Gaio Sallustio Crispo

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 448-457

Il primo grande storico

Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui si possono leggere per intero le opere principali, essendo andate perdute le Origines di Catone. La sua novità consiste nell’aver scelto di narrare non un lungo periodo della storia romana, ma singoli avvenimenti (la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta) che, pur essendo stati di breve durata, gli sembrarono decisivi per le conseguenze che avrebbero avuto sugli sviluppi successivi. Sallustio scelse dunque il genere della monografia, ovvero della «trattazione isolata».

In realtà, la monografia (dal greco μόνος, «singolo, isolato», e γράφειν, «scrivere») non è un vero e proprio genere letterario, ma un sottogenere della storiografia, che corrisponde alla scelta di trattare non una lunga epoca, ma un periodo circoscritto, un evento o un luogo isolato, che sembrano di particolare interesse per l’autore. Il modello ispiratore della scelta, in questo come in altri ambiti, fu Omero, che nell’Iliade narrò la guerra di Troia, per di più concentrandosi sugli eventi accaduti in cinquantuno giorni dell’ultimo anno di conflitto. Questa abilità di selezione fu lodata già da Aristotele, anche riguardo all’Odissea, in diversi passi della Poetica (p. es., 59a 30-37).

Venendo alla storiografia vera e propria, l’iniziatore della monografia fu l’ateniese Tucidide (c. 460-400 a.C.). Contrapponendosi al suo grande predecessore Erodoto, che aveva narrato la storia e le usanze di più popolazioni dalle origini fino alle guerre persiane, Tucidide decise di raccontare soltanto la guerra del Peloponneso (431-404), affermando nel proemio di aver capito (e a ragione) fin dall’inizio che si trattava di un fatto senza precedenti (I 1). Per sottolineare la novità di questo conflitto rispetto ai precedenti, dopo il proemio Tucidide inserì un lungo excursus sulla storia più antica – chiamato «archeologia» –, una scelta che sarebbe stata imitata da Sallustio nei capp. 6-13 del De Catilinae coniuratione.

Altri storici contemporanei di Tucidide scelsero la forma monografica in base non tanto all’evento, quanto al luogo: così Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo scrissero opere su singoli Paesi e popoli ricche di notazioni etnografiche o su singole genealogie di eroi, mentre Ippia di Reggio e Antioco di Siracusa si concentrarono sull’Italia meridionale. Nel IV secolo il genere monografico continuò a fiorire (in particolare, i numerosi autori di storie dell’Attica presero il nome di attidografi); alla fine del III secolo vi si affiancarono le monografie dedicate alle straordinarie imprese di Alessandro il Grande (tra gli autori si ricordano Tolemeo, Nearco e Callistene), che però scaddero ben presto nel romanzesco.

Com’è noto, la prima storiografia romana fu di tipo annalistico, ovvero di ampio respiro e scandita anno per anno, fosse essa scritta in poesia (gli Annales di Ennio) o in prosa (le Origines di Catone). Il primo scrittore romano che optò per l’impianto monografico fu Celio Antipatro (II secolo a.C.), autore di un’opera – andata perduta – sulla seconda guerra punica.

La scelta di Celio Antipatro rimase alquanto isolata, finché non fu ripresa da Sallustio, che dedicò le sue due più importanti opere alla congiura di Catilina (63) e alla guerra contro Giugurta (111-105), affermando esplicitamente di voler scrivere «su argomenti scelti» (carptim… perscribere, Cat. 4, 2). Dopo queste due monografie, l’autore praticò anche l’annalistica componendo le Historiae, che narravano i fatti avvenuti dal 78 a.C. in poi.

Anche il più grande storico di età imperiale, Tacito, che ebbe Sallustio come modello di composizione, etica e stile, praticò entrambi i generi: oltre agli Annales e alle Historiae, che raccontano gli accadimenti dalla morte di Augusto, Tacito compose anche una monografia etnografica sui Germani (De origine et situ Germanorum) e un breve De vita Iulii Agricolae, che, pur essendo di per sé un elogio funebre, è in realtà un quadro monografico sul principato di Domiziano.

Insomma, ad avvenimenti brevi Sallustio dedicò opere brevi; malgrado questa caratteristica, le monografie contengono riflessioni che mostrano una lucidità e un’intelligenza proprie di chi ha partecipato attivamente alla vita politica per un lungo tratto della sua vita. il cupo pessimismo dell’autore e la sua tragica visione della Storia si riflettono in uno stile personalissimo, che rifugge dall’eleganza esornativa ciceroniana e fa largo uso di forme poetiche e arcaiche.

Maestro di Marradi. L’espulsione di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto da Roma. Tempera e oro su tavola, XV secolo. Collezione privata.

La vita: dalla politica attiva all’otium letterario

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina (oggi vicino a L’Aquila), il 1 ottobre 86, da una famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati alla res publica; egli era perciò un homo novus, come il suo conterraneo Marco Porcio Catone il Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Sallustio compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica, in un’epoca abbastanza convulsa per lo Stato romano. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e contro Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dovette subire la vendetta degli optimates: nel 50 fu espulso dal Senato per indegnità morale.

Dopo lo scoppio della guerra civile, Sallustio combatté per la causa di Cesare e fu riammesso nel venerando consesso dopo la vittoria di quest’ultimo: la sua carriera politica riprese rapida, tanto che nel 46 era già arrivato a essere pretore. Una volta sconfitti i pompeiani anche in Africa a Tapso, Cesare nominò Sallustio governatore della nuova provincia, costituita in gran parte dalle annessioni dal regno di Numidia, tolto a Giuba che aveva appoggiato il nemico. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità, e al suo rientro a Roma, a fine mandato, fu colpito dall’accusa de repetundis. Per evitargli una sicura condanna e una nuova espulsione dal Senato, probabilmente Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da quel momento in poi che, presumibilmente, Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le opere

Sallustio, dunque, si dedicò alla storiografia quando le circostanze gli impedirono di partecipare ancora alla vita politica. Questo dato biografico è il punto di partenza della riflessione sulla Storia e sul ruolo dello storico che egli svolge nei proemi delle due monografie, il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate forse fra il 43 e il 40. Egli segue una prassi propria della storiografia classica, consistente nell’esordire svolgendo alcuni temi di carattere generale e affermando, prima di tutto, l’utilità della Storia: essa è per lo storico latino tanto più importante, rispetto ai suoi predecessori greci, in quanto la mentalità romana considerava assolutamente primaria la partecipazione alla vita pubblica e guardava con sospetto alle attività intellettuali che comportassero il distacco dalla res publica e il prevalere degli interessi privati.

Appunto contro le resistenze di questo sistema di valori tradizionali Sallustio vuole rivendicare l’importanza dell’opera dello storico. Per tale processo di legittimazione egli parte da premesse filosofiche e precisamente dal tema platonico del dualismo dell’essere umano, composto da animus e corpus: il primo è di origine divina ed è chiamato a funzioni di guida, mentre il secondo, che è mortale e che l’uomo ha in comune con gli altri animali, deve obbedire al primo. È dunque solennemente proclamata la superiorità della parte spirituale dell’uomo su quella fisica: all’animus, appunto, l’autore riconduce tutte le occupazioni nobili ed elevate, quelle apportatrici di fama, che consentono di trascendere i limiti mortali della vita umana.

Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V, copriva il periodo fra il 78 e il 67, cioè dalla morte di Silla alla conclusione della guerra piratica di Pompeo, riallacciandosi alla narrazione di Cornelio Sisenna (c. 120-67 a.C.); ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di vaste dimensioni ( parte del proemio, quattro discorsi e due lettere). Opere spurie sono considerate le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l’Invectiva in Ciceronem.

Come si è visto, dopo un’iniziale, intensa partecipazione attiva alla vita pubblica, ovvero al negotium, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò all’attività letteraria, ovvero all’otium. Poiché i Romani concepivano l’otium in maniera potenzialmente negativa, cioè come tempo sottratto alla cura degli affari e della politica, Sallustio sentì il bisogno di giustificarsi per il passaggio dal negotium all’otium, e lo fece nei due lunghi proemi che antepose alle sue monografie. Sebbene si nutrano di luoghi comuni della filosofia divulgativa, questi proemi rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia era compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone – anch’egli in testi proemiali – a proposito delle sue opere filosofiche; ma in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Tuttavia, l’attività politica non è più praticabile, a detta di Sallustio, perché a Roma trionfa ormai la corruzione.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita pubblica dei cittadini, e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto si sa della sua carriera disonesta di amministratore. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Questo approccio serve a dare conto dell’impianto monografico delle due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia latina. Proprio l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il De Catilinae coniuratione illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità fino ad allora ignota alla res publica; il Bellum Iugurthinum, invece, affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas ormai corrotta a difendere lo Stato, e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica della poesia e la scelta della monografia portò Sallustio a elaborare un nuovo stile storiografico.

Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della guerra. Olio su tela, c. 1640. Collezione privata.

Il De Catilinae coniuratione

Sallustio sceglie come argomento della sua prima monografia la congiura di Lucio Sergio Catilina, repressa da Cicerone console nel 63, perché vi scorge una pericolosa novità: il tentativo di coalizzare contro lo strapotere del Senato una sorta di “blocco sociale” costituito dalle masse di diseredati del proletariato urbano, dei poveri delle campagne, dai membri decaduti del patriziato, forse persino da frotte di servi. Il fenomeno catilinario aveva suscitato nei gruppi dirigenti dell’Urbe timori che possono apparire eccessivi, ma senza la paura dei ceti possidenti nei confronti degli strati inferiori della società non si comprende l’importanza che fu attribuita alla congiura.

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel sovversivismo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui soffriva la società romana. A essa lo storico, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi all’inizio dell’opera (capp. 6-13): si tratta della cosiddetta «archeologia», che, sul modello tucidideo, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Anche se con il senno di poi la congiura di Catilina può sembrare un evento di modesta portata, ingigantito da Cicerone per aumentare i propri meriti e da Sallustio per finalità storiografiche, resta il fatto che fece una grande impressione presso i contemporanei. A partire dall’epoca di Gracchi (133-120 a.C.), passando per i tumulti di Saturnino (100) e Druso (91) e per lo scontro tra Mario e Silla (88-82), la violenza civile a Roma era aumentata a dismisura e in modo incontrollato, finché Catilina non fece il grande passo: per la prima volta qualcuno tramava segretamente contro la res publica. Catilina era pronto a massacrare in un attimo i membri di quel Senato che frequentava abitualmente e i magistrati con cui si intratteneva ogni giorno come se nulla fosse. Sallustio, dunque, si è chiesto come sia stato possibile giungere a tanto. Mentre uno storico moderno spiegherebbe i fatti attraverso motivazioni economiche, politiche e sociali, Sallustio – storico moralista e “tragico” – addita una causa di natura collettiva, cioè la decadenza morale di tutta Roma e una di natura individuale, cioè la malvagità d’animo del protagonista e di tutti coloro che avevano scelto di seguirlo.

I capitoli 9-11, che espongono la prima delle due ragioni, sono estratti dalla cosiddetta «archeologia», l’excursus che presenta l’ascesa di Roma dal periodo della fondazione al presente dell’autore. La tesi di Sallustio è che fino alla distruzione di Cartagine (146) i Romani, valorosi in guerra e giusti e miti in tempo di pace, abbiano mantenuto boni mores; ma, una volta scomparso il grande rivale, l’Urbe è precipitata in un baratro di corruzione e violenza, culminato nella dittatura di Lucio Cornelio Silla.

[9.1] Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. [2] iurgia discordias simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. in suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. [3] duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. [4] quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; [5] in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.

[10.1] Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] haec primo paulatim crescere,interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

[11.1] Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. [2] nam gloriam honorem imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit. [3] avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit: ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat, semper infinita ‹et› insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur. [4] sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, trahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. [5] huc adcedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant: [6] ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare potare, signa tabulas pictas vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. [7] igitur ei milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil relicui victis fecere. [8] quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi conruptis moribus victoriae temperarent.

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

[9.1] In pace e in guerra, dunque, era onorata la buona condotta; regnava la concordia, non si conosceva brama di arricchire. Il diritto e l’onestà erano osservati non in forza di leggi ma per impulso naturale. [2] Alterchi, discordie, contese se ne avevano solo con i nemici esterni: tra concittadini si gareggiava soltanto per il valore. Erano splendidi nel culto reso agli dèi, parsimoniosi nella loro vita privata e leali agli amici. [3

]Sia nella vita privata sia in quella pubblica, si attendevano a due principi, spietati in guerra, erano equi quando era tornata la pace. [4] Sono cose di cui potrei addurre documenti irrefutabili, perché in guerra è accaduto di dover punire soldati per essersi lanciati sul nemico contro gli ordini o attardati a combattere dopo il segnale della ritirata, più spesso che per aver disertato o ceduto terreno sotto la pressione degli avversari. [5] In tempo di pace, d’altro canto, esercitavano il loro dominio più con la benevolenza che con il terrore e preferivano perdonare alle offese ricevute anziché punirne i responsabili.

