Valerio Flacco, un raffinato rielaboratore

di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 303-304; cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequoraLetteratura, antologia e autori della lingua latina, Vol. 3, L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, 242-243.

Valerio Flacco, probabilmente il più misterioso e difficile tra i poeti epici di età flavia, fu un autore di notevole raffinatezza culturale. Il suo poema incompiuto, gli Argonautica, rivelano una grande elaborazione letteraria, capace di tenere insieme un articolato incrocio di modelli e strutture poetiche, la cui raffinata complessità rende particolarmente spiacevole il vuoto di notizie su questo autore.

Biagio d’Antonio, Sposalizio di Giasone e Medea. Tempera su tavola, 1487. Paris, Musée des Arts Décoratifs.

Vita e opere

Quasi nulla si conosce, dunque, della vita di Valerio Flacco (il cui nome completo era C. Valerius Flaccus Setinus Balbus), attivo come scrittore nel ventennio fra il 70 e il 90 d.C. e del quale Quintiliano nel 95 lamentava la scomparsa recente (multum in Valerio Flacco nuper amisimusInst. X 1, 90), forse poco prima del 92. Si sa, però, che era di condizione sociale elevata, dato che, come informa Flacco stesso, rivestì la carica sacerdotale di quindecimvir sacris faciundis. L’opera di Valerio Flacco sono gli Argonautica, poema epico di cui restano (verosimilmente per incompiutezza piuttosto che per gusti della tradizione manoscritta) sette libri e una parte dell’ottavo (ma il progetto originario doveva prevederne dodici, in ossequio al modello virgiliano). L’opera di Flacco rappresentava una decisiva reazione alla Pharsalia di Lucano. Si tratta di una serie di vicende che corrisponde all’incirca a tre quarti del racconto sviluppato dal poeta Apollonio Rodio (III sec. a.C.) nei quattro libri del suo poema omonimo: un’opera che a Roma aveva già ispirato Varrone Atacino, mentre la versione tragica di Euripide era stata ripresa da Ovidio, Seneca e Lucano. Valerio Flacco narra i motivi della spedizione di Giasone in cerca del vello d’oro (libro I), il viaggio avventuroso e contrastato a bordo della nave Argo fino alla Colchide (libri II-V), gli intrighi e le lotte alla corte di re Eeta e l’amore tra Giasone e Medea, la conquista del vello d’oro e il principio del travagliato ritorno (libri VI-VIII).

Frisso ed Elle. Affresco, 50 a.C. ca. dall’Insula Occidentale VI (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli Argonautica e i loro modelli

Valerio Flacco, pur ispirandosi da vicino al modello di Apollonio Rodio, mira a una riscrittura in gran parte autonoma del tema argonautico e non si limita a una “romanizzazione” come quella (rimasta celebre) attuata da Varrone Atacino nel I secolo a.C. Vi sono abbreviamenti, aggiunte, modifiche importanti nella psicologia dei personaggi, nel modo di concepire l’intervento divino, nel ritmo del racconto. Variazioni e innovazioni, però, si innestano spesso su di un contesto che – sia sul piano degli schemi narrativi sia su quello dell’espressione – risulta in varia misura debitore nei confronti di Apollonio. Rispetto dunque alla trama svolta dal poeta greco, qui viene dilatata nei libri V e VI la sezione, inesistente nel modello, relativa alla contesa tra Eeta e suo fratello Perse. La struttura del poema risulta così suddivisa in una parte odisseica di avventure per mare e in una parte iliadica di guerre e prove eroiche, come l’Eneide che consta di due esadi. La prima parte, inoltre, ricca di suggestioni esotiche, riflette l’interesse per la geografia e l’etnografia attestato in questo periodo anche dall’opera di Mela e di Plinio il Vecchio. Al modello epico tradizionale si conforma l’intero poema di Valerio Flacco sia per il tema mitologico sia per l’onnipresenza dell’apparato divino e la visione provvidenzialistica, sia ancora per la prospettiva moralistica ed edificante. L’attualità dell’antico mito, inoltre, è giustificata nel proemio dal parallelo – escogitato dall’autore con adulatoria amplificazione – tra la navigazione verso la Colchide e la spedizione navale in Britannia condotta da Vespasiano sotto il principato di Claudio: allo stesso modo, anche Virgilio aveva paragonato le imprese in Oriente di Ottaviano con la spedizione argonautica (Egl. IV 34-35)

