Vivere è amare (Catull. Carm. V)

Catullo invita Lesbia a sfidare le convenzioni sociali imposte e codificate dal mos maiorum in nome di un ideale nuovo che identifica la vita pienamente vissuta con l’amore. Il carmen 5 esprime la gioia febbrile di una passione divorante, la sensazione di vivere un’esperienza unica e totalizzante accanto a una donna diversa da tutte le altre. Questo sentimento per la puella è presentato come felice e appagante, senza le ombre della gelosia e della separazione. Sul tema convenzionale proprio della poesia erotica dell’invito a identificare vita e amore (vivamus… atque amemus), s’innesta un’ombra più fatale e ineludibile, il pensiero angoscioso della fine di ogni cosa e della notte eterna che inevitabilmente segue la breve luce dell’esistenza; l’incombere da lontano di tale prospettiva ha il risultato di rendere ancor più urgente e intensa l’esortazione alla vita e all’amore: infatti, per esorcizzare questo timore, il poeta ripropone con maggior vigore il tema iniziale, moltiplicando freneticamente i baci, quasi nel tentativo di prolungare l’amore oltre le coordinate spazio-temporali, o meglio di cristallizzare la felicità presente sottraendola al divenire.

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,

rumoresque senum severiorum

omnes unius aestimemus assis!

Soles occidere et redire possunt:

nobis cum semel occidit brevis lux,

nox est perpetua una dormienda.

Da mi basia mille deinde centum,

dein mille altera, dein secunda centum,

deinde usque altera mille, deinde centum.

Dein, cum milia multa fecerimus,

conturbabimus illa, ne sciamus,

aut ne quis malus invidere possit,

cum tantum sciat esse basiorum.

Scena di bacio tra Polifemo e Galatea. Affresco, ante 79, dalla Casa dei Capitelli Colorati, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,

e i commenti dei vecchi bacchettoni,

stimiamoli tutti quanti un vile soldo!

Il Sole può anche tramontare e risorgere:

a noi, una volta spentasi la nostra breve luce,

non resta che dormire una notte eterna.

Dammi mille baci, e poi cento,

e poi altri mille, e altri cento,

e poi ancora mille e ancora cento.

Poi, dopo averne totalizzati molte migliaia, ne

scombineremo i conti, per non sapere quanti

sono o perché qualche invidioso non ci faccia

il malocchio, sapendo l’esatto importo dei baci.

Scena erotica con bacio fra un uomo e una donna (CIL IV 3494, nolo cum Myrtale). Affresco (particolare), ante 79, dalla caupona di Salvio, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La struttura del v. 1, che reca al centro il nome di Lesbia (compare qui, per la prima volta, lo pseudonimo dell’amata) ed è incorniciato dai congiuntivi esortativi, dichiara con enfasi l’identità di vivere (nel senso pregnante di «vivere pienamente, godendosi la vita») e amare. Contro il perentorio invito di Catullo niente possono le critiche malevole dei senes severiores: l’allitterazione sillabica e l’insistenza sui suoni r e s (percepiti come sgradevoli dagli antichi) concorrono a dare rilievo fonosimbolico ai rumores: queste «critiche» sono liquidate al v. 3 con una vivace espressione della lingua d’uso, assis aestimare (l’asse era una moneta di poco valore), sottolineata dall’antitesi sprezzante omnes unius.

Il motivo della caducità dell’esistenza umana, in opposizione all’eterno ciclo della natura, è ripreso dal poeta greco Mimnermo ed è sviluppato da Catullo attraverso un raffinato sistema di antitesi nei vv. 4-6. I cardini di questa opposizione, soles (metonimia per dies) e nox, sono collocati in posizione enfatica a inizio verso; occidere, riferito al Sole, è ripreso in poliptoto da occidit, riferito alla breve giornata dell’uomo (v. 5): si mette in evidenza la contrapposizione tra il tempo circolare della natura (occidere et redire) e quello lineare e breve dell’uomo (brevis lux).

Il catalogo dei baci si sviluppa per tre versi (vv. 7-9): la ripetizione delle cifre (mille… centum), introdotte dall’anafora deinde… dein, la collocazione di centum alla fine dei tre versi successivi conferiscono all’elenco un ritmo ossessivo. Al v. 10, cum… fecerimus tira le somme dell’elenco segnando il passaggio al motivo conclusivo dell’invidia dei maligni, che possono gettare il malocchio sulla coppia degli amanti felici. L’invito del poeta innamorato alla puella è quello di esorcizzare la morte e il male proprio con l’amore.

Infine, è interessante notare che la parola basium, probabilmente di origine celtica, fu introdotta nella lingua letteraria proprio da Catullo e, con il tempo, avrebbe soppiantato il corrispondente latino osculum, perpetuandosi nelle lingue romanze.

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Riferimenti bibliografici:

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Un libriccino per Cornelio (Catull. Carm. I)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 620-622.