[10.1] Ma come la res publica, con la tenacia e la giustizia, si espanse e i re più potenti furono soggiogati e le genti barbare e le grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu rasa al suolo dalle fondamenta e si erano aperti tutti quanti i mari e le terre, la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. [2] Per quelle stesse persone che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, la tranquillità e il benessere, beni d’altro canto desiderabili, si trasformarono in travagli e sciagure. [3] La brama di ricchezza e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. [4] Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse la gente all’arroganza, alla crudeltà, alla noncuranza verso gli dèi, alla convinzione che non ci fosse cosa che non fosse in vendita. [5] L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e ad averne un altro pronto sulla lingua, a considerare amici e nemici non per i loro reali meriti, ma secondo il proprio tornaconto, a sembrare onesti più che a esserlo davvero. [6]

 Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma più il contagio si diffuse come una pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile.

[11.1] Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia tormentava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano dal pregio. [2] Infatti, alla gloria, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, l’uomo di valore e l’incapace; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la meta con la frode e il raggiro. [3] L’avidità contiene in sé la brama di denaro, che nessun sapiente ha mai desiderato e desidera. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, infiacchisce il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non si attenua né per abbondanza né per difetto. [4] Ma, dopo che Lucio Silla, preso il potere con le armi, fece seguire fatti atroci nonostante i fausti inizi, tutti si diedero a commettere stupri e rapine, chi bramava una casa, chi i poderi, i vincitori non conoscevano freno né misura, compivano atrocità e crudeltà contro i concittadini. [5] A ciò si aggiungeva il fatto che Lucio Silla aveva lasciato vivere nel lusso e trattato con eccessiva liberalità, contrariamente al costume degli avi nostri, l’esercito che aveva condotto con sé in Asia per renderselo leale. L’amenità e la molle piacevolezza dei luoghi avevano rapidamente fiaccato nell’ozio lo spirito fiero di quei soldati. [6] Laggiù per la pima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, ad amoreggiare, a bere smodatamente, ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri e vasellame cesellato, e incominciò a rubarli dalle case private e dai luoghi pubblici, a spogliare i templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. [7] Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono niente ai vinti. [8] La prosperità corrompe perfino l’animo del saggio: figuriamoci se quei degenerati avrebbero saputo moderarsi nella vittoria!

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: L(ucius) Sulla. Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, reggente una foglia di palma.

Nella visione pessimistica di Sallustio, la società romana del suo tempo era ormai minata da un processo irreversibile di degenerazione morale, che aveva rovesciato i boni mores che un tempo avevano fatto la grandezza di Roma. In quest’ottica, un episodio come la congiura di Catilina rappresenta il culmine di una “malattia” che ha progressivamente corroso il tessuto sociale, e per capirne le implicazioni è necessario rileggere lo sviluppo storico che ha portato dagli antichi fasti all’attuale decadenza della res publica. È questa, come più volte si è detto, la funzione della cosiddetta «archeologia», in cui, sul modello dell’analoga digressione di Tucidide, Sallustio interrompe la linea narrativa della monografia per tracciare una sorta di “storia morale” di Roma, dall’età mitica fino al suo presente, una storia di progressiva, inesorabile decadenza.

Mentre i primi quattro capitoli dell’excursus sono dedicati all’elogio della moralità arcaica, gli ultimi quattro, in perfetta simmetria, descrivono la china “discendente” di questa parabola. Il punto di svolta, per l’autore, è la distruzione di Cartagine (10, 1), e da qui in poi si apre l’elenco delle “tappe della rovina”. Sallustio è attento alla scansione temporale dei fenomeni, come mostra l’abbondanza di indicatori cronologici. L’autore cita questo evento come coronamento delle vittorie ottenute da Roma, fra III e II secolo a.C., contro reges magni (Pirro d’Epiro, Perseo di Macedonia e Antioco di Siria), nationes ferae e populi ingentes. L’idea che a partire da questo fatto fosse iniziata la decadenza dell’Urbe circolava già da qualche tempo: nel II secolo, infatti, lo storico Polibio di Megalopoli aveva notato come la paura per il nemico stimolasse la concordia fra i concittadini, mentre il benessere che segue alla sconfitta del nemico e alla conquista di nuovi territori avviasse un processo di decadenza (è la cosiddetta “teoria del metus hostilis”). In quest’ottica, però, è interessante notare come Sallustio attribuisca all’azione della fortuna l’inizio del rovinoso processo, o meglio al fatto che la virtus, indebolendosi, lasciò spazio al gioco della fortuna. Inoltre, i primi segni della decadenza sono l’insorgere della cupido pecuniae e poi della cupido imperii (10, 3), ai cui effetti, avaritia e ambitio, sono dedicati i successivi paragrafi. Si inserisce, a questo punto, il secondo evento cruciale, cioè la dittatura di Silla (11, 4-7), che, nella visione di Sallustio, diede modo all’avaritia di scatenarsi senza più ritegno, tra proscrizioni, permissività nei confronti di militari corrotti, e crudeltà crescente fra concittadini. In chiusura, una frase sentenziosa denuncia il carattere inevitabile di tale processo e l’inconciliabilità delle secundae res con la conservazione dei boni mores (11, 8).

L’immagine della Roma antica che emerge da questa pagina sallustiana è fortemente idealizzata: l’autore evita di fare qualsiasi cenno alle lotte fra patrizi e plebei, che ebbero luogo nei primi secoli della storia repubblicana, per aumentare il contrasto fra questa età e la successiva decadenza, macchiata da ben più cruente stragi fra i cives. Di quel periodo Sallustio ricorda solo gli episodi più edificanti, per quanto sconcertanti, come si scorge in 9, 4: l’immagine del soldato romano che rischia di essere punito più per un eccesso di ardimento che per essere fuggito allude all’episodio di Tito Manlio Torquato, console nel 340, che condannò all’esecuzione capitale il proprio figlio per aver combattuto contravvenendo ai suoi ordini. Il paragrafo 9, 5, invece, celebra l’imperialismo romano come un dominio basato sulla benevolenza e la mitezza, piuttosto che su un regime di terrore nei confronti delle popolazioni sottomesse.

Anche l’idea che i boni mores vigessero più per istinto naturale che per la forza delle leggi è un elemento fortemente idealizzante, che si ritrova nell’immagine “aurea” del virgiliano regno di Saturno (Verg. Aen. VII 203) e diventa ben presto luogo comune (per es., Hor. Carm. III 24, 35-36). Un altro tratto elogiativo è il contrasto fra la parsimonia privata e la magnificenza del culto divino, per cui Sallustio trae probabilmente spunto da un’orazione di Demostene (Dem. 3, 25), che opponeva il fasto dei templi all’umiltà delle abitazioni private nell’antica Atene.

Catilina incarna in sé, portandoli al massimo grado, i vizi della società contemporanea: le sue colpe sono le stesse della civitas, come Sallustio riconosce verso la fine del ritratto del protagonista (5). Perciò, al termine dell’excursus “archeologico”, ecco di nuovo e subito Catilina, che questa degenerazione ricapitola e impersona (14).

[14.1] In tanta tamque conrupta civitate Catilina, id quod factu facillumum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. [2] Nam quicumque inpudicus adulter, ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, [3] praeterea omnes undique parricidae sacrilegi convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ii Catilinae proxumi familiaresque erant. [4] Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cotidiano usu atque inlecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. [5] Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat: eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. [6] Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canis atque equos mercari; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. [7] Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[14.1] In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. [2] Non c’era, infatti, degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era uno indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, [3] non c’era un parricida o un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di sentenza, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse tra i suoi. [4] E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, di entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri. [5] Cercava, soprattutto, di attirare i giovani: le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania. [6] Infatti egli li assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. [7] So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti i giovani che frequentavano la casa di Catilina; ma erano voci, congetture basate su tutto il contorno, non su fatti accertati.

In questo breve capitolo Sallustio mostra come un Catilina si trovasse perfettamente a suo agio in mezzo alla corruzione di Roma, essendone alimentato e alimentandola a sua volta con i suoi misfatti. In particolare, qui l’autore allude all’immoralità sessuale dei suoi seguaci, sulla quale Catilina poteva fare leva per attirarli: con lui c’era ogni inpudicus, adulter e quicumque… pene bona patria laceraverat, perciò a Catilina bastava scorta praebere («procurare prostitute»). Queste accuse erano sicuramente gravi per la rigida morale sessuale dei Romani, ma ancora tollerabili: la prostituzione era accettata, purché non mettesse in discussione la famiglia e restasse nell’ambito eterosessuale.

L’accusa più grave è quella di pederastia contenuta in 14, 7, espressa per litote con parum honeste pudicitiam habuisse. Sallustio, però, ne prende onestamente le distanze, definendola basata genericamente ex aliis rebus, ben sapendo che nella lotta politica il pettegolezzo sessuale contro gli avversari (soprattutto su forme di sessualità eterodossa) era un’arma diffusissima. Cicerone nell’orazione pro Caelio (56 a.C.) avrebbe riportato le voci sull’amore incestuoso di Clodia (la catulliana Lesbia) con il fratello Clodio, il tribuno che lo aveva mandato in esilio; a sua volta, Cicerone fu accusato di intrattenere rapporti incestuosi con l’amatissima figlia Tullia. E già un secolo prima, il grande commediografo Terenzio era stato accusato di essere l’amasio di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, e di farsi comporre le commedie proprio da loro.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera (capp. 37-39), denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dittatura sillana alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e gli optimates: da un lato i demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro i nobiles e gli equites, che si fanno paladini della dignità del Senato, ma combattono in realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio scorge un legame organico fra la faziosità delle parti contrapposte e il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità” diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente al riparo da quel pericolo.

La condanna del «regime delle factiones» è in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare. Da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi della res publica, ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta Italia. La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio – anche qui non troppo diversamente da Cicerone – doveva sentirsi disgustato dall’inquinamento del Senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel De coniuratione Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares.

Nel riferire la seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C., in cui fu decisa la condanna a morte dei complici del complotto (Cat. 51), Sallustio fa pronunciare a Cesare un lungo discorso che, per sconsigliare l’estremo supplizio, fa largo appello a considerazioni legalitarie. Il discorso “rifatto” da Sallustio non è, a quanto pare, una sostanziale falsificazione; ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nell’intervento effettivamente pronunciato da Cesare in quell’occasione, è soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni, quale mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico sallustiano. La preoccupazione per l’ordine e la legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare fin dal 63, Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del Senato, l’autore delinea i ritratti di Marco Porcio Catone e di Cesare, che in quell’occasione avevano espresso pareri opposti (Cat. 54). L’idea del confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in Utica, e alla quale aveva preso parte lo stesso Cesare con l’Anticato. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una riflessione pacata, che approda a una sorta di ideale “conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria; le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia. Malgrado ciò, «pari era in loro la grandezza d’animo, pari era la fama» (magnitudo animi par, item gloria). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo Stato romano, anzi nelle loro virtù individuava aspetti complementari; in particolare, nei principi etico-politici affermati da Catone, Sallustio – al di là dei dissensi sul ruolo del ceto nobiliare cui Catone dava voce – riconosceva un fondamento irrinunciabile per la res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi Romani dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione dei fatti, la figura del console, che si era trovato a reprimere il complotto, appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i vanti che lo stesso Arpinate si era largamente prodigato. Il Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa il suo dovere, pur non essendo un eroe, superando inquietudini e incertezze.

Attinge, invece, una sua grandezza, sia pure malefica, il personaggio di Catilina stesso, del quale l’autore delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti (Cat. 5), sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di depravazione. Ne emerge il tipo dell’«eroe nero», che con la sua tensione verso il male mette in moto nella Storia le dinamiche più rovinose.

[5.1] L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. [2] Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. [3] Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. [4] Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5] Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. [6] Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat.[7] Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato (dettaglio). Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

[5.1] Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. [2] Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi anni giovanili. [3] Aveva un fisico incredibilmente resistente al digiuno, al freddo, alla veglia; [4] uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del proprio; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; [5] un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. [6] Finito il dispotismo di Lucio Silla, egli fu preso dalla smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli. [7] Quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. [8] Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano ormai due vizi diversi ma parimenti funesti, il lusso e la cupidigia.

I ritratti sono dedicati a personalità illustri ed eccezionali, nel bene e nel male; ciò corrisponde a una visione della Storia che è fatta soprattutto dal confronto e dallo scontro di grandi uomini, più che da fattori socio-economici e politici, ai quali uno storico moderno darebbe maggiore importanza. Sicuramente in queste scelta giocano un ruolo notevole anche le esigenze della storiografia antica, comunemente concepita più come operazione letteraria e artistica che come attività divulgativa di tipo scientifico. I ritratti dei grandi personaggi del passato costituiscono un elemento di comune impiego nelle opere storiografiche antiche, dove fornivano esempi illustri ai quali i lettori avrebbero potuto conformarsi. Ebbene, tale funzione paradigmatica in Sallustio viene per lo più a cadere: ciò che egli vuole imprimere nel suo pubblico è l’ammirazione per le potenti manifestazioni di grandi personalità, tanto che anche un personaggio del tutto negativo come Catilina non manca di suscitare una certa forma di rispetto per la sua grandezza perversa e per la sua virtus, benché rivolta al male. Il giudizio morale è netto e senza appello: Catilina, patrizio decaduto, ex sillano, divenuto un popularis estremista in cerca di appoggi presso i diseredati e addirittura fra gli schiavi, non trova benevolenza presso un moderato come Sallustio.