Nei punti in cui Valerio Flacco segue da vicino il testo greco (fino a misurarsi talora in piccoli saggi di traduzione artistica) la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell’effetto: accentuazione del pathos e drammatizzazione, concentrazione del modello e conseguente gusto per la brevità dell’espressione (resa audace e allusiva fin quasi all’oscurità). Sono questi i procedimenti più frequentemente impiegati per ottenere un maggiore coinvolgimento emotivo del lettore. La formazione stessa del testo di Apollonio – imitatore di Omero e imitato, a sua volta, da Virgilio – si colloca al centro di una rete di rapporti che tengono insieme una vasta tradizione epica. Il poeta flavio – nella sua consapevole, “manieristica” posizione di epigono – si trova portato a un’operazione di continua scomposizione e ricomposizione dei propri modelli: egli sa recuperare al suo testo i necessari antecedenti di Omero e di Apollonio, ma, al contempo, non può non integrare il testo con materiali che derivano dall’opera di Virgilio. Così, per esempio, nella rappresentazione di Medea, la figura di maggior rilievo del poema: ora tenera fanciulla e come tale descritta secondo il modello omerico dell’incontro di Odisseo e Nausicaa, ora maga terribile e capace di ogni nefandezza, come nel modello rodio (nullum mente nefas, nullos horrorescere uisus, VI 453), ora donna innamorata che l’autore, con ricorso all’espediente narrativo omerico della τειχοσκοπία («vista dalle mura»), rappresenta mentre contempla rapita le imprese di Giasone. Nella caratterizzazione della donna, ambigua e contraddittoria, convergono, inoltre, tratti patetici della Didone virgiliana, spunti elegiaci (la cura o «malattia d’amore», l’innamorata che veglia mentre tutti dormono), aspetti comuni alle pitture terribili e stupefacenti del Seneca tragico e di Lucano (nella descrizione sinistra di Medea esperta di arti magiche: opibus magicis et uirginitate tremendam, VI 449). Valerio Flacco, dunque, si è ispirato ad Apollonio, “contaminandolo” però con altre sue fonti.

In questa complessa operazione l’autore mostra una viva consapevolezza che la letteratura consiste anche nella sedimentazione di un linguaggio dalla storia plurisecolare che, nella sua stratificazione, ha finito con il costituirsi in un’organica tradizione poetica. Egli non può tuttavia esimersi dal trarre opportuni suggerimenti anche da altri rappresentanti della letteratura augustea, in particolare da Ovidio, e i già menzionati “moderni” Seneca tragico e Lucano. Sicché questa poesia riflessa ed elaborata (che si qualifica anche per un certo virtuosismo manieristico evidente nella rielaborazione delle varie suggestioni) rischia a volte di disperdersi sotto le spinte, non sempre armonizzate, di una troppo vasta molteplicità di modelli.

Giasone nella reggia di Pelia. Affresco, ante 79 d.C. dal triclinium della Casa di Giasone (o dell’amor fatale, IX 5, 18), Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile e la tecnica narrativa

Il fondamentale influsso di Virgilio spinge Valerio a una poetica “reazionaria”: il tema è mitologico, l’apparato divino onnipresente, l’impostazione morale del racconto edificante – si è detto. Mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale – di fatto, quasi un antieroe – Valerio riporta il suo protagonista a uno status di elevatezza epica, lo romanizza e lo assimila ad Enea, di cui possiede la virtus bellica, la pietas e la fama. Il fato provvidenziale di stampo virgiliano, con il suo portaparola Giove, controlla tutto lo sviluppo degli eventi. La narrazione di Valerio Flacco esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo, a rendere cioè situazioni e avvenimenti attraverso il punto di vista e le sensazioni dei vari personaggi. Questa tendenza, com’è ovvio, comporta una continua psicologizzazione del racconto: se in Virgilio le sensazioni dei personaggi acquisivano talora rilievo maggiore rispetto agli stessi avvenimenti, in Valerio l’importanza assunta è tale da sopprimere persino la descrizione di particolari o la narrazione di eventi, spesso necessari alla comprensione del testo. È naturale che l’espansione del modello di Apollonio sia dunque orientata soprattutto verso il patetico, ricercato con ostinazione in tutte le potenziali occasioni e applicato a ogni tipo di personaggio, senza attenzione alle incongruenze che tale procedimento può generare nei vari caratteri.