Con questo carme Catullo dedicò allo storico Cornelio Nepote una raccolta di poesie costituita esclusivamente da componimenti brevi in metri vari, che potevano coincidere in tutto o (assai più verosimilmente) in parte con gli attuali carmina 2-60 della raccolta pervenuta. Gesto cortese di omaggio tra amici letterati, questo testo ha la funzione programmatica di presentare i principi dell’estetica neoterica, che improntano il libellus donato a Cornelio. E nell’affermare il lepos, il labor limae e la doctrina come canoni della nuova poetica, il piccolo carme di Catullo ne offre al tempo stesso un esempio autorevole.

 

Metro: endecasillabi faleci.

 

 

Cui dono lepidum nouum libellum

arido modo pumice expolitum?[1]

Corneli, tibi; namque tu solebas

meas esse aliquid putare nugas[2],

5   iam tum cum ausus es unus Italorum

omne aeuum tribus explicare cartis,

doctis, Iuppiter, et laboriosis[3].

quare habe tibi quidquid hoc libelli[4]

qualecumque: quod, ‹o› patrona uirgo[5],

10 plus uno maneat perenne saeclo[6].

 

A chi dedicare il nuovo elegante libretto

or ora levigato dall’arida pomice?

Cornelio, a te: e, infatti, tu eri solito

ritenere che le mie sciocchezze valessero qualcosa,

5   mentre già osavi, unico tra gli Italici,

svolgere la storia universale in tre volumi,

dotti, per Giove, e per giunta sudati!

Perciò, prenditi il mio libretto che è quel che è,

qualsiasi sia il suo valore: o vergine signora,

10 che possa esso durare più di una generazione.

 

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonicianus Class. Lat. 30 (XIV sec.), f. 1r. Il Carmen 1 di Catullo con iniziale miniata e annotazioni.

 

Il libretto, terminato da pochissimo (vv. 1-2), viene inviato a un amico che ha già mostrato da tempo di saper apprezzare le nugae del poeta (vv. 3-4) e che è a propria volta esperto di fatiche letterarie, seppure di tutt’altro genere (vv. 5-7). Proprio i vv. 5-7 sviluppano ciascuno un aspetto dell’opera di Cornelio Nepote: l’originalità (v. 5), il tema e l’estensione (v. 6), il carattere erudito e l’impegno dell’autore (v. 7). Dopo il riferimento elogiativo all’opera dell’amico, i vv. 8-10 ribadiscono il gesto della dedica attraverso una rete di riprese formali: la ripetizione di libellus (vv. 8 e 1) e del pronome tibi (vv. 8 e 3); il motivo del deprezzamento giocoso delle nugae (vv. 8-9 e 4).

I versi centrali sull’opera di Nepote (vv. 5-7) sono incorniciati dal doppio gesto di dedica accompagnato da dichiarazioni di modestia: così si realizza un effetto di composizione ad anello sul tema della dedica all’amico e dell’ostentato deprezzamento del dono, mentre la parte centrale si sofferma per contrasto sull’impegnativa opera dell’erudito (un contrasto che non impedisce a Catullo di mettere in rilievo i caratteri di doctrina e di labor dei Chronica di Nepote, caratteri ben radicati nella poetica dei neòteroi). Gli ultimi due versi presentano un cambio di destinatario e un forte rovesciamento nell’atteggiamento assunto dal poeta: il v. 9 passa dal gesto di modestia (qualecumque, «qualsiasi sia il valore» del libellus) all’invocazione alla Musa (patrona uirgo) e introduce così la preghiera, formulata nell’ultimo verso, dell’immortalità della raccolta stessa.

 

Al di là del gesto cortese verso l’amico, il componimento ha la funzione di far da proemio all’intera raccolta, che difficilmente sarà stata estesa a tutta la prima parte del Liber pervenuto (cc. 1-60, le cosiddette nugae; vi sono ipotesi che la riducono, per esempio, ai soli cc. 1-14). Al di là del tono colloquiale e dell’impressione di (calcolata) spontaneità, l’incipit del libellus per Cornelio si propone al lettore come una dichiarazione programmatica sulle scelte estetiche adottate dall’autore.

Il v. 1 mette a fuoco l’oggetto del dono: non un liber ma un libellus («libretto, piccolo libro»). Il diminutivo, posto in rilievo a livello fonico dall’omoteleuto (nome e aggettivi hanno cioè identica terminazione), ha valore vezzeggiativo-affettivo: il libretto è grazioso, editorialmente curato; al tempo stesso, in rapporto al destinatario, il diminutivo è (apparentemente) deprezzativo: un piccolo libro di nugae, niente a che vedere con la poderosa opera storica di Cornelio Nepote.

Quanto ai due aggettivi nouus e lepidus, essi si riferiscono all’aspetto formale, curato e invitante, del prodotto librario finito, ma non solo. Lepidus annuncia una raccolta di carmi brevi improntati al lepos (lett. «grazia, eleganza»), termine da cui l’aggettivo deriva e canone dell’estetica neoterica. Lepos, lepidus designano il fascino di una vivacità colta e mai volgare, di un umorismo che, anche se mordace, non travalica mai i limiti dell’urbanità e del buon gusto. Nouus è il libellus appena edito anche e soprattutto per gli elementi di innovazione che la poesia neoterica introduce nella tradizione latina.

