ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Tag: Cambiamenti culturali e dominazioni politiche
di E. JAMES, I barbari (trad. it. S. Guerrini), Bologna 2011,100-102.
Prima di Attila, il re degli Unni era stato Rua, il quale aveva inaugurato la politica del ricatto, costringendo gli imperatori romani a pagare ingenti somme di denaro dietro la minaccia d’invasione. Dal 435 circa, per una decina di anni, Attila governò insieme al fratello Bleda; poi, stando agli autori latini, nel 445 il fratricidio lo avrebbe reso unico detentore del potere. È difficile comprendere fino a che punto fosse ambizioso. Fu certamente molto abile nell’estorcere oro agli imperatori. Inizialmente gli imperatori d’Oriente avevano accettato di versare agli Unni 350 libbre d’oro all’anno che, dal 438, salirono a 700. Nel 447 Attila invase l’Impero arrivando a minacciare la stessa Costantinopoli e pretese tutti i territori entro una distanza di cinque giorni di viaggio a sud del Danubio, oltre a 2.100 libbre d’oro all’anno e 6.000 libbre di arretrati. È stato calcolato che, fino al momento in cui l’imperatore smise di pagare, agli Unni furono versate più di 9 tonnellate d’oro[1].
Mappa del mondo romano nel 450 [Schulteis 2019, 18].
Le quattro grandi invasioni di Attila riguardarono dapprima l’Oriente – dove avanzò su Costantinopoli nel 442 e nei Balcani nel 447 – e, successivamente, l’Occidente con l’invasione della Gallia nel 451 – fermata dalla coalizione di armate barbariche messa insieme da Ezio – e nel 452 dell’Italia, dove fu probabilmente arrestata dall’intervento di papa Leone I Magno anziché da un miracolo, come vorrebbe la leggenda[2]. Prisco di Panion racconta che quando Attila giunse a Mediolanum vide un dipinto che raffigurava gli imperatori romani assisi in trono con ai loro piedi i corpi di Goti uccisi; quindi, avrebbe ordinato a un pittore di ritrarre lui stesso assiso in trono con gli imperatori che rovesciavano sacchi ricolmi d’oro ai suoi piedi[3]. D’altra parte, è possibile che le sue ambizioni siano andate oltre la semplice estorsione di denaro, anche se è oltremodo problematico stabilire se dobbiamo considerare la richiesta d’aiuto rivoltagli da Onoria, sorella di Valentiniano III, come indizio del fatto che gli era stata promessa in sposa, o se egli abbia veramente preteso come dote di Onoria l’Impero d’Occidente. Se queste furono le sue ambizioni, non le realizzò. L’Impero romano, nonostante tutti i problemi, aveva ancora una considerevole capacità di resistenza tanto che nel 451, con una battaglia campale, fu in grado di arrestare la formidabile invasione della Gallia e, nel 452, di respingere l’invasione dell’Italia. Attila morì l’anno seguente. Sembra che abbia avuto un’epistassi mentre stava festeggiando con una sua concubina; alcuni, peraltro, sostennero che fu la concubina ad assassinarlo, mentre altri ancora dissero che Ezio avrebbe prezzolato una delle sue guardie del corpo per eliminarlo[4]. Resta il fatto che Attila morì e in un brevissimo volgere di tempo anche l’Impero che egli aveva costruito si dissolse.
Guerriero unno. Illustrazione di P. Glodek.
Per Attila possediamo uno dei testi più interessanti fra tutti quelli che riguardano Roma e i barbari: il resoconto di Prisco di Panion relativo a un’ambasceria fatta presso la corte di Attila nel 449. Se ne è conservato un lungo frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò nel suo libro sulle ambascerie. Prisco fece parte della delegazione guidata dall’ambasciatore Massimino. Il resoconto evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato. Prisco descrive i palazzi di legno del regno di Attila, uno dei quali comprendeva un impianto termale in pietra costruito in stile romano da uno schiavo che aveva inutilmente sperato di ottenere in cambio la libertà. Gli stessi segretari di Attila erano Romani e lessero un documento di papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuoriusciti unni che si trovavano presso i Romani e di cui Attila voleva la restituzione. Addirittura, Attila era talmente furibondo con l’ambasciatore perché i fuggiaschi non erano già stati riconsegnati da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli se non fosse stato che, così facendo, avrebbe infranto i diritti degli ambasciatori[5].
Mór Than, La festa di Attila. Olio su tela, 1870. Budapest, Magyar Nemzeti Galéria.
Fu in occasione del suo secondo incontro con Attila che qualcuno si rivolse a Prisco porgendogli il saluto in greco. Prisco aveva già incontrato in precedenza tra gli Unni persone che parlavano il greco, ovvero prigionieri che si potevano facilmente riconoscere come tali dalle vesti cenciose e dai capelli luridi. Ma quest’uomo assomigliava a uno Scita ben vestito e dall’acconciatura curata. Disse di essere un mercante greco di una città sul Danubio; era stato fatto schiavo dagli Unni ma, avendo combattuto per loro, aveva riacquistato la propria libertà; adesso aveva una moglie barbara e dei figli e sosteneva di condurre una vita migliore rispetto a quella di prima. Poi, dato che Prisco ribatté a questo atteggiamento antipatriottico, il suo interlocutore pianse e dichiarò che le leggi romane erano giuste e gli ordinamenti buoni, ma i governanti li stavano corrompendo perché non se ne preoccupavano più così come avevano fatto gli antichi[6]. Dal testo si deduce che Prisco ebbe la meglio nella discussione, ma poco tempo dopo un’argomentazione analoga fu riproposta a Prisco da uno degli uomini di Attila, un Unno che gli ribadì, appunto, il concetto di fondo espresso dall’anonimo greco, sostenendo che essere schiavi di Attila fosse preferibile all’essere ricchi tra i Romani[7]. Prisco e Massimino fecero infine ritorno in patria, ma non senza essere stati prima testimoni di alcuni esempi pratici delle severe leggi di Attila: una spia impalata e alcuni schiavi arrestati per aver ammazzato in battaglia i loro padroni.
Nessun’altra fonte di quell’epoca ci offre altrettanti dettagli (e, con ogni probabilità, piuttosto attendibili) sui meccanismi delle ambascerie presso i barbari, sulla vita in mezzo a loro e sulla natura complessa e sfaccettata dei rapporti tra Romani e barbari.
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Riferimenti bibliografici:
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[3] Priscus, F 22, 3 = Suid. μ 405 = K 2123, Μεδιόλανον: πολυάνθρωπος πόλις, ἣν καταλαβὼν Ἀττήλας ἠνδραποδίσατο. ὡς δὲ εἶδεν ἐν γραφῇ τοὺς μὲν Ῥωμαίων βασιλεῖς ἐπὶ χρυσῶν θρόνων καθημένους, Σκύθας δὲ ἀνῃρημένους καὶ πρὸ τῶν σφῶν ποδῶν κειμένους, ζητήσας ζωγράφον ἐκέλευσεν αὑτὸν μὲν γράφειν ἐπὶ θάκου, τοὺς δὲ Ῥωμαίων βασιλεῖς κωρύκους φέρειν ἐπὶ τῶν ὤμων καὶ χρυσὸν πρὸ τῶν αὑτοῦ χέειν ποδῶν («Milano: città molto popolosa, che Attila conquistò e sottomise. Come vide che in un affresco erano rappresentati gli imperatori romani2 assisi su troni aurei e alcuni Sciti uccisi giacenti ai loro piedi, mandò a cercare il pittore e gli ordinò di rappresentare lui stesso sul seggio e invece gli imperatori romani che recavano sacchi sulle spalle e ne versavano oro ai suoi piedi»)
L’acclamazione di Lucio Domizio Aureliano[1],magister equitum di Claudio[2], al soglio imperiale, avvenuta nel 270 d.C. a Sirmium, in Pannonia, nell’attuale Serbia[3], ristabiliva una prassi ormai consolidata: già da tempo, infatti, erano le gerarchie militari a scegliere l’imperator e l’avallo del Senato di Roma era una pura formalità. Inoltre, Aureliano apparteneva – tanto come il suo predecessore, Claudio il Gotico, quanto il suo successore, Probo – a quella covata di generali che dovevano la propria fortuna a Gallieno. Per la tradizione storiografica superstite, ancor più di Claudio II, il cui regno fu anche fin troppo breve, Aureliano rappresenta l’anti-Gallieno; e, in effetti, il nuovo Augustus dovette affrontare il difficile problema di rimarginare le ferite territoriali che l’Impero aveva subito proprio sotto Gallieno (253-268). Austerità, disciplina, rigore furono le virtutes che marcarono la figura di Aureliano nella tradizione, appunto, e probabilmente anche nei fatti, in contrapposizione all’“effemminato” Gallieno.
L. Domizio Aureliano. Busto, bronzo, III sec. d.C. ca. Brescia, Museo di S. Giulia.
Il tentativo da parte del Senato di eleggere imperatorQuintillo, fratello del defunto Cesare, non poteva che scontrarsi con lo strapotere dell’esercito[4]. Alla notizia della morte del fratello, infatti, lo stesso Quintilio, che presidiava Aquileia con una parte dell’esercito, fu abbandonato dai soldati e si tolse la vita[5]. Quanto ad Aureliano, anche lui di origini illirica[6], era stato vicinissimo a Claudio II e la sua designazione fu fatta accompagnare dalla voce, con ogni probabilità inventata ad arte, che lo stesso Claudio lo avesse scelto suo successore. Aureliano, inoltre, non fu certamente estraneo all’eliminazione di Manlio Acilio Aureolo, un ex generale di Gallieno, che avrebbe potuto essere un potenziale rivale nell’ascesa al potere[7].
Finalmente, senza più ostacoli, la prima decisione del nuovo imperator fu quella di recarsi immediatamente a Roma per ottenere la ratifica del Senato nella sua nuova dignitas: da qui, forse, un atteggiamento di reciproca diffidenza, se non ostilità, tra imperatore e Senato nel corso del suo regno. Volitivo e deciso rappresentante di quei quadri dell’esercito il cui potere si era ormai accresciuto a dismisura, il nuovo Cesare si trovò subito a confrontarsi con una serie di scorrerie organizzate dalle più diverse tribù germaniche: gli Juthungi, che tornavano in Raetia dopo essere penetrati in Italia, i Vandali, che avevano invaso la Pannonia, e gli ormai noti e sempre irrequieti Alamanni e Marcomanni[8].
Soldati romani ausiliari dell’età di Aureliano (III sec.). Illustrazione di G. Sumner.
Pertanto, prima di scendere a Roma a certificare la propria posizione, Aureliano si rendeva perfettamente conto che il problema degli sconfinamenti barbarici era della massima urgenza. Riprendendo la strategia del predecessore, l’imperator lasciò i propri presidi pannonici per dirigersi verso la Pianura padana per tagliare la via del ritorno al nemico: le orde juthungiche, infatti, dilagate in Italia settentrionale per fare bottino, venute a conoscenza dell’arrivo di un nuovo imperatore, tentarono di ritirarsi, ma furono intercettate dai Romani nei pressi del Danubio e sbaragliate. Non distrutti completamente, i barbari furono costretti a scendere a patti, ma le loro istanze di rinnovo dei precedenti trattati e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutate da Aureliano con estrema fermezza. In compenso, in quell’occasione, pare che egli abbia compiuto un gesto emblematico della sua personalità: davanti a tutto l’esercito schierato, ricevette gli emissari juthungici, accordò loro la pace, ma rifiutò il foedus (che avrebbe reso l’Impero tributario dei barbari), avvertendo così la controparte di un netto cambiamento di rotta nella politica imperiale[9].
Mappa dell’invasione della Raetia e dell’Italia settentrionale negli anni 268-271.
Compiute tali imprese, discese quindi a Roma per pretendere l’ufficializzazione della sua posizione imperatoria dalle mani del Senato. Assumendo la carica governativa, Aureliano ricevette un Impero diviso in tre parti: l’Imperium Galliarum, costituito dalle province più occidentali (Hispaniae, Galliae, Britannia), retto da Gaio Pio Esuvio Tetrico, in piena crisi interna ed esposto a continui sconfinamenti di incursori d’oltre Reno; in Oriente, Syria, Asia ed Aegyptus avevano defezionato a favore del Regno di Palmira, fondato da Settimio Odenato, e allora governato da Zenobia e dal figlio Settimio Vaballato[10].
