Gneo Nevio

Gneo Nevio, al contrario di Livio Andronico, era un cittadino romano, seppur di origine campana: le città campane avevano ricevuto la Romana ciuitas sine suffragio nel 295, a seguito delle guerre sannitiche. Sulla biografia dello scrittore si dispone di scarse notizie, ma quel che si sa di certo è che combatté contro i Cartaginesi durante la prima guerra punica (264-241 a.C.), verosimilmente negli ultimi anni del conflitto. Non era un aristocratico, e anzi sembra che avesse avuto aspri scontri con la nobilitas romana, in particolare con la potente famiglia dei Caecilii Metelli. Della burbanza di questo clan gentilizio è un ottimo esempio il brano conservato da Plinio il Vecchio della laudatio funebris tenuta da Quinto Cecilio Metello (cos. 206) in onore del padre Lucio Cecilio Metello (cos. 251; 221):  

Q. Metellus in ea oratione, quam habuit supremis laudibus patris sui L. Metelli pontificis, bis consulis, dictatoris, magistri equitum, XVuiri agris dandis, qui primus elephantos ex primo Punico bello duxit in triumpho, scriptum reliquit decem maximas res optimasque, in quibus quaerendis sapientes aetatem exigerent, consummasse eum: uoluisse enim primarium bellatorem esse, optimum oratorem, fortissimum imperatorem, auspicio suo maximas res geri, maximo honore uti, summa sapientia esse, summum senatorem haberi, pecuniam magnam bono modo inuenire, multos liberos relinquere et clarissimum in ciuitate esse; haec contigisse ei nec ulli alii post Romam conditam.

«Quinto Metello nel discorso che tenne durante le onoranze funebri di suo padre Lucio Metello, il pontefice – il quale fu due volte console, dittatore, comandante della cavalleria, quindecemviro per l’assegnazione delle terre e, per primo, nella prima guerra punica, portò degli elefanti in trionfo – lasciò scritto che egli aveva riassunto in sé le dieci qualità più grandi e belle, nella ricerca delle quali gli uomini saggi trascorrono la vita: aveva voluto essere un guerriero di prim’ordine, un ottimo oratore, un comandante valorosissimo; sotto il suo comando si erano compiute grandissime imprese; aveva ricoperto le cariche più alte; era stato sommamente saggio, era stato considerato il senatore più prestigioso; aveva messo insieme con mezzi leciti un immenso patrimonio; lasciava molti figli, era il cittadino più illustre. Queste fortune erano toccate a lui e a nessun altro dal tempo della fondazione dell’Urbe».

(Plin. N.H. VII 45, 139-140)

Come si vede, la ripetuta insistenza fa di questo testo non solo un documento di albagia, ma anche di propaganda politica; d’altra parte, in esso il profilo delineato era quello dell’uomo di Stato romano della media età repubblicana, per il quale rappresenta una sorta di decalogo, senza dubbio significativo ma quasi inarrivabile.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini.

Da una discussa allusione contenuta nel Miles gloriosus (vv. 211-212) di Plauto, sembra di ricavare che Nevio fu perfino incarcerato dai suoi avversari, ob assiduam maladicentiam et probra in principes ciuitatis («per lo sparlare continuo e per le offese a danno dei cittadini più in vista», Gell. N.A. III 3, 15). Secondo la maggior parte degli studiosi, infatti, l’alterco tra Nevio e la famiglia dei Metelli sarebbe avvenuto con ogni probabilità sotto il consolato di Quinto Cecilio Metello e la pretura di suo fratello Marco, nel 206: forse il poeta li attaccò apertamente in una commedia, con un verso apparentemente innocuo, ma che dimostra lo spirito libero e fiero dell’autore: Fato Metelli Romae fiunt consules («Per volere del destino i Metelli sono stati eletti consoli di Roma», F 4 Traglia). È innocuo all’apparenza, perché, com’è noto, il termine fatum è in latino una vox media e poteva essere inteso nel senso di “disgrazia”, generando un arguto doppio senso: «Per la rovina di Roma i Metelli sono stati eletti consoli». In ogni caso, i personaggi diffamati non fecero attendere la propria replica – quando si dice “rispondere per le rime”! – con un monostico carico di minaccia: Malum dabunt Metelli Naeuio poetae («I Metelli la faranno pagare cara al poeta Nevio»).