Il gesto di levigare gli orli del volume con la pomice, eliminando ogni imperfezione e asperità (v. 2), richiama uno dei cardini della nuova estetica: il labor limae. L’eleganza, il lepos, è frutto di un’attenta cura dei dettagli, di un lavoro assiduo di correzioni e rifiniture: dietro un’apparenza di spontaneità e leggerezza, la poesia del disimpegno nasconde un ossessivo, raffinatissimo lavorio formale.

La poesia è lusus («gioco»); l’atto del comporre è ludere («giocare, scherzare»). Le nugae, perciò, costituiscono, per tradizione, la prima parte del Liber catulliano (anche se il poeta impiega soltanto qui questo termine: altrove, invece, ricorre a ineptiae, come nel c. 14b). Le poesie donate a Cornelio sono presentate così quali nugae, con dovuta, educata espressione di modestia e in contrasto con i Chronica dell’amico, un’impresa titanica (due parole lunghe, di quattro e cinque sillabe, chiudono i vv. 5 e 7, insistendo sull’idea dell’immane fatica compiuta dallo storico!). Sull’opposizione tra le due opere, gesto cortese di omaggio al destinatario, si innesta però una serie di corrispondenze: la nouitas (v. 1) del libellus è ripresa al v. 5 dall’orgogliosa affermazione del primato letterari di Cornelio Nepote (ausus es unus Italorum); il conoscimento del labor e della doctrina al v. 7 richiama, pur nella distanza tra le due opere, principi fondamentali dell’estetica neoterica. La doctrina, infatti, è requisito primario per fare poesia: dotte sono le Muse ispiratrici (definite nel c. 65 v. 2 doctae uirgines), e dotte e raffinate sono le figure femminili amate dai neòteroi (come la ragazza innamorata di Cecilio, c. 35). La necessità di possedere un grande bagaglio di conoscenze e poi di raggiungere un’estrema levigatezza e nitore formale fanno della poesia un impegno lungo e faticoso.

Citarista. Affresco, I sec. d.C. forse da Boscoreale. Württemberg, Landesmuseum.

L’invocazione alla Musa, che segna un repentino cambio di destinatario in (apparente) contrasto con le dichiarazioni dei versi precedenti, ha un modello illustre nell’appello di Callimaco alle Cariti (o Grazie, qui equiparate alle Muse), perché concedano alla sua opera di durare nel tempo: «Siate adesso propizie, e sulle elegie mie sfregate le mani lucide d’olii, affinché mi durino lunga stagione» (Àitia, fr. 1, 7, vv. 14 ss. Pf., trad. G.B. D’Alessio). Il simbolismo dell’oggetto libro accomuna i due testi.

Un altro precedente importante per il carmen è il proemio della Corona di Meleagro (un’antologia di epigrammi di vari autori raccolti dal poeta greco Meleagro sul finire del II secolo a.C., ben nota ai poetae novi), dove è la Musa stessa a portare il libro al dedicatario Diocle: «Musa diletta, per chi questi frutti canori tu rechi? Chi tessé questo serto di poeti? Fu Meleagro: l’autore compose lo splendido omaggio a ricordo dell’illustre Diocle» (Anthologia Palatina IV 1, vv. 1-4, trad. A. Pontani).

 

Il rotolo di papiro (uolumen, da uoluo, «avvolgere, arrotolare») era costituito da più fogli (cartae) incollati uno di seguito all’altro. Gli orli superiore e inferiore del uolumen (frontes) erano lisciati con la pietra pomice; a essi erano poi fissate due asticelle (gli umbilici), le cui estremità (cornua) sporgevano dal rotolo ed erano colorate di rosso nelle edizioni più ricercate; attorno a queste asticelle si arrotolava il volume, che era alla fine chiuso in un involucro di pergamena con attaccato un cartellino recante il titolo dell’opera e il nome dell’autore.

***

Note:

[1] vv. 1-2. Cuiexpolitum? «A chi dedicare il nuovo elegante libretto or ora levigato dall’arida pomice?». dono: l’uso del modo indicativo anziché del congiuntivo è comune nelle domande deliberative, in cui chi parla si interroga sul da farsi: per esempio, quid ago? («Che fare?»); quid respondemus? («Che rispondere?»). Dono indica sia il gesto concreto di donare il nuovo elegante libretto sia quello di dedicarlo all’amico. pumice: comunemente maschile, qui pumex è femminile. expolitum: il verbo polio e i composti expolio e perpolio indicano anche l’atto di limare.

[2] vv. 3-4. Cornelinugas. Corneli. Cornelio Nepote (90-30 a.C.), storico ed erudito, era originario come Catullo della Gallia Cisalpina e a lui legato – a quanto risulta dai versi che il poeta gli dedica – da un’amicizia di lunga data, basata su comuni interessi letterari. nugas: «scherzi poetici». esse aliquid: espressione colloquiale che significa «avere un qualche valore».