Zenobia, Antoniniano, Antiochia apud Oronten, 272 d.C. AR 2,52 gr. Recto: S(eptimia) ZenobiaAug(usta). Busto drappeggiato, voltato a destra, con stephané e luna crescente.
Pur deciso a adempiere al suo compito, Aureliano doveva temporeggiare a causa delle insufficienti risorse militari: per quanto temprate da anni di esperienza sul campo, poteva contare solo su quattordici legioni, tutte schierate sul limes danubiano, ma sarebbe stato rischioso disimpegnarle da là e trasferirle su altri fronti. Quanto all’Imperium Galliarum, l’usurpatore Tetrico versava in una situazione forse più grave di quella di Roma, vessato dalle tribù germaniche e non in grado di perseguire alcuna politica di espansione[11]. Ben diversa era la condotta da tenere verso il Regnum Palmyrense, ormai all’apogeo: Aureliano dovette ricorrere a concessioni, riconoscendo al principe Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di vir consularis, rex, imperator e dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la propria effigie sul diritto (purché sul rovescio apparisse quella di Aureliano): in questo modo l’imperatore poté garantirsi, almeno formalmente, l’unità dell’Impero.
Aqmat, figlia di Hagagu, di Zebida con iscrizione. Busto a rilievo, pietra locale, fine II sec. d.C. da Palmira. London, British Museum.
Mentre si trovava ancora nell’Urbe, nel novembre del 270, Aureliano fu raggiunto dalla notizia di una nuova invasione che stava diffondendo il panico in Pannonia, rimasta sguarnita dopo l’impresa contro gli Juthungi[12]. Questa fu la volta dei Vandali Asdingi, al cui seguito militavano alcune bande di Sarmati Iazigi[13]. Il rapido intervento dell’imperator in persona costrinse l’orda a capitolare e a chiedere la pace. Aureliano, dopo essersi consultato con i suoi uomini, concesse l’armistizio, ma a patto che i capi barbari consegnassero in ostaggio molti dei loro figli e fornissero un contingente di cavalleria ausiliaria da 2.000 uomini; non potendo rifiutare, i razziatori accordarono quanto richiesto e poterono far rientro nei loro territori oltre Danubio[14]. Per questi successi l’imperatore ottenne l’appellativo di Sarmaticus maximus[15].
Scena di battaglia fra Romani e Sarmati. Bassorilievo, marmo, 113 d.C. ca. Dettaglio dalla Colonna Traiana (attribuito ad Apollodoro di Damasco).
Non era trascorso molto tempo che già una nuova minaccia si profilava all’orizzonte: stavolta si trattava di una cospicua invasione congiunta di Alamanni, Marcomanni e alcune bande juthungiche. Ancora una volta, Aureliano fu costretto ad accorrere verso l’Italia, ora che gli invasori avevano ormai superato i passi alpini. Raggiunto il cuore della Pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, nei pressi di Piacenza l’imperatore stesso fu colto da un’imboscata tesagli dalla coalizione nemica[16]. Se, da una parte, la pesante sconfitta inflisse un duro colpo all’immagine pubblica dell’imperatore, dall’altra, è vero che i vincitori non seppero coglierne i frutti, perché, spinti da un’irrefrenabile smania di bottino, si divisero in orde più piccole, sparpagliandosi in tutta l’area padana. Ciò permise all’imperatore di radunare nuovamente le forze e di dare la caccia ai razziatori. Con due scontri campali, uno a Fanum e uno a Ticinum, Aureliano riuscì a stornare la minaccia barbarica e a ricacciare i nemici al di là del limes danubiano[17].
Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.
Insomma, fin da subito l’attività dell’imperatore non si limitò alla semplice azione di contenimento: grazie all’esperienza delle campagne condotte vittoriosamente nel primo anno di regno, Aureliano concepì e attuò una radicale riforma territoriale e amministrativa dell’area del basso Danubio, finalizzata a facilitare il controllo di quell’area sulla lunga durata. Punto cardine dell’operazione fu una decisione sofferta, ma inevitabile: l’abbandono del territorio occupato a nord del fiume, divenuto ormai del tutto incontrollabile[18]. L’area dacica sulla sponda destra, invece, fu suddivisa in due province: la Dacia Ripensis, in cui si attestarono le due legioni che prima tenevano il territorio transdanubiano, e la Dacia Mediterranea, più a sud[19]. Quanto all’ex provincia di Dacia, Aureliano concesse ai Goti di stanziarvisi liberamente, attestando il limes romano sul Danubio[20].
Monumento funebre a un argentarius (P. Curtilius P.L. Agat. Faber Argentarius). Marmo, I sec. d.C. dall’Italia.
Nel 271, preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l’antica auctoritas, il nuovo imperatore, per conservare il potere, prese a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio in cui versava l’apparato amministrativo dell’Impero, zecca inclusa, promuovendo una riforma fiscale. E proprio mentre si apprestava a indagare e punire i reati commessi, in relazione alla coniazione delle monete d’argento, si scatenò una ribellione dei monetarii, gli addetti alla zecca di Roma: proprio quegli operai erano stati accusati di appropriazione indebita di metallo prezioso. Ben presto, tuttavia, la ribellione a tal punto da coinvolgere anche parte della popolazione urbana, alcuni membri del Senato, il praefectus Urbi e i funzionari dell’Aerarium: pare, inoltre, che a capo della sedizione si fosse posto Felicissimo il procurator fisci[21]. L’intervento dell’Augustus fu spietato e la sommossa fu repressa in modo estremamente cruento: tutti i magistrati e i maggiorenti coinvolti furono epurati. Per alcuni anni le attività della zecca furono sospese[22].
L. Domizio Aureliano, Antoniniano, Sciscia, 273 d.C. AR 4,26 gr. Recto: Imp(erator) C(aesar) Aurelianus Aug(ustus). Busto corazzato e radiato dell’imperatore, voltato a destra.
Fu in quella circostanza – pare – che l’imperator decise la fortificazione dell’Urbe con poderose mura merlate, intervallate ogni 30 metri da 381 torri a pianta rettangolare, e da 17 o 18 porte principali, per una circonferenza totale di dodici miglia[23]. Questa importantissima opera pubblica, ancora oggi nota come mura Aureliane, era sintomo di come ormai non fosse nemmeno sicuro il cuore dell’Impero[24].
Mura Aureliane, Roma.
Al di là delle pur pressanti questioni interne, il nodo da affrontare per Aureliano era, però, un altro: si trattava di tentare di ristabilire l’unità statale, minacciata dall’Imperium Galliarum e dall’incredibile espansione di Palmira in Oriente.
Il Regno palmireno, sotto la guida della geniale regina Zenobia, che agiva come reggente del giovane figlio Vaballato, aveva accresciuto enormemente la propria sfera d’influenza grazie a una serie di fortunate campagne militari, approfittando del momento di incertezza, seguito alla morte di Claudio II: dietro il paravento dell’incarico di corrector totius Orientis, affidato al defunto re Odenato dagli stessi Romani, Zenobia mirava ormai all’impero personale per sé e per il figlio[25]. Dopo un iniziale accordo con il potere centrale, si era avuta a livello ufficiale la ratifica di quella che già da tempo era una vera e propria usurpazione: dalla monetazione palmirena, infatti, era scomparsa l’effigie di Aureliano, sostituita da quella di Zenobia e di Vaballato, i quali si fregiavano del titolo di Augusti; era una vera e propria proclamazione di indipendenza da Roma e un’aperta dichiarazione di ostilità nei confronti dell’imperatore[26].
Tempio di Beelshamên. 131. Palmira.
In breve tempo le truppe di Zenobia si erano impadronite delle limitrofe province romane di Arabia, Aegyptus, Syria e parte dell’Asia Minore. Nell’ottobre 270 un corpo d’armata palmireno di 70.000 uomini, guidato dal generale Settimio Zabdas, aveva approfittato del fatto che il praefectus Aegypti, Teagino Probo, fosse impegnato con la flotta per combattere i pirati, e aveva occupato la provincia nilotica. L’ingresso dei Palmireni ad Alessandria fu salutato come un trionfo e una liberazione dai fautori della regina[27]. Zenobia aveva rivelato passo a passo i propri piani di conquista del potere: all’inizio, infatti, aveva presentato se stessa e il figlio come paladini degli interessi di Roma in Oriente; poi nel 271 si era autoproclamata Augusta e imperatrix Romanorum, reggente per conto di Vaballato. Inoltre, la regina non solo aveva stretto un accordo segreto con i Sasanidi, ma aveva persino cercato il consenso in certi ambienti cristiani, giudaici e intellettuali: ella diede il suo appoggio al vescovo eretico Paolo di Samosata perché si insediasse ad Antiochia e si servì dei consigli di importanti intellettuali del tempo, lo storico Nicostrato di Trapezunte, il sofista Callinico di Petra e il retore neoplatonico Cassio Longino[28].
Iscrizione in onore di Giulio Aurelio Zenobio, padre di Zenobia. Colonna, arenaria, III sec. d.C. Palmira.
Nel 272 Aureliano decise di passare ai fatti, inviando in Aegyptus la sua flotta, guidata da Marco Aurelio Probo, che recuperò la provincia senza colpo ferire, e congiuntamente occupando senza trovare resistenza la provincia di Bithynia[29]; poi conquistò le città di Ancyra[30] e Tyana (quest’ultima per tradimento), riservando nei confronti dei civili un trattamento mite al fine di sgretolare il consenso verso Zenobia[31]. Tale condotta fu tenuta dall’imperatore ogni volta che si trovò ad assediare una città orientale per tutto il corso della campagna.
Soldati palmireni. Illustrazione di A. McBride.
Perduto il controllo sull’Asia Minore e sull’Egitto, Zenobia ordinò a Zabdas di radunare l’esercito nel cuore del suo dominio e di attendere il nemico. Le truppe palmirene, composte da due legioni, arcieri e cavalleria pesante (i clibanarii), assembrate fuori dalla capitale siriaca, Antiochia sull’Oronte, mossero allora incontro all’imperatore, che fu intercettato sulle sponde del fiume, nella località di Immae. Aureliano, memore della sua esperienza di magister equitum, al primo assalto dei cavalieri palmireni, fiduciosi delle loro corazzature, ordinò alla fanteria di attestarsi al di là dell’Oronte e diede istruzione ai suoi cavalieri, più leggeri e veloci, di non contrattaccare il nemico, ma di andargli incontro e di simulare una ritirata tattica. Raccomandò loro di insistere in questo senso finché i clibanarii nemici, appesantiti dalle corazze e sfiancati dalla corsa, non avessero desistito dall’inseguimento. Solo in quel momento, gli equites avrebbero contrattaccato e distrutto gli avversari, mentre la fanteria e il grosso dell’esercito imperiale, varcato il fiume avrebbero attaccato sul fianco di Zabdas. Il Palmireno subì una pesantissima sconfitta[32].
Ritiratosi in fretta e furia entro le mura della città vicina, dove si era insediata anche la corte di Zenobia per meglio seguire gli eventi, nottetempo i Palmireni decisero di abbandonare la piazzaforte nelle mani di Aureliano.
Esempio di eques clibanarius. Illustrazione di S. James.
Significativa allo scopo di fiaccare gli avversari fu la decisione assunta dall’imperatore in merito alla comunità cristiana di Antiochia, quando conquistò la città: nel 264 un concilio di vescovi, tenutosi nella città sull’Oronte, aveva condannato la condotta e la dottrina di Paolo di Samosata e lo aveva sostituito con Donno[33]. Durante la spedizione di Aureliano contro Zenobia, il vescovo eretico aveva rivendicato il possesso della casa episcopale e aveva preteso la propria reintegrazione a capo della comunità dei fedeli. La diatriba, all’avviso di questi ultimi, aveva richiesto l’attenzione dell’imperator vittorioso, il quale stabilì una volta per tutte che l’ufficio pastorale spettasse al vescovo che fosse stato in comunione con quello romano e quelli d’Italia. In forza di questa sentenza, Paolo di Samosata fu bandito dalla città[34].
Statua di Tyche-Fortuna di Antiochia. Marmo, copia romana del I secolo d.C. da originale di Eutichide del III secolo a.C. Musei Vaticani.