L’introspezione prende la forma dell’antitesi: lo stile raffigura con evidenza il conflitto interiore di aspetti contrari compresenti in una stessa personalità. Per rendere questa opposizione interiore l’autore si serve di una prosa concitata, in cui la variatio riflette la frantumazione della personalità. Infatti, man mano che il ritratto prende forma, anche il soggetto grammaticale non è più il personaggio, ma i singoli elementi che lo compongono (corpo, animo, passioni, ecc.): dopo aver scomposto Catilina in corpus e animus, nella parte conclusiva del ritratto, dove il periodare si fa più disteso, sono le passioni a divenire il soggetto: lubido, inopia e conscientia scelerum “invadono” il personaggio e dilagano sulla pagina.

Il Bellum Iugurthinum

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105 a.C.) fu la prima occasione in cui «si osò andare contro l’insolenza della nobiltà». In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente romana nella crisi della res publica.

Giugurta, infatti, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia capitolina inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Quinto Cecilio Metello, inviato in Africa, aveva ottenuto successi notevoli, ma non decisivi; Gaio Mario, suo luogotenente, dopo lunghe insistenze ottenne da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto sommo magistrato per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione dell’esercito, arruolando i capite censi. Il conflitto riprese con alterne vicende e si concluse solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradì Giugurta, suo potente alleato e suocero, e lo consegnò ai Romani.

Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica romana: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro le classi superiori corrotte il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella monografia precedente, lo storico inserisce al centro dell’opera un excursus (Iug. 41-42), che indica nel «regime delle fazioni» (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e nella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel De coniuratio. Nella seconda monografia, il bersaglio polemico è la nobilitas e nell’excursus traspare, per esempio, la preoccupazione di non condannare la politica graccana in maniera globale, ma solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobilitas come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la frangia più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Gaio Memmio (Iug. 31) per protestare contro l’operato inconcludente di certa parte del Senato, e successiva da Gaio Mario (Iug. 85), quando quest’ultimo convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue gli interventi rappresentano i migliori valori etico-politici espressi dalla causa mariana nella lotta contro lo strapotere della nobilitas. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci ed enumera i mali del loro regime: il tradimento degli interessi della cosa pubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, il monopolio sulle ricchezze, sulle risorse e sulle cariche politiche.

Nel discorso di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali, sulle qualità e le competenze di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli (Iug. 85, 18-30). Mario si richiama ai valori antichi che avevano fatto la grandezza di Roma, quei valori che in un’epoca remota avevano permesso di emergere agli stessi capostipiti delle gentes patrizie, ormai tralignanti e caratterizzate solo da inettitudine.

Presunto ritratto di Gaio Mario. Testa, marmo, I secolo a.C. München, Glyptothek.

[85.18] Invident honori meo: ergo invideant labori, innocentiae, periculis etiam meis, quoniam per haec illum cepi. [19] Verum homines conrupti superbia ita aetatem agunt, quasi vostros honores contemnant; ita hos petunt, quasi honeste vixerint. [20] Ne illi falsi sunt, qui divorsissumas res pariter exspectant, ignaviae voluptatem et praemia virtutis. [21] Atque etiam, cum apud vos aut in senatu verba faciunt, pleraque oratione maiores suos extollunt: eorum fortia facta memorando clariores sese putant. [22] Quod contra est: nam quanto vita illorum praeclarior, tanto horum socordia flagitiosior. [23] Et profecto ita se res habet: maiorum gloria posteris quasi lumen est, neque bona neque mala eorum in occulto patitur. [24] Huiusce rei ego inopiam fateor, Quirites; verum, id quod multo praeclarius est, meamet facta mihi dicere licet. Nunc videte quam iniqui sint. [25] Quod ex aliena virtute sibi adrogant, id mihi ex mea non concedunt, scilicet quia imagines non habeo, et quia mihi nova nobilitas est, quam certe peperisse melius est quam acceptam corrupisse. [26] Equidem ego non ignoro, si iam mihi respondere velint, abunde illis facundam et compositam orationem fore. Sed in vostro maxumo beneficio cum omnibus locis me vosque maledictis lacerent, non placuit reticere, nequis modestiam in conscientiam duceret. [27] Nam me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest: quippe vera necesse est bene praedicet, falsam vita moresque mei superant. [28] Sed quoniam vostra consilia accusantur, qui mihi summum honorem et maxumum negotium inposuistis, etiam atque etiam reputate, num eorum paenitendum sit. [29] Non possum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas vexillum phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. [30] Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae egomet meis plurumis laboribus et periculis quaesivi.

[85.18] Sono invidiosi della mia posizione: e che lo siano dunque anche della fatica, dell’integrità che me l’hanno procurata! [19] Invece, uomini bacati dall’ambizione, vivono come se avessero a disdegno le cariche che voi conferite e le brigano come se vivessero onestamente. [20] Quanto s’ingannano nel pretendere di conseguire insieme due cose incompatibili, il piacere dell’ozio e i premi della virtù! [21]Aggiungo che, quando si alzano a parlare davanti a voi o in Senato, riempiono i loro interventi delle lodi degli antenati, convinti di accrescere il proprio lustro con il ricordo delle gesta di quelli. [22] Accade invece l’esatto contrario: quanto più è illustre la gloria degli avi, tanto più è infame la viltà dei posteri! [23] Giacché questa è la verità: la gloria degli antenati, per i discendenti, è una specie di fiaccola che non lascia nell’ombra virtù né vizi. [24] Confesso, o Quiriti, che questa fiaccola mi manca: eppure, cosa molto più onorifica, io sono in grado di elencare le mie proprie gesta! [25] Constatate, ora, l’iniquità del loro atteggiamento: quel che si arrogano in nome del merito altrui non vogliono concedermelo in nome del mio! [26] E il motivo? Io non possiedo stemmi nobiliari ed è di fresco conio la mia nobiltà: ma resta pur vero che è meglio acquistarsela di persona che disonorarla dopo averla ricevuta in eredità! [27] Che con tutto questo riconosco che, se volessero controbattere, avrebbero larga scelta fra discorsi eloquenti e ben elaborati: tuttavia, poiché offendono me e voi a proposito di una carica da voi generosamente conferita, non ho voluto tacere, temendo che il mio silenzio potesse essere interpretato come un’ammissione di colpevolezza! [28] Del resto, sono profondamente convinto che nessun discorso potrebbe nuocermi: giacché, se veritiero, dovrebbe dir bene di me, se falso, sarebbe senz’altro smentito dalla condotta della mia vita. ma, dacché si è messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi la più alta magistratura e il più difficile degli incarichi, esaminate a fondo se dobbiate pentirvene. [29] È vero: non sono in grado di offrirvi in garanzia ritratti, trionfi o consolati di antenati illustri; bensì, se sarà il caso, lance, stendardi, piastrine e altre decorazioni militari, per non parlare delle ferite ricevute in pieno petto! [30] Questi sono i miei stemmi, questa la mia nobiltà: sono titoli che non ho ereditato, come è stato per i miei detrattori, ma che ho acquistato di persona fra sacrifici e rischi innumerevoli!».

Gaio Mario. Busto, marmo, c. I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’oratore si rivolge ai convenuti chiamandoli con l’appellativo che li indicava nella loro totalità: Quirites, che i Romani derivavano da Quirinus, nome con cui Romolo fu assunto tra gli dèi, ma che deriva, in realtà, da *co-viri, «uomini riuniti». Mario non intende fare come gli altri politici, che, quando cercano voti e consensi, sono pronti a mille promesse e, una volta eletti, se ne dimenticano, diventando da affabili boriosi. Piuttosto, egli vuole presentarsi come l’esatto opposto: per lui la vera fatica non è la campagna elettorale, ma comincia dopo, quando si entra in carica; dovrà dimostrarsi all’altezza dell’incarico affidatogli, perché i suoi rivali aspetteranno solo un suo passo falso, e non potrà difendersi dietro alla gloria della sua stirpe. Ma egli ammette di sentirsi tranquillo da questo punto di vista, perché ha dalla sua l’esperienza pratica. Egli è un homo novus, che non può vantare tra i propri avi nessun console o pretore o edile curule. Il suo discorso ruota attorno all’antitesi fra la presunta nobiltà degli aristocratici, fatta solo di teoria e vuote parole, e la virtus di chi, come Mario, si è fatto da sé. Anzi, a ogni supposta gloria degli avversari egli contrappone, con gesto plateale e quasi patetico, ben altri tipi di trionfo: medaglie, cicatrici e forza fisica. E, siccome Mario tiene questo discorso per convincere il popolo ad arruolarsi, sottolinea con forza che questo è ciò che saprà insegnare a chi vorrà seguirlo.

Nel complesso, l’intervento di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere; tuttavia, il giudizio complessivo di Sallustio su di lui rimane segnato da ambivalenze e sfumature spesso difficili da cogliere nella loro reale portata. L’ammirazione per l’uomo che ha saputo opporsi all’arroganza dei pauci è in qualche modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura. Sallustio non sembra approvare il provvedimento – in cui si individuava comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali che avrebbero distrutto la res publica – e pare anzi che egli veda come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di homo novus) esalta nel proprio discorso. Il fondamentale moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare importanti riserve sull’uomo che, nella lotta antinobiliare, non aveva esitato ad agitare la feccia plebea e a porre quasi le sorti dello Stato nelle mani del popolino.

Non si può abbandonare la trattazione del Bellum Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta (Iug. 6-8): come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se di una virtus depravata. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re numida è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diventa progressivamente. Il seme della degenerazione è gettato in lui durante l’assedio di Numantia, da nobili e da homines novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua indole si è ormai irrimediabilmente traviata, è solo un piccolo e perfido tiranno, ambizioso e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui: agli occhi dello storico romano le ragioni dell’imperialismo erano tanto evidenti da apparire indiscutibili.

Regno di Numidia. Dramma, Cirta c. 118-106 a.C., AR 3,14 g. Recto: Testa laureata di Giugurta voltata a sinistra.

Le Historiae

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non è chiaro fino a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i frammenti che restano non vanno comunque oltre il 67). Dopo gli esperimenti monografici, l’autore si cimentava ora in un’impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per i moderni perduta, ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura dell’età augustea. Alcuni frammenti superstiti sono particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi – per esempio, quello del tribuno Gaio Licinio Macro per la restaurazione della tribunicia potestas, nel 73; quello di Marco Emilio Lepido contro il sistema di governo dei sillani; quello di Lucio Marcio Filippo, una violenta reazione al demagogismo dell’intervento di Lepido – e di un paio di lettere, una di Gneo Pompeo Magno e una di re Mitridate VI Dionisio Eupatore del Ponto. Di queste lettere ha particolare importanza quella che l’autore immagina scritta proprio dal sovrano orientale (Hist. IV F 69 Maurenbrecher): dalle sue parole, infatti, affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma e la sola ragione che i Romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere (cupido profunda imperii et divitiarum). Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte poche nobili eccezioni (come Sertorio, campione di libertas, che, ribelle a Silla e al prepotente potere degli optimates, aveva fondato nella Penisola iberica una nuova res publica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta più alcun salvatore.

Mitridate VI del Ponto, con leontea. Busto, copia romana del I sec. d.C. da originale greco di sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Lo stile

L’epoca che aveva portato alla massima elaborazione formale sia la prosa artistica sia la poesia si aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. A questo riguardo, Cicerone pensava a uno stile armonioso e fluido e considerava la storiografia opus oratorium maxime («un genere che dev’essere più di tutto oratorio»): un’idea che risaliva al retore Isocrate, maestro di alcuni storici molto apprezzati dai Romani e che appare tanto più comprensibile se si pensa che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità almeno una generazione prima della storiografia.

E, invece, fu proprio Sallustio a fissare lo stile della futura storiografia (anche se non in modo esclusivo): nutrendosi della lezione di Tucidide e di Catone il Censore, egli elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana della simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, e variationes. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sapesse frenarlo dall’altra produceva un effetto di gravitas austera e maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

A tale gravitas contribuisce parecchio la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e, in genere, omissione di legami sintattici, ellissi di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti (con effetto intensivo). L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma al contempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare emozioni e, perciò, ispirata a uno stile di narrazione vivace e, per così dire, “realistico”. Ma la limitazione approda a una drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sono scelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modello

Mario, Saturnino e la crisi dell’anno 100

da W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 149-154.