Per quanto riguarda gli aspetti più strutturali della composizione, Valerio, pur rivelandosi elegante e raffinato nel particolare, nel dettaglio descrittivo, nella notazione psicologica, nel quadro isolato, tuttavia fallisce spesso nella creazione di strutture narrative articolate. Difetti di chiarezza e di linearità, e ancor più la mancata specificazione delle coordinate spazio-temporali dell’azione, danno l’impressione di un modo di comporre per blocchi isolati, un modo che presta più attenzione all’evidenza e all’effetto della singola scena che non alla perspicuità e alla coerenza dell’insieme. Nel suo complesso, ne risulta un testo narrativo assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come estremamente dotto anche per quanto riguarda la sua destinazione (il pubblico che viene presupposto come lettore ideale). Il lettore in qualche caso non trova, nel testo di Valerio, nemmeno tutte le informazioni essenziali per la comprensione della vicenda, ma, per capire situazioni e linea narrativa, deve già essere a conoscenza degli avvenimenti; il più delle volte è comunque necessario che abbia presente l’immediato testo di riferimento, ovvero Apollonio. Gli Argonautica, insomma, si configurano come un’opera che, per realizzare una poetica ardua e sofisticata, presuppone nel suo destinatario un’ampia competenza letteraria.

Cecilio di Kalé Akté

Trad. parziale da M. WEISSENBERGER, s.v. Caecilius [III.5], BNP 2, Leiden 2003, 885.

 

Cecilio di Cale Acte (Καικίλιος Καλακτῖνος) fu retore greco di età augustea. Oltre al suo amico Dionigi di Alicarnasso, più vecchio di lui di una decina d’anni, fu il più grande oratore e grammatico greco del Principato e nacque intorno al 50 a.C. a Καλὴ Ἀκτή (od. Caronia) in Sicilia. Di probabile origine giudaica, secondo la Suda il suo nome originario sarebbe stato Arcàgato (Αρχάγαθος). Suo maestro fu forse Apollodoro di Pergamo (Quint. IX 1, 12). Insieme a Dionigi, Cecilio è considerato il fondatore dell’Atticismo letterario, ma la sua effettiva influenza sugli autori successivi non può essere confermata, dal momento che dei suoi numerosi scritti rimangono solo pochi lacerti. I titoli noti delle sue opere possono essere approssimativamente ricondotti a tre diversi ambiti di studio: la storiografia (Σύγγραμμα περὶ τῶν δουλικῶν πολέμων, Περὶ ἱστορίας); gli scritti tecnici retorici (Τέχνη ῥητορική, Περὶ σχημάτων, Περὶ ὕψους, Κατὰ Φρυγῶν); la critica letteraria (Τίνι διαφέρει Ἀσιανὸς ζῆλος τοῦ Ἀττικοῦ, Περὶ τοῦ χαρακτῆρος τῶν δέκα ῥητόρων, Σύγκρισις Δημοσθένους καὶ Κικέρωνος). Oltre a questi testi, egli compilò anche un lessico – il primo «atticista» – in ordine alfabetico, grazie al quale si sviluppò l’ampia produzione lessicografica successiva. Cecilio fu uno dei massimi fautori del “classicismo” atticista e uno dei retori più rinomati del suo tempo. Ora, un giudizio complessivo sull’opera di questo autore è praticamente impossibile a causa della scarsità di fonti e testimoni: se si fa fede, comunque, all’autore del Περὶ ὕψους (Del sublime), che si scagliò con aspre critiche contro l’omonimo testo di Cecilio, costui doveva essere un lettore superficiale e, al contempo, un pedante cavillatore (cfr. Ps.-Longin. I 1-2; 8). Nel suo trattatello Cecilio combatteva il falso sublime della retorica «asiana» e lodava la perfetta mediocritas (μετριότης) a scapito della grandezza difettosa, esaltando Lisia e svalutando Platone (cfr. fr. 150 Ofenloch).

 

Ritratto di Cecilio di Calacte, da G.E. Ortolani, Biografia degli uomini illustri della Sicilia ornata de’ loro rispettivi ritratti, Tomo I, Napoli 1817.

 

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Il lupo e l’agnello: la sopraffazione del più forte (Phaedr. I 1)

da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 42-44.