Aureliano, dunque, venuto a sapere che i nemici si erano attestati nei pressi di Emesa, fu sul punto di muovere loro incontro. Tuttavia, avvisato della presenza di un nutrito contingente di arcieri collocato sulla cima della collina di Dafne, nei sobborghi di Antiochia, ordinò alle sue truppe di prendere l’altura e di eliminare quella potenziale spina nel fianco[35]. Alla notizia della brillante vittoria romana, le città di Apamea, Larissa e Aretusa, tutte sull’Oronte, aprirono le porte al passaggio del vincitore[36]. Aureliano si diresse alla volta di Emesa, dove lo attendevano i 70.000 Palmireni guidati dal solito Zabdas: ancora una volta il generalissimo di Zenobia, che, evidentemente, non aveva imparato la lezione, puntò tutto sulla cavalleria, in effetti, in superiorità numerica rispetto a quella romana. Inaspettatamente, l’imperatore, pur volgendo la battaglia a suo svantaggio, ricevette il rinforzo di contingenti da tutta l’area circostante, anche da quelli che avevano defezionato dalla causa di Zenobia, e riportò una vittoria schiacciante[37].
Divinità palmirene. (Da sinistra a destra) il dio lunare Agli-Bol, il dio supremo Beelshamên ed il dio solare Malakbêl. Calcare, I secolo da Bir Wereb (Wadi Miyah, Siria). Paris, Musée du Louvre
Zenobia, avendo deciso di ritirarsi nella propria capitale, nella concitazione della fuga, aveva dimenticato di recuperare il tesoro reale custodito in Emesa: qui l’imperatore, salutato dalla popolazione civile come un liberatore, fu riconosciuto come il prescelto di El-Gabal, il dio Sol Invictus. Per questa ragione, Aureliano stabilì di restaurare il santuario urbano e di assumere il culto del dio nel proprio pantheon personale[38].
Scutum. Legno e pelle, III sec. d.C. da Dura Europos. Yale University.
Dopo un breve assedio[39], anche Palmira, l’ultima resistenza, capitolò e la regina ribelle fu catturata, sorpresa a fuggire verso gli alleati sasanidi[40]. L’atteggiamento dell’imperatore fu, ancora una volta, deliberatamente di estrema mitezza: solo i funzionari, i consiglieri e i generali di Zenobia furono messi a morte. Solo la sovrana fu risparmiata, per servire al vincitore come preda eccellente da esibire nel trionfo[41].
Mappa della campagna orientale di Aureliano (272).
Nel 273, mentre si apprestava a fare rientro a Roma, Aureliano fu raggiunto dalla notizia che gli abitanti di Palmira si erano nuovamente ribellati, sobillati da un certo Apseo, e avevano cercato la connivenza del praefectus Mesopotamiae e rector Orientis, Marcellino. Siccome, però, quest’ultimo esitava, avevano cercato di innalzare alla porpora un parente di Zenobia, un certo Achilleo (o Antioco)[42]. Senza alcun indugio l’imperatore tornò indietro e sedò la rivolta: stavolta si mostrò duro e spietato, comminando esecuzioni sommarie e radendo al suolo la città; agli abitanti superstiti concesse la facoltà di riedificare il centro urbano[43]. Pacificato in questo modo l’Oriente, ottenuti gli appellativi di Palmyrenicus maximus[44], Adiabenicus[45], Parthicusmaximus[46], Persicus maximus[47], e soprattutto di Restitutor orbis[48], tornò nell’Urbe da trionfatore[49].
Tornato in Italia e respinti nuovamente gli Alamanni, Aureliano poté finalmente rivolgersi all’altro grande fattore di disgregazione dell’Impero: l’Imperium Galliarum. All’interno di quell’organismo statale la situazione era tutt’altro che tranquilla, anzi, probabilmente, versava in condizioni peggiori di quelle affrontate dal governo legittimo. Nel 271, infatti, l’usurpatore Marco Piavonio Vittorino era stato assassinato da uno dei suoi ufficiali e gli era succeduto Tetrico, già governatore dell’Aquitania, che aveva nominato il figlio omonimo prima Cesare e poi Augusto, associandoselo all’impero. Nel 274 Aureliano mosse guerra all’usurpatore gallico e le truppe romane affrontarono quelle nemiche in campo aperto, apud Catalaunos (Châlons-sur-Marne). La versione ufficiale vuole che Tetrico avesse contattato Aureliano prima della battaglia, chiedendogli di accoglierlo dalla sua parte e di aiutarlo per guerreggiare contro Faustino, che lo aveva spodestato nella sua capitale, Augusta Treverorum. Sta di fatto che, abbandonato dalla maggior parte dei suoi, Tetrico fu sconfitto in uno scontro sanguinoso e che accompagnò il trionfo di Aureliano insieme a Zenobia[50].
C. Pio Esuvio Tetrico, Doppio antoniniano, Colonia Agrippinensis o Augusta Treverorum, 271-274 d.C. Æ 5,62 gr. Recto: Imp(erator) TetricusP(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto radiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.
È curioso che sia la regina palmirena sia l’ex imperatore delle Galliae sarebbero stati risparmiati: l’una confinata a vita a Tivoli, l’altro perdonato e rivestito addirittura della carica di corrector Lucaniae et Bruttiorum, in ossequio alla sua dignità senatoria[51].
Nel 274, dunque, Aureliano aveva finalmente realizzato la restitutio imperii. Alla rinnovata unità politica egli volle far corrispondere l’unità ideologico-religiosa, promuovendo e anzi imponendo ai cittadini dell’Impero il culto del suo nume protettore, il Sol Invictus: quello tributato a questa divinità era un culto di ispirazione monoteistica e orientale, ed era tipico dell’elemento militare; stando così le cose, Aureliano, essendo il comandante in capo delle forze armate, era anche il sommo sacerdote del nuovo culto: insomma, in lui si realizzava una perfetta sintesi fra le istanze politiche e quelle spirituali (dominus et deus)[52]. Anche l’apparato e il cerimoniale di corte furono condizionati da questo monoteismo solare protettore dell’Impero e dell’Augusto al tempo stesso; l’imperatore fu il primo nella storia romana a indossare il diadema orientale e la corona radiata: queste novità dimostrano quanto la suggestione dello sconfitti Regno palmireno avesse colpito l’immaginario di Aureliano e, inoltre, celano i germi della concezione e rappresentazione dell’assolutismo e della sacralità del potere che avrebbero caratterizzato il successivo Dominatus. L’imperatore dedicò un colossale tempio al Sol Invictus, eretto presso le pendici del Quirinale, e pretese che fossero resi onori superiori a qualsiasi altra divinità[53].
L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Sol, radiato, stante, verso sinistra; regge nella mano sinistra un globo e la destra è alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi; in leggenda: Oriens Aug(usti).
Sotto il suo principato, nella città di Roma si incrementarono le distribuzioni gratuite agli aventi diritto di pane, carne di maiale, olio, sale e probabilmente anche vino: per queste si rese necessario creare alcune corporazioni di mestiere, indispensabili per assicurare la continuità del servizio, come i navicularii (battellieri) del Nilo e del Tevere, oppure i fornai di Roma.
Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.
Il sostegno materiale e logistico fu cercato attraverso una importante riforma monetaria, in un tentativo di miglioramento qualitativo del denaro: nella primavera del 274, infatti, Aureliano tentò di porre rimedio alla costante svalutazione della moneta d’argento e all’instabilità dell’emissione dei tipi aurei, ormai tendenti al ribasso. Secondo Zosimo, l’imperatore adottò nuove misure che avevano il loro punto focale nell’introduzione di una nuova moneta argentea (ἀργύριον νέον), ritirando, al contempo, i coni adulterati (τὸ κίβδηλον)[54]. Segno tangibile dei provvedimenti fu l’emissione di nuovi antoniniani, chiamati aurelianiani, dal peso medio di 1/50 di libbra[55].
Aureliano. Aureo. Mediolanum, 271-272 d.C., AV 4,70 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) L(ucius) Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore voltato verso destra, laureato e corazzato.
L’opera di risistemazione e di riaggregazione dell’Impero avrebbe dovuto avere un suggello nella vendetta contro i Sasanidi per la cattura di Valeriano: nel 275 Aureliano si mise in viaggio per raggiungere l’Asia Minore e da lì guidare una campagna contro il nemico orientale[56]. Mentre l’imperatore si trovava sulla via di Bisanzio, dove lo attendeva l’esercito, il liberto Erote, uno dei suoi segretari, più volte segnalato per malversazione, temendo la punizione del padrone, ordì una congiura contro di lui. Avendo una certa familiarità con le generalità e con i documenti dell’imperatore, conoscendone perfettamente la grafia, decise di stilare una lista di ufficiali sospettati di corruzione e di lesa maestà da processare e mettere a morte, siglandola con la firma dell’Augustus. Nell’accampamento di Caenophrurium, tra Perinto e Bisanzio, gli ufficiali della guardia pretoriana intercettarono il documento e, colti dall’ira, massacrarono l’imperatore[57].
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Note:
[1] Sulla figura di questo imperatore, essenziali sono le fonti citate già in E. Groag, s.v. Domitius(36) Aurelian, in RE V 1 (1903), coll. 1347-1419. Cfr., inoltre, J. Scarborough, Aurelian: Questions and Problems, CJ 68 (1973), pp. 334-345; S. Dmitriev, Traditions and Innovations in the Reign of Aurelian, CQ 54 (2004), pp. 568-578; U. Hartmann, Claudius Gothicus und Aurelianus, in K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser. Krise und Transformation des Römischen Reiches im 3. Jahrhundert n. Chr., I, Berlin 2008, pp. 297-323; si vd. anche la recente biografia di J.F. White, The Roman Emperor Aurelian, Barnsley 2016.
[3] Sull’appellatio imperatoria di Aureliano, cfr. C. Scarre, Chronicle of the Roman Emperors, New York 1999, p. 184; A. Watson, Aurelian and the Third Century, London-New York 1999, p. 45.
[4] Sul rapporto conflittuale con il Senato, si vd. R. Suski, Aurelian and the Senate. A Few Remarks upon Emperor Aurelian’s Policy of Political Nominations, in T. Derda et al. (eds), Euergesias charin. Studies presented to Benedetto Bravo and Ewa Wipszycka, Warsaw 2002, 279-291.
[5] Cfr. Zonar. XII 26. Su Quintillo, si vd. D.T. Barnes, Some Persons in the Historia Augusta, Phoenix 26 (1972), pp. 168-170.
[6] Sulle origini di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 1-2; Eutr. IX 13, 1; Aur. Vict. Caes. 35, 1.
[7] Cfr. S.H.A. III Aurel. 5, 1-3; Zonar. ibid.; Zos. I 41,1; M. Grant, Gli imperatori romani: storia e segreti, Roma 1984, p. 241; Aur. Vict. Caes. 33. Su Aureolo, in part., si vd. Barnes, 1972, p. 149.
[9] A proposito delle imprese dell’imperatore contro gli Juthungi, si vd. R.T. Saunders, Aurelian’s “Two” Juthungian Wars, Historia 41 (1992), pp. 311-327.
[10] Sul Regno di Palmira, si vd. D. Potter, Palmyra and Rome: Odaenathus’ Titulature and the Use of the Imperium Maius, ZPE 113 (1996), pp. 271-285; R. Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia Revolt against Rome, Michigan 1994. Sull’ascesa di Zenobia, si vd. P. Southern, Empress Zenobia: Palmyra’s Rebel Queen, 2008, pp. 84-92; T. Bryce, Ancient Syria: A Three Thousand Year History, Oxford 2014, p. 299. Per una discussione intorno alle fonti, si vd. D. Burgersdijk, Zenobia’s Biography in the Historia Augusta, TALANTA 36-37 (2004-2005), pp. 139-152. Si vd. ancora P. Jones, Rewriting Power. Zenobia, Aurelian, and the Historia Augusta, CW 109 (2016), pp. 221-233.
[11] Sulla figura di Tetrico, si vd. PIR², E 99; S. Estiot, Tétricus I et II : les apports de la statistique à la numismatique de l’empire gaulois, H&M 4 (1989), pp. 243-266; R. Ziegler, Kaiser Tetricus und der senatorische Adel, Tyche 18 (2003), pp. 223-232; M. Polfer, Tetricus I (AD 271–273), in De Imperatoribus Romanis: An Online Encyclopedia of Roman Rulers and Their Families [http://www.roman-emperors.org/tetrici.htm].