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Per quanto sia dato a intendere, caratteristica della commedia neviana doveva essere la mordacità con cui egli alludeva all’attualità politica in chiave polemica e satirica. Non è certo, ma è molto probabile per alcuni studiosi che gli strali contro i Caecilii Metelli derivi dalle origini stesse di questa schiatta, origini, per la verità, plebee. Il poeta Nevio, dunque, era particolarmente infastidito dalla nouitas e dall’arroganza dei giovani Metelli, al punto che, sembrerebbe dalla commedia Ludus, egli mise in scena un dialogo di questo tenore:

A. Cedo, qui uestram rem publicam tantam amisistis tam cito?

B. Proueniebant oratores noui, stulti adulescentuli.

A. Dimmi: come avete fatto a mandare in rovina il vostro Stato, un tempo così potente?

B. Si facevano avanti nuovi politici, degli stupidi ragazzetti!

(F 51 Traglia)

Il riferimento alla situazione contemporanea, molto probabilmente nel 206, è implicito: gli stulti adulescentuli potevano essere benissimo i fratelli Quinto e Marco, ma anche il loro giovanissimo amico e sodale, Publio Cornelio Scipione (il futuro Africano), anch’egli vittima degli strali del poeta:

etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose,

cuius fata uiua nunc uigent, qui apud gentes solus praestat,

eum suus pater cum pallio unod ab amica abduxit.

«Anche colui che spesso compì grandi gesta con gloria,

le cui azioni ora raggiungono la fama eccelsa e che presso le gentes si distingue lui solo,

suo padre lo portò via dalla casa dell’amante con un unico straccio indosso».

(F 86 Traglia)

Davvero una pessima figura per il futuro grande generale romano, colto in flagrante tra le braccia di una ragazza forse non bene accetta dalla famiglia, portato via con forza dal burbero padre senza nemmeno avere il tempo di rivestirsi: la frecciata dell’arguto poeta è rafforzata dal contrasto tra la solennità dei primi due versi (che riecheggiano i famosi elogia Scipionum!) e il terzo, che descrive una tipica scena comica.

Scena di un incontro galante. Affresco, 19 a.C. ca. Cubiculum D. Casa della Farnesina. Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

Ora, queste vicende fecero di Nevio il solo letterato romano che abbia preso parte autonoma alle mene politiche e il solo privo di protettori autorevoli negli ambienti dell’élite. Egli pagò di persona il proprio anticonformismo: morì, forse in esilio, a Utica, in Africa, nel 204 o nel 201.

Il forte impegno di Nevio nella vita sociale e culturale romana traspare dai caratteri originari della sua produzione letteraria, della quale si conservano soltanto frammenti riportati da autori posteriori. In particolare, è interessante il suo poema epico, il Bellum Poenicum, dedicato alla narrazione della prima guerra punica, probabilmente composto in tarda età, verso gli anni 220-210. L’opera, che adotta – come già l’Odusia di Livio Andronico – il saturnio, verso della tradizione religiosa latina, doveva estendersi per quattromila o cinquemila versi: ne resta appena una sessantina. Allo stesso modo, anche la sua produzione teatrale dovette essere cospicua, se si presta fede alle testimonianze degli antichi, che lo celebravano fra i maggiori. Sono suoi, del resto, i primi titoli di fabulae praetextae (tragedie di argomento romano) che siano tramandati, Romulus e Clastidium.

Guerrieri celti (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.