Quella che segue è la più famosa favola di Fedro e il più noto apologo teriomorfo della letteratura occidentale. Si tratta di uno dei testi che meglio riassume il messaggio complessivo dell’autore ed esemplifica la legge del più forte. La favola apre, quasi programmaticamente, la raccolta: nel dialogo concitato di cui si compone, si fronteggiano la logica della forza e quella della verità, personificate rispettivamente dal lupo e dall’agnello. Lo scontro è impari. E dopo un momento di disorientamento del lupo, che sembra accusare il colpo infertogli dall’evidenza del vero (repulsus… ueritatis uiribus, v. 9), la ragione del più forte ha il sopravvento sulle patetiche argomentazioni della verità, in violazione di ogni diritto (iniusta nece, v. 13). Insomma, l’apologo mostra che ogni tentativo di ricorrere alla giustizia è vano contro i prepotenti: l’innocenza non tutela il mite, se il prepotente vuole nuocergli.

Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, KB, KA 16, fol. 62r. Il lupo e l’agnello.

 

Ad riuum eundem lupus et agnus uenerant

siti conpulsi; superior stabat lupus

longeque inferior agnus. Tunc fauce improba

latro incitatus iurgii causam intulit.

«Cur», inquit, «turbulentam fecisti mihi

aquam bibenti?» Laniger contra timens:

«Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?

A te decurrit ad meos haustus liquor».

Repulsus ille ueritatis uiribus:

«Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi».

Respondit agnus: «Equidem natus non eram».

«Pater hercle tuus» ille inquit «male dixit mihi»;

atque ita correptum lacerat iniusta nece.

Haec propter illos scripta est homines fabula,

Qui fictis causis innocentes opprimunt.

 

Erano giunti a uno stesso ruscello un lupo e un agnello,

sferzati dalla sete; più a monte stava il lupo

e a valle, basso basso l’agnello. Allora, spinto da una fame

insaziabile, il ladrone mise innanzi un pretesto di lite.

«Perché», disse, «mentre bevevo, mi intorbidasti

l’acqua?». E il lanigero, di contro, sbigottito:

«Scusami, o lupo, come posso fare ciò che lamenti?

Da te l’acqua scorre ai miei sorsi».

Contrariato dall’energia della verità, quello fece:

«Sei mesi fa parlasti male di me».

Rispose l’agnello: «Veramente, non ero ancora nato».

«Beh, per Ercole, tuo padre sparlò alle mie spalle»;

e così, abbrancatolo, lo fece a pezzi iniquamente.

Questa è una favola scritta per quegli uomini,

che vessano gli innocenti con falsi pretesti.

 

Come accade quasi sempre nella favola esopica, i protagonisti del racconto sono animali che rappresentano, sotto il velo dell’allegoria, vizi e virtù umane. Il lupo e l’agnello, per esempio, simboleggiano rispettivamente l’uomo forte e prepotente e l’uomo debole, mite e indifeso. L’ambientazione del racconto è scarna, quasi inesistente: nessuna descrizione e nessun aggettivo caratterizzano il riuus presso il quale si svolge l’azione.

Fedro persegue la breuitas dello stile, con la quale fa risaltare le lapidarie sententiae dei personaggi. La sintassi è molto semplice, ma il lessico è usato con estrema attenzione: nella favola si possono rintracciare termini afferenti al campo semantico della giustizia e del diritto, usati in forma “negativa” (improba, latro, causam, iniusta). Si osservi, inoltre, la funzione metaforica dell’antitesi tra gli aggettivi superior e inferior: la posizione dei due contendenti rispetto al ruscello, infatti, rispecchia i rapporti di forza esistenti tra i due. L’allitterazione che lega gli appellativi con i quali il lupo e l’agnello sono definiti (latro-laniger) mette in evidenza la contrapposizione la violenza dell’uno e l’innocenza dell’altro.

Il lupo fa un uso prevaricatorio della parola, che diviene strumento di distorsione della realtà prima ancora che un’esplicita intimidazione; mentre l’agnello protesta con cauta cortesia le proprie valide giustificazioni (quaeso, equidem).

T. Claudio Nerone Giulio Cesare Augusto. Asse, Bilbilis, 31 d.C. Æ 13,18 g. R. Mun(icipium) Augusta Bilbilis Ti. Cesare v(el) L. Aelio Seiano intorno a co(n)s(ulibus) racchiuso in una corona d’alloro.