[13] S.H.A. III Aurel. 18, 2; Zos. I 48, 2; Watson, 1999, p. 217. Cfr. anche M. Colombo, La presenza di Sarmati e di altri popoli nei trionfi di Gallieno, Aureliano e Probo: contributo alla storia dei Sarmati e all’esegesi della Historia Augusta, Hermes 138 (2010), pp. 470-486.
[14] Si vd. Dexip. Scyth. fr. 7; cfr. Grant, 1984, p. 246.
[15]CIL III 13715; S.H.A. III Aurel. 30, 5; Watson, 1999, p. 221.
[16] Cfr. S.H.A. III Aurel. 21, 1-3; Watson, 1999, p. 50; D.S. Potter, The Roman Empire at Bay, AD 180-395, London-New York 2005, p. 269, sugli sviluppi successivi alla battaglia.
[17] Cfr. CIL IX, 6308; 6309. Si vd. anche S.H.A. III Aurel. 18, 4; 19, 4; Zos. I 49; Aur. Vict. Caes. 35, 2; Watson, 1999, pp. 51, 216 e sgg.; Grant, 1984, p. 246.
[18] Cfr. Watson, 1999, pp. 155-157; si vd. anche S.H.A. III Aurel. 39, 7; Eutr. IX.
[19] Su questa ripartizione, si vd. P. Petit, Histoire générale de l’Empire romain : La crise de l’Empire (des derniers Antonins à Dioclétien), Paris 1974, p. 482.
[20] Sul rapporto fra Aureliano e i Goti, e soprattutto sulla campagna contro Cannabaude, si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 2; Grant, 1984, p. 247; P. Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, London-New York 2001 p. 225. Sulla figura di Cannabaude, cfr. H. Wolfram, Die Goten, Münich 1990, p. 106; A. Goltz, Die Völker an der mittleren und nordöstlichen Reichsgrenze, in K-P. Johne, 2008, pp. 449-464 [p. 461].
[22] Cfr. S.H.A. III Aurel. 38, 2-4; Aur. Vict. Caes. 35, 6. Sulla rivolta dei monetarii, si vd. R. Turcan, Le délit des monétaires rebellés contre Aurélien, Latomus 28 (1969), pp. 948-959, e V. Cubelli, Aureliano imperatore: la rivolta dei monetieri e la cosiddetta riforma monetaria, Firenze 1992.
[23] L. Cozza, Roma: le Mura Aureliane dalla Porta Flaminia al Tevere, PBSR 57 (1989), pp. 1-5.
[25] Si vd. S.H.A. III Aurel. 22, 1. Cfr. R. Rémondon – A. Pastorino, La crisi dell’impero romano, da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975, p. 82.
[26] Sui tipi monetali dei sovrani palmireni, si vd. R. Bland, The Coinage of Vabalathus and Zenobia from Antioch and Alexandria, NC 171 (2011), pp. 133-186.
[27] Sulla conquista dell’Egitto da parte dei Palmireni, si vd. Zos. I 44.
[28] Sulla cultura di Zenobia, si vd. G. Bowersock, L’Ellenismo nel mondo tardoantico, Roma-Bari 1992, pp. 20-21. A proposito di Longino, si vd. J. Lamb, Longinus, the Dialectic, and the Practice of Mastery, ELH 60 (1993), pp. 545-567.
[29] S.H.A. III Aurel. 22, 4. Cfr. Bryce, 2014, p. 307.
[32] S.H.A. III Aurel. 25, 1; Zos. I 50, 2-4. Sulla vittoria a Immae, si vd., in particolare, G. Downey, Aurelian’s Victory over Zenobia at Immae, A.D. 272, TAPhA 81 (1950), pp. 57-68. Cfr. anche Bryce, 2014, p. 309.
[34] Cfr. F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third-Century Syria, JRS 61 (1971), pp. 1-17; K. Butcher, Roman Syria and the Near East, Malibu 2003, p. 378; Southern, 2008, p. 138.
[50] Sulla resa di Tetrico, si vd. E. Cizek, L’empereur Aurélien et son temps, Paris 1994, pp. 119-122. Sull’immagine dell’imperatore vittorioso sull’usurpatore gallico e sulla regina palmirena, si vd. A. Mastino – A. Ibba, L’imperatore pacator orbis, in M. Cassia et. al. (eds.), Pignora amicitia. Scritti di storia antica e di storiografia offerti a Mario Mazza, Catania 2012, pp. 192-196.
[51] Sul destino riservato a Zenobia, si vd., in particolare, S.H.A. III Tyr. Trig. 24; ma anche 30, 27; Eutr. IX 10-13; Grant, 1984, p. 248. A proposito di Tetrico, invece, si vd. S.H.A. III Tyr. Trig. 25, 1-4.
[52] A proposito dell’associazione della gens Aurelia al culto solare, si vd. J.C. Richard, Le culte de Sol et les Aurelii: à propos de Paul Fest. p. 22 L., in Mélanges offerts à Jacques Heurgon: L’Italie préromaine et la Rome républicaine, Rome 1976, pp. 915-925.
[53] Sulla dedicatio e sulla aedificatio del tempio, si vd. Jer. ab Abr. 2291 (275 d.C.); Cassiod. Chron. 990; S.H.A. III Aurel. 1, 3; 25, 4-6; 35, 3; 39, 2. Cfr. J. Calzini Gysens – F. Coarelli, s.v. Sol, templum, in E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV, Roma 1999, pp. 331-333
[55] Cfr. A. Savio, Monete romane, Roma 2001, p. 198, e G.G. Belloni, La moneta romana, Roma 2004, p. 263. Sulla riforma monetaria di Aureliano, in generale, si vd. R.A.G. Carson, The Reform of Aurelian, RN 7 (1965), pp. 225-235, W. Weiser, Die Münzreform des Aurelian, ZPE 53 (1983), pp. 279-295, e il più recente M. Haklai-Rotenberg, Aurelian’s Monetary Reform. Between Debasement and Public Trust, Chiron 41 (2011), pp. 1-40. Sulle conseguenze della riforma, si vd. C. Crisafulli, La riforma di Aureliano e la successiva circolazione monetale in Italia, in M. Asolati – G. Gorini (eds.), I ritrovamenti monetali e i processi storico-economici nel mondo antico, Padova 2012, pp. 255-282.
[56] A proposito delle intenzioni di Aureliano, si vd. S.H.A. III Aurel. 35, 4; Grant, 1984, p. 249; Watson, 1999, p. 102.
di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 76-84 = ID., E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 145-157.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 2r. Il ritratto di Terenzio sul frontespizio.
Un commediografo moderno, per un nuovo contesto culturale
Terenzio è stato, insieme a Plauto, il commediografo più significativo della letteratura latina. Se è vero che, all’epoca, le commedie del Sarsinate riscossero un consenso di pubblico ben più ampio, va tenuto presente che il teatro terenziano fu espressione degli ideali coltivati dalle nuove élite intellettuali di Roma e che proprio Terenzio, molto più di Plauto, è indispensabile per comprendere la letteratura latina del II secolo a.C. e i suoi sviluppi successivi.
Le pur controverse notizie biografiche antiche, infatti, inseriscono Terenzio al centro di quella che gli storici moderni usano chiamare l’«età degli Scipioni». Il suo debutto teatrale si colloca due anni dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), che segnò la definitiva vittoria sui Macedoni e che costituì un momento cruciale nell’affermazione di Roma in Oriente e nell’evoluzione dei suoi rapporti con la cultura ellenistica. Di qui in avanti, per circa vent’anni, si ebbe un lungo periodo di pace, in cui l’Urbe consolidò la propria posizione di potenza imperiale.
Ricostruzione a disegno della colonna, con fregio e statua, eretta a Delfi nel 167 a.C. da L. Emilio Paolo a seguito della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna. Copertina di H. Kähler, 1965.
La data di Pidna, il 168, è uno spartiacque anche da un secondo punto di vista: il trionfo di Lucio Emilio Paolo, che trascinava dietro al suo carro i tesori della corte macedone, fu quasi un simbolo dell’appropriazione di un mondo. In seguito alla vittoria furono deportati a Roma mille ostaggi achei, tra cui intellettuali, come lo storico Polibio: l’uomo che nella sua opera, per la prima volta da parte greca, svilupperà un matura riflessione sulle cause del successo di Roma come potenza egemone. L’appropriazione del mondo greco si sviluppò, dunque, su più livelli distinti: modificazioni nel gusto e nella mentalità, crescita dei consumi di lusso e dei consumi d’arte, interessi per nuovi modelli etici e ideologici (quest’ultimo aspetto prese forza attraverso nuovi modi di relazioni culturali). Un grande clan aristocratico romano, la gens Cornelia Scipiones, diventò un centro di elaborazione di cultura grecizzante, non più passivamente importata o mediata a un livello popolare, ma ricondotta alla più alta dignità teorica. In questo senso fu significativa la presenza presso gli Scipioni del grande filosofo stoico Panezio di Rodi, come dello stesso Polibio; mentre andava diffondendosi, con l’insegnamento di Cratete di Mallo (attivo nell’Urbe dal 168), un nuovo tipo di eloquenza e di dottrina retorica.
Il nuovo indirizzo culturale e ideologico, che trovava il suo centro di propagazione nel circolo degli Scipioni, portò proprio con Terenzio a innovazioni importanti anche nella poesia scenica.
Una biografia incerta e romanzata
Della biografia di Terenzio poco può essere stabilito con certezza. Originario di Cartagine, come attesta anche il suo cognomen (Afer, «Africano»), il poeta sarebbe nato intorno al 185/4 a.C.; tuttavia, il fatto che quest’ultimo sia attestato come l’anno della scomparsa di Plauto rende la notizia sospetta – era usuale nelle biografie antiche sincronizzare le date di nascita e di morte di autori che venivano, in qualche modo, a “succedersi” nell’eccellenza in un determinato genere letterario), e oggi appare più probabile una data di circa dieci anni anteriore. Anche l’aneddoto secondo cui Terenzio avrebbe letto il suo primo lavoro – l’Andria – al grande commediografo Cecilio Stazio, ricevendone incoraggiamento, potrebbe essere costruito apposta per collegare due diverse generazioni letterarie. In ogni caso, a pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra punica, il poeta sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore Terenzio Lucano, anche se non è chiaro in quale precisa occasione.
Tutte le fonti antiche sottolineano gli stretti rapporti di Terenzio con Scipione Emiliano e Lelio, che furono sicuramente suoi protettori. E il poeta stesso, in alcune commedie, accenna al sostegno ricevuto da illustri amici (Heautontimorùmenos, v. 23 ss.; Adelphoe, v. 15 ss.). Su questi rapporti correvano all’epoca voci denigratorie di vario tipo, secondo cui i veri autori delle opere terenziane sarebbero stati gli stessi Scipione e Lelio (questo tipo di illazione ha paralleli, com’è noto, anche nella biografia di Shakespeare). È chiaro che queste dicerie vadano inquadrate nel clima della rovente polemica letteraria e politica che caratterizzava quegli anni.
Terenzio sarebbe morto nel 159, o comunque ben prima della Terza guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali. Il dato, se autentico, è interessante, perché questo tipo di viaggio sarebbe ben presto divenuto caratteristico nella formazione dei Romani colti (un episodio del genere è riferito, per esempio, anche a proposito della scomparsa di Virgilio). I dettagli sulle circostanze della morte (Terenzio sarebbe annegato) sono poco credibili e fanno pensare a un voluto accostamento con la morte per annegamento attestata anche per il grande commediografo greco Menandro, suo riconosciuto ispiratore.
Il riferimento principale alla biografia terenziana è la Vita Terentii, contenuta nel De viris illustribus di Svetonio (composta intorno al 100 d.C. e tramandata come introduzione al commento a Terenzio di Elio Donato, del IV secolo d.C.). Svetonio utilizzava ampiamente eruditi di età repubblicana, ma la qualità delle sue informazioni è controversa, dato che molti particolari della vita erano oggetto – fin dai tempi stessi di Terenzio – di voci contrastanti e di polemiche. Il commento di Donato è una delle migliori opere del genere giunte fino ad oggi, e trasmette buone informazioni su questioni di tecnica teatrale e di messa in scena delle commedie.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 3r. Maschere.