Quanto al poema, la scelta di un soggetto storico quasi contemporaneo non fu l’unica novità dell’epica di Nevio. L’autore non si limitò infatti a trattare in poesia il primo scontro con Cartagine, ma nella prima parte dell’opera (o forse in un excursus), con un salto cronologico arditissimo, il suo racconto toccava le origini leggendarie di Roma. Dai frammenti superstiti, si apprende che Nevio narrò con una certa ampiezza dell’arrivo nel Lazio di Enea, il mitico progenitore dei Romani, e delle altre vicende preistoriche fino alla fondazione della città. Per esigenze forse scolastiche il grammatico Ottavio Lampadione (vissuto nel II secolo a.C.) suddivise la materia neviana in sette libri. In effetti, la mescolanza di eventi storici e mitologia fece di Nevio un precursore di Virgilio: il Bellum Poenicum, dunque, anticipò molti motivi e situazioni propri dell’Aeneis e, infatti, molti dei passi dell’opera neviana sarebbero stati trasmessi dai commentatori virgiliani. Nonostante il debito nei confronti di Nevio, il grande successo dell’Aeneis in epoca imperiale contribuì a oscurare i meriti del predecessore.

L’eroe protagonista della vicenda virgiliana, nell’ultima notte di Troia, correva a casa del vecchio padre Anchise e, consegnati nelle sue mani i Penates della città, se lo caricava sulle spalle, prendeva per mano il figlioletto Ascanio e, seguito dalla moglie Creusa (che nella concitazione della fuga sarebbe andata perduta per sempre), correva via da Ilio in fiamme, invasa dagli Achei. In Nevio, come mostrano due frammenti tra i più significativi, che descrivono in maniera assai espressiva i momenti della fuga, le cose andarono diversamente. Secondo un’interpretazione minoritaria, Anchise ed Enea, avvertiti per tempo da Venere, avrebbero lasciato Troia destinata alla distruzione subito dopo l’orrenda morte di Laocoonte. Nel F 4 Morel le spose di Anchise e di Enea abbandonavano piangenti la città al suo fato, uscendo furtivamente di notte con il capo velato:

… amborum uxorem

noctu Troiad exibant capitibus opertis,

flentes ambae, abeuntes lacrimis cum multis…

«… le spose di entrambi

uscivano notte tempo da Troia a capo coperto,

entrambe piangendo, mentre se ne andavano con molte lacrime…».

Nel F 5 Morel al seguito degli esuli fuggitivi si poneva una moltitudine, genti d’ogni età (multi mortales), ma anche numerosi guerrieri valorosi (strenui uiri), capaci di opporsi all’avverso destino e pronti a costruire una nuova patria (l’oro che portavano con sé non era, una volta tanto, moralistico sintomo di corruzione o avidità, ma realistica garanzia di rinascita):

eorum sectam sequuntur multi mortals,

multi alii e Troia strenui uiri,

urbi foras cum auro illic exibant.

«Al loro seguito si pose molta gente,

molti altri coraggiosi guerrieri di Troia,

uscivano allora dalla città, portando con sé l’oro».

Il tragico tema dell’esilio è dunque sviluppato da Nevio con i tratti espressionistici tipici dell’epos arcaico. Nel primo frammento il poliptoto (cioè la ripetizione della stessa parola in due casi diversi della flessione) amborum… ambae, allitterante con abeuntes, sottolinea il comune destino delle due donne: la segretezza e il pianto muliebre che accompagnano la fuga sono racchiusi rispettivamente nei due versi finali. Nell’altro frammento, invece, la potente figura etimologica (che lega verbo e complemento tratti dalla medesima radice) sectam sequuntur è collegata dall’allitterazione con strenui uiri, ma all’interno della struttura sintattica la formula patetica multi mortales, enfatizzato dal raddoppiamento di multi, dice il destino doloroso di tutta una stirpe.