 

Anche se Mario con i suoi tre trionfi era giunto al vertice del successo, e veniva celebrato come «terzo fondatore di Roma», la nobilitas non aveva dimenticato il suo comportamento aggressivo nei confronti di Quinto Cecilio Metello Numidico, e continuava a vedere in lui il parvenu che era giunto ai vertici approfittando di un’emergenza ai confini del dominio di Roma, con l’aiuto del popolo e a spese dei nobiles, in realtà i veri benemeriti dello Stato. Così egli non poté neppure realizzare ciò che per i nobiles romani era da sempre lo scopo principale: restituire i pieni poteri in cambio di maggiore peso politico. Infatti, proprio al parere dei consolari in Senato veniva accordata la massima attenzione, tanto che essi erano sempre i primi a prendere la parola. Nello Stato romano, costoro erano considerati come principes. La nobilitas però non voleva concedere una collocazione così prestigiosa neppure al cinque volte console Mario, che si vide perciò costretto a cercare altre magistrature, per avere almeno l’autorità legata alla carica.

Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.

Nell’ultimo decennio del II secolo, l’opinione pubblica era sempre più ostile nei confronti dell’élite ed era perciò assolutamente favorevole a questo suo piano. La Lex Coelia del 107 aveva introdotto le tabellae, la votazione scritta, anche nei processi per alto tradimento (perduellio); in questo modo Gaio Popilio Lenate, che aveva concordato una vergognosa capitolazione di fronte ai Tigurini, quand’era legato del defunto console Lucio Cassio Longino, fu mandato in esilio prima ancora che fosse emessa la sentenza di condanna. Il console del 106, Quinto Servilio Cepione, aveva poi restituito interamente le corti permanenti ai senatori, togliendole ai cavalieri. Ma la sua legge aveva presto perduto credibilità proprio a causa del suo comportamento: a Roma per alludere alle macchinazioni oscure dei nobiles divenne in seguito usuale l’espressione l’«oro di Tolosa» (aurum Tolosanum), in riferimento a quello di cui Cepione si sarebbe indebitamente appropriato. Molto peggio: nell’ottobre 105 lo stesso Cepione era fuggito di fronte alla catastrofe di Arausio, dalla quale pure era in gran parte responsabile. Aveva per questo perduto immediatamente per abrogazione (cioè per decreto popolare) l’imperium consolare. Ai tribuni della plebe contrari all’adozione di un simile procedimento, inusitato, era stato impedito con la forza di opporvisi. Il tribuno della plebe del 104, Lucio Cassio Longino, impose inoltre una legge per cui chiunque avesse perduto il proprio imperium in seguito ad abrogazione, o fosse stato condannato dal popolo, avrebbe perduto anche il proprio seggio in Senato. In questo modo, la condizione di senatore dipendeva ormai dal beneplacito dell’assemblea popolare, e il potere dei tribuni della plebe poteva giungere a turbare perfino il destino politico dei nobiles di rango più elevato. La secolare pretesa del Senato di essere l’unica guida dello Stato non era più accettata supinamente dal resto della cittadinanza, ma era invece legata alle prestazioni dei suoi singoli membri.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Rappresentazione di un cittadino togato in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella in una cista elettorale.

 

L’oligarchia, inoltre, si rese nemici alcuni ambiziosi arrivisti. Così, per esempio, per motivi non chiari fu tolta al questore del 104, Lucio Apuleio Saturnino, la competenza per gli approvvigionamenti di cereali dell’Urbe, affidandola invece al princeps senatus, Marco Emilio Scauro. Saturnino, offeso, si vendicò ben presto dell’umiliazione, poiché, appena fu tribuno della plebe l’anno seguente, propose una legge che stabiliva un prezzo soltanto simbolico del grano per i cittadini di Roma. Dopo che ad alcuni suoi colleghi fu impedito con la forza di opporre il loro veto, il quaestor urbanus, Quinto Servilio Cepione, il figlio del console del 106, fece addirittura distruggere i pontes per le votazioni. Saturnino, però, non si diede per vinto. Fece approvare una legge per cui qualsiasi offesa recata alla maestà del popolo romano (maiestas populi Romani laesa) andava denunciata a un tribunale composto esclusivamente da membri di rango equestre: questo tipo di delitto aveva, volutamente, contorni molto ampi, in modo che il maggior numero possibile delle misure prese dai nobiles potesse rientrarvi. I due generali responsabili della catastrofe di Arausio, infatti, Quinto Servilio Cepione senior e Gneo Mallio, furono condannati e mandati in esilio proprio in base a questa Lex Apuleia de maiestate.

Uomo togato. Statua, marmo, 125-250 d.C. ca., da Roma.

Per quanto costituisse una minaccia per l’oligarchia senatoria, tale dispositivo giuridico non riscosse molta popolarità tra i cittadini più umili. Saturnino, allora, cercò consensi che potessero offrirgli un vasto seguito per le future elezioni. Si fece avanti il console Mario, anch’egli in cerca di alleanze. La fatica che gli era costata la competizione elettorale per il 103 gli aveva mostrato la debolezza fondamentale della sua posizione (le sue splendide vittorie sui Germani sarebbero arrivate infatti soltanto nel 102 e nel 101). In quella circostanza, il problema del mantenimento dei veterani nullatenenti reduci dalla guerra giugurtina offrì a Mario e a Saturnino l’idea di un progetto comune, che poteva portare a entrambi non soltanto i voti dei veterani, ma, nel caso, anche il loro intervento concreto durante le votazioni. Nell’estate del 103, infatti, Saturnino propose all’assemblea popolare una legge agraria che avrebbe assegnato a ciascun soldato mariano cento iugeri (cioè 25 h) di terreno nella provincia d’Africa. Nella stessa estate anche Mario fu rieletto console (ed era la quarta volta!) per l’anno successivo.

Nel 101 un uomo vicino alla cerchia di Saturnino, Gaio Servilio Glaucia, di famiglia patrizia, ma tribuno della plebe, presentò una nuova legge de repetundis che trasferiva di nuovo interamente dai senatori ai cavalieri gli incarichi di giurati nei tribunali permanenti.

La politica del 101 si incentrò sulle elezioni per l’anno seguente. Una volta respinti definitivamente i Germani, una quinta iterazione del consolato per Mario non aveva nessuna giustificazione. Glaucia, però, grazie alla sua influenza sui cavalieri, riuscì a imporla senza problemi, così come anche la propria elezione a pretore urbano. Quando anche Saturnino fu rieletto tribuno della plebe, i tre alleati avevano occupato le posizioni-chiave per l’anno 100. Il tribuno Aulo Nonio, che aveva annunciato la propria opposizione alla politica che intendeva perseguire Saturnino, fu raggiunto e ucciso dai suoi sgherri.

C. Fundanio. Denario, Roma 101 a.C. AR. 3,97 gr. Rovescio: C(aius) Fund(anius). La quadriga trionfale di Gaio Mario, console per la quinta volta.

 

La proposta di legge di Saturnino per assegnare terreni ai veterani mariani prevedeva la distribuzione in alcune zone della valle del Po, ormai sgombre dalla minaccia cimbrica; inoltre, egli presentò una seconda rogatio per far approvare la fondazione di colonie in Sicilia, Corsica, Macedonia e Africa. Il permesso accordato a Mario di concedere la cittadinanza romana a tre, o forse trecento, coloni per ogni nuovo insediamento (le fonti su questo punto sono discordi), fa pensare che i veterani che vi si dovevano trasferire provenissero dalle truppe degli alleati di Roma. Una volta insediatisi, a circa 250 km dall’Urbe, quei soldati sarebbero stati facilmente impiegabili per esercitare pressioni sulla nobilitas romana. Con quelle colonie nelle province inoltre sarebbero sorte nuove città, che sarebbero state particolarmente legate a Mario. Per questo motivo, gli oligarchi mobilitarono contro le due proposte anche i cittadini romani, che non avevano alcuna intenzione di andare a vivere lontano dalla metropoli.

Insegna di bottega con iscrizioni elettorali. Affresco, 73-78 d.C. da Pompei (VI, 13 6-7). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Saturnino, in tutta risposta, organizzò dei disordini: i veterani provocarono scontri per le strade con gli abitanti della città, mentre gli altri tribuni, che erano intervenuti per tentare mediazioni, furono respinti con la violenza. Alla fine, la forza dei militari ebbe la meglio, e le proposte divennero legge, con la clausola che obbligava i senatori, sotto pena di esilio, a giurare che le avrebbero confermate e attuate. Subendo questa umiliazioni, i membri del venerando consesso si sottomettevano pubblicamente alle decisioni dell’assemblea popolare. Non rimaneva però loro altra scelta che giurare, poiché i soldati di Mario presidiavano le strade dell’Urbe. Infatti, grazie alla loro salda organizzazione interna, consolidata nel servizio militare attivo e ai rapporti di cameratismo, questi uomini avevano formato unità di combattimento che potevano affrontare senza difficoltà le masse urbane o anche quelle formazioni di cavalieri e servi che i senatori avevano impiegato per eliminare i Gracchi.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Mentre Saturnino si serviva spudoratamente dello strumento non suo dei veterani di Mario, questi dovette presto riconoscere che l’impiego continuato di quella violenza illegale sviliva la sua stessa autorità di console, macchiava la sua fama di «terzo fondatore di Roma» e allontanava da lui quella posizione di princeps, e quindi di garante dell’ordine pubblico, alla quale tanto aspirava. Questi furono verosimilmente i motivi del suo dietro-front, per cui si disse contrario al giuramento. Saturnino, sentendosi tradito, organizzò allora una protesta dei veterani contro il loro stesso comandante: Mario, alla fine, dovette cedere e giurare. Ai senatori, sorpresi, suggerì di fare altrettanto, ma con la clausola, «purché sia davvero una legge». Tutti i senatori lo seguirono, tranne Quinto Cecilio Metello, pronto ad affrontare l’esilio pur di restare saldo ai propri principi.

Soldati in uniforme (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

Saturnino sfruttò l’effetto deterrente dei soldati, che ora sembravano più obbedire più a lui che al loro generale, per essere rieletto ancora una volta tribuno della plebe per l’anno 99, senza che il Senato potesse opporsi. Con tanto maggiore audacia e spregiudicatezza Saturnino e Glaucia procedettero allora a un ulteriore rafforzamento della propria posizione: Glaucia si candidò al consolato. Probabilmente Mario, che allora ricopriva la massima carica e, in quanto tale, era responsabile dell’indizione delle nuove elezioni, non accolse la candidatura dell’aspirante, in quanto Glaucia era pretore in carica e perché mancava l’intervallo richiesto dalla legge. Allora, per turbare il corso delle elezioni, Saturnino e il compare fecero assassinare il concorrente Gaio Memmio. Come l’anno precedente, quando avevano fatto uccidere Nonio, pensavano di organizzare, dopo il solito tumulto per le strade, un’assemblea sul Campidoglio che avrebbe eletto Glaucia console.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Nel frattempo, però, a loro insaputa, il Senato aveva approvato il senatus consultum ultimum, che ordinava ai consoli di procedere contro i ribelli. Mario risolse il proprio dubbio intervenendo contro i suoi vecchi alleati: li assediò sul Campidoglio insieme a una folla di cittadini e di soldati a lui fedelissimi, e fece loro interrompere i rifornimenti idrici e alimentari. Quelli, infine, capitolarono, perché il generale promise loro un regolare processo. Li fece arrestare e portare, per loro sicurezza, in Senato, ma durante la tradotta la plebaglia si vendicò lapidando Saturnino e Glaucia con tegole staccate dal tetto della curia. Quello stesso giorno, anche i loro accoliti furono linciati.

L. Apuleio Saturnino. Denario, Roma 104 a.C. AR. 3,88 gr. Rovescio: L(ucius) Saturn(inus). Saturno sulla quadriga.

Gli storiografi tardi, esponenti dell’aristocrazia senatoria, condannanopol Saturnino e Glaucia come demagòghi, avventurieri e delinquenti della peggior specie, privi di scrupoli. Il loro odio è ben comprensibile: se infatti i due fossero riusciti a occupare le posizioni-chiave anche nel 99, e a impiegare durevolmente molti veterani come una «milizia di partito», il centro decisionale della Repubblica si sarebbe spostato dal Senato all’assemblea popolare, da loro pilotata grazie ai picchiatori, e il loro potere sarebbe stato così confermato e perpetuato.

Due personaggi togati (forse magistrati). Applique, bronzo, I sec. d.C. Malibu, J.P. Getty Villa Museum.

Mario, dal canto suo, aveva fallito, perseguendo la politica popolare. Il ruolo decisivo, nella crisi dell’anno 100, era stato svolto evidentemente dai suoi veterani, che, dopo l’approvazione della legge agraria in loro favore, ora erano interessati alla pace e all’ordine, quindi alla conservazione del sistema politico vigente.

Le riforme di Mario

di R. CRISTOFOLI, Le riforme di Mario, in ID. – A. GALIMBERTI – F. ROHR VIO (eds.), Dalla Repubblica al Principato, Roma 2014, pp. 19-23.