Fin dall’antichità, alcuni commentatori hanno ritenuto che nel personaggio del lupo Fedro intendesse raffigurare Seiano. Allo stesso modo, anche in altre fabulae sono stati individuati riferimenti, difficilmente dimostrabili, a personaggi e avvenimenti della prima età imperiale: ancora a Tiberio e a Seiano sarebbero riconducibili rispettivamente il travicello e il serpente della favola I 2, così come l’aquila e la cornacchia che le suggerisce il modo di uccidere la tartaruga nella favola II 6. Oggi gli studiosi reputano improbabile che Fedro potesse permettersi delle allusioni così scoperte, se si pensa che l’età di Tiberio fu un periodo di processi per lesa maestà, un’epoca in cui anche solo suscitare sospetti di voler contestare il potere imperiale era pericoloso.

Perciò, gli studiosi si sono chiesti se davvero la persecuzione di Seiano nei confronti di Fedro fosse da imputare a un reato d’opinione: il processo di cui il poeta parla potrebbe essergli stato intentato per un reato comune, cosa che spiegherebbe come mai la sorte dell’autore non si sia risollevata dopo la caduta del regime di Seiano. D’altra parte, la breuitas del libro II delle Fabulae rispetto agli altri ha fatto pensare che alcuni suoi testi siano stati tolti perché censurati.

Il tema della persecuzione subita in prima persona e dell’impossibilità di difendersi è, in ogni caso, molto presente nell’opera di Fedro.

 

Le favole di Fedro

in Piazzi F., Giordano Rampioni A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 300-304.

L’autore e le opere.

Di Fedro si conosce solo ciò di cui lui stesso informa nel proemio del libro III della sua raccolta di Fabulae in versi. Il disinteresse per questo genere “minore”, poco considerato in quanto espressione dello spirito realistico e popolare, non contribuì alla notorietà dell’autore. Neppure il nome è certo, nei manoscritti ora è Phaeder ora Phaedrus. Nato intorno al 15 a.C. in Thracia (o in Macedonia), forse fatto prigioniero da giovane, fu a Roma come schiavo e poi liberto di Augusto. Nella capitale ricevette un’istruzione letteraria, dal momento che egli stesso racconta di aver frequentato una scuola e di avervi studiato Ennio. Attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio, Fedro subì un processo intentatogli da Seiano, il potente ministro di Tiberio, forse offeso da allusioni colte in alcune favole, sebbene il poeta avesse protestato la propria innocenza: «Io non ce l’ho con questo o quell’altro, ma descrivo la vita e i costumi». A seguito della condanna, egli patì umiliazioni e povertà; cercò protettori potenti, ma invano, se, ormai vecchio, fu costretto a sollecitare un estremo aiuto per sopravvivere: «Finché di questa età declinante resta ancora qualcosa, c’è spazio per un tuo aiuto. Più tardi, consumato dalla vecchiaia, la tua generosità non servirà più, quando il bene che mi farai non potrà più essere utile e la morte reclamerà il suo tributo» (III, epil. 15-19).

 

Uomo che foraggia un asino. Mosaico, VI secolo, dal Palatium Magnum (Costantinopoli). Istanbul, Museo dei Mosaici del Palazzo.

 

Fedro scomparve verosimilmente sotto il principato di Claudio. È probabile che le circostanze della vita, in particolare il processo, ne abbiano influenzato l’arte: infatti, «il punto di partenza è nel sapore personale che la favola di Fedro indubbiamente ha: l’autore preme nell’interpretazione del racconto con i suoi sentimenti e le sue situazioni, si direbbe che fatica a non scoprirsi»[1].

I cinque libri di favole in senari giambici (come i dialoghi delle commedie) rappresentano la raccolta più antica di favole “esopiche” pervenuta. Pur dichiarando di dipendere da Esopo, Fedro attinse anche da sillogi di apologhi di età ellenistica. Il I e il II libro, in particolare, furono pubblicati sicuramente prima del 31 a.C., mentre gli altri tre furono composti negli ultimi anni del principato tiberiano e in parte, forse, sotto Claudio. Dell’opera restano novantatré favole tramandate da codici medievali, più una trentina scoperta dall’umanista Niccolò Perotti, dette fabulae novae (Appendix Perottina, pubblicata in coda alle edizioni di Fedro solo agli inizi dell’Ottocento). Delle favole si conservano anche numerose parafrasi in prosa, in particolare nella raccolta Romulus o Aesopus Latinus (IV-V secolo), popolarissima, durante il Medioevo: si tratta di una silloge introdotta da due false lettere, una attribuita a Esopo e l’altra a un certo Romolo, che la indirizza al figlio, affermando di aver tradotto quelle favole dal greco.