Le sei commedie superstiti
Di Terenzio restano sei commedie tramandate per intero, la cui estensione ammonta complessivamente a circa 6.000 versi. La cronologia è attestata con sufficiente precisione dalle didascalie anteposte alle singole opere nei manoscritti medievali, nelle quali è confluita gran parte del lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici tardoantichi.
I modelli greci utilizzati da Terenzio, e dichiarati nei prologhi, appartengono tutti alla tradizione della Commedia Nuova greca: Menandro, Difilo e il meno celebre Apollodoro di Caristo (commediografo greco del III sec. a.C.). Gli intrecci terenziani non si discostano dunque da quelli caratteristici del modello ellenico e della palliata tradizionale romana: giovani innamorati, genitori che li contrastano, schiavi indaffarati a soddisfare i desideri dei loro padroncini e, quasi sempre, alla fine, il riconoscimento che risolve la situazione.
Di seguito si offre un breve riassunto della trama di ciascuna delle sei commedie superstiti:
Andria| Modello greco è l’omonima commedia di Menandro, contaminata con la Perinthiadello stesso autore. La ragazza di Andro, da cui il titolo dell’opera, è Glicerio, abbandonata nella fanciullezza e allevata da una cortigiana. Di lei si innamora Pànfilo, già fidanzato con Filùmena, figlia di Cremète. Quest’ultimo, informato della relazione adulterina del genero, va su tutte le furie e manda a monte le nozze del giovane con Filùmena, nonostante i tentativi del padre di Pànfilo di salvare il matrimonio, già da tempo combinato. La situazione si complica per i tentativi piuttosto goffi di Davo, servo del giovane, di aiutare il padroncino. L’intreccio si scioglie con l’agnizione finale: si scopre, infatti, che anche Glicerio è figlia di Cremète, il quale, senza difficoltà, la concede in sposa a Pànfilo al posto di Filùmena.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 10v. Andr. III vv. 459-480. Scena con Lesbia, Glicerio, Miside, Panfilo, Davo e Simone.
Hècyra | Commedia dalla sorte particolarmente travagliata, rielabora un testo dallo stesso titolo (che significa «La suocera») di Apollodoro di Caristo, contaminato con gli Epitrèpontes(«L’arbitrato») di Menandro. La trama ruota attorno al personaggio di Sòstrata, madre di Pànfilo e suocera di Filùmena. Sòstrata è un personaggio completamente diverso dalla figura stereotipata della madre gelosa del figlio e ostile alla nuora; anzi, si adopera ad appianare le gravi incomprensioni fra i due promessi sposi. Si scopre, infatti, che Filùmena, prima del matrimonio, è stata messa incinta da uno sconosciuto durante un festino notturno; Pànfilo vorrebbe abbandonarla, ma, alla fine, risulterà che è stato lo stesso giovane a mettere incinta la fidanzata. Conquistato dall’indole dolce e remissiva della moglie, Pànfilo si riconcilia con lei, rinunciando all’amore per la cortigiana Bacchide, la quale si adopra anch’essa per favorire la riconciliazione fra gli sposi.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 68v. Sostrata.
Heautontimorùmenos| Il titolo greco (Terenzio rielabora un’omonima commedia di Menandro) significa «Il punitore di se stesso». Protagonista è il vecchio Menedèmo, che per punirsi di aver spinto suo figlio Clinia ad arruolarsi in Asia, ostacolandone le nozze con una ragazza di umili origini, si è autocondannato a lavorare duramente la terra con le proprie mani fino al ritorno del giovane. Quando questi rientra in patria, il vecchio lo accoglie con un affetto più intenso e maturo; e, dopo una serie di imbrogli e di equivoci, Clinia riesce anche a sposare la ragazza che da tempo amava – nel frattempo, costei si è rivelata essere figlia di Cremète, amico di Menedèmo.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.
Eunuchus| Rielaborazione di una commedia omonima menandrea, commista di alcune situazioni tratte dal Kòlax(«L’adulatore») dello stesso autore greco. L’etera Taide, concubina del soldato Trasone, è, in realtà, innamorata del giovane Fedria. Trasone riporta alla compagna Pànfila, una ragazzina che le era cresciuta accanto come una sorella e successivamente era stata venduta come serva. Il fratello di Fedria, Cherea, innamoratosi di Pànfila, si traveste da eunuco per farsi consegnare in custodia la ragazza. Trasone, geloso di Fedria, vorrebbe riprendere con la forza Pànfila a Taide, ma è costretto a lasciar perdere. Il falso eunuco viene smascherato, ma si scopre che Pànfila era una cittadina ateniese e Cherea può sposarla; Taide, invece, decide di tenersi Fedria come amico del cuore.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 30v. Cherea vestito da eunuco.
Phormio| Modello è l’Epidikazòmenos («Il pretendente») di Apollonio di Caristo. Il parassita Formione, attraverso svariate peripezie, riesce ad aiutare due cugini, Fedria e Antifone, a sposare le ragazze di cui sono rispettivamente innamorati. Anche qui funziona il meccanismo dell’agnizione, perché, verso la fine del dramma, si scopre che Fanio, amata da Antifone, finora creduta orfana, è, in realtà, la figlia illegittima di Cremète, padre di Fedria e zio dello stesso Antifone.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 81r. Dialogo tra Formione e Geta.
Adelphoe| Rielabora la commedia menandrea dallo stesso titolo («I fratelli»), traendo tuttavia una scena dai Synapothnèskontes(«Coloro che muoiono insieme») di Difilo. Si mette a confronto due diversi sistemi di educazione: Demea ha allevato con grande rigore il figlio Ctesifone, mentre ha concesso in adozione l’altro figlio, Eschino, al fratello Micione, che lo ha educato nella più grande libertà. Demea considera Eschino uno scapestrato corrotto dal lassismo del fratello, e la sua opinione si rinsalda quando si viene a sapere che il ragazzo ha rapito una fanciulla. Ma, in realtà, Eschino ha commesso il rapimento per conto del fratello, che Demea considera irreprensibile. Dopo varie vicissitudini, tutto si appiana: la commedia, però, ha un finale di difficile interpretazione, dove Demea sembra formulare, quasi con dispetto, più che con sincera convinzione, il proposito di adottare i metodi permissivi – facili, ma pericolosi – del fratello e di mostrarsi, d’ora in poi, condiscendente con tutti.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 52r. Ad. I vv. 49-80; 81-89. Dialogo fra Demea e Micione.
Il declino del teatro popolare e la nascita di un teatro d’élite
La novità del teatro terenziano non si fonda solo su un profondo ripensamento della tecnica teatrale rispetto ai modelli della tradizione, ma – come si è anticipato – si fa portavoce delle istanze culturali provenienti da settori importanti delle élite politiche romane del II secolo, particolarmente influenzate dalla cultura greca e decise a diffondere i propri ideali attraverso un rinnovamento in campo letterario e artistico, anche a prezzo di deludere le aspettative del grande pubblico.
Con Plauto, infatti, il genere comico era stato un ineguagliabile momento di intrattenimento popolare. Poco importa, da questo punto di vista, quanto fosse profondamente raffinata l’arte plautina, con la sua imprevedibile fantasia ritmica e verbale. Di fatto, le commedie di Plauto riuscivano ad avere successo presso il grande pubblico quanto nessun’altra forma di comunicazione letteraria del tempo. Sicuramente Plauto divertiva e appassionava anche chi non fosse per nulla sensibile alle problematiche culturali degli originali menandrei. Sul piano dei contenuti, infatti, il suo teatro non sottoponeva il pubblico a sforzi di apprendimento e di meditazione: tutto era assorbito e bruciato dal fuoco di fila delle invenzioni comiche. Le trame offrivano gli spettatori un convenzionale canovaccio di riferimento, senza che si scavasse troppo nella psicologia dei personaggi in azione.
Anche il teatro di Terenzio accettò l’inquadramento convenzionale e ripetitivo di queste trame, senza produrre alcuno sforzo di originalità. Ma, a differenza di Plauto, l’interesse non era nel gioco verbale da cui scaturiva l’effetto comico; ora l’attenzione era tutta rivolta ai significati, cioè alla sostanza umana messa in gioco dagli intrecci della commedia stessa. Nella sua opera Terenzio si propose quindi il difficile compito di servirsi di un genere tradizionale e fondamentalmente popolare per comunicare sensibilità e interessi nuovi, maturati nell’ambito ristretto di una élite, sociale e culturale insieme. Le gravi difficoltà da lui incontrate nel rapporto con il pubblico (e con alcuni colleghi teatranti) si possono ricondurre a questa tensione innovativa.
Tra le commedie rimaste, una in particolare, l’Hècyra, ebbe una sorte esemplarmente infelice presso il pubblico romano: alla prima rappresentazione, nel 165, gli spettatori le preferirono un’esibizione di funamboli, nonostante la bravura di Ambivio Turpione, l’attore e impresario teatrale di tutte le commedie terenziane); alla seconda, nel 160, tutti se ne andarono, quando – nel bel mezzo della rappresentazione – si sparse la voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori; solo alla terza (ancora nel 160) lo spettacolo poté arrivare a conclusione.
Attore con maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Villa di Cicerone, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Un teatro di individui, non di maschere | Le vicende delle commedie terenziane sono sintomatiche del declino del teatro popolare latino – che, nell’epoca successiva, sarebbe andato rapidamente accelerando – e del progressivo divaricarsi dei gusti del pubblico di massa e dell’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca. In effetti, il teatro di Terenzio mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica; all’autore interessa soprattutto l’approfondimento psicologico dei personaggi e per questo rinuncia all’esuberanza comico-fantastica, che tanto aveva contribuito al successo del teatro plautino. Ma è bene intendersi: spesso Terenzio, più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, sembra interessato a quella di tipi umani: il giovane innamorato, la ragazza a lui teneramente devota, il padre tradizionalista e preoccupato per la felicità del figlio, la prostituta capace di buoni sentimenti e di genuino altruismo.
Per questo motivo alcuni critici moderni, non senza una certa forzatura, hanno potuto accostare il teatro terenziano ai Caratteridi Teofrasto (IV sec. a.C.). Tuttavia, benché tipizzati, anche se non dotati di forte personalità individuale, i personaggi di Terenzio sono spesso anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, ma anzi pensosa della felicità della nuora, o la prostituta moralmente migliore di tanta gente “perbene” sono i caratteri largamente innovativi rispetto alle aspettative del pubblico. L’approfondimento psicologico comportava una notevole riduzione della comicità, che avrà senz’altro contribuito allo scarso successo dell’autore presso il pubblico di massa: attraverso la rappresentazione di una suocera arcigna e brontolona, o di una cortigiana avida, strappare qualche risata sarebbe sicuramente risultato più facile.
L’humanitas | La palliata latina era sempre stata, per sua natura, ancorata alle situazioni familiari: suoi tipi fissi erano il giovane innamorato e scapestrato e il vecchio padre ingannato. In Terenzio, invece, questi rapporti diventarono veramente autentici legami umani, sentiti con maggiore serietà problematica.
Questo approfondimento rifletteva insieme la sincera adesione al modello di Menandro e la circolazione di ideali “umanistici” di origine ellenica nelle cerchie più evolute della Roma contemporanea. Così si spiega l’introduzione di un concetto chiave come quello di humanitas– influenzato dal greco φιλανθρωπία – che trova la sua espressione più significativa in una famosa battuta dell’Heautontimorùmenos, homo sum: humani nihil a me alienum puto (che è diventata un po’ l’emblema dell’ideale classico dell’humanitas). Questa elaborazione concettuale, ovviamente, non rappresenta un’isolata invenzione di Terenzio, ma è in piena sintonia con la cultura dell’età scipionica. In questo concetto («riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo», come è formulato da Alfonso Traina) confluiscono vari filoni del pensiero greco, ma tipicamente romana è la sintesi costruttiva e “ottimistica” dell’ideale umanistico, ispirato da pragmatismo attivo.
La consapevole rinuncia allavis comica | L’elemento che a Giulio Cesare appariva come il difetto principale dell’arte di Terenzio era l’assenza di vis(«slancio», «energia») della sua virtus comica. Tale mancanza dipendeva, tuttavia, da una scelta consapevole del poeta e non da una sua presunta incapacità di scrivere commedie improntate al gusto della palliata tradizionale.