La partenza degli Eneadi per l’Esperia. Disegno ricostruttivo, dalla Tabula Iliaca Capitolina (in SCAFOGLIO 2005, 127).

Nel racconto della “preistoria” di Roma, Nevio doveva dare notevole spazio all’intervento divino, ma, a differenza dell’epica omerica, gli dèi assumevano anche una funzione storica e sanzionavano, attraverso grandiosi conflitti, la fondazione dell’Urbe. Se da una parte è giusto insistere sull’ispirazione “nazionale” dell’opera e sull’originalità della struttura, dall’altra non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca, quasi a farne un contraltare del “traduttore” Andronico. Nevio stesso, d’altronde, doveva essere stato un profondo conoscitore di poesia ellenica: anche la sua terra d’origine, la Campania, era regione di lingua e cultura grecanica. Certi aspetti di stile rivelano in lui un’originale mescolanza di cultura poetica greca e ispirazione tradizionale romana.

Il poeta, si è accennato, scrisse molto anche per il teatro: a quanto pare, fu l’inventore di un nuovo genere teatrale, la fabula praetexta, così detta dal nome con cui i Romani indicavano la toga orlata di porpora propria dei magistrati. Di questa produzione, le prime tragedie latine di argomento storico di cui si ha notizia, il Romulus (o Lupus) trattava la drammatica storia della fondazione dell’Urbe; il Clastidium doveva essere una celebrazione della vittoria nell’omonima località (l’od. Casteggio, PV), ottenuta nel 222 a.C. sui Galli Insubri dal console Marco Claudio Marcello: una tragedia su un evento così vicino nel tempo era una grande novità. Fra i drammi di argomento mitologico e greco si segnala, per il suo legame con questioni sociali e politiche di grande attualità, il Lucurgus.

Licurgo. Mosaico, II-III sec. d.C. da St.-Colombe. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

Di questa fabula cothurnata si conservano almeno ventiquattro frammenti, grazie ai quali è possibile ricavare una vaga idea della trama: la fabula narrava un episodio relativo all’introduzione del culto dionisiaco in Grecia, e precisamente la terribile punizione inflitta da Dioniso a Licurgo, re di Tracia, il quale aveva malamente cacciato dal regno il dio e tutto il suo seguito di Baccanti. Dioniso si vendicò facendo perire l’empio sovrano tra atroci sofferenze nel rogo del suo stesso palazzo. Per la composizione dell’opera, Nevio si ispirò a un originale greco, forse alla perduta tetralogia eschilea nota come Lykourgheia.

Il tema bacchico era, dunque, particolarmente attuale a Roma tra la fine del III e gli inizi del II secolo: per la verità, il culto di Dioniso, chiamato a Roma Liber o Bacchus, era stato riconosciuto ufficialmente dalle autorità religiose già da molto tempo (almeno dal 496 circa); eppure, negli ultimi decenni del III secolo si erano diffusi dalla Magna Graecia rituali di tipo orgiastico, che preoccupavano enormemente le autorità civili romane a tal punto che, come attesta una tavola di bronzo rinvenuta presso l’od. Tiriolo (CZ), il 7 ottobre 186 il senatus consultum de Bacchanalibus fu promulgato per “depurare” i sacra dionisiaci di tutti quegli elementi che li avevano resi sovversivi, e ricondurli nell’ordinamento cultuale pubblico. La vicenda è raccontata con dovizia di particolari da Tito Livio (XXXIX 8-19). Per comprendere, dunque, l’ostilità che i Romani provavano per quei cerimoniali tanto oltraggiosi e pericolosi basta citare la drammatica e concitata descrizione delle Baccanti che giungono nel regno di Licurgo: Alte iubatos angues inlaesae gerunt («Portano illese serpi dall’alta cresta», F 18 Traglia); oppure le devastazioni compiute dalle invasate: Liberi sunt: quaqua incedunt omnis aruas opterunt («Sono seguaci di Libero: dovunque passino, calpestano tutti i campi», F 19 Traglia).