Leone. Mosaico, II-III sec. d.C. da St.-Colombe. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

Secondo una tradizione antica, infatti, il πρώτος εὑρετής, cioè il «primo inventore» del genere sarebbe stato il quasi mitico Esopo, schiavo frigio o tracio vissuto nel VI secolo a.C., dall’aspetto deforme, gobbo, balbuziente. La raccolta pervenuta sotto il suo nome comprende circa quattrocento testi, consistenti in brevi narrazioni con personaggi tratti dal mondo animale, provviste di una «morale» normalmente introdotta dalla formula: ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι… («Il racconto dimostra che…»).

A Esopo furono attribuiti anche molti racconti che correvano senza nome. Il genere favolistico fu praticato anche da Esiodo (per esempio, l’apologo dello sparviero e dell’usignolo nelle Opere e i giorni) e da Archiloco; il filosofo peripatetico Demetrio Falereo (IV-III sec. a.C.) sarebbe stato probabilmente l’autore di una prima rielaborazione del corpus esopico.

Nella letteratura latina spunti favolistici si colgono nelle commedie plautine, nelle Saturae di Ennio (l’allodola e i pulcini, Gell. II 29), in quelle di Lucilio (la volpe e il leone malato) e in quelle di Orazio (il topo di città e il topo di campagna, II 6, 79 ss.). In particolare, Orazio ricorda la diffusione di aniles… fabellas (le «favole della nonna») raccontate ai bambini.

Quello della fabula è un genere umile e antiepico, consistente in un breve racconto i cui protagonisti sono per lo più animali, che incarnano tipi fissi umani come le maschere della commedia (il lupo ingordo, la volpe furba, l’asino sottomesso, ecc.). Nel mondo antico la favola non aveva una collocazione letteraria, sebbene la narrativa popolare avesse radici molto remote già nelle civiltà orientali e in Egitto. Lo stesso termine fabula era generico e comune a ogni forma di finzione, incluse le rappresentazioni sceniche (leggenda, romanzo, commedia, tragedia, ecc.). Dal punto di vista testuale, comunque, la favola era essenzialmente una breve narrazione. Oggi, invece, fabula è un termine tecnico della critica letteraria e della narratologia, che designa la successione cronologica degli avvenimenti di una trama, indipendentemente dall’intreccio in cui li ha disposti l’autore.

Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V... curante Petro Burmanno, Leiden, 1745
Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V… curante Petro Burmanno, Leiden, 1745.

 

I contenuti delle fabulae.

Nei testi di Fedro il carattere popolare è particolarmente evidente negli spunti umoristici, nell’ambientazione, nell’ideologia rassegnata espressa nella «morale», che, posta in apertura (promythion) o in chiusura (epimythion) della composizione, fornisce la chiave autoriale di lettura. Come si ricava dai prologhi che precedono ciascun libro, le finalità della fabula sono le stesse del genere satirico d’impronta oraziana: l’intrattenimento (risum movere) e l’educazione morale del lettore (prudenti vitam consilio monere). Riguardo a quest’ultima finalità, le virtù elogiate sono quelle necessarie ai ceti umili per la loro sopravvivenza: l’astuzia che compensi la debolezza e soprattutto la rassegnata capacità di piegarsi alla legge del più forte, considerata immutabile: «Quando i potenti litigano, ci rimettono sempre i poveracci» (I 30, 1); «Quando cambia il regime, per i poveri non cambia nulla, solo il nome del padrone (nomen domini)» (I 15, 1). Com’è detto nell’apologo delle rane (I 2), cercare un re migliore porta a ritrovarsi un governo peggiore del precedente. Per i poveracci non c’è riscatto, neppure dopo la morte: «Chi è nato disgraziato non solo passa la vita nella sventura, ma anche dopo la morte è perseguitato dalla triste sorte» (IV 1).

L’acquiescenza nei confronti dell’assetto sociale esistente tocca il culmine nella celebre favola del lupo e dell’agnello, che insegna come il più forte trovi sempre il modo di legalizzare la propria posizione di vantaggio.

Tigre che assale un vitello. Pannello, opus sectile, IV sec. d.C. dalla Basilica di Giunio Basso. Roma, Musei Capitolini.