Mario nacque ad Arpino nel 157 da famiglia di rango equestre, e raggiunse il tribunato della plebe a 38 anni, la pretura a 40; a quel punto, secondo un giudizio consolidato nella tradizione e fatto proprio anche da Sallustio (Iug. 63, 2), «per conseguire il consolato aveva ogni qualità in abbondanza, a eccezione dell’antichità del casato», il che faceva di lui un homo novus.

Presunto ritratto di C. Mario. Testa, marmo, I sec. a.C. München, Glyptothek.

Fu nel 107 che riuscì a raggiungere la carica tanto ambita, grazie a una campagna elettorale che enfatizzava i suoi meriti bellici e la sua attitudine filopopolare, e si contraddistingueva per una comunicazione a impatto: conquistò così l’appoggio della plebe rurale (oltre che di alcune categorie importanti di equites, come i negotiatores cui Mario si rivolgeva a Utica in Sall. Iug. 64, 5), che poteva vedere in lui il prosecutore delle riforme graccane. Mario in quel frangente riuscì pertanto a compensare, in termini di voti, il venir meno della sua tradizionale alleanza con i Metelli.

Rinforzata la propria posizione anche in virtù del matrimonio con Giulia (sorella del padre di Giulio Cesare), mentre Roma era nel vivo della guerra contro Giugurta (111-105), ebbene Mario, già nell’anno del suo primo consolato secondo la maggior parte delle fonti (Sall. Iug. 86, 2-3; Plut. Mar. 9, 1; Flor. I 36, 13; oltre allo pseudo-Quintiliano, il solo Aulo Gellio, in XVI 10, 14, riferisce che “alcuni” pensavano invece all’epoca delle guerre contro i Cimbri, ma non propende per tale parere), volle istituzionalizzare una prassi che non nasceva con lui.

Procedette infatti all’arruolamento su base volontaria di uomini con il solo requisito della Romana civitas, senza pregiudiziale alcuna verso proletarii (che avevano un reddito annuo compreso fra i 375 e i 1.500 assi) e capite censi (che possedevano un reddito annuo inferiore ai 375 assi), i quali anzi costituirono il nerbo di tale arruolamento in vista delle campagne in Numidia. Tale decisione, come detto, non era inedita (ciò su cui ha insistito anche eccessivamente – dopo Gabba, 1973, pp. 25 ss., 35 – Evans, 1994, p. 75, sulla scia della ricerca meno lontana nel tempo), dato che, a causa dell’impoverimento del ceto medio, specialmente ai proletarii Roma aveva fatto ricorso anche in altri frangenti, sia pure assegnando loro compiti di importanza non primaria; ma fu inedito il fatto di elevare l’eccezione a sistema e di creare un nuovo bacino di reclutamento, a prescindere dai requisiti di censo e dal carattere dell’obbligatorietà.

Legionari romani in formazione. Bassorilievo, pietra calcarea, da Glanum. Fourvière, Musée gallo-romain.

Da molti decenni la Repubblica aveva dovuto fronteggiare il problema della difficoltà di reclutamento degli eserciti, poiché gli appartenenti alla quinta e ultima classe di reddito cessavano di essere arruolabili – in quanto non più in grado di assolvere il connesso obbligo, per la verità sempre più teorico, di sostenere le spese per l’equipaggiamento e le armi – nel momento in cui il loro stesso reddito scendeva al di sotto della soglia minima; tale soglia era perciò stata, nel corso del III secolo e del II secolo, progressivamente abbassata, fino ad arrivare a 1.500 assi (cfr. Gabba, 1973, pp. 10 ss.), il che permise sì di includere tra gli adsidui ben 76.000 proletarii nel censimento del 125, ma diede anche origine a un diffuso malcontento: in più di un’occasione i tribuni della plebe esercitarono il proprio ius auxilii contro i consoli che inclinavano a metodi sbrigativi per costringere alla milizia i proletarii recalcitranti.

Mario, risolvendo per altra via un problema che può essere stato centrale anche ai fini del concepimento delle riforme graccane, trasformò l’esercito censitario, che veniva sciolto dopo ogni campagna, in un esercito permanente composto da professionisti volontariamente arruolatisi. Questa innovazione del 107 venne seguita qualche anno dopo, quando si trattava di combattere contro i Teutoni (sconfitti nel 102 ad Aquae Sextiae) e contro i Cimbri (vinti nel 101 ai Capi Raudii, oggi localizzati presso Rovigo piuttosto che presso Vercelli), da un’altra riforma, inerente, questa volta, alla tattica e all’equipaggiamento, e che completò la riorganizzazione di cui l’homo novus di Arpino fu autore in materia militare, probabilmente anche questa volta dando perfezionamento e sanzione a delle promesse che non nascevano con lui: sotto il profilo tattico, la legione passava così da manipolare a coortale, formata da 10 coorti di 600 uomini per un totale teorico di 6.000 unità (molte circostanze avrebbero costretto i generali ad accontentarsi di legioni composte a volte anche dalla metà degli effettivi). Ognuna delle coorti era poi ulteriormente divisa in 6 centurie, assegnate a un centurione; all’interno delle legioni venivano eliminate la cavalleria (delegata alle truppe ausiliarie) e la fanteria leggera, nonché la distinzione tra hastati, principes e triarii; come armi, i legionari avrebbero da allora in avanti avuto il pilum e il gladius.

G. BRECCIA, La tattica: la coorte, FW 19 (2015), p. 45.

 

Struttura della legione romana dopo la riforma mariana.

 

La mobilità della legione veniva accresciuta, poiché le singole coorti potevano fungere anche da distaccamenti autonomi, e, d’altro canto, i legionari di Mario, chiamati non a caso muli, erano tenuti a trasportare tutto il necessario per l’accampamento e, a questo fine, dovevano essere arruolati in ogni legione lavoratori specializzati (per la realizzazione delle macchine d’assedio, per la costruzione di ponti, ecc.). Per favorire il senso di appartenenza, e dunque far leva anche sulla componente identitaria, ogni legione fu da allora contraddistinta da un’aquila d’argento.

Lo Stato, se si addossava l’obbligo di fornire ai soldati tutto l’equipaggiamento, si disimpegnava però nei loro confronti da ogni altro punto di vista: spettava al generale sotto il quale i soldati militavano provvedere al loro sostentamento durante e soprattutto al termine delle loro attività, quando essi si sarebbero attesi di ricevere donativi e terreni. Le sorti dei militari post-mariani si legavano così in maniera indistricabile a quelle dei loro comandanti: dal valore, dalla fortuna, dalla longevità e dal permanere della potenza politica di questi ultimi dipendevano le possibilità del soldato di ricevere il premio di una vita di battaglie, e di garantirsi così un’onorata e tranquilla vecchiaia. Tale motivazione dei soldati post-mariani poté configurarsi agli occhi di molti come una situazione psicologica ottimale, che superava l’annosa obiezione a procedere all’arruolamento di quanti non avevano beni da salvaguardare, ritenuti per conseguenza scarsamente determinati a combattere solo per difendere l’altrui; ma l’insidia celata in un sistema siffatto era che i nuovi soldati, certamente motivati ancor più degli adsidui, tuttavia non si sentivano più soldati dello Stato romano, bensì appunto del generale sotto il quale militavano: sarebbero stati disposti a seguirlo anche in frangenti drammatici e inusitati, che potevano comportare lo scontro armato con i legionari di un altro generale romano.

Illustrazione ricostruttiva di un mulus Marianus, 101 a.C. (Opera di G. Albertini).

L’idea di abbandonare il comandante presso il quale si erano arruolati sarebbe stata presa in considerazione solo a patto che sulla scena ci fosse stato un altro leader più autorevole disposto a prenderli da quel momento come suoi soldati, come fu il caso delle milizie mariane che, al termine della prima guerra mitridatica, scelsero di passare da Fimbria a Silla. Come si comprende, se il problema dei soldati poteva essere quello di trovare, in caso di caduta in disgrazia del proprio, un altro condottiero che avesse bisogno di loro, rovesciando l’ottica poteva altresì accadere che fra più leader subentrasse la competizione per mostrarsi come la scelta migliore.

Le guerre civili, che caratterizzarono l’ultimo secolo della Repubblica, e che videro la contrapposizione delle legioni di un generale romano a quelle di un altro generale romano in una lotta per il potere, trassero la propria origine proprio da quel reclutamento di Mario del 107, elevato a nuova via per la militia: la sconfitta del proprio comandante, o la sua eclissi politica con conseguente perdita di influenza, avrebbero rappresentato per i soldati il venir meno di ogni prospettiva di remunerazione.

Un generale tiene una contio alle proprie truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.

Quando, a seguito delle leggi del tribuno della plebe Sulpicio Rufo, nell’88 a Silla venne tolta la condizione della guerra mitridatica (per assegnarla a Mario), ebbene, come racconta Appiano in B.C. I 57, 250 ss., il generale riunì a Nola in assemblea il proprio esercito, che su quella guerra nutriva molte aspettative come fonte di guadagno, e lo mise a parte dell’accaduto: furono allora proprio i suoi soldati a indurlo a fare ciò che Silla, per parte sua, non aveva voluto proporre per primo, cioè la marcia su Roma. Tutti gli ufficiali superiori tranne uno si rifiutarono di seguirlo, vista la gravità del disegno, ma i soldati post-mariani si misero invece a disposizione delle ambizioni del proprio comandante (fino al punto di essere designati con il nome di quello). Situazioni e calcoli non dissimili avrebbero caratterizzato tutte le successive guerre civili fino al principato di Augusto.

Si presenta come una questione difficilmente risolvibile se Mario, nel 107, avesse messo in conto, o addirittura avesse avuto come obiettivo, tutto ciò. Nelle fonti, e in particolare in Sallustio (Iug. 86, 3), il provvedimento di Mario – che la Sordi (1972, p. 385) ha definito come «la radice più profonda della “rivoluzione romana”» –, viene generalmente ricondotto al suo desiderio di popolarità (cfr., fra i moderni, Rich, 1983) o alla necessità di far fronte alla penuria di uomini reclutabili dovuta ai precedenti requisiti di censo per l’arruolamento (inopia bonorum); riferendo il parere di quanti appoggiavano la prima spiegazione, Sallustio, nel passo succitato, nota come per un uomo che aspirasse al potere (homini potentiam quaerenti) i più indigenti si configurassero altresì come i seguaci più utili (egentissimus quisque opportunissumus), privi com’erano di beni propri, e propensi a identificare l’onesto con il proficuo (… omnia cum pretio honesta uidentur).

Gabba (1973, pp. 41 ss.) non ha ritenuto che il provvedimento di Mario dovesse rispondere al desiderio di attuare un’innovazione: avrebbe voluto soltanto ovviare, come suggerito già dalle fonti, all’impoverimento degli strati più bassi, ma un tempo ancora reclutabili, degli adsidui; lo stesso studioso, però, in seguito ha posto in diretto collegamento la modifica del sistema di reclutamento e il cambiamento delle «ragioni delle guerre» (Gabba, 1990, p. 691). Ancora la Sordi (1972) valorizza la spiegazione attestata in Valerio Massimo (II 3, 1) e che si trova già in nuce nel discorso attribuito a Mario da Sallustio (Iug. 85), e riconduce la riforma alla condizione di homo novus del personaggio, il quale avrebbe inteso consapevolmente innovare sulla stessa falsariga appunto, per rendere il proprio esercito caratterizzato da un’analoga novitas.

Si configura, se non a monte, certo a valle della riforma mariana, quella che gli studiosi hanno definito una condizione clientelare del soldato nei confronti dei propri comandanti; se per l’affermazione politica il passaggio obbligato era sempre stato, nella Repubblica romana, il successo militare, ora occorreva inoltre dotarsi di una base di sostegno, costituita innanzitutto dai soldati. Inevitabilmente, si erano così venute ponendo le premesse per la creazione di un potere di tipo nuovo, non solo per le modalità con cui lo si doveva raggiungere, ma anche e soprattutto per le caratteristiche che veniva ad assumere una volta raggiunto.

 

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Bibliografia:

EVANS R.J., Gaius Marius: A Political Biography, Pretoria 1994.

GABBA E., Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973.

ID., Il declino della milizia cittadina e l’arruolamento dei proletari, in CLEMENTE G., COARELLI F., GABBA E. (eds.), Storia di Roma. II: L’impero mediterraneo, I: La Repubblica imperiale, Torino 1990, pp. 691-695.

RICH J.W., The Supposed Roman Manpower Shortage of the Later Second Century B.C., Historia 32 (1983), pp. 287-331.

SORDI M., L’arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell’azione politica di Mario, Athenaeum 50 (1972), pp. 379-385.

L’ascesa di Gaio Mario nelle guerre contro Giugurta e contro i Cimbri e i Teutoni (dal 108 al 101 a.C.)

di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino, Einaudi, 2016, pp. 145-149.