Di gran lunga più importante, comunque, sembrerebbe la produzione comica di Nevio, consistente in almeno trentadue fabulae, le cui caratteristiche erano tali da indurre il grammatico Volcacio Sedigito a includere il poeta nel canone dei dieci migliori commediografi latini di tutti i tempi. Tra i titoli di questa produzione, il più noto è Tarentilla (“La ragazza di Taranto”): di quest’opera si ha un frammento assai vivace, il ritratto di una ragazza – forse proprio la protagonista – che fa la civetta (F 63 Traglia):

… quasi pila

in choro ludens datatim dat se[se] et communem facit.

alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.

alibi manus est occupata, alii peruellit pedem;

anulum dat alii [ex]spectandum, a labris alium inuocat,

cum alio cantat, attamen alii <suo> dat digito litteras.

… come una palla

in cerchio passa dall’uno all’altro ed è di tutti.

Fa un cenno a uno, all’altro strizza l’occhio; a uno fa le moine, ne abbraccia un altro.

Mentre la destra è occupata altrove, da un’altra parte fa piedino;

mostra a questo l’anello, chiama quell’altro sussurrando,

con uno canta, a un altro fa segni con le dita.

L’immagine offerta è quella del personaggio stereotipato della ἑταίρα, che grande fortuna ebbe nella Commedia di Mezzo e nella Nea.

Scena di rapimento erotico. Puteale, marmo pentelico, I-II sec. d.C., dalla Campania.

In un altro frammento (F 62 Traglia), appartenente alla stessa opera, il poeta espone il proprio pensiero sulla libertas attraverso l’intervento iniziale del seruus /prologus, che entra in scena burlandosi del pubblico:

quae ego in theatro hic meis probaui plausibus

ea non audere quemquam regem rumpere:

quanto libertatem hanc hic superat seruitus.

«La legge che io ho fatto valere qui con i miei applausi

nessuno osa infrangere, nemmeno se fosse un re:

quanto qui sulla scena la servitù supera questa vostra libertà!».

Splendidi versi davvero teatrali, tutti giocati sui gesti dell’attore: hic, puntando l’indice verso il palcoscenico; hanc con un grande gesto sfottitore all’indirizzo degli spettatori.

Il poeta e Thalia, la Musa della commedia. Rilievo da un sarcofago a colonna, marmo, II sec. d.C., da Roma, Horti Pompeiani. London, British Museum.

Del resto, il teatro comico di Nevio dovette essere più “impegnato” di quello del secolo successivo. La sua opera, come si è visto, non si risparmiava attacchi personali contro avverse figure politiche, e scandiva a più riprese il suo amore per la libertas (intesa come la greca παρρησία, cioè la libertà di espressione). Questo spirito censorio ben si adatta all’immagine del mordace poeta superbo, esaltatore del proprio ingegno; sarà difficilmente un caso, allora, che molti personaggi delle sue commedie rivendicassero la propria libertà personale, di pensiero e d’azione, come dimostra un allitterante monostico: Libera lingua loquemur ludis Liberalibus («Con libera lingua parleremo ai ludi di Bacco», F 5 Traglia). L’aggressione satirica dell’avversario politico aveva un precedente illustre nella commedia ateniese dei tempi di Aristofane (V sec.), ma non trovava altri continuatori nel teatro comico latino.

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La nascita della storiografia latina

di A. Lᴀ Pᴇɴɴᴀ, La cultura letteraria a Roma, Bari-Roma 1986.

