riflettere sul cognomen Sabinus che la tarda tradizione sembra attribuirgli e considerare che è appena avvenuta in Roma la migrazione di Attus Clausus con i suoi dalla Sabina.

[42] G. Niccolini, Il tribunato della plebe cit., 40.

[43] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 563 ss.

[44] R.M. Ogilvie, A commentary cit., 311.

[45] Tutti i ragionamenti fatti hanno portato alla conclusione che si intrecciano e fiancheggiano due filoni di tradizione: una rappresentata da Pisone, Attico, Cicerone, Asconio, che Livio conosce, e una seconda rappresentata da Dionigi di un collegio a 5, che Livio accoglie attraverso l’escamotage della cooptazione. Vedi per le fonti in merito, G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. C’è un certo accordo sulle posizioni dell’Ogilvie, che raccoglie gli esiti di una ricerca che parte dal Mommsen (Römische Staatsrecht cit., 2, 272-330) e dal Meyer (Der Ursprung cit., 353-373), nel ritenere che in origine i tribuni dovessero essere due, che la lista sia ristretta sia allargata sia stato campo di bene identificabili irruzioni gentilizie o politiche a favore dei Licinii, degli Icilii e forse degli Iunii (A Commentary cit., 311 ss.). C’è una certa probabilità che la coppia originaria possa essere stata costituita in effetti da Sicinius e da L. Albinus o Albinius, illustri ignoti, per il Richard, invece, accanto a L. Albinus o Albinius va collocato uno dei cinque di Dionigi, il C. Visellus o Viscellius Ruga (Les origines cit., 568 ss.).

[46] Tra l’altro, il fatto che sottolinea, per il tribunato della plebe del 456 a.C., che L. Icilius era figlio di quell’Icilius che era stato il primo tribuno della plebe, quando gli Icilii i loro titoli di nobiltà se li acquistano all’epoca della seconda secessione.

[47] Th. Mommsen, Römische Forschungen cit., I, 111.

[48] L.R. Ménager, Nature et mobiles de l’opposition entre la plèbe et le patriciat, in RIDA, ser. 3, 19, 1972, 367-97.

[49] Per il Niebhur, Römische Geschichte cit., I, 552, Bruto era il simbolo dell’accesso della plebe al potere.

[50] E. Pais, Storia di Roma, I, Torino 1988, 364, ampiamente seguito.

[51] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss., 142 ss.

[52] A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto cit., 107 ss.

[53] Ab Urbe condita II 32, 8-12; Antichità Romane, VI 83-86; Cassio Dione fr. 17, 10; Zonaras 7, 14.

[54] Sul processo di formazione della tradizione su Menenio Agrippa, cfr. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 542, nt. 344.

[55] P.C. Ranouil, Recherches cit., 209.

[56]  J.-CL. Richard, Les origines cit., 522 ss. e nt. 279.

[57]  J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145 s.

[58] Piccaluga, La colpa di “perfidia” cit., 21-25.

[59] W. Nestle, Die Fabel des Menenius Agrippa, in Klio, 21, 1927, 350-360.

[60] A. Momigliano, Camillus and Concord, in CQ, 36, 1942, 111-120 (ripubblicato nel Secondo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1960, 99-104).

[61] L. Bertelli, L’apologo di Menenio Agrippa: incunabolo della “Homonoia” a Roma?, in Index, 3, 1972, 224-234. A suo parere, l’episodio potrebbe appartenere allo strato più antico delle secessioni della plebe, che poneva al centro il problema del nexum, conservata dalla tradizione gentilizia dei Menenii, sempre legati ai temi economici. Tradizione poi rimaneggiata alla fine del IV secolo a.C., con l’inserimento del motivo della concordia civium, quando al problema originario della soggezione economica della plebe si sarebbe sostituito il motivo ideologico. Nel liviano interpreti arbitroque concordiae civium/ legato patruum ad plebem reductori plebis romanae in urbem il Bertelli vede la spia di questo processo: i primi due termini sarebbero il frutto dell’attualizzazione, gli altri due si dovrebbero rifare al nucleo originario.

[62] L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981.

[63] Livio sottolinea il diverso comportamento della plebe di Ardea rispetto a quella romana: pulsa plebs, nihil Romanae plebi similis, …in agros optumatium cum ferro ignique excusiones facit (Ab Urbe condita IV 9, 8).

[64] Ab Urbe condita II 4, 1.

[65] Ab Urbe condita VII 3, 8. Mai, in ogni modo, i secessionisti subirono rappresaglie. Sul tema dell’amnistia, richiesta dai plebei, vedi da ultimo, M. Raimondi, L’amnistia tra patrizi e plebei nelle Antichità Romane di Dionigi di Alicarnasso, in Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1997, 99-111.

[66] Antichità romane VI 69, 3.

[67] Ab Urbe condita II 31, 9-10.

[68] Sull’iscrizione aretina, vedi da ultimo, F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39 (che riporta anche le altre fonti sul ruolo del dittatore).

[69] Cf. H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, 8, A, 2, 1948, coll. 2312 ss.

[70]  S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, Roma-Bari 1983, 281 ss.

[71] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit.

[72] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit., 36. Giustamente l’autore richiama il ruolo che, al termine della seconda secessione, avrà il pontefice massimo.

[73] Antichità romane VI 89, 1; 84, 3.

[74] Ab Urbe condita II 33, 1: agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones…, un accenno incidentale in IV 6, 7: foedere icto cum plebe.