Il primo colpo alle strutture ormai irrigidite fu dato dalla politica estera, o meglio da una serie di brutte sconfitte subite dai generali romani, che fecero un’impressione tanto maggiore in quanto, dopo la vittoria sui Numantini del 133, Roma nell’area mediterranea non aveva più affrontato avversari degni di questo nome. Già la dura sconfitta subita nel 130 contro Aristonico era stata addebitata soltanto all’imperizia del proconsole, Publio Licinio Crasso Muciano. Nel penultimo decennio del II secolo poi si accumularono altre sconfitte, alcune pesanti, altre catastrofiche, come quella del pretore del 119, Sesto Pompeo, e più tardi quella del console del 114, Gaio Porcio Catone, sempre contro gli Scordisci in Macedonia, e quelle dei consoli del 113 e del 109, Gneo Papirio Carbone e Marco Giunio Silano, rispettivamente nel Norico e nella valle della Loira, contro la popolazione germanica dei Cimbri. Questi ultimi dovettero presentarsi entrambi davanti al tribunale del popolo, anche se verosimilmente furono assolti.

Soldati romani durante la guerra giugurtina, 110-105 a.C. c. Illustrazione di A. McBride.

Ma doveva accadere di peggio. Infatti, per sette anni i generali romani non riuscirono a normalizzare la situazione in Numidia né a catturare il principe Giugurta, che si era ribellato a Roma. Costui aveva ignorato i moniti degli ambasciatori inviati dal Senato a partire dal 116 affinché si ritirasse nella contesa per il trono con i figli di re Micipsa, morto nel 118. Giugurta rovinò gli eccellenti rapporti che aveva intrecciato con alcuni nobiles romani fin da quando, nel 134/3, aveva collaborato all’assedio di Numanzia, facendo uccidere, nel 112, a Cirta, la capitale della Numidia, l’unico erede al trono rimasto, Aderbale, e alcuni mercanti italici che lo appoggiavano. Probabilmente soltanto per le forti pressioni dell’opinione pubblica, influenzata dal tribuno della plebe Gaio Memmio, il Senato dichiarò guerra a Giugurta. Già all’inizio delle ostilità, però, il console del 111, Lucio Calpurnio Bestia, insieme al suo consigliere, il princeps senatus Marco Emilio Scauro, riuscì a respingere Giugurta a una formale deditio e a cedere trenta elefanti, altro bestiame e cavalli, e una modesta quantità di argento, garantendogli il mantenimento della libertà e del suo esercito. L’indignazione dei Romani per questa finta deditio non lasciò altra possibilità al Senato che ricusare il trattato. Il tribuno Gaio Memmio convinse il monarca numida a presentarsi a Roma, assicurandogli una scorta. Quando però il re stava per deporre davanti all’assemblea popolare sui suoi rapporti con i nobiles romani, un altro tribuno della plebe oppose il proprio veto, facendo crescere nella cittadinanza il sospetto che un buon numero di nobiles più in vista fosse coinvolto nelle macchinazioni del sovrano.

Il console del 110, Spurio Postumio Albino, fu allora inviato in Numidia per riprendere le ostilità. Quando suo fratello Aulo, che Spurio in propria assenza aveva messo a capo delle operazioni, cadde in una trappola tesagli da Giugurta presso la città di Suthul, poté evitare l’annientamento delle proprie truppe soltanto capitolando, passando insieme a esse sotto il giogo e, infine, abbandonando la Numidia entro i dieci giorni successivi. Il Senato, com’era da aspettarsi, ricusò questa capitolazione.

Regno di Numidia, Cirta 148-118 a.C. Æ 15,8 g. Recto: testa laureata e barbata di re Micipsa.

L’indignazione a Roma crebbe al punto che il tribuno della plebe del 109, Gaio Mamilio Limetano, riuscì a ottenere un decreto popolare che istituiva una commissione d’inchiesta (quaestio) incaricata di indagare per scoprire quali senatori, in qualità di legati o di comandanti, avessero ricevuto delle tangenti da Giugurta. Questa corte condannò infine all’esilio, per alto tradimento, l’avversario di Gaio Gracco, Lucio Opimio, che nel 116, in qualità di legatus del Senato aveva intrapreso la spartizione della Numidia tra Aderbale e Giugurta; subirono la stessa condanna anche tre consulares Lucio Calpurnio Bestia, Spurio Postumio Albino e Gaio Porcio Catone, insieme all’ex pretore e augure Gaio Sulpicio Galba. Ciò che importava non era tanto che gli imputati si fossero davvero fatti corrompere dal sovrano numida, quanto che, comunque, non fossero venuti incontro alle aspettative dell’opinione pubblica romana: infatti, nessuno di loro era riuscito a condurre a Roma in catene un re le cui mani erano ancora sporche del sangue di un amicus populi Romani e dei mercanti italici di Cirta, né gli era stata ancora inflitta la “giusta” pena. Le condanne seguite alla quaestio Mamilia del 109 tolsero ai cittadini di Roma la certezza che i nobiles, se non più nella politica interna, almeno nelle guerre esterne si dedicassero anima e corpo al bene della res publica.

Ciononostante, l’acclarata fama di incorruttibilità del console del 109, Quinto Cecilio Metello, faceva sperare in una rapida conclusione della guerra giugurtina. Anche la strategia di Metello, però, di togliergli gli approvvigionamenti devastando le campagne, diede risultati così scarsi che, infine, il comandante pensò di rivolgersi alla diplomazia segreta, e perfino di tentare un complotto insieme a un uomo di fiducia del re, Bomilcare. Così, quando si ebbe sentore di questi intrighi, l’opinione pubblica a Roma fu costretta a ricordare le vili trame intessute nel corso della guerra di Spagna, soprattutto quelle contro Viriato, e i loschi comportamenti dei predecessori di Metello in Numidia.

C. Mario. Testa, calcare compatto, metà I sec. a.C. Ravenna, Museo Nazionale.

Alla fine del 108 Gaio Mario, legato di Metello, cercò di approfittare del diffuso malcontento nei confronti non soltanto del proprio comandante, ma della nobilitas in generale. Mario, un arrampicatore sociale, nato nel 158 nella città volsca di Arpino, apparteneva all’ordine equestre. Si era presto fatto valere come soldato, e aveva partecipato all’assedio di Numanzia nel 134/3. Quando era stato tribuno della plebe, nel 119, aveva presentato una legge (lex Maria de suffragiis) che restringeva ulteriormente i pontes impiegati nelle votazioni, rendendo più difficile la loro sorveglianza da parte dei nobiles. Nel 115, quand’era pretore urbano, e fu il suo il primo caso, gli era stata affidata l’amministrazione di una provincia, la Hispania Ulterior.

In Numidia, Mario si era reso subito popolare presso i soldati semplici con il suo modo di fare cameratesco. Al contrario, in un’operazione elettorale per ottenere il consolato nel 107, tramandata, almeno nel suo senso generale, da Sallustio, egli ostentò il proprio disprezzo verso i nobiles, considerandoli inetti alle armi. La sua oratoria aggressiva fece molta presa, soprattutto sugli equites, senza il cui appoggio non era possibile essere eletti, di fronte all’opposizione dei patrizi. Pur essendo un homo novus, Mario non solo fu eletto console, ma ebbe anche direttamente, tramite un plebiscito, la lex Manilia, l’imperium in Numidia, senza neppure passare attraverso il previsto sorteggio tra i due consoli. Come già con Scipione Emiliano nel 148 e, poi, nel 135, il popolo romano conferì a Mario un imperium extraordinarium. Inoltre, in tal modo, egli sconfessò il Senato, che prima delle elezioni a console aveva già prorogato al proconsole Metello l’imperium per proseguire le operazioni contro Giugurta, esautorandolo nelle competenze che gli erano più proprie: la politica estera e il coordinamento delle campagne militari.

Anche se Mario non riuscì a mantenere la promessa di una rapida vittoria, assediando le città di Giugurta lo mise talmente alle strette che il suocero, Bocco, re di Mauretania, lo consegnò al legato di Mario, Lucio Cornelio Silla. Il 1 gennaio 104, Mario poté condurre nel suo corteo trionfale attraverso Roma il re numida, fatto prigioniero.

Giugurta di fronte a Gaio Mario. Illustrazione di J. Shumate.

Questa vittoria lo indicava come l’uomo idoneo per un compito anche più grave, nel quale erano miseramente falliti, come si è visto, alcuni generali romani: la lotta contro i Cimbri, i Teutoni e gli Ambroni. Queste popolazioni germaniche dalla loro terra d’origine, lo Jutland, si erano spinte in gruppi numerosi fino alla Boemia. Nel 113, presso Noreia (nella Carinzia), avevano annientato l’esercito del console Gneo Papirio Carbone. Dal Norico, l’orda si era poi trasferita in Gallia, attraversando il Reno, e nel territorio della Gallia transalpina avevano sterminato le truppe del console del 109, Marco Giunio Silano. Nel 107, i Tigurini, celti, costrinsero un esercito romano alla capitolazione nei pressi di Tolosa, dopo aver ucciso il console che lo guidava, Lucio Cassio Longino. Sebbene i Romani per respingere i Germani nella Gallia transalpina avessero affiancato all’esercito del proconsole Quinto Servilio Cepione un altro esercito, al comando del console del 105, Gneo Mallio, il patrizio Cepione si rifiutò di lasciare che le proprie truppe fossero affidate al comando di un homo novus come Mallio. Aspirando al trionfo, Cepione affrontò quindi da solo con le proprie forze la battaglia nei pressi di Arausio (l’attuale Orange), sul Rodano, ma il suo esercito venne distrutto, proprio come toccò il giorno dopo a quello di Mallio. Sembra che in questa catastrofe morissero, tra il 5 e il 6 ottobre, ottantamila soldati romani, più di quanti ne erano caduti a Canne nel 216. Quando si diffuse la notizia, a Roma si scatenò il panico. I Germani, però, non si spinsero oltre le Alpi, in direzione dell’Italia, ma si ritrassero invece verso l’interno della Gallia.

Guerrieri germanici. Illustrazione di G. Embleton.

Il console del 104, Mario, al quale nuovamente l’imperium contro i Germani era stato affidato senza sorteggio, approfittò di questa pausa per riorganizzare l’esercito. Le battaglie contro le fitte schiere barbariche, per lo più avvenute in pianura, rendevano necessaria la trasformazione delle unità tattiche dai piccoli manipoli di centoventi uomini in coorti, di quattrocentottanta. Ogni legione da allora fu formata da dieci coorti, esclusivamente di fanteria, alle quali erano affiancate le unità di cavalieri e di truppe leggere, fornite dagli alleati. Dopo che il console del 105, Publio Rutilio Rufo, aveva introdotto l’uso dell’addestramento dei legionari per mezzo dei gladiatori, essi dovettero anche portarsi da sé le armi e l’equipaggiamento, cosa che li rese indipendenti dalla lentezza delle salmerie.

Sin dai tempi della guerra giugurtina Mario aveva reclutato per la prima volta i capite censi, cioè i cittadini che non potevano dichiarare al censimento proprietà degne di nota, e perciò venivano solo “per capo”, cioè per la loro persona, non per i loro averi. Poiché, però, anche prima, nel corso del II secolo, il census minimo per il servizio nella legione era stato ridotto gradatamente a millecinquecento assi, questo provvedimento non fu determinante. Reclutando, invece, semplici volontari, Mario ottenne da una parte il favore dei suoi concittadini nullatenente, che al servizio militare si ripromettevano di trarre guadagni e bottino, dall’altra quello dei proprietari terrieri obbligati alla leva, che potevano sperare di essere richiamati molto meno spesso di prima. Questo non significò, comunque, il passaggio dal sistema tradizionale della militia a un esercito di professionisti: la leva coatta dei legionari è ampiamente documentata fino all’età imperiale. E però il legame al loro imperator da allora fu molto più forte nei volontari nullatenenti, perché si attendevano da lui anche qualche provvigione dopo l’esenzione dal servizio, piuttosto che nei possidenti che erano stati costretti a prestare il servizio militare. Il progressivo distacco dei legionari, che solo raramente erano legati alla vita civile da rapporti clientelari, e anche dei loro generali, dalla direzione politica da parte del Senato ebbe evidentemente inizio a partire dalle riforme di Mario.

La battaglia di Vercellae. Illustrazione di I. Dzis.
La battaglia di Vercellae. Illustrazione di I. Dzis.

Dopo che, contro il divieto dell’iterazione del consolato, Mario era stato rieletto console, nel 104 e nel 103, per affrontare il pericolo germanico, nel 102 riuscì ad annientare, presso Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), le schiere dei Teutoni e degli Ambroni, che, staccatisi dai Cimbri, si preparavano a invadere l’Italia. L’anno seguente, Mario aiutò il suo collega Quinto Lutazio Catulo a sconfiggere i Cimbri presso Vercellae.

La battaglia dei Campi Raudii – 30 luglio 101 a.C. (Plut. Mar. 25, 4-27)

in Plutarco, Vita di Mario (ed. Marasco G., Torino, 1994, pp. 486-493).