 

Il fatto che anche l’autore sia un umile, un «diverso», impone precauzioni per non urtare la suscettibilità dei ceti dominanti. Di qui il ricorso al procedimento allegorico, per cui vizi tipicamente umani sono rappresentati da una colorita galleria di animali usati come «maschere», come «tipi» con tratti psicologici fissi e ricorrenti (il leone prepotente, il lupo cattivo e sleale, la volpe furba, l’agnello timido, ecc.). Il travestimento di derivazione esopica consentiva di esprimere verità poco gradite ai potenti in una sceneggiatura straniata, al riparo da facili ritorsioni (ma così non fu per Fedro): «Egli [Esopo] adombrò nelle favole i propri sensi, ed eluse / ogni ragione di critica con scherzose finzioni. / Di quel viottolo io ne ho fatto una strada, ne ho, di favole, immaginate di più nuove, di quelle che egli ha lasciate, / scelte che si confacessero, certune, al triste mio caso» (III prol. 36-44).

La componente proiettiva, evidenziata da La Penna, è ribadita in queste ultime parole. Le favole, sebbene propongano in forma decontestualizzata un caso esemplare, di valore universale («Il mio intento è mostrare la vita e i costumi della gente», 43), adombrano la triste esperienza personale dell’autore e dei diseredati come lui. Di qui il tono amaro e risentito, diverso da quello sereno e distaccato dagli apologhi esopici.

È da notare che il pessimismo del vinto, l’atteggiamento rinunciatario, l’acquiescenza e il fatalismo nei confronti del potere in Fedro derivavano, certo, dalle sue umili origini, ma riflettevano anche uno stato d’animo diffuso a quel tempo, favorito dalla propaganda imperiale: «Durante il principato si diffuse l’accettazione fatalistica dello status quo, che gli imperatori cercarono di sfruttare a proprio vantaggio, presentandosi come messi della provvidenza e rappresentanti di Giove in terra» (P. Fedeli).

Il punto di vista è sempre quello delle classi subalterne, alle quali per la prima volta viene data una voce. I ceti umili erano anche al centro della favolistica esopica, popolata, quando i personaggi erano umani, da schiavi, pescatori, taglialegna, carbonai. Fedro conosceva bene la condizione servile: servitus obnoxia /… quae volebat non audebat dicere («I servi assoggettati… non osavano dire quel che volevano» (43).

Coccodrillo. Mosaico, I sec. d.C. Cardiff, National Museum of Wales.

In questo concedere la parola alle classi disagiate sta il carattere oggettivamente eversivo dell’opera di Fedro. Tuttavia, non sono del tutto chiari i motivi che avrebbero indotto Seiano a punire duramente l’autore, il cui messaggio non solo non era rivoluzionario ma era conservatore, in quanto predicava la resa incondizionata a una realtà, considerata come del tutto “naturale”, che vedeva «i potenti sempre più potenti, gli umili sempre più oppressi, i cattivi sempre più cattivi». «Non c’è nessuna ragione di credere che Fedro aspirasse a un regime migliore di quello imperiale» (A. La Penna). La consapevolezza dell’ingiustizia non si tradusse mai in uno scatto di ribellione, ma solo nell’invito ad affinare le armi della sopravvivenza tipiche dei diseredati (l’astuzia, la risposta fulminea e mordace), a ricercare il minor danno, a conseguire un’autosufficienza morale attraverso la rinuncia alle ricchezze. E in questa ricorrente esortazione alla saggezza è forse da cogliere l’influsso della «filosofia popolare» diatribica e cinica. Eppure, evidentemente, anche la denuncia generica («Non è mio intento bollare i singoli», 43), questo farsi timido portavoce degli oppressi, era una colpa dal punto di vista dei detentori del potere: Palam muttire plebeio piaculum est («Per uno della plebe, criticare apertamente è sacrilegio», 64). Come l’avvertenza, nelle didascalie di un film, che ogni riferimento a fatti e personaggi reali è casuale, non impedisce che chi ha la coscienza sporca si senta chiamato in causa, così gli innocenti ioci di Fedro irritarono chi sapeva di essere incorso nei comportamenti censurati: «Se qualcuno, per suo sospetto, attribuirà a sé l’universale, stupidamente rivelerà la propria colpa» (43).

 

 

Il modello, lo stile.