La storiografia in prosa nacque probabilmente dopo l’epos storico: infatti, è probabile che Fabio Pittore scrivesse dopo il Bellum Poenicum di Nevio (anche se la questione è discussa). Prima di Nevio, però, esisteva, come s’è già detto, la cronaca annuale in prosa dei pontefici; non è arrischiato supporre che il pontefice massimo, oltre la cronaca che scriveva sulla tabula dealbata, tenesse nel suo archivio dei commentarii (o qualche cosa di simile), documenti raccolti e una cronaca più dettagliata, su cui si sarebbe poi fondata, nel II secolo a.C., la compilazione degli Annales maximi. È difficile che esistesse una vera narrazione, con valutazione più o meno esplicita di fatti e persone. È credibile che Fabio Pittore dalla cronaca pontificale ereditasse l’impostazione annalistica e ne attingesse materiale; ma la rottura, il salto erano resi più evidenti dall’uso del greco. A spiegare la scelta di questa lingua non si può addurre a una ragione certa: può aver giocato la mancanza di una prosa letteraria latina, ma è meno improbabile la ragione più spesso addotta: l’opera, in polemica con storici greci favorevoli a Cartagine, si rivolgeva anche a un pubblico non latino, che conosceva la lingua greca. Naturalmente si rivolgeva anche al pubblico colto romano (poco più esteso, come s’è già detto, dell’élite politica), poiché già nella seconda metà del III secolo a.C. l’insegnamento successivo a quello elementare (e poi anche quello elementare) incomincia dal greco. D’altra parte è una novità rilevante, quasi sorprendente, che uno scrittore latino si rivolga a un pubblico di ambito mediterraneo.

Denario, Roma 207 a.C. Ar. 4.36 gr. Obverso: Roma. I Dioscuri a cavallo al galoppo verso destra.

Mentre la poesia è prodotta da liberti o clienti che provenivano da altri paesi, la storiografia è prodotta da uomini della nobilitas: l’uomo politico si occupa di diritto, cerca di essere un buon oratore oltre che un buon capo militare, e da ora in poi non disdegna di scrivere storia. Nella storiografia l’ispirazione (o il veleno) proveniente dall’impegno politico è più immediata e forte che in altri generi di letteratura. Fabio si rifà alle origini di Roma, ma dedica una parte, forse rilevante, dell’opera alla seconda guerra punica, alla quale ha partecipato lui stesso; probabilmente ha introdotto nell’opera anche qualche elemento autobiografico: non senza ragione si ritiene che Livio (Ab Urbe condita, XXII 57,5; XXIII 11,1 sgg.) attinga da Fabio quando riferisce con dettagli la missione dello stesso Fabio presso l’oracolo di Delfi durante la seconda guerra punica. Sotto questo aspetto egli avrà accentuato una libertà che era già nell’epos storico: per es., Nevio nel Bellum Poenicum aveva ricordato la sua milizia nella prima guerra punica; Ennio negli Annales menzionò il suo accesso alla cittadinanza romana.
Anche se Fabio polemizzava contro storici greci, teneva d’occhio innanzi tutto i problemi interni dello Stato romano. Come generalmente l’élite politica contemporanea, egli riteneva che alla potenza di Roma verso i nemici esterni contribuisse in misura decisiva la conservazione scrupolosa dell’antico patrimonio di culti religiosi, istituzioni politiche e giuridiche, costumi: Fabio ne ricercava le origini e talvolta li descriveva minutamente. Senza escludere che la storiografia greca stimolasse la sua curiosità, la spinta più importante era nel rispetto e nell’amore per il patrimonio religioso e morale della civitas. Quest’interesse di Fabio si ritroverà abbastanza vivo nella storiografia arcaica latina. D’altra parete l’amore per il prestigio della res publica non escludeva affatto l’amore per il prestigio della gens o della famiglia. Rintracciare in Livio le deformazioni operate dalle sue fonti per accrescere la gloria di questa o quella delle grandi famiglie è compito dai risultati necessariamente incerti, ma tutt’altro che futile. Anche sotto questo aspetto l’epos storico avrà presentato analogie: se non abbiamo indizi in Nevio, ne abbiamo in Ennio, benché resti difficile approdare a conclusioni sicure. E questo proposito va ricordato quanto materiale utile alla storiografia offrivano gli archivi delle grandi famiglie.
La storiografia in latino fu iniziata in vecchiaia da Catone, che irrideva Aulo Postumio Albino, autore di annali in greco; egli non avrebbe mai riconosciuto che senza Fabio Pittore e gli altri annalisti in greco difficilmente la storiografia in latino sarebbe nata già adulta, come si dimostra nelle Origines. La storia viene ancora scritta dall’élite politica, e questa volta da un uomo politico di primo piano, il che non trova vere analogie nello sviluppo futuro (parlo della storia in senso stretto, come l’intendevano gli antichi, non dei commentari). Naturalmente Catone è ben lontano dal porre il compito della storiografia come il più importante della sua vita. Non per caso vi si dedicò solo da vecchio: prima era occupato a far politica, e questo era il compito veramente importante per un romano della nobilitas. Scrivere storia, però, è già per Catone un compito rispettabile per l’uomo politico, un modo degno di occupare l’otium dopo i negotia: giacché l’homo clarus atque magnus deve render conto, oltre che dei suoi negotia, anche del suo otium: questo era l’argomento che nel proemio dell’opera (fr.2 Peter = 2 Schröder) egli usava per giustificare il suo impegno di storico. L’argomento si inserisce in una riflessione della cultura latina sull’uso dell’otium incominciata almeno da Scipione l’Africano. L’otium è concepito o come relaxatio dell’animo necessaria a ritemprare le energie per i negotia o come meditazione o attività letteraria riguardante pur sempre i negotia: in ogni caso si tratta di un otium integrato nella vita politica, privo di valori autonomi. È opportuno rilevare fin da ora che il dibattito si prolungherà per secoli, che sarà vivo fino a Seneca: non è illegittimo prenderlo come un punto di riferimento non secondario nella storia della cultura latina.