Non è certamente casuale che la commedia terenziana di maggior successo presso i suoi contemporanei – l’Eunuchus – sia pure quella in cui meno si affacciassero questi temi psicologici e umanistici. Si trattava, infatti, del più riuscito tentativo da parte dell’autore in direzione della comicità plautina: il dramma mette in scena un romanzesco travestimento (un giovane si finge eunuco per avere in consegna l’amata) e un burlesco personaggio (plautineggiante) del «soldato fanfarone». In ogni caso, la notevole qualità di questo testo dimostra in Terenzio anche delle attitudini puramente comiche e drammaturgiche, che spesso la critica moderna è stata portata a sottovalutare.
Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.
La poetica e il rapporto con i modelli
Sebbene la sua fortuna «scolastica» abbia condizionato la sua immagine letteraria, sarebbe sbagliato pensare a Terenzio come a una sorta di predicatore o di autore educativo, in quanto il suo interesse per i contenuti morali e culturali non andava mai a discapito della tecnica drammaturgica. Al contrario, egli è stato uno dei letterati latini più professionali, più consapevoli degli aspetti tecnici del proprio mestiere. Le sue preferenze per la Commedia Nuova e, in particolare, per Menandro mostrano bene la coesistenza di questi due aspetti: il poeta ateniese gli offriva sia un modello culturale – collegato all’interesse di Terenzio per valori come l’humanitas – sia un modello letterario, vale a dire un raffinato esempio di stile e di tecnica drammatica. Proprio lavorando a fondo sui modelli ellenici, Terenzio trovò modo di esprimere sia la propria impostazione ideale sia la propria vocazione letteraria.
Il rispetto dell’illusione scenica e la rinuncia al metateatro | Le commedie di Menandro erano state – come si è visto – un modello importante anche per Plauto, ma questi non era stato particolarmente aderente a quell’esempio: la verosimiglianza, il cardine della poetica menandrea, non fu per Plauto un valore assoluto. Nella palliata plautina, infatti, il gioco scenico finiva facilmente per diventare fine a se stesso, mettendo in crisi l’aderenza alla realtà dell’intreccio drammatico: è ciò che è stato definito “metateatro” plautino.
Terenzio curò, invece, molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica: lo sviluppo dell’azione non prevedeva mai esiti “metateatrali”. Venivano anche rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che non avessero diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico, ma che si rivolgevano liberamente al pubblico (interrompendo l’illusione scenica e rivelando così, come un commento esterno all’azione, quale fosse il meccanismo drammatico che regolava e costruiva l’invenzione comica). In pratica, la palliata di Terenzio non apriva al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione venivano tutti concentrati nello spazio del prologo.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 35v. Prologo dell’Heautontimorumenos.
La nuova funzione del prologo | Nella Commedia Nuova il prologo era generalmente concepito come uno spazio espositivo, in cui l’autore dava informazioni preliminari necessarie alla comprensione della trama (non erano illustrati solo gli antefatti dell’azione, ma si anticipava anche una parte dello sviluppo e si accennava allo scioglimento finale: la scena di agnizione o simili colpi di scena). Questo metteva il pubblico in una posizione “panoramica”, più attenta allo sviluppo dell’azione e capace di apprezzare gli effetti di ironia via via impliciti nella situazione scenica (equivoci, errori di prospettiva, ecc.).
L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto al teatro plautino. Il poeta rinunciava a usare i prologhi in funzione informativa, anche a costo di qualche oscurità nello svolgimento dell’intreccio, e li adoperava, invece, per esprimere personali prese di posizione in rapporto alla commedia di volta in volta messa in scena: chiariva il rapporto con i modelli greci utilizzati e rispondeva a critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo nuovo tipo di prologo presupponeva un pubblico più colto rispetto a quello delle commedie plautine, un pubblico più attento a problemi di gusto e di tecnica, e senz’altro anche più ristretto e selezionato.
Questo uso dei prologhi rendeva Terenzio avvicinabile a figure come Ennio, Accio e Lucilio, che nella loro pratica letteraria davano sempre più spazio a momenti di riflessione critica e poetica, avvicinandosi così all’ideale alessandrino del «poeta-filologo». Non a caso, Terenzio tendeva a sottolineare il suo distacco dalla “vecchia” generazione di commediografi, che comprendeva i poeti raccolti intorno ai grandi nomi di Plauto e di Cecilio Stazio. Il principale avversario, che Terenzio citava indirettamente nei suoi prologhi, era noto da altre fonti come un poeta comico minore, Luscio di Lanuvio.
Menandro. Busto, copia romana da originale di Cefisodoto il Giovane e Timarco di Prassitele (IV sec. a.C.). Moskow Hermitage.
La contaminatio | Nel prologo dell’Andria Terenzio ribatte all’accusa di contaminare fabulas (v. 16), cioè, a quanto pare, di “rovinare” i suoi modelli greci creando inopportune mescolanze, ibridi di testi diversi (da qui gli studiosi moderni hanno adottato il termine «contaminazione» per indicare, in genere, la tecnica di incrociare modelli letterari diversi in un unico testo). Il poeta sottolinea che anche i tanto venerati Nevio, Plauto, Ennio non fecero diversamente con i loro modelli greci. Così, per esempio, la prima scena dell’Andria è tratta da un’altra commedia di Menandro, la Perinthia, dove tuttavia, a quanto si apprende da Donato, Terenzio avrebbe sostituito a un dialogo tra marito e moglie un dialogo tra padrone e servo. Ben si comprende, dunque, come la contaminatio non fosse un processo di trasposizione meccanica.
A quale idea dell’azione drammatica sia funzionale la contaminatio è spiegato nel prologo dell’Heautontimorùmenos, dove Terenzio contrappone un tipo di commedia «statica» (stataria) a una commedia piena di effetti e con azione assai movimentata (motoria è chiamata nel commento di Donato). Quello che viene rifiutato è, in sostanza, la farsa popolare di tipo plautino, con le sue scene animate da inseguimenti e litigi e i suoi personaggi caricaturali: «Perché non tocchi sempre far la parte del servo che corre, del vecchio arrabbiato, / del vorace scroccone, del sicofante sfrontato, / dell’avido lenone a me che sono anziano» (vv. 37 ss.). È chiaro che Terenzio opponeva a questo stile sanguigno un ideale di arte più riflessiva, più attenta alle sfumature, più verosimile: insomma, un’arte tale da fondare l’azione drammatica sul dialogo, non sul movimento scenico e sul clamore.
Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull’uso dei modelli greci (adattamenti, contaminazioni, ecc.) sono per i moderni difficili da riscontrare nella pratica, perché dei suoi originali – per esempio, i testi di Menandro da lui citati come fonte nei prologhi – non sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Il problema dell’originalità è perciò difficile da analizzare in modo definitivo. Ciò che si riesce a distinguere è che Terenzio si attenne piuttosto fedelmente alle linee degli intrecci menandrei, senza tuttavia mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccavano. Ciò riporta ai contenuti della sua arte, che riguardano i caratteri e i problemi di un’umanità “borghese”.
Lo stile e la lingua: una rivoluzione sottovoce
Nel nuovo contesto dell’età degli Scipioni e nell’ottica di una personale e originale rielaborazione dei modelli greci, è comprensibile che lo stile espressivo di Terenzio (proprio perché l’autore stesso non intese metterlo in primo piano) fosse, in genere, l’aspetto più trascurato dalla critica e dai lettori. La prima superficiale impressione è quella di una piatta uniformità, soprattutto per chi mette a confronto la lingua terenziana con l’indiavolata “officina verbale” di Plauto.
Tuttavia, una considerazione più attenta dello stile può dire molto sulla poetica e sulle intenzioni di Terenzio. I suoi personaggi non si abbandonano a tirate imprevedibili, dense di immagini e di giochi ritmico-verbali, dove si rimescolano parodie letterarie, doppi sensi, metafore e allusioni di ogni tipo; l’impressione è più vicina a quella di una conversazione quotidiana. L’elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina (e del teatro latino, in genere, si potrebbe dire) è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile (un concetto che aveva preso sempre più importanza nella letteratura e nell’estetica greca di età ellenistica).
Guardando il linguaggio adottato dal poeta alla luce di Plauto, sembra che la materia linguistica sia stata selezionata, perfino addirittura censurata. Acquistano spazio, invece – ed è sintomatico –, le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l’analisi psicologica dei caratteri. In sei commedie, tutte incentrate su intrighi d’amore, la parola «bacio» (come ha osservato Alfonso Traina) non compare più di due volte in tutto. In Terenzio gli innamorati non si baciano, di regola; e si parla poco, in genere, di corpi, di mangiare, di bere, e naturalmente di sesso; i personaggi non usano scambiarsi crude parole di insulto, né quelle della lingua quotidiana, né quelle reinventate dalla creatività poetica (come accadeva, invece, in Aristofane e in Plauto). Le figure socialmente più basse della palliata – il servo, l’etera, il parassita – sono presenti anche qui, ma non portano in scena la loro particolare carica linguistica.
La restrizione, o la censura, del linguaggio serve, come si è visto, ad assicurare il predominio di certi contenuti. Eppure, ci si può chiedere che effetto facesse questo tipo di linguaggio sul pubblico romano del tempo. È chiaro che, in un certo senso, lo stile medio e pacato di Terenzio fosse più quotidiano di quello plautino, ma ciò non significa assolutamente che Terenzio, per essere verosimile, riproducesse realisticamente la parlata colloquiale dell’epoca. Egli si adeguava, sì, a una lingua in qualche modo reale e realmente parlata, ma si trattava nondimeno di un lessico settoriale, utilizzato dalle classi urbane di buona educazione e cultura. L’effetto doveva essere piuttosto idealizzato rispetto ai gusti del pubblico romano. Il più celebre e citato giudizio critico su Terenzio, dovuto alla penna di Cesare, insisteva appunto su questa tendenza idealizzante del suo stile, definito puri sermonis amator.
La restrizione, o selezione, del lessico aveva, quindi, il suo corrispettivo nella forte riduzione della varietà metrica rispetto a Plauto e ai suoi numeri innumeri: sono, perciò, scarse le parti propriamente liriche, mentre molto contenuta è l’estensione dei cantica (parti cantate o declamate con l’accompagnamento musicale) in rapporto ai diverbia (parti recitative).
Fattucchiera e due donne. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La fortuna di Terenzio
Non tutte le commedie di Terenzio – si è detto – ebbero successo di fronte all’impaziente pubblico del tempo: sono note, infatti, le vicende della difficile rappresentazione dell’Hècyra. Volcacio Sedigito, poeta del II secolo più volte ricordato per la sua graduatoria poetica (“canone”), poneva Terenzio soltanto al sesto posto, non solo dopo Cecilio Stazio, Plauto e Nevio, ma pure dopo due commediografi minori, Licinio Imbrice e Atilio, che seguirono probabilmente le orme di Plauto.
Eppure, Terenzio continuò a tenere la scena anche dopo la sua scomparsa ed ebbe sempre il favore dei critici più dotti e sensibili, che apprezzarono soprattutto la purezza del suo linguaggio (la lingua urbana dei ceti colti, si è detto), nonché la raffinatezza dello stile. Cicerone, nell’epigramma esametrico riportato nella Vita Terenti, attribuisce al poeta un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a una certa urbanità (come loquens) e a una spiccata dolcezza del dire (omnia dulcia dicens). Cesare, negli esametri più volte citati, che gli sono attribuiti nella stesa Vita svetoniana, pone Terenzio tra i comici sommi e lo definisce, come si è visto, «innamorato della purezza di linguaggio», ma lo giudicò «un Menandro dimezzato» (dimidius Menander), per mancanza di vis comica.
Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (soprattutto da S. Agostino), purezza di lingua che faceva di Terenzio un modello di stile: queste furono le cause che introdussero ben presto le commedie del poeta nella scuola. E con la scuola vennero i commenti, come quello, più volte ricordato, di Elio Donato.
Nel X secolo Rosvita, monaca del monastero tedesco di Gandersheim, compose sei commedie in prosa rimata modellate sulle commedie terenziane: intrecci di storie edificanti con il cristiano lieto fine del trionfo della virtù.
Il Medioevo, come l’Antichità, dedicò commenti a Terenzio. Dante citava dei versi terenziani, forse mediati da Cicerone. Il Rinascimento rinnovò l’interesse per il suo teatro attraverso volgarizzamenti e adattamenti poetici: perdute sono le traduzioni di alcune commedie fatte dall’Ariosto per il teatro degli Estensi, mentre si conserva la traduzione dell’Andria fornita dal Machiavelli.