[3] vv. 5-7. iamlaboriosis. unus Italorum: Cornelio è il primo fra gli scrittori in lingua latina a comporre una storia universale, intitolata Chronica, in tre libri (andata perduta). omne… cartis: «svolgere la storia universale (omne aeuum) in tre volumi»; carta, propriamente il «foglio di papiro», indica per metonimia l’intero rotolo; explicare ha in sé l’idea dello svolgere tematicamente, cronologicamente e anche concretamente, srotolando i volumina. Iuppiter: «per Giove!», è esclamazione della lingua parlata. laboriosis: l’aggettivo significa qui «duro, difficile, che richiede fatica»; è un’accezione rara del termine, che come significato principale ha «laborioso, diligente».

[4] v. 8. quarelibelli. quare: la congiunzione conclusiva è colloquiale, comune in poesia epigrammatica, satirica ed elegiaca. habe tibi: «prenditi», formula tecnica del linguaggio giuridico; infatti, siccome fin dall’inizio si dice che Cornelio abbia apprezzato la nuova poesia dell’amico, il poeta ora “estingue il suo debito” di riconoscenza “cedendogli in proprietà” il suo libellus appena uscito dall’officina del librarius. quicquid hoc libelli = hunc libellum (libelli è genitivo partitivo) è espressione di modestia, che deprezza almeno in apparenza l’oggetto del dono e anticipa qualecumque del verso seguente.

[5] v. 9. qualecumque uirgo. qualecumque (sotto. est): «qualunque sia il suo valore»; l’aggettivo indefinito è collegato per enjambement al verso precedente (anzi, è l’unico enjambement del carme, dove altrimenti l’unità metrica del singolo verso coincide con l’unità di senso). patrona uirgo: è una delle Muse, definite da Catullo anche doctae uirgines (c. 65, v. 2).

[6] v. 10. plussaeclo. «possa durare più di una generazione»; saeclum è forma sincopata di saeculum, «generazione» (sempre in questo senso in Catullo).

Lesbia, il passerotto e Catullo (Catull. Carm. II)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 651-653.

Il poeta osserva o ricorda i giochi del passer e della donna amata e li schizza in pochi versi. La composizione slitta dalla descrizione vivace a un livello più intimo di riflessione: Lesbia trova in questo modo un qualche sollievo al tormento d’amore, mentre Catullo sa che le proprie graues curae non possono placarsi neppure per poco tramite un passatempo così lieve.

 

Passer, deliciae meae puellae,

quicum ludere, quem in sinu tenere,

cui primum digitum dare adpetenti

et acris solet incitare morsus,

5   cum desiderio meo nitenti

carum nescio quid libet iocari

et solaciolum sui doloris,

credo, ut tum grauis adquiescat ardor,

tecum ludere sicut ipsa possem

10 et tristis animi leuare curas!

 

Passero, gioia della mia ragazza,

che gioca con te, che ti tiene in grembo,

a te che balzelli porge la punta del dito,

ed è solita provocare le tue dure beccate,

5   quando al mio fulgido desiderio

piace fare un non so che caro gioco,

e un piccolo sollievo al suo dolore,

io credo, perché allora si plachi il tormento della passione:

potessi anch’io giocare, come lei, con te,

10 e alleviare i tristi affanni del cuore!

 

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Dietro l’impressione di immediatezza espressiva, il carme mostra una struttura calibrata: l’esclamazione conclusiva, dove tecum (v. 9) si ricollega a Passer (v. 1), chiudendo circolarmente la composizione, si innesta su un lungo e ininterrotto periodo, sviluppato per otto versi divisi in due gruppi di quattro.

I vv. 1-4, infatti, presentano il passer e la sua stretta relazione con la puella: all’apostrofe (v. 1) segue la descrizione dei giochi in una serie di tre proposizioni relative di ampiezza crescente (tricolon ascendente), messa in rilievo dall’anafora del pronome variato dal poliptoto (quicum…, quem…, cui…, vv. 2-3), a sua volta seguita da una quarta frase relativa più sciolta, con pronome sottinteso (v. 4). Nei vv. 5-8 il lieve bozzetto digrada verso un tono più intimo e personale: l’accento si sposta dall’uccellino (vv. 1-4) alla donna (vv. 5-8). Al v. 6 iocari riprende ludere del v. 2: un elemento di circolarità che chiude la scena del gioco, in opposizione al ludere impossibile del v. 9. Dal gioco si passa nei vv. 7-8 alla sua funzione di sollievo dalle curae d’amore; entra in scena esplicitamente il punto di vista del poeta con credo (v. 8), che attribuisce alle schermaglie leggere fra la donna e il passer un significato profondo: la puella con quel passatempo cerca di lenire la sua pena d’amore (dolor, grauisardor).

Così, la sezione centrale su Lesbia fa da tramite tra i momenti leggeri del passer e le tristis curae dell’uomo: il poeta conclude con una nota di rimpianto per una dimensione della passione più superficiale, più facile da controllare e placare, come è appunto quella di Lesbia, mentre il suo tormento d’amore non è riconducibile a un gioco leggero, reale o letterario.

Il legame affettivo della puella con il passer è sottolineato con evidenza al v. 1 attraverso il triplice omoteleuto deliciae meae puellae. Il diminutivo solaciolum (v. 7) appartiene alla lingua d’uso e ricorre soltanto qui nel latino classico: l’uso dei diminutivi, del resto, è un tratto tipico della poesia neoterica. Qui il diminutivo affettivo connota sia il rapporto di intimità fra passer e padroncina sia lo sguardo affettuoso e deliziato del poeta che ritrae la scena.