Nelle Origines impegno politico e aggressività erano probabilmente più forti che in Fabio; certamente più forte era il peso che Catone dava all’autobiografia; anzi una parte dell’opera era un’apologia o una celebrazione di sé. La notevole presenza dell’autobiografia convergeva con la forte tendenza a privilegiare la storia contemporanea, che nell’opera aveva un posto molto ampio (le erano dedicati tre dei sette libri). Il caso, ben lungi dall’essere eccezionale, si inserisce in una tendenza generale della storiografia antica, che i Latini non hanno ricalcata, bensì sviluppata per proprie naturali esigenze. Livio (praef. 4) sa che il pubblico aspetta con interesse molto più vivo le parti dell’opera in cui narrerà la storia recente. Non l’interesse intellettuale per il passato, ma il bisogno appassionato di conoscere il proprio tempo è la prima molla della storiografia antica, anche se si può sostenere giustamente che solo raffrenando quel primo impulso la storia diventa vera conoscenza intellettuale.
L’esperienza politica fu un ricco nutrimento per l’opera storica di Catone. Impegnatissimo e combattivo nelle lotte che ardevano all’interno della città, egli aveva, però, larghi orizzonti. Forse anche perché di origine extraurbana (proveniva da Tuscolo), egli rivolse la sua attenzione anche alla storia dei popoli italici, alle cui origines dedicò il II e il III libro dell’opera. Nel Libro V inserì il suo discorso pro Rhodiensibus: ciò serviva all’apologia di se stesso, ma metteva anche in rilievo i problemi di politica internazionale. Prima della terza guerra punica una parte dell’élite politica pensò a una specie di equilibrio fra le potenze ancora autonome nell’ambito del Mediterraneo, e anche Catone per qualche tempo dovette ritenere che quella soluzione fosse possibile e vantaggiosa.

Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.