 

[25, 4] Βοιῶριξ δὲ ὁ τῶν Κίμβρων βασιλεὺς ὀλιγοστὸς προσιππεύσας τῷ στρατοπέδῳ προὐκαλεῖτο τὸν Μάριον, ἡμέραν ὁρίσαντα καὶ τόπον, προελθεῖν καὶ διαγωνίσασθαι περὶ τῆς χώρας. [5] τοῦ δὲ Μαρίου φήσαντος οὐδέποτε Ῥωμαίους συμβούλοις κεχρῆσθαι περὶ μάχης τοῖς πολεμίοις, οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ χαριεῖσθαι τοῦτο Κίμβροις, ἡ μέραν μὲν ἔθεντο τὴν ἀπ᾽· ἐκείνης τρίτην, χώραν δὲ τὸ πεδίον τὸ περὶ Βερκέλλας, Ῥωμαίοις μὲν ἐπιτήδειον ἐνιππάσασθαι, τῶν δὲ ἀνάχυσιν τῷ πλήθει παρασχεῖν. [6] τηρήσαντες οὖν τὸν ὡρισμένον χρόνον ἀντιπαρετάσσοντο, Κάτλος μὲν ἔχων δισμυρίους καὶ τριακοσίους στρατιώτας, οἱ δὲ Μαρίου δισχίλιοι μὲν ἐπὶ τρισμυρίοις ἐγένοντο, περιέσχον δὲ τὸν Κάτλον ἐν μέσῳ νεμηθέντες εἰς ἑκάτερον κέρας, ὡς Σύλλας, ἠγωνισμένος ἐκείνην τὴν μάχην, γέγραφε. [7] καί φησι τὸν Μάριον ἐλπίσαντα τοῖς ἄκροις μάλιστα καὶ κατὰ κέρας συμπεσεῖν τὰς φάλαγγας, ὅπως ἴδιος ἡ νίκη τῶν ἐκείνου στρατιωτῶν γένοιτο καὶ μὴ μετάσχοι τοῦ ἀγῶνος ὁ Κάτλος μηδὲ προσμίξειε τοῖς πολεμίοις, κόλπωμα τῶν μέσων, ὥσπερ εἴωθεν ἐν μεγάλοις μετώποις, λαμβανόντων, οὕτω διαστῆσαι τὰς δυνάμεις· [8] ὅμοια δὲ καὶ τὸν Κάτλον αὐτὸν ἀπολογεῖσθαι περὶ τούτων ἱστοροῦσι, πολλὴν κατηγοροῦντα τοῦ Μαρίου κακοήθειαν πρὸς αὐτόν. [9] τοῖς δὲ Κίμβροις τὸ μὲν πεζὸνἐκ τῶν ἐρυμάτων καθ᾽ ἡσυχίαν προῄει, βάθος ἴσον τῷ μετώπῳ ποιούμενον. ἑκάστη γὰρ ἐπέσχε πλευρὰ σταδίους τριάκοντα τῆς παρατάξεως· [10] οἱ δὲ ἱππεῖς μύριοι καὶ πεντακισχίλιοι τὸ πλῆθος ὄντες ἐξήλασαν λαμπροί, κράνη μὲν εἰκασμένα θηρίων φοβερῶν χάσμασι καὶ προτομαῖς ἰδιομόρφοις ἔχοντες, ἃς ἐπαιρόμενοι λόφοις πτερωτοῖς εἰς ὕψος ἐφαίνοντο μείζους, θώραξι δὲ κεκοσμημένοι σιδηροῖς, θυρεοῖς δὲ λευκοῖς στίλβοντες. [11] ἀκόντισμα δὲ ἦν ἑκάστῳ διβολία· συμπεσόντες δὲ μεγάλαις ἐχρῶντο καὶ βαρείαις μαχαίραις.

 

[25, 4] Beorice, re dei Cimbri[1], si avvicinò a cavallo all’accampamento con una piccola scorta e sfidò Mario a fissare il giorno e il luogo per scendere in campo e combattere per il possesso del paese. [5] Mario rispose che i Romani non prendevano mai consiglio dai nemici per dar battaglia, ma che tuttavia avrebbe accordato quel favore ai Cimbri; convennero che la battaglia avrebbe avuto luogo due giorni dopo[2] nella pianura dei Vercelli[3], che era adatta alle manovre della cavalleria romana come allo spiegamento della massa dei barbari. [6] Nel giorno stabilito gli eserciti si schierarono l’uno di fronte all’altro. Catulo aveva ventimilatrecento soldati; quelli di Mario, che erano trentaduemila, divisi fra le due ali, racchiudevano quelli di Catulo, disposti al centro, come ha scritto Silla[4], che prese parte a quella battaglia. [7] Silla afferma anche che Mario sperava che i due eserciti si sarebbero scontrati soprattutto alle estremità e sulle ali, in modo che tutto il merito della vittoria spettasse ai propri soldati e Catulo non partecipasse allo scontro e non venisse a contatto con il nemico, poiché in genere, su fronti estesi, il centro rimane indietro rispetto alle ali; per questo motivo Mario avrebbe disposto così l’esercito. [8] Si narra anche che Catulo[5] riferisca a propria difesa un’analoga versione dei fatti ed accusi Mario di grande malignità nei suoi confronti. [9] La fanteria dei Cimbri uscì tranquillamente dalle difese e si dispose in una formazione di profondità uguale alla fronte: ciascun lato dello schieramento misurava trenta stadi[6]. [10] I cavalieri avanzavano, in numero di quindicimila, splendidi, con elmi raffiguranti fauci spalancate e musi strani di belve spaventose, sormontati da pennacchi piumati che li facevano apparire più alti; erano equipaggiati con corazze di ferro e bianchi scudi rilucenti. [11] Ciascuno aveva un giavellotto a due punte, ma nella mischia si servivano di spade lunghe e pesanti.

 

La battaglia dei Campi Raudii (I. Dzis).

 

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[26, 1] τότε δὲ οὐχὶ κατὰ στόμα προσεφέροντο τοῖς Ῥωμαίοις, ἀλλ᾽ ἐκκλίνοντες ἐπὶ δεξιὰ ὑπῆγον αὑτοὺς κατὰ μικρόν, ἐμβάλλοντες εἰς τὸ μέσον αὐτῶν τε καὶ τῶν πεζῶν ἐξ ἀριστερᾶς παρατεταγμένων. [2] καὶ συνεῖδον μὲν οἱ τῶν Ῥωμαίων στρατηγοὶ τὸν δόλον, ἐπισχεῖν δὲ τοὺς στρατιώτας οὐκ ἔφθησαν, ἀλλ᾽ ἑνὸς ἐκβοήσαντος ὅτι φεύγουσιν οἱ πολέμιοι, πάντες ὥρμησαν διώκειν. καὶ τὸ πεζὸν ἐν τούτῳ τῶν βαρβάρων ἐπῄει καθάπερ πέλαγος ἀχανὲς κινούμενον. [3] ἐνταῦθα νιψάμενος ὁ Μάριος τὰς χεῖρας καὶ πρὸς τὸν οὐρανὸν ἀνασχὼν εὔξατο τοῖς θεοῖς κατὰ ἑκατόμβης, εὔξατο δὲ καὶ Κάτλος ὁμοίως ἀνασχὼν τὰς χεῖρας καθιερώσειν τὴν τύχην τῆς ἡμέρας ἐκείνης. [4] τὸν δὲ Μάριον καὶ θύσαντα λέγεται τῶν ἱερῶν αὐτῷ δειχθέντων μέγα φθεγξάμενον εἰπεῖν “ἐμὴ ‹ἡ› νίκη.” [5] γενομένης δὲ τῆς ἐφόδου πρᾶγμα νεμεσητὸν παθεῖν τὸν Μάριον οἱ περὶ Σύλλαν ἱστοροῦσι. κονιορτοῦ γὰρ ἀρθέντος, οἷον εἰκός, ἀπλέτου καὶ τῶν στρατοπέδων ἀποκεκρυμμένων, ἐκεῖνον μέν, ὡς τὸ πρῶτον ὥρμησε πρὸς τὴν δίωξιν, ἐπισπασάμενον τὴν δύναμιν ἀστοχῆσαι τῶν πολεμίων καὶ παρενεχθέντα τῆς φάλαγγος ἐν τῷ πεδίῳ διαφέρεσθαι πολὺν χρόνον· [6] τῷ δὲ Κάτλῳ τοὺς βαρβάρους ἀπὸ τύχης συρραγῆναι, καὶ γενέσθαι τὸν ἀγῶνα κατ᾽ ἐκεῖνον καὶ τοὺς ἐκείνου μάλιστα στρατιώτας, ἐν οἷς αὐτὸς ὁ Σύλλας τετάχθαι φησί· [7] συναγωνίσασθαι δὲ τοῖς Ῥωμαίοις τὸ καῦμα καὶ τὸν ἥλιον ἀντιλάμποντα τοῖς Κίμβροις. [8] δεινοὶ γὰρ ὄντες ὑπομεῖναι κρύη, καὶ τόποις ἐντεθραμμένοι σκιεροῖς, ὡς λέλεκται, καὶ ψυχροῖς, ἀνετρέποντο πρὸς τὸ θάλπος, ἱδρῶτά τε μετὰ ἄσθματος πολὺν ἐκ τῶν σωμάτων ἀφιέντες καὶ τοὺς θυρεοὺς προβαλλόμενοι πρὸ τῶν προσώπων, ἅτε δὴ καὶ μετὰ τροπὰς θέρους τῆς μάχης γενομένης, ἃς ἄγουσι Ῥωμαῖοι πρὸ τριῶν ἡμερῶν τῆς νουμηνίας τοῦ νῦν μὲν Αὐγούστου, τότε δὲ Σεξτιλίου μηνός, [9] ὤνησε δὲ καὶ πρὸς τὸ θαρρεῖν ὁ κονιορτὸς ἀποκρύψας τοὺς πολεμίους, οὐ γάρ κατεῖδον ἐκ πολλοῦ τὸ πλῆθος, ἀλλὰ δρόμῳ τοῖς κατ᾽ αὑτοὺς ἕκαστοι προσμείξαντες ἐν χερσὶν ἦσαν, ὑπὸ τῆς ὄψεως μὴ προεκφοβηθέντες. [10] οὕτω δ̓ ἦσαν διάπονοι τὰ σώματα καὶ κατηθληκότες ὡς μήτε ἱδροῦντά τινα μήτε ἀσθμαίνοντα Ῥωμαίων ὀφθῆναι διὰ πνίγους τοσούτου καὶ μετὰ δρόμου τῆς συρράξεως γενομένης, ὡς τὸν Κάτλον αὐτὸν ἱστορεῖν λέγουσι μεγαλύνοντα τοὺς στρατιώτας.

 

[26, 1] In quell’occasione, i cavalieri non attaccarono frontalmente i Romani, ma, piegando verso destra, cercarono di attirarli a poco a poco e di trascinarli fra se stessi e la loro fanteria, che era schierata sulla sinistra. [2] I generali romani compresero l’insidia, ma non fecero in tempo a trattenere i soldati, poiché uno di essi gridò che i nemici fuggivano e tutti si gettarono all’inseguimento. In quel momento la fanteria dei barbari avanzò come un immenso mare in movimento. [3] Allora Mario si lavò le mani e, alzandole al cielo, fece voto di offrire agli dèi un’ecatombe; anche Catulo, levate le mani allo stesso modo, promise di consacrare un tempio alla Fortuna di quel giorno[7]. [4] Si dice anche che Mario offrì un sacrificio e, quando gli furono mostrate le viscere delle vittime, gridò forte· «La vittoria è mia!». [5] Quando avvenne l’attacco, Mario subì un castigo dovuto alla vendetta divina, a quanto racconta Silla[8]· levatasi infatti, com’è naturale, un’immensa nube di polvere, i due eserciti rimasero nascosti l’uno all’altro e Mario, che si era lanciato per primo all’inseguimento, trascinando con sé le sue truppe, non incontrò i nemici, e, passando a lato della loro fanteria, errò a lungo nella pianura. [6] Il caso volle poi che i barbari si scontrassero con Catulo e che la battaglia si sviluppasse principalmente contro lui e i suoi soldati, fra i quali Silla dice di essersi trovato anch’egli. [7] I Romani, a quanto afferma Silla, ebbero come alleati la calura ed il sole, che dardeggiava negli occhi dei Cimbri[9]. [8] Infatti i barbari, avvezzi a sopportare il gelo e cresciuti, come ho detto[10], in regioni piene d’ombra e di freddo, erano sconvolti dal calore; ansanti e coperti di abbondante sudore, si proteggevano tenendo gli scudi davanti al viso, dal momento che la battaglia ebbe luogo proprio dopo il solstizio d’estate, che cade per i Romani tre giorni prima della luna nuova del mese che ora è detto Augustus, ma a quell’epoca era chiamato Sextilis[11]. [9] A dar coraggio ai Romani contribuì anche la nube di polvere che nascose i nemici, poiché non poterono distinguere da lontano la moltitudine e, lanciandosi ciascuno di corsa contro quelli che aveva davanti, ingaggiarono la mischia prima d’essere impauriti dalla vista dei barbari. [10] Erano così resistenti alla fatica ed allenati, che non si vide nessun romano sudare o ansimare, nonostante facesse un gran caldo e fossero andati all’assalto di corsa; così dicono che abbia scritto Catulo stesso[12], esaltando i suoi soldati.