Molière fu grande ammiratore e imitatore di Terenzio. E dal Seicento in poi furono molte le traduzioni delle commedie terenziane nelle varie lingue europee.
Una così eccezionale fortuna, dovuta principalmente – come si è visto – ai contenuti «educativi» del suo teatro, ha portato forse la critica moderna a sottolineare troppo in Terenzio una sorta di impegno etico-sociale; rimane comunque indispensabile valutare questa esperienza artistica nel concreto quadro della cultura romana di «età scipionica» e anche, per quanto possibile, in rapporto alla letteratura drammaturgica greca che gli servì da ispirazione.
Bibliografia
Edizioni critiche di R. Kauer, W.M. Lindsay, Oxford 1926 (ed. riveduta, 1958), e di J. Marouxeau, Paris 19674 (I vol.), 19643 (II), 19663 (III), quest’ultima con versione francese; di J. Barsby, Cambridge (Ma.), London 2001, 2 voll., con versione inglese. Tra i vari commenti moderni alle singole commedie il più recente è quello dell’Eunuchus, a cura di J. Barsby, Cambridge 1999. Si ricordano anche Hècyra, a cura di S. Ireland, Warminister 1990; Adelphoe, a cura di R.M. Martin, Cambridge 1976 e A.S. Gratwick, Warminister 1987.
Introduzioni generali: G. Norwood, The Art of Terence, Oxford 1923; H. Haffter, Terenzio e la sua personalità artistica, trad. e aggiornamenti a cura di D. Nardo, Roma 1969; B.A. Taladoire, Térence. Un théâtre de la jeunesse, Paris 1972; W.G. Forehand, Terence, Boston 1985 ; S.M. Goldberg, Understanding Terence, Princeton 1986; R.L. Hunter, The New Comedy of Greece and Rome, Cambridge 1985. Sullo stile vd. soprattutto: A Traina, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1974(2), p. 167 ss.; Id., Forma e suono: da Plauto a Pascoli, Roma 1977, p. 181 ss. Una bibliografia generale è quella di G. Cupaiolo, Bibliografia terenziana (1470-1983), Napoli 1985.
Per le traduzioni ricordiamo: A. Ronconi, Terenzio, Le Commedie, Firenze 1960; O. Bianco, Terenzio, Commedie, Torino 1993 (rist. 2004); F. Bertini – V. Faggi, Le Commedie, Milano 2006; L. Piazzi, Adelphoe, Heautontimorumenos, Milano 2006; L. Pepe, Andria, Hecyra, Milano 2006. Singole commedie: A. Petrucci, Gli Adelphoe, Roma 19923, e D. Del Corno, I fratelli, Milano 200215; G. Zanetto, Andria, Milano 20012, e M.R. Posani, Andria, Bologna 1990; G. Zanetto, Eunuco, Milano 1999; M. Cavalli, La suocera, Milano 19944; G. Gazzola, Il punitore di se stesso, con intr. di D. Del Corno, Milano 20018; G. Zanetto, Formione, Milano 1991.
Il testo originale delle sei commedie di Terenzio si può leggere nel sitoThe Latin Library, e, corredato di concordanze, lista delle parole, indici di frequenza, in IntraText. Nel progetto Perseus, il testo delle commedie latine è unito alla traduzione inglese con vocabolario e note al testo. Una traduzione italiana delle commedie si può leggere nel Progetto Ovidio.
Flavio Giuseppe, vissuto fra il 37 e il 100 d.C., è uno storico molto importante anche per via della sua particolare vicenda biografica. Inizialmente coinvolto nella disastrosa rivolta antiromana che portò poi alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), si consegnò ai Romani in seguito alla sconfitta della sua guarnigione. Nacque così un intenso rapporto di collaborazione con gli ex nemici tanto da diventare un cliente di Tito e un grande ammiratore di suo padre, l’imperatore Vespasiano. La straordinarietà di questo personaggio si evince già dal suo nome, per metà ebreo e per metà romano. Infatti si integrò così bene nella famiglia imperiale che, anche per riconoscenza, ne assunse il patronimico (Flavio); per questo il Nostro ha un prenomen tipicamente ebreo (Giuseppe) e un nomen romano (e il nomen era quello che indicava la gens di appartenenza, o di acquisizione). Per questo Flavio Giuseppe può essere considerato uno storico e uno scrittore romano, ma la sua origine ebrea gli conferisce delle caratteristiche del tutto particolari nel panorama letterario latino. I suoi scritti sono, ovviamente, filoromani ma questo non gli impedisce di difendere il suo popolo e la sua cultura. La contestazione che Giuseppe faceva al suo popolo era solo l’ostinazione contro il dominio romano, che ai suoi occhi raggiungeva spesso il fanatismo (come il movimento zelota). È uno storico molto importante anche perché dedica grande spazio alle vicende della Giudea e ai suoi difficili rapporti con l’impero, le sue opere sono infatti per noi delle fonti primarie.
Flavio Giuseppe, quindi, era molto informato delle vicende del suo popolo, avendole vissute in prima persona. In questo contesto troviamo il famoso passo su Gesù, il cosiddetto Testimonium Flavianum delle Antichità giudaiche. Riportiamo il passo:
“Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani.” (AI. XVIII 63–64)
Cristo docente, assiso su un seggio. Statuetta, marmo, IV secolo d.C. da Lanuvium (Civita Lavinia). Roma, Museo Nazionale Romano.
Il passo sembra essere interpolato. Si sa con certezza che Flavio Giuseppe non era un cristiano, per questo le espressioni di fede del testo creano grandi difficoltà per l’attendibilità del passo. La maggior parte delle persone, di solito, si ferma a questo punto. Siccome noi, però, aspiriamo ad avere un approccio scientifico con le fonti cercheremo di scavare più in profondità. Proviamo a ragionare, partendo da una domanda: l’interpolazione cristiana riguarda tutto il passo, o è possibile che essa si sia limitata ad aggiungere quelle espressioni di fede? In altre parole, se il passo sia stato aggiunto di sana pianta o se solo modificato (del tutto o in parte). Per cercare la risposta di questa domanda non si può prescindere da una prospettiva globale dell’opera di Flavio Giuseppe, ma prima qualche considerazione sul passo sopra riportato bisogna farla. È stato fatto notare che, eliminando le espressioni di fede, il passo mantiene un senso logico e grammaticale per cui è indipendente dalle parti più “sospette”. Inoltre diversi studiosi (comeH. St. J. Thackeray) hanno notato, nel passo, peculiarità grammaticali e linguistiche di Giuseppe Flavio. Prima di continuare nell’analisi del Testimonium Flavianum,proviamo a cercare altri indizi nelle Antichità giudaiche. In particolare ci sono due passi interessanti, il primo è quello che parla di Giacomo il minore:
“Anano […] convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione” (AI XX 200)
Quindi quello del libro 18 non è l’unico riferimento a Cristo, qui ne troviamo un altro. La prima cosa da notare è la strana identificazione che lo storico fa di Giacomo. Nelle società antiche, e anche in quella ebrea (basta pensare alla Bibbia), l’identificazione avviene sempre tramite il padre. C’è sempre un Tizio figlio di Caio, invece qui il punto di riferimento è Gesù. Segno che forse lo storico ritiene questo riferimento più significativo, almeno per i suoi lettori, di quello del padre di Giacomo. Forse proprio perché di quel “Gesù, detto il Cristo” ha già parlato prima e per questo, essendo ormai noto ai lettori, lo usa come valido riferimento per Giacomo. Questo spiega anche perché lo storico non si soffermi su un personaggio che sembra così importante, questo Gesù di cui parla è addirittura chiamato Cristo. Per un ebreo come Flavio Giuseppe una cosa del genere non può non essere interessante, vista l’intensità dell’attesa messianica del tempo. Anche questo sembrerebbe indicare che di quel Cristo si è già parlato in precedenza (solo un paio di libri prima) per cui non è necessario soffermarsi oltre. Da notare, inoltre, che qui, verosimilmente e quindi a differenza di prima, non si afferma che Gesù è il Cristo, ma che era detto Cristo. Per quanto riguarda la questione dei “fratelli di Gesù”, basti ricordare la polisemia del termine “fratello” nelle lingue semitiche per cui esso può assumere una pluralità di significati; fra i quali anche quello di parenti in generale. È un problema legato alla strutturazione della famiglia antica, un argomento interessante ma che ora ci porterebbe troppo lontano. Il secondo passo è quello del Battista:
“Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone – infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni – temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione – parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione – ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso” (AI XVIII 116-119).
Pierre Puvis de Chavannes, Decapitazione di San Giovanni Battista. Olio su tela, 1868.
La narrazione della vicenda del Battista è simile, negli aspetti fondamentali, a quella evangelica di Matteo:
“In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: “Costui è Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui”. Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo fratello. Giovanni infatti gli diceva: “Non ti è lecito tenerla!”. Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: “Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”. Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù.” (Matteo 14, 1-12)
Le due narrazioni divergono abbastanza, soprattutto nelle motivazioni della condanna (pur senza escludersi a vicenda), da ritenere altamente improbabile una qualche influenza fra le due. Infatti l’originalità di questi ultimi due passi, quello di Giacomo e quello del Battista, non è mai stata ragionevolmente messa in dubbio. Da questo deduciamo che non solo Flavio Giuseppe ritiene storico il personaggio di Gesù, visto da come ne parla nel passo di Giacomo, ma che storici sono anche personaggi primari e secondari delle narrazioni evangeliche. Non solo personaggi che appartengono più che altro al “contesto” storico, come può essere Ponzio Pilato, ma anche i protagonisti propri delle vicende narrate. Il Giacomo, di cui parla sopra lo storico, è lo stesso apostolo di cui parlano i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. La cosa curiosa è che l’ipotesi mitica (in senso ampio) che vorrebbe i Vangeli come confuse narrazioni costituite soprattutto di elementi mitologici e per nulla o quasi di realtà storica, appare vacillante ancor prima di passare all’analisi diretta dei Vangeli. Le stesse fonti non cristiane, delle quali a torto ci si lamenta, ci forniscono elementi preziosi che non solo non ci inducono in favore dell’ipotesi mitica ma anzi ci sconsigliano fortemente di adottare una simile prospettiva. Infatti le varie ipotesi mitiche sono poi incorse (e vi incorrono ancora oggi i suoi inconsapevoli discendenti) in una serie impressionante di “infortuni”, come vedremo in seguito. Si tratterebbe infatti di un mito a dir poco anomalo.
Tornando al Testimonium Flavianum c’è un’altra considerazione da fare in relazione al passo del Battista. In effetti il copista cristiano autore dell’interpolazione avrebbe, ragionevolmente, dovuto aggiungere i riferimenti a Gesù subito dopo il passo del Battista o quello di Giacomo. Entrambi offrivano lo spunto per sopperire alla presunta mancanza del passo su Gesù, la cosa sarebbe stata più sicura rispetto all’aggiungere un passo tout court quando bastava semplicemente aggiungere qualcosa a uno dei due passi. Come ultimo indizio riguardo l’ipotesi dell’interpolazione parziale segnaliamo anche che un cristiano difficilmente avrebbe parlato di “tribù” rivolgendosi ai Cristiani; verosimilmente avrebbe parlato di Chiesa, per cui forse questo è un’altra traccia della preesistenza del passo prima dell’interpolazione visto che quella delle tribù sembra essere proprio un’espressione dello storico.
Ci sono quindi molti indizi che sembrano indicare l’effettiva esistenza del passo su Gesù, il problema è capire in che modo esattamente il passo originale ne parlasse. Una potente conferma di questa ipotesi è giunta, nel 1971, da una scoperta del prof. Shlomo Pines, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, che trovò una versione araba del passo contestato in un’opera del X secolo, la Storia universale del vescovo Agapio di Hierapolis (in Siria). Riportiamo il passo:
“Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poichè egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “A quell’epoca viveva un saggio di nome Gesù. La sua condotta era buona, ed era stimato per la sua virtù. Numerosi furono quelli che, tra i Giudei e le altre nazioni, divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò ad essere crocifisso ed a morire. Ma coloro che erano suoi discepoli non smisero di seguire il suo insegnamento. Essi raccontarono che era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo. Forse era il Messia di cui i profeti hanno raccontato tante meraviglie.”