Anche nell’opera della vecchiaia resta in primo piano il problema dell’integrità della società romana: come tener saldo l’assetto dello stato aristocratico, quale deve essere l’etica e la cultura della città, come eliminare le forze centrifughe. Homo novus, entrato nella nobilitas dopo che questa era stata in parte distrutta nella seconda guerra punica, ne aveva fatti propri gli interessi: egli elabora un’ideologia dell’uomo che s’innalza grazie alla sua virtù, soprattutto restando attaccato al modello agrario di parsimonia, laboriosità, energia, ma non contesta affatto il diritto e il dovere della nobilitas a governare; anzi mira a ridarle quella morale e quell’energia che la rendano degna e capace del ruolo che le spetta. L’origine extraurbana, la tradizione sabina, l’esperienza della campagna sono da lui valorizzate in contrasto con la debolezza della città di fronte alla corruzione, senza però creare una frattura fra città e retroterra. Nessuno più impegnativamente e coscientemente di lui ha raccolto e rafforzato il bisogno di mantenere l’equilibrio e la coesione della nobilitas, contrastando le personalità politiche di prestigio eccezionale, come Scipione Africano. Egli cercò, non senza successo, di soffocare sul nascere il culto carismatico delle grandi personalità. Una concezione “eroica” della storia stava già penetrando nella cultura romana e trovava qualche spazio negli Annales di Ennio; Catone elaborò, specialmente nell’opera storica, una concezione “storicistica”, che metteva l’accento, nella storia romana, sul lento formarsi, attraverso generazioni e attraverso secoli, dello Stato e delle istituzioni, sulla partecipazione collettiva alla costruzione dell’organismo pubblico (anche se la collettività era, in definitiva, l’élite politica), sulla continuità, la mancanza di rotture che garantiva la stabilità.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’opera storica chiudeva con grande coerenza un compito politico e culturale che Catone aveva assolto per tutta la vita come oratore e come autore di vari trattati (tra i quali si conserva quello De agri cultura). Per lo più egli è stato visto come un difensore della tradizione romana contro l’ellenizzazione, del passato contro il presente. L’interpretazione non manca di ragioni valide. La lotta contro la penetrazione della cultura greca per molte vie, che andavano dal lusso della tavola alla letteratura, dai divertimenti alla religione, fu costante e accanita. Egli conquistò un largo consenso; nel 186 a.C. ci fu la pesante repressione dei culti bacchici, nel 173 l’espulsione dei filosofi epicurei Alceo e Filisco, nel 161 l’espulsione di filosofi e retori, nel 155 il rapido rinvio dei filosofi greci mandati come ambasciatori; forse nel 154 fu impedita la costruzione di un teatro in pietra (Livio, Ad Urbe condita XLVIII; Valerio Massimo, II 4,2). Può darsi, però, che nel rifiuto della cultura greca altri andassero più in là di Catone. Egli non era affatto chiuso all’influenza intellettuale greca: nelle Origines è stata avvertita l’influenza del Timeo; persino nel De agri cultura si rintracciano elementi di scienza greca. Questo trattato dimostra bene come Catone sapesse capire le esigenze nuove: è noto che il suo modello di “azienda agricola”, di notevoli dimensioni, è aggiornato ai mutamenti dell’economia. Al centro del suo compito intellettuale è la fondazione di una cultura radicata nella tradizione, ma non vecchia, viva e non irrigidita, che costituisse la base dell’educazione morale e politica. ispirazione e organismo dovevano essere romani, non greci, ma gli apporti greci erano accolti, se non proclamati. In una certa misura, che non va forzata, il suo compito è analogo a quello che, con altra apertura verso la cultura greca, si proporrà Cicerone. Già Catone affronta il compito come rimedio a un processo di decadenza della società di cui ha preso coscienza e che interpreta soprattutto come una crisi morale. Anche in questa interpretazione della crisi ci sono convergenze con la cultura greca e suggerimenti da essa provenienti. La coscienza inquieta della decadenza diventa da ora in poi una costante della cultura latina.

Bibliografia:

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