[75] L’ipotesi del foedus è proposta dal Niebhur (Römische Geschichte, I, Berlin 1811), ma fortemente combattuta dal Mommsen (Römisches Staatsrecht cit.).

[76] Sulle varie posizioni su questa tradizione, cf. J.-Cl. Richard, Les origines cit., 551, nt. 370.

[77] Vedi, a proposito, G. Lobrano, Il potere dei tribuni cit., 27 ss.; e dello stesso, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 235-262.

[78] L’argomentazione in tal senso è sviluppata da G. De Sanctis, Storia dei Romani, 2, cit., 28 ss.

[79] F. De Martino, Storia della costituzione I, cit., 340 s., con riferimenti al dibattito in merito a ntt. 25 e 26.

[80] Sulla possibilità tecnica di un foedus tra i due ordini, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 189, nt. 99, 195 ss.

[81] S. Tondo, Storia costituzionale cit., 166.

[82] J. Bayet, L’organisation plébéienne cit., 145-153.

[83] A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat de la plèbe, in JS, 1919, 237-248 (= Scripta varia, 2, Bruxelles 1973, 261-271).

[84] Considerazioni interessanti in D. Sabbatucci, Patrizi e plebei nello sviluppo della religione romana, in SMSR, 24-25, 1953-54, 76-92.

[85] J. Scheid, Religion et piétè à Rome, Paris 1985.

[86] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit., 239-256; sul culto in generale, H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome, Paris 1958.

[87] O. de Cazenove, Le sanctuaire de Cérès jusqu’à la deuxième sécession de la plèbe, in Crise et transformation, Roma 1980, 373-399.

[88] J.-Cl. Richard, Les origines cit., 541.

[89] Conosciamo tutti la posizione del Mommsen, se il populus ist der Staat ci fu forzatamente un’epoca in cui la plebe non era altra cosa che la rivoluzione in permanenza, posizione come è noto, che era debitrice ad una concezione statualistica del diritto; per il Mommsen, la plebe è «Gemeinde in der Gemeinde». Sul concetto di stato in Mommsen, e il dibattito successivo, vedi, tra gli altri, G. Lobrano, Fondamento e natura cit., 240 ss.

[90] F. De Martino, Storia della costituzione, I, cit., 338 s.

[91] A. Guarino, La rivoluzione della plebe cit., 15.

[92] I cui interventi sono in Index, 3, 1972. Si fronteggiarono visioni, almeno in apparenza, opposte: il Sabattucci (La censura: istituzione rivoluzionaria dell’antica Roma, 192 s.) che affermava che l’invenzione dei romani, rivoluzionaria rispetto all’ordinamento gentilizio, fu lo Stato, inteso quindi come il prodotto di una rivoluzione culturale, l’Ellul (Rèflexions sur la révolution cit., 55 ss.) per cui il movimento plebeo tendeva a trovare e affermare un proprio ruolo autonomo dentro una civitas dualistica in via di costruzione, in cui il tribunato non agiva in forma rivoluzionaria perché restava nel quadro della civitas («la creazione di uno Stato di tensione bipolare tra due gruppi della comunità»), il Sereni (Considerazioni di metodo su Stato, rivoluzione e schiavitù in Roma antica, 203 ss.), tutt’altro che propenso ad usare, anzi abusare del termine rivoluzione «più giornalistico che storiografico», e per il quale, in ogni modo, la rivoluzione è da intendersi fondamentalmente sul piano sociale; in sintonia con l’Ellul, il Sereni è disposto ad accettare un processo rivoluzionario, ma mai delle istituzioni rivoluzionarie. Gli storici, in tale dibattito, mi pare siano restati abbastanza defilati; basti pensare al Mazzarino, che nel 1966, in Pensiero storico classico, II, 2, 183, aveva a ragione sostenuta la non appartenenza del concetto di rivoluzione (revolutio) al mondo classico: «A indicare la nostra idea di rivoluzione Greci e Romani non scomodarono mai grandi concetti cosmici», e aveva precisato che per essi l’idea di rivoluzione non si allontanò mai dal campo strettamente politico: «…nel pensiero antico un fatto rivoluzionario ha sempre rapporto con una determinata situazione concreta contro la quale si è posto». Ricorda inoltre come i Romani definissero un fatto di tal genere: seditio,tumultus etc., non secessio. Per cui il Mazzarino (Note sul tribunato della plebe, cit., 174 ss.), in questo seminario, indaga sul momento graccano come momento in cui il tribunato riacquista «quel carattere rivoluzionario che il trapasso del tribunato a magistratura dello Stato aveva almeno per certi aspetti, attenuato» e sulla rielaborazione storiografica della tarda repubblica sul V secolo a.C.; in particolare per le secessioni, tende a rivalutare la posizione varroniana che afferma l’origine militare e rivoluzionaria del tribunato. Ne consegue che la secessione è un fatto rivoluzionario, ma non quella dei reduci del 494 a.C., quanto piuttosto quella varroniana, dei tribuni che derivano ex tribunis militum, e che il Mazzarino colloca nel 449 a.C. Sul tema, vedi anche Inchiesta: La rivoluzione romana, in Labeo, 26, 1980, 192-247; Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica, in Index, 7, 1977, 3-224.

[93] P. Catalano, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’ nella dottrina romanistica contemporanea (tra rivoluzione della plebe e dittature rivoluzionarie), in SDHJ, 43, 1977, 440-445.