Fedro doveva essere consapevole della novità della sua opera. Egli dichiarava, certo, il proprio debito verso Esopo per quanto attiene alla materia e al genere, ma rivendicava la propria originalità: «Questa [l’assunzione del genere favolistico] è la sola eredità per me, tra noi non c’è invidia, ma gara. Plaudendo il Lazio questa impresa mia, con la Grecia vieppiù si paragoni» (II epil. 6-9). Fedro si vantava di avere rivestito la prosa della tradizione esopica in versi senari (polivi versibus senariis), ma la novità riguardava anche le res, i contenuti. Nel prologo del II libro (vv. 11 ss.) egli annuncia temi propri, aggiunti a quelli esopici: le sue favole sono «esopiche, ma non di Esopo» (Aesopias, non Aesopi), perché egli ne ha composte di più, e anche con argomenti nuovi (… pluris fero / usus vetusto genere sed rebus novis), non solo quelli legati al folklore, ma anche quelli della cronaca e dell’attualità romane. Sono certamente originali gli aneddoti con protagonisti umani, che svolgono soggetti novellistici celebri, come quello della matrona di Efeso, trattato con arte ben più scaltrita da Petronio, o il racconto di Tiberio e del servo zelante.

Servi che versano il vino. Mosaico pavimentale, II-III secolo, da Dougga. Musée du Bardo.

Con Fedro la favola acquisì per la prima volta nella letteratura latina dignità d’arte. L’autore difese con energia il valore poetico dei propri ioci in base ai canoni ellenistici della varietas e della brevitas: «Certo, al modo d’Esopo mi atterrò sempre con ogni cura; ma se poi, per amor di varietà, mi piacesse di aggiungere qualche aneddoto, prendetelo, lettori, in buona parte, purché abbia il pregio della brevità» (II prol. 9).

Soprattutto la concisione – un principio costitutivo della favola, ma anche della poetica di Orazio (di cui Fedro imita le satire) e della scuola atticista – caratterizza la lingua di Fedro. È la lingua viva della conversazione quotidiana, ma depurata, resa elegante dalla ricerca di urbanitas. La forma è limpida e piana, equidistante dalla volgarità e dalla gonfiezza barocca, adatta alla natura semplice e schematica della favola. Questo equilibrio di stile ha fatto pensare a Terenzio.

I dialoghi, i cui interlocutori spesso personificano principi etici contrastanti, sono agili e serrati. Costruiti con frasi brevi ed efficaci in uno stile medio non sciatto, con qualche punta aulica in funzione parodica, rivelano una vena apprezzabile di realismo comico.

Corvo su vaso. Affresco, 100 a.C. ca., da Pompei.

Mira a nobilitare l’espressione il frequente uso dell’astratto, come il corvi deceptus stupor («la stupidità gabbata del corvo»), la servitus obnoxia («la servitù soggetta»), la decepta aviditas del cane che porta la carne attraverso il fiume, la colli longitudo della gru. Ma un simile procedimento aggrava il principale difetto delle fabulae, che consiste proprio nell’astrattezza un po’ fredda e scolastica della rappresentazione. In esse non si vedono caratteri umani studiati psicologicamente e materiati di umanità – come, per esempio, i due topi della citata favola oraziana – ma solo vizi umani in veste animale. L’astrazione congiunta all’assillo della sintesi scolorisce il racconto, rendendolo povero, schematico, privo di un respiro narrativo: «Quasi tutto ciò che non è essenziale all’azione e all’interpretazione viene trascurato: il racconto viene a mancare quasi sempre di autonomia» (A. La Penna).

Fedro fu ignorato dai contemporanei e più volte espresse la propria amarezza per il fatto che le proprie fabulae non abbiano ottenuto il successo sperato. Seneca considerava la favola teriomorfa un genere privo di imitatori romani (intemptatum Romanis ingeniis opus, Ad Pol. 8, 27) e Quintiliano non lo citava nel paragrafo dedicato alle Aesopi fabellae. Fedro è ricordato solo da Marziale (III 20, 5), che considerava provocatori (improbos) i suoi versi scherzosi (iocos), ma il passo è molto discusso. A Fedro si riallacciò tutta la favolistica medievale, da Roman de Renard (XII secolo) alle Fables (1668-1694) di Jean de La Fontaine. Il culmine della fortuna fu toccato nel Settecento: la semplicità della lingua unita all’intenzione pedagogica garantì a Fedro il successo nelle scuole.

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[1] A. La Penna, Introduzione a Fedro, Favole, Torino 1968, p. xvii.

Il teatro e gli strumenti della μίμησις

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.

Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.

Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).

Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):

ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· εἶτα μελοποιία καὶ λέξις, ἐν τούτοις γὰρ ποιοῦνται τὴν μίμησιν.

Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.

Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).

A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.

Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].
La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.

Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.

Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.

Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.

In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.

La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.

Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.

La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.

Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.

I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.

Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.