 

Giovanni Battista Tiepolo, Battaglia di Vercelli. Olio su tela, 1725-29. New York, Metropolitan Museum of Art.

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[27, 1] τὸ μὲν οὖν πλεῖστον μέρος καὶ μαχιμώτατον τῶν πολεμίων αὐτοῦ κατεκόπη· καὶ γὰρ ἦσαν ὑπὲρ τοῦ μὴ διασπᾶσθαι τὴν τάξιν οἱ πρόμαχοι μακραῖς ἁλύσεσι πρὸς ἀλλήλους συνεχόμενοι διὰ τῶν ζωστήρων ἀναδεδεμέναις· [2] τοὺς δὲ φεύγοντας ὤσαντες πρὸς τὸ χαράκωμα τραγικωτάτοις ἐνετύγχανον πάθεσιν. αἱ γὰρ γυναῖκες ἐπὶ τῶν ἁμαξῶν μελανείμονες ἐφεστῶσαι τούς τε φεύγοντας ἔκτεινον, αἱ μὲν ἄνδρας, αἱ δὲ ἀδελφούς, αἱ δὲ πατέρας, καὶ τὰ νήπια τῶν τέκνων ἀπάγχουσαι ταῖς χερσὶν ἐρρίπτουν ὑπὸ τοὺς τροχοὺς καὶ τοὺς πόδας τῶν ὑποζυγίων, αὑτὰς δὲ ἀπέσφαττον. [3] μίαν δέ φασιν ἓξ ἄκρου ῥυμοῦ κρεμαμένην τὰ παιδία τῶν αὑτῆς σφυρῶν ἀφημμένα βρόχοις ἐκατέρωθεν ἠρτῆσθαι· [4] τοὺς δὲ ἄνδρας ἀπορίᾳ δένδρων τοῖς κέρασι τῶν βοῶν, τοὺς δὲ τοῖς σκέλεσι προσδεῖν τοὺς αὑτῶν τραχήλους, εἶτα κέντρα προσφέροντας ἐξαλλομένων τῶν βοῶν ἐφελκομένους καὶ πατουμένους ἀπόλλυσθαι. [5] πλὴν καίπερ οὕτως αὑτῶν διαφθαρέντων, ἑάλωσαν ὑπὲρ ἓξ μυριάδας· αἱ δὲ τῶν πεσόντων ἐλέγοντο δὶς τοσαῦται γενέσθαι.

[6] τὰ μὲν οὖν χρήματα διήρπασαν οἱ Μαρίου στρατιῶται, τὰ δὲ λάφυρα καὶ τὰς σημαίας καὶ τὰς σάλπιγγας εἰς τὸ Κάτλου στρατόπεδον ἀνενεχθῆναι λέγουσιν· ᾧ καὶ μάλιστα τεκμηρίῳ χρῆσθαι τὸν Κάτλον ὡς κατ᾽ αὐτὸν ἡ νίκη γένοιτο. [7] καὶ μέντοι καὶ τοῖς στρατιώταις, ὡς ἔοικεν, ἐμπεσούσης ἔριδος, ᾑρέθησαν οἷον διαιτηταὶ πρέσβεις Παρμητῶν παρόντες, οὓς οἱ Κάτλου διὰ τῶν πολεμίων νεκρῶν ἄγοντες ἐπεδείκνυντο τοῖς ἑαυτῶν ὑσσοῖς διαπεπαρμένους· γνώριμοι δ̓ ἦσαν ὑπὸ γραμμάτων, τοὔνομα τοῦ Κάτλου παρὰ τὸ ξύλον αὑτῶν ἐγχαραξάντων. [8] οὐ μὴν ἀλλὰ τῷ Μαρίῳ προσετίθετο σύμπαν τὸ ἔργον ἥ τε προτέρα νίκη καὶ τὸ πρόσχημα τῆς ἀρχῆς. [9] μάλιστα δὲ οἱ πολλοὶ κτίστην τε Ῥώμης τρίτον ἐκεῖνον ἀνηγόρευον, ὡς οὐχ ἥττονα τοῦ Κελτικοῦ τοῦτον ἀπεωσμένον τὸν κίνδυνον, εὐθυμούμενοί τε μετὰ παίδων καὶ γυναικῶν ἕκαστοι κατ᾽ οἶκον ἅμα τοῖς θεοῖς καὶ Μαρίῳ δείπνου καὶ λοιβῆς ἀπήρχοντο, καὶ θριαμβεύειν μόνον ἠξίουν ἀμφοτέρους τοὺς θριάμβους. [10] οὐ μὴν ἐθριάμβευσεν οὕτως, ἀλλὰ μετὰ τοῦ Κάτλου, μέτριον ἐπὶ τηλικαύταις εὐτυχίαις βουλόμενος παρέχειν ἑαυτόν· ἔστι δὲ ὅ τι καὶ τοὺς στρατιώτας φοβηθείς παρατεταγμένους, εἰ Κάτλος ἀπείργοιτο τῆς τιμῆς, μηδὲ ἐκεῖνον ἐᾶν θριαμβεύειν.

 

[27, 1] La parte maggiore e più battagliera dei nemici fu dunque fatta a pezzi sul posto, poiché i combattenti della prima fila, per evitare che il loro allineamento venisse spezzato, si erano legati gli uni agli altri mediante lunghe catene attaccate alle loro cinture. [2] Quando i Romani ebbero respinto i fuggitivi fino alle loro difese, assistettero alle scene più tragiche· le donne, vestite di nero, ritte sui carri, uccidevano i mariti, i fratelli e i padri che fuggivano, poi, strangolando con le proprie mani i figli più piccoli, li gettavano sotto le ruote dei carri e sotto le zampe delle bestie e infine si sgozzavano. [3] Dicono che una di esse pendeva impiccata all’estremità di un timone, con i figli appesi a ciascuna delle sue caviglie[13], [4] e che gli uomini, in mancanza d’alberi, si legavano per la gola alle corna o alle gambe dei buoi, che poi facevano impennare stimolandoli con pungoli, sicché morivano trascinati e calpestati dalle bestie[14]. [5] Tuttavia, nonostante questi suicidi, i prigionieri furono più di sessantamila; si narra inoltre che i caduti furono due volte tanti[15].

[6] I soldati di Mario depredarono gli averi dei barbari, ma si dice che le spoglie, le insegne e le trombe furono portate nell’accampamento di Catulo[16] e che questo fu il principale argomento di cui si avvalse Catulo per dimostrare che la vittoria spettava a lui. [7] Sorta, a quanto pare, una contesa fra i soldati, furono scelti come arbitri alcuni ambasciatori di Parma che si trovavano sul posto; i soldati di Catulo li portarono fra i cadaveri dei nemici e mostrarono che i corpi erano trafitti dai loro giavellotti, riconoscibili dal nome di Catulo che vi avevano inciso sul legno. [8] Tuttavia, l’intero merito del successo fu attribuito a Mario, in considerazione sia della sua prima vittoria, sia della superiorità della sua carica. [9] Soprattutto il popolo lo salutava come terzo fondatore di Roma, perché aveva scongiurato un pericolo non minore di quello dei Celti[17]; ciascuno, in festa con i figli e la moglie, offriva nella propria casa le primizie del pasto e faceva libagioni agli dèi e a Mario[18], e si riteneva che egli dovesse celebrare da solo entrambi i trionfi[19]. [10] Ma egli non fece così e celebrò il trionfo insieme a Catulo, volendo mostrare la propria moderazione dopo così grandi successi e forse anche per timore dei soldati, disposti, se Catulo fosse stato privato di quell’onore, a impedire anche il trionfo di Mario.

 

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C. Mario. Testa, calcare compatto, metà I sec. a.C. Ravenna, Museo Nazionale.

 

Bibliografia di approfondimento:

CERETTO CASTIGLIANO L., 101 a.C.: l’esercito sconfigge i Cimbri alle porte di Vercelli, “La Gazzetta”, 3 marzo 2014.

MATTHEW C., The Battle of Vercellae and the Alteration of the Heavy Javelin (Pilum) by Gaius Marius, “Antichthon” 44 (2010).

RICHARD J.-CL., La victoire de Marius, MEFRA 77 (1965), 69-86.

SOMMO G., Campi Raudii. I segni di una battaglia. Annotazioni bibliografiche, Vercelli 2015.

 

 

Note:

 

[1] Il suo nome è confermato da Floro (I, 38, 18) e da Orosio (V, 16, 20), che ne attestano la morte nella battaglia.

[2] Cfr. Floro, I, 38, 14, secondo cui la battaglia sarebbe stata stabilita per il dies proximus. Lo scontro ebbe luogo il 30 luglio 101.

[3] Le fonti latine (Velleio Patercolo, II, 12, 5; Floro, loc. cit.; De viris illustribus, 67, 2) localizzano lo scontro ai Campi Raudii. Il problema è stato ampiamente discusso e si è spesso ritenuto che lo scontro abbia avuto luogo nella zona di Vercelli, in Piemonte, dove i Cimbri si sarebbero diretti per ricongiungersi ai Teutoni. Tuttavia, J. Zennari (I vercelli dei Celti nella valle Padana e l’invasione cimbrica della Venezia, «Annali della Biblioteca Governativa e Libreria civica di Cremona», IV, 1951, fasc. 3, pp. 1-78) ha sostenuto, sulla base di un’ampia documentazione letteraria ed epigrafica, che il termine Βερκέλλαι non dev’essere inteso come nome proprio di città, ma è un nome comune di origine celtica, diffuso particolarmente nella Gallia Cisalpina per designare zone di estrazione dei metalli; lo stesso valore avrebbe pure il termine latino Campi Raudii. Lo Zennari (cfr. anche La battaglia dei vercelli o dei Campi Raudii (101 a.C.), «Annali della Biblioteca… di Cremona», XI, 1958, fasc. 2) localizza quindi lo scontro fra Mario e i Cimbri nella zona fra Rovigo e Ferrara. Per l’attendibilità di questa ipotesi cfr. in particolare E. Badian (From Gracchi to Sulla, «Historia», XI, 1962, p. 217), che vi ricollega la testimonianza plutarchea (Marius, 2, 1) sull’esistenza di una statua di Mario nella vicina Ravenna.

[4] Fragm. 5, HRR, vol. I2, p. 196. Silla, in cattivi rapport con Mario, si era unito a Catulo e partecipò con lui allo scontro (cfr. Plutarco, Sulla, 4, 3).

[5] Fragm. 1, HRR, vol. I2, p. 191.

[6] Un po’ più di cinque chilometri.

[7] Il tempio fu costruito dopo la vittoria (cfr. Plinio, Naturalis Historia, XXXIV, 19, 54).

[8] Fragm. 6, HRR, vol. I2, p. 197.

[9] Cfr. Orosio, V, 16, 15. Floro (I, 38, 15) afferma invece che i barbari furono accecati dal riverbero del sole sugli elmi dei Romani, il che comporterebbe uno scambio delle posizioni dei due eserciti, ma potrebbe anche essere spiegato con la durata della battaglia, per cui le testimonianze si riferirebbero a momenti diversi (cfr. Calabi, I Commentarii di Silla come fonte storica, «Memorie dell’Accademia Naz. dei Lincei», Classe di Sc. mor., stor. e filol., Ser. VIII, 1950, p. 265 seg.).

[10] Cfr. cap. 11, 9.

[11] La battaglia ebbe luogo il 30 luglio del 101. La νουμηνία indica il primo giorno del mese lunare, corrispondente per i Romani alle calende. Sextilis, il sesto mese dell’anno romano, che cominciava a marzo, fu ribattezzato Augustus nell’8 a.C., in onore dell’imperatore Augusto.

[12] Fragm. 2, HRR, vol. I2, p. 191.

[13] Cfr. Orosio, V, 16, 19; Floro, I, 38, 17.

[14] Cfr. Orosio, V, 16, 18; Floro, loc. cit., che però riferiscono anche questo particolare alle donne.

[15] La cifra è vicina a quella di 60.000 prigionieri e 140.000 morti in Livio, Periochae, 68; Orosio, V, 16, 16; Eutropio, V, 2.

[16] Secondo Eutropio (loc. cit.), due insegne furono prese dai soldati di Mario, trentuno da quelli di Catulo.

[17] Per il quale Camillo era stato proclamato secondo fondatore di Roma (cfr. Plutarco, Camillus, 1, 1).

[18] Cfr. Valerio Massimo, VIII, 15, 7: …postquam enim Cimbros ab eo deletos initio mortis nuntius peruenit, nemo fuit, qui non illi tamquam dis immortalibus apud sacra mensae suae libauerit.

[19] Quello sui Cimbri e quello sui Teutoni, che aveva in precedenza rifiutato di celebrare prima che la guerra fosse conclusa (cfr. cap. 24, 1).