Il sentimento di Lesbia è designato al v. 7 con dolor, termine generico, impiegato da Catullo in contesto erotico soltanto in questo passo, dove è specificato al verso seguente da grauis… ardor, che invece appartiene proprio al lessico erotico: ardor, infatti, da ardeo («bruciare») rimanda alla tradizionale metafora della fiamma d’amore (in particolare, Catullo predilige il verbo uror, «bruciare»). Anche il termine curae (v. 10), con cui il poeta definisce il proprio sentimento, è proprio del lessico erotico.

Giardino con fontana e passero fra le fronde (dettaglio). Affresco, 14-37 d.C. c. dalla Casa del Bracciale d’oro, Insula occidentalis 42, Pompei.

Al v. 5 la puella è indicata con la metonimia desiderium (secondo un uso corrispondente a quello del greco πόθος), che appartiene alla lingua degli affetti. Cicerone, per esempio, chiama così la moglie Terenzia: mea lux, meum desiderium, ad fam. XIV 2, 2. Ma desiderium si utilizza, in genere, per designare «la persona di cui si sente la mancanza»: nella scelta di questo termine, così come nell’uso del generico dolor (v. 7), si è voluta riconoscere la spia di un distacco forzato dei due amanti.

In base a questi riferimenti lessicali, dunque, il carme è stato collocato in un momento di separazione degli amanti, messi a dura prova dalla lontananza: sembra, però, preferibile non ricostruire in base a pochi e generici indizi una tappa altrimenti sconosciuta del “romanzo” d’amore catulliano. Nel carmen 2, infatti, il poeta si limita a osservare con quanta facilità e aggraziata compostezza Lesbia trovi distrazione e sollievo dalla passione – che per lui, invece, è un tormento incessante.

Alcuni interpreti, però, si spingono oltre e individuano uno scarto ironico tra il sentimento profondo che anima il poeta e il più superficiale coinvolgimento della donna. Al distacco fisico si sommerebbe, dunque, una diversità di sentire, un distacco spirituale: ma i presunti segnali dell’ironia (carum nescium quid, credo, solacium) risultano troppo velati (si è troppo lontani dai toni con cui Catullo esprime delusione e distacco da Lesbia). Anzi, l’autocontrollo mostrato dalla ragazza, condito con la leggerezza e la grazia della situazione, non fa che accrescere agli occhi del poeta il fascino irresistibile dell’amata.

Apprezzato dagli antichi come animale da compagnia, il passer non è il comune passerotto, ma il cosiddetto “passero solitario”, dal canto melodioso e più facile da addomesticare. Poiché il passero era animale caro ad Afrodite/Venere (nel fr. 1 Voigt di Saffo, la famosa preghiera alla dea, il cocchio con cui ella scende sulla Terra è appunto trainato da questi uccellini), è stato ipotizzato che si trattasse di un dono da innamorati e, in questo caso, di Catullo a Lesbia.

 

La morte del passerotto (Catull. Carm. III)

di A. BALESTRA et al., In partes tres. v. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Bologna 2016, pp. 338-340.

Questo carme si presenta come un epicedio, ovvero come un lamento funebre per la morte del passer di Lesbia, animaletto cui la puella era sinceramente affezionata. Pur seguendo lo schema tipico degli epigrammi funebri ellenistici, tra i quali figurano già epicedi per animali domestici, Catullo introduce alcuni elementi di novità, a partire dall’effetto di ironia, determinato dalla sproporzione tra l’effettiva entità dell’evento rievocato e il registro per lo più altisonante e solenne adottato nel corso del componimento (non mancano, però, significative inserzioni dalla lingua d’uso). L’effetto finale è quello di una velata parodia dei lamenti funebri; ancora una volta, campeggia la figura di Lesbia, rappresentata in un atteggiamento quasi materno nei confronti del passer, la cui morte provoca in lei tristezza e pianto.

 

Lugete, o Veneres Cupidinesque[1]

et quantum est hominum uenustiorum!

passer mortuus est meae puellae,

passer, deliciae meae puellae,

5   quem plus illa oculis suis amabat[2];

nam mellitus erat, suamque norat

ipsa tam bene quam puella matrem,

nec sese a gremio illius mouebat,

sed circumsiliens modo huc modo illuc

10 ad solam dominam usque pipiabat.

qui nunc it per iter tenebricosum[3]

illuc unde negant redire quemquam.

at uobis male sit, malae tenebrae

Orci[4], quae omnia bella deuoratis;

15 tam bellum mihi passerem abstulistis.

o factum male! o miselle passer!

tua nunc opera meae puellae

flendo turgiduli rubent ocelli.

 

Piangete Veneri e voi Amorini,

e quanti sono disposti all’amore.

è morto il passero della mia ragazza,

il passero, gioia della mia ragazza,

5   che lei amava più dei propri occhi,

perché era dolce come il miele e la riconosceva

così come una bimbetta la propria mamma;

mai che si scostasse dal suo grembo

e, saltellando intorno qua e là,

10 cinguettava sempre, solo rivolto alla sua padrona.