Siamo quindi in possesso di un passo che non presenta più quelle sospette espressioni di fede; ad esempio non si afferma più la resurrezione ma si riporta semplicemente quello che i discepoli “raccontarono”. Questa scoperta, riportata anche da Vittorio Messori in Ipotesi su Gesù (pag. 197, edizione 2001), ci fornisce una potente conferma dell’ipotesi dell’interpolazione parziale che dovette evidentemente riguardare solo le espressioni di fede. Infatti già il testo di base appariva indipendente da queste. Un dato da tenere in considerazione è che Agapio è un vescovo, in quanto tale sembra impensabile che abbia mutilato il passo dello storico in senso riduttivo. Né si può credere che egli abbia omesso le espressioni di fede perché consapevole della contraddizione con la fede dell’autore, per diversi motivi. Prima di tutto perché nessuno dubitò mai dell’esistenza storica di Cristo per quasi diciotto secoli e Agapio visse nel X secolo, quando nemmeno esisteva allora un problema del genere; pertanto non può essere mosso dall’esigenza di dimostrare la storicità di Cristo, infatti riporta semplicemente il passo e non sembra consapevole della portata “filologica” che invece hanno per noi queste poche righe. Se, ancora nel X secolo, non esisteva un dibattito “storiografico” su Gesù è ovvio che, non ponendosi proprio il problema, non si analizzavano certo a fondo le fonti. Solo con un approccio moderno con le fonti è stato possibile rendersi conto delle incongruenze del passo su Gesù, e quindi sospettare dell’originalità del passo. Ipotizzare che questo possa essere avvenuto nell’Alto Medioevo è del tutto anacronistico. È essenziale tenere presenti le coordinante spaziali e temporali della vicenda. Il fatto che Agapio sia siriaco sembra proprio indicare che egli avesse a disposizione una copia dell’opera estranea al circuito occidentale e quindi di un passo su Gesù non manipolato o comunque più vicino all’originale. L’interpolazione cristiana pare sia avvenuta in Occidente fra il III e il IV secolo ma, anche alla luce di questa scoperta, non sembra più dettata da un complotto di carattere storico (un’ipotesi questa già debole in sè, a prescindere da tutto). Semplicemente il copista cristiano dovette trovare irriguardoso il fatto che Flavio Giuseppe parlasse in modo così “laico” di Gesù, così aggiunse quelle espressioni di fede che solo a partire dal XVI secolo cominciarono a destare sospetti. Ad ogni modo l’attendibilità storica del Testimonium Flavianum ne esce confermata. A sostengo di questa ipotesi ci sono diversi studiosi, fra i quali anche David Flusser (altro storico israeliano ed ebreo). Pertanto, anche questa fonte ci conferma quelli che sono i dati essenziali della biografia di Gesù, sia spaziali sia temporali. La cronologia viene confermata dal riferimento alla condanna sotto Ponzio Pilato, troviamo inoltre un’altra conferma (se mai ve ne fosse stato bisogno) dell’origine giudaica del Cristianesimo. Flavio Giuseppe ci informa anche dell’attività di predicazione di Gesù e del conseguente discepolato. Anche questa fonte avvalora, inoltre, le notizie evangeliche della condanna a morte per crocifissione ma questa volta lo storico, certamente più informato di altri, riporta anche la notizia fondante del Cristianesimo: la resurrezione dopo tre giorni. Da notare infine che Flavio Giuseppe scrisse le Antichità giudaiche verso la fine del primo secolo dopo Cristo, presumibilmente intorno alla metà degli anni Novanta. Scriveva, quindi, di eventi accaduti circa una sessantina d’anni prima e di poco posteriori, se non contemporanei, alla sua nascita (avvenuta nel 37 d.C.). Un dato, anche questo, che bisognerà tenere presente perché, ai fini della nostra ricerca, i tempi di formazione del Cristianesimo sono importanti. E questi tempi cominciano, man mano che si prosegue, a farsi sempre più ristretti e a lasciare quindi sempre meno spazio a prospettive dal carattere mitologico. Lo vedremo ancora meglio poi.
di F. Bethencourt, Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, trad. it. di P. Palminiello, Bologna, Il Mulino, 2013, Parte prima – Le crociate, capitolo primo – La percezione dell’altro: dai greci ai musulmani, pp. 33-36.
Gli uomini di lettere greci e romani ritenevano che le caratteristiche fisiche e mentali degli esser umani fossero plasmate da fattori esterni, una concezione – o teoria – dell’ambiente che ha inciso in modo cruciale sulle rappresentazioni e classificazioni dei popoli. Si supponeva che la struttura del corpo, la forza o la debolezza fisica, la durezza o docilità di carattere, l’intelligenza viva o tarda, e l’indipendenza di pensiero o viceversa la propensione alla subordinazione fossero tutte determinate, in genere, dal clima e dalla collocazione geografica, e pertanto che le differenze tra i vari popoli riflettessero le condizioni dei territori in cui ciascuno di essi aveva avuto origine. A consentire ai greci e ai romani di attribuirsi le virtù necessarie alla realizzazione dei loro progetti imperiali fu infatti la valutazione positiva della posizione geografica rispettivamente della Grecia e di Roma – una zona temperata, tra il freddo nord e il caldo sud, e collocata, per quel che concerne la Grecia, tra Oriente e Occidente (e, cosa ancora più importante, lontano dall’«arroganza», dalla «corruzione» e dal «servilismo» dell’Asia). Attenuava in parte la rigidezza di questa prospettiva il riconoscimento dei contrasti fra le popolazioni della montagna (considerate rozze e asociali) e quelle delle pianure (civili e raffinate), un riconoscimento che faceva spazio se non altro alla realtà dei conflitti di comportamento tra vicini. E non vanno dimenticati, tra gli elementi in parte non congruenti con la teoria di base, gli atteggiamenti tanto dei greci quanto dei romani nei confronti di alcuni modi di vivere diversi dal proprio – quello dei nomadi, per esempio – e di certe forme di governo, in particolare del dispotismo tipico dell’Oriente, del quale si diceva favorisse la dipendenza e la debolezza[1].
Pittore Oltos. Rappresentazione di un arciere scita. Pittura vascolare dal tondo di una kylix bilingue attica a figure nere, 530-520 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Questa teoria ambientalista si combinava talvolta con la tesi dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite dagli esseri umani. Le nozioni di lignaggio e autoctonia sviluppate dagli ateniesi, persuasi di avere sempre occupato lo stesso territorio e di poter vantare una stirpe pura, plasmarono l’atteggiamento dei greci e dei romani nei confronti degli altri popoli[2]. L’idea di discendenza divenne cruciale in due modi: in primo luogo, in quanto legame tra il sangue e il territorio, il quale autorizzò ad attribuire ai vari popoli (gentes) un’identità essenziale a partire dal loro aspetto, dalla lingua e dai costumi; in secondo luogo, in quanto garanzia della riproduzione all’interno di ciascun popolo delle caratteristiche determinate in origine dal suo ambiente di nascita. Dunque, i discendenti, per esempio, dei siriani avrebbero portato su di sé le più importanti caratteristiche mentali e fisiche dei loro antenati anche se nati altrove. I pregiudizi dei romani nei confronti della maggioranza dei popoli orientali, giudicati schiavi naturali, ricadevano tanto su questi popoli considerati nei loro ambienti, quanto sui migranti stabilitisi in altre province o al centro dell’impero, ossia a Roma. Più in generale, supporre che ambiente ed eredità fossero connessi e che, allo stesso modo, lo fossero anche le caratteristiche esteriori e quelle interiori implicava la negazione di qualsiasi differenza da individuo a individuo o da generazione a generazione. Il cambiamento poteva essere, in sostanza, soltanto collettivo e di fatto in direzione di un peggioramento: l’idea di discendenza esplicitata dal vanto ateniese di purezza di lignaggio tradiva una valutazione negativa degli individui di origine mista. Si supponeva che le unioni di individui di diversa discendenza generassero esseri umani inferiori, che indebolissero le qualità positive originarie. Per le stesse ragioni, un cambiamento dell’ambiente non avrebbe potuto che portare a una degenerazione degli esseri umani coinvolti e dei loro discendenti.
Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.
L’applicazione di questi criteri era tuttavia piuttosto approssimativa e contraddittoria. È possibile imbattersi, per esempio, in lodi dei coraggiosi guerrieri germanici, gallici o ispanici; non essendo mai stati sconfitti, e conservando dunque intatte le loro qualità guerresche, i germani erano considerati in effetti una minaccia. Eppure, si supponeva anche che odiassero la pace e l’impegno nel lavoro, mentre i galli erano presentati come forti bevitori e persone volubili e insubordinate, benché anche buoni oratori. La nozione di schiavitù naturale era utilizzata in riferimento a diversi popoli del Medio Oriente, ma non ai persiani, che non erano mai stati conquistati dai romani, e neppure agli ebrei, considerati un caso a parte per le continue ribellioni. L’antica civiltà egizia era rispettata, ma i suoi abitanti erano ritenuti malvagi e strani a causa della loro religione zoomorfica. L’ingegno attribuito ai fenici e ai cartaginesi era tanto grande quanto la loro supposta inaffidabilità, mentre i siriani erano presentati come effemminati, depravati e superstiziosi. Le accuse di fare ricorso alla pratica del sacrificio e all’antropofagia erano utilizzate per condannare, tra gli altri, i druidi, mentre i pregiudizi nei confronti degli ebrei avevano al centro le idee di comportamento antisociale e di religione elitaria. L’accusa di usura, la principale attività antisociale attribuita agli ebrei nel Medioevo, non compare nelle fonti greche e romane; a quanto sembra è un’invenzione del XII secolo.
Servo africano che porta fiasche d’olio. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Casa del Menandro.
Che il pregiudizio cambi oggetto di frequente lo dimostra lo stesso lascito di greci e romani. I giudizi dei greci sui popoli orientali hanno finito infatti con il ricadere su loro stessi: i romani li consideravano colti e ingegnosi, ma anche arroganti, effeminati, corrotti, incostanti e poco seri. Per esprimere le loro idee preconcette nei confronti di esseri umani (e popoli), i romani si servivano, inoltre, spesso del confronto con animali. Uno dei pregiudizi sui neri africani incentrato sul colore si è il seguente: li si considerava bruciati dal sole – dall’etimologia greca del termine ‘etiope’ –, un effetto indesiderabile dalle avverse condizioni climatiche del sud estremo. Tuttavia, ciò che occorre qui sottolineare è che nel mondo greco e romana il pregiudizio era già legato alle nozioni di lignaggio e di discendenza[3]. In ogni caso, nulla dimostra che i popoli considerati etnicamente diversi fossero vittime di discriminazioni sistematiche; al contrario, la politica di concessione della cittadinanza seguita dai romani fu relativamente generosa.
Prigioniero gallico. Statuetta, bronzo, fine I sec. a.C., da Arles.
Il problema è semmai capire come questi pregiudizi mutevoli e instabili nei confronti di altri popoli, costruiti da greci e romani in risposta, in parte, ai bisogni posti loro dalle rispettive storie di espansione, abbiano risentito del processo di cristianizzazione e del declino e poi del crollo dell’Impero romano in Europa occidentale. Una cosa comunque è chiara: il concetto di conversione universale introdotto dalla prima chiesa cristiana avrebbe compromesso significativamente la precedente identificazione dei popoli con il loro territorio e la loro religione. Per quanto li si considerasse una setta del popolo ebraico, fu uno svantaggio per i primi cristiani che li si vedesse privi di legami con la tradizione e di radici storiche. Tuttavia, dopo tre secoli di repressioni e resistenze, la novità pagò. Il riconoscimento del cristianesimo e la sua adozione come religione dell’impero da parte di Costantino (321-325), seguiti dalla messa al bando del paganesimo decretata da Teodosio (392), segnarono l’identificazione del messaggio multietnico cristiano con l’ideologia imperiale del governo universale e la trasformazione della chiesa da comunità perseguitata a depositaria della religione dominante sostenuta dal potere politico.
Cavaliere partico. Rilievo, granito, II-I sec. a.C. ca. Torino, Palazzo Madama.
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Note:
[1] Seguo qui Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2006.
[2] Marcel Detienne, Comment devenir autochtone. Du pur Athénien au Français racinée, Paris, Seuil, 2003.
[3] Frank Snowden esclude invece che si nutrissero in questo periodo pregiudizi relativi alla discendenza: si veda Before Color Prejudice: The Ancient View of Blacks, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1983.
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