Ora, procede per una strada oscura,

là donde si dice che nessuno torni.

Maledizione a voi, maledette tenebre infernali,

che inghiottite ogni cosa graziosa!

15 un passerotto così carino voi me lo avete rapito.

Che brutta azione! Che passerotto infelice!

Ora, per colpa tua, gonfi di pianto, sono arrossati

gli occhi soavi della mia ragazza.

Fanciulla con passero. Statua, marmo, IV-III sec. a.C.

 

L’epicedio per il passer. | Il componimento, come si è detto, presenta lo schema tipico dei lamenti funebri: si apre con un invito al lutto (vv. 1-2), prosegue con l’identificazione del defunto (v. 3) e l’elogio delle sue virtù (vv. 4-10), presenta quindi la comploratio, ovvero il compianto per la sorte del passero (vv. 11-12), a cui fa seguito la maledizione rivolta alle divinità dell’oltretomba (vv. 13-15) e la commossa partecipazione alla sofferenza dei sopravvissuti (vv. 16-18). Componimenti che piangono la morte di un animale domestico sono ampiamente presenti nella poesia ellenistica: in particolare, nel VII libro dell’Anthologia Palatina si trova un’intera sezione di epigrammi dedicati a tale argomento (189-216).

L’originalità di Catullo. | Tuttavia, in questo componimento il tema è affrontato in una chiave originale: sotto il velo dell’ironia, che si origina dalla sproporzione tra l’evento cantato, ovvero la morte del passerotto, e i toni elegiaci e patetici cui il poeta fa ricorso, traspare la figura di Lesbia, la puella amata. Grazie anche a una serie di artifici retorici, è lei la presenza dominante e la vera protagonista della lirica, sebbene di lei si parli espressamente solo nella chiusa. Quello che in apparenza poteva sembrare un carmen di morte di un animaletto domestico, in linea con una tradizione già ben consolidata nella poesia ellenistica, si rivela dunque un canto d’amore per Lesbia: ai vv. 3-4 la ripetizione enfatica dell’espressione passer… meae puellae («il passero… della mia ragazza») sembra già anticipare che il tema principale del carme non è tanto la morte del passerotto, quanto l’effetto di questo evento sulla donna amata. L’espressione meae puellae ritorna per la terza volta nella chiusa del testo (v. 17), dove la sorte dell’animale risulta chiaramente relegata in secondo piano e a dominare è l’immagine degli occhi della puella gonfi di lacrime e arrossati dal pianto.

Come in molti dei suoi componimenti più riusciti, anche in questo Catullo è stato in grado di dare uno sviluppo originale a un tema non nuovo, trasformando il lamento funebre per un animaletto domestico in un’occasione per rappresentare il proprio universo affettivo con accenti del tutto personali.

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Note:

[1] Veneres allude forse alla molteplicità degli aspetti e dei caratteri di Venere, oppure all’insieme delle divinità femminili che formavano il corteo della dea. Cupidinesque, invece, designa gli Amorini, che nella poesia ellenistica facevano parte del seguito di Afrodite. La medesima espressione Veneres Cupidinesque ricorre anche nel c. 13, là dove il poeta intende sottolineare il pregio estremo dell’unguentum che si appresta a donare all’amico Fabullo, e a tale scopo dichiara di averlo ricevuto come regalo proprio dalle divinità dell’amore per tramite della sua puella.

[2] Questa espressione è certamente iperbolica, tipica della lingua d’uso: è qui utilizzata per esprimere la profondità dell’affetto che legava Lesbia al suo passerotto.

[3] Secondo una credenza popolare, anche gli animali scendevano nel regno dei morti. Qui, però, l’espressione ha un’intonazione ironica.

[4] Orcus è uno dei nomi con cui era invocato Plutone; qui indica per metonimia gli Inferi, di cui il dio era il sovrano.

Un particolare invito a cena (Catull. Carm. XIII)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 629-631.

Questo breve carme ha la funzione di scherzoso biglietto di invito a cena per Fabullo: l’amico sarà il benvenuto alla tavola del poeta, a patto che provveda lui stesso a portare (e, chiaramente, a pagare) le vivande, la flautista, il vino e tutto il necessario. Ma ne varrà la pena, perché in cambio otterrà un profumo raffinatissimo e seducente. La composizione, di tono leggero e affettuoso, è un bell’esempio del clima di rapporti amicali che doveva improntare la vita della cerchia catulliana. Le note dominanti sono quelle di un sincero legame d’affetto e di una profonda civiltà e raffinatezza di modi.

METRO: endecasillabi faleci

 

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me

paucis, si tibi di fauent, diebus[1],

si tecum attuleris bonam atque magnam

cenam, non sine  candida  puella

5   et uino et sale et omnibus cachinnis[2].

haec si, inquam, attuleris, uenuste noster

cenabis bene; nam tui Catulli

plenus sacculus est aranearum[3].

sed contra accipies meros amores

10 seu quid suauius elegantiusue est[4]:

nam unguentum dabo, quod meae puellae

donarunt Veneres Cupidinesque[5],

quod tu cum olfacies, deos rogabis

totum ut te faciant, Fabulle, nasum[6].

 

Scena di banchetto. Mosaico, V sec. d.C. da Aquileia. Musée de le Château de Boudry

 

Ti inviterò a cena da me, mio Fabullo,

uno di questi giorni, se gli dèi lo concederanno,

e se porterai con te una buona e abbondante

cena, insieme a una bella ragazza

5   e vino e arguzia e ogni sorta di scherzo.

Ripeto: se porterai queste cose, bello mio,

cenerai bene; infatti, la borsa del tuo

Catullo è piena di ragnatele.

Ma in cambio riceverai una vera delizia,

10 o ciò che vi è di più elegante e raffinato:

infatti, ti darò un unguento, che alla mia ragazza

hanno donato le Veneri e gli Amorini,

il quale, se lo annuserai, pregherai gli dèi,

perché, Fabullo, ti facciano diventare tutto naso!

 

 

Invito in due tempi. | L’invito rivolto a Fabullo si articola in due sezioni: la prima è incentrata sul motivo della cena (cenabis, cenam, cenabis, vv. 1, 4, 7, in posizione di rilievo a inizio verso) e incorniciata dalla formula d’invito (vv. 1-2; 6-7); la seconda sviluppa invece il motivo del delizioso profumo, unica ricompensa per Fabullo, se accetterà la proposta. Al centro, la prima sezione si chiude con un verso sulla povertà del poeta (v. 8), che funge da cerniera fra le due parti.

 

Dal piatto vuoto… | Al v. 1 la formula standard dell’invito a cena, Cenabis… apud me, presenta un’aggiunta significativa: l’avverbio bene ne precisa insolitamente il senso, non semplicemente «Ti invito a cena da me», ma «Ti invito a farti una lauta cena a casa mia». Subito dopo, la specificazione temporale paucis… diebus è lasciata troppo nel vago per non suscitare sospetto: non è ortodosso formulare un invito senza indicare con precisione la data dell’appuntamento. Anche l’inciso si tibi di fauent introduce un dettaglio stonato nel contesto di un invito a cena, trovandosi di norma riferito a situazioni che comportano un rischio concreto. Al v. 3 ecco finalmente svelato il perché di questo invito non convenzionale: dipende da Fabullo procurare tutto il necessario per la cena (Cenabis… si attuleris, cioè: cenerai solo se porterai da mangiare!). I vv. 6-7 ripetono l’invito (inquam: «te lo ripeto») con la collocazione invertita dei termini: cenabis bene al v. 7 è ripetuto nella stessa sede metrica in cui compare al v. 1, si… attuleris è ripetuto al v. 6 dal v. 3.

 

… al delizioso profumo. | Al v. 9 Sed contra segna con un forte stacco l’inizio di un nuovo movimento: e infatti il seguente accipies («riceverai») rovescia il doppio attuleris («porterai») della prima parte del carme. La qualità del profumo è celebrata in tre coppie di versi: la prima (vv. 9-10) di introduzione e attesa (ancora non si sa quale raffinatezza Fabullo debba aspettarsi in cambio dei suoi preparativi), la seconda (vv. 11-12) svela la natura del dono, la terza (vv. 13-14) anticipa con una giocosa iperbole l’effetto del profumo sul fortunato ospite.

Scena conviviale. Affresco, ante 79 d.C., da Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

 

Uno scherzo tra amici. | L’ironia giocosa del carme rispecchia il clima dei rapporti amicali all’interno della cerchia neoterica. Il legame di affettuosa amicizia e familiarità tra Catullo e il suo destinatario è sottolineato dall’aggettivo possessivo mi Fabulle (v. 1; vedi anche noster, v. 6), cui corrisponde tui Catulli (v. 7). Il vocativo uenuste noster (v. 6) garantisce che Fabullo non solo non si offenderà, ma saprà anche apprezzare la richiesta scherzosa del poeta proprio perché possiede «eleganza e spirito», la uenustas che caratterizza tanto la poesia neoterica quanto i suoi stessi destinatari ed estimatori; e, del resto, il profumo offerto dall’anfitrione è quanto di più suaue ed elegans (v. 10) si possa trovare (la distribuzione durante il banchetto di unguenti profumati, spesso assai preziosi, era un uso di origine greca che aveva rapidamente preso piede anche nella società elegante e alla moda dell’Urbe).

 

Per cena non solo cibo. | Per la cena non bastano vivande abbondanti e di buona qualità (v. 3). La litote non sine (= cum) candida puella (v. 4) sottolinea la presenza della ragazza, probabilmente una flautista, come un elemento indispensabile alla riuscita della serata. La lista di quanto Fabullo dovrà procurare si chiude al v. 5 con un accumulo di tre membri coordinati per polisindeto in crescendo: l’ultimo degli elementi del catalogo, un po’ inatteso dopo la concretezza degli altri ingredienti (ma già sal può avere senso traslato), conferma il carattere scherzoso dell’invito e promette altrettanto buonumore e giochi garbati durante la cena.

 

Catullo povero per scherzo. | L’ironia investe anche il tema della povertà (vv. 7-8). Catullo scherza anche altrove sulle proprie condizioni economiche non floride (in particolare, sugli scarsi proventi ricavati dal viaggio in Bitinia): si tratta di un atteggiamento amicale e letterario, vista la famiglia facoltosa da cui il poeta proveniva e che non gli avrà certo fatto mancare i mezzi per vivere agiatamente. L’immagine delle ragnatele è della lingua della commedia e quasi proverbiale.

 

L’invito a cena: un motivo di successo. | Il carme breve di invito a cena per un amico o patrono è un genere di composizione piuttosto diffuso nell’antichità; ne sono tratti ricorrenti la povertà dell’anfitrione e l’impossibilità di allestire un banchetto raffinato; il suo sincero affetto per l’invitato; il clima disteso e affettuoso del convito, che compensa l’assenza di sfarzo. Tutti questi elementi compaiono già in uno dei primi esempi del genere, un epigramma del poeta e filosofo epicureo Filodemo, del I secolo a.C. (Anthologia Palatina 11, 44): la povertà e la semplicità della cena saranno compensate dalla gradevolezza dei discorsi conviviali, mentre all’illustre convitato, Pisone, è richiesto di arricchire la festa con doni. Orazio rielaborerà più volte questi temi: nell’epistola 1, 5 il poeta si rivolge all’amico Torquato, invitandolo a una cenetta con stoviglie semplici e piatti a base di verdure, ma dove sarà possibile, fra amici cari e fidati, conversare in tutta tranquillità; nell’ode 1, 20, invece, Orazio invita Mecenate a bere un vinello sabino non troppo pregiato, in contrasto con i vini costosi cui il patrono è abituato.

Rispetto alla tradizione, Catullo rincara lo scherzo: non si tratta qui di una cena modesta allestita con gli esigui mezzi del poeta, ma l’intera serata dipende da quello che Fabullo vorrà procurare.

 

L’amico, la puella e la cerchia. | Fabullo compare in altri tre carmina (12, 28, 47) sempre insieme all’amico Veranio, con cui aveva partecipato a un soggiorno in Hispania e poi aveva fatto (probabilmente) parte del seguito di L. Calpurnio Pisone Cesonino, proconsul in Macedonia dal 57 al 55 a.C. È stato supposto che il componimento si collochi dopo il ritorno di Fabullo dalla Hispania e che implichi scherzosamente l’accumulo di ricchezze in quell’occasione, in contrasto con la falsa povertà ostentata da Catullo.

La puella che ha procurato il profumo è senz’altro Lesbia: un fatto che testimonia come tra la sfera delle amicizie e quella dell’amore non vi fosse per Catullo una netta separazione. Anzi, almeno nei periodi di serenità, sembra che la donna abbia frequentato la cerchia neoterica, prendendo parte alle sue attività.

 

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Note:

[1] vv. 1-2. Cenabis diebus. Cenabis apud me è formula standard dell’invito («Ti inviterò a cena da me»; il futuro ha valore iussivo). paucis… diebus: «nel giro di qualche giorno; uno di questi giorni». si… fauent: «se gli dèi lo concederanno»; equivale al nostro: «a Dio piacendo»; il presente in luogo del futuro nella proposizione condizionale è di uso colloquiale.

[2] vv. 3-5. si cachinnis. bonam… cenam: bonam indica la qualità, magnam la quantità delle vivande della cena. non sine candida puella: «insieme a (lett.: non senza) una bella ragazza»; candida significa «bella» in quanto l’incarnato pallido e i capelli biondi, per la loro rarità, erano ritenuti dai Romani segno di distinzione e di bellezza. sale: sal è probabilmente nel senso traslato di «arguzia, gusto per la battuta» (più comunemente al plurale sales), con funzione di transizione dal concreto (il vino) all’astratto (le risate).

[3] vv. 6-8. haec aranearum. haec: neutro plurale, tira le somme del catalogo sviluppato nei versi precedenti. inquam: «ti dico, ti ripeto», espressione di tono colloquiale. uenuste noster: «mio caro», o più giocosamente, «bello mio». sacculus: diminutivo di saccus, «borsa», ne sottolinea le dimensioni esigue e quindi le misere condizioni economiche del poeta.

[4] vv. 9-10. sed est. «Ma in cambio riceverai una vera delizia, o ciò che vi è di più raffinato ed elegante»; meros amores («una vera delizia») è un’espressione colloquiale e un po’ manierata per indicare in questo caso l’unguentum.

[5] vv. 11-12. nam Cupidinesque. nam unguentum: la sinalefe nel primo piede dell’endecasillabo (tra nam e ung-, che costituiscono così metricamente una sola sillaba) è fenomeno piuttosto raro (in Catullo, si ritrova solo nel c. 55, vv. 4-5). Veneres Cupidinesque: è quasi una formula della poesia catulliana e indica le divinità che presiedono alla bellezza e alla seduzione. donarunt = donauerunt.

[6] vv. 13-14. quod nasum. totum è concordato con te: «te tutto quanto, tutto intero».