Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

 ***

[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.

Cortesie (e scortesie) per gli ospiti

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 702 sgg.

 

Catullo invita l’amico Fabullo a cena, avvertendolo però che dovrà portarsela per suo conto, assieme a tutto quanto potrà allietarla (ivi compresa una bella ragazza); il poeta infatti è – o meglio si dichiara – in bolletta. La contropartita che il poeta propone a Fabullo è immateriale ma non per questo inconsistente: è la sua stessa amicizia, unita a un unguento di Lesbia dal profumo irresistibile.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Si tratta di un carme d’occasione e l’occasione è ghiotta, ma solo se il destinatario sarà disposto a collaborare: Catullo invita a cena Fabullo (un amico nominato anche altrove nel Liber), ma lo avverte che dovrà portarsi il necessario; il poeta infatti ha le tasche vuote e non può offrire altro che la propria amicizia e un profumo di Lesbia, per annusare il quale Fabullo dovrà chiedere agli dèi che lo facciano «tutto naso». Com’è evidente, la confidenza e l’ironia sono le caratteristiche salienti del componimento, in cui almeno due volte si fa ricorso all’effetto a sorpresa, per ribaltare sia le aspettative dell’amico sia quelle del lettore (che anche in questo carme scorge la compresenza di una forma poetica tradizionale e di uno «spirito» – inteso anche come tono spiritoso – nuovo).

 

Cenabis[1] bene, mi Fabulle, apud me

paucis, si tibi di favent, diebus[2],

si tecum attuleris bonam atque magnam

cenam, non sine[3] candida[4] puella

et vino et sale et omnibus cachinnis[5].

haec si, inquam, attuleris, venuste noster[6]

cenabis bene; nam tui Catulli

plenus sacculus est aranearum[7].

sed contra accipies meros amores

seu quid suavius elegantiusve est:

nam unguentum dabo, quod meae puellae

donarunt Veneres Cupidinesque,

quod tu cum olfacies, deos rogabis

totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

 

Che cena, Fabullo mio, da me,

tra pochi giorni, se gli dèi vorranno,

e se porti una cena buona e abbondante

non senza una bellissima ragazza

e vino e spirito e risa in quantità.

Con questo contributo, bello mio,

dico: che cena! Sì, perché la borsa

del tuo Catullo è piena di ragnatele!

Ricambierò con sinceri affetti

e con quanto c’è di più elegante e raffinato,

cioè un profumo[8], che alla mia ragazza

hanno donato le Veneri e gli Amorini,

il quale se lo annuserai, pregherai gli dèi

di farti diventare tutto naso[9]!

(tr. it. E. Mandruzzato)

 

L’invitatio ad cenam è elemento topico che si trova nella letteratura latina in più generi letterari. La frequenza di tale elemento, che nasce comunque da situazioni reali, lascia intravvedere quanto era diffusa la pratica conviviale, nella quale era ricercato soprattutto il piacere dello stare assieme.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

Cicerone, nell’invitare l’amico Peto ad aver cura della propria salute, prendendo a frequentare gli amici e ad accettare quegli inviti a cena fuori, che invece rifiuta, afferma (Ad fam. IX 24, 3):

Nihil est aptius vitae, nihil ad beate vivendum accomodatius. Nec id ad voluptatem refero sed ad communitatem vitae atque victus remissionemque animorum, quae maxime sermone efficitur familiari, qui est in conviviis dulcissimus…

Dunque «la prassi alimentare non è solo la soddisfazione di un bisogno naturale, ma è condizionata da fattori culturali, è un atto socializzato e ritualizzato, basato su un proprio linguaggio, quindi anche simbolico…». E un simbolico valore comunicativo assume il cibo così come l’etichetta: è dunque in questo quadro che si inserisce, con le sue convenzioni sociali, la partecipazione al convito, preceduta da «formale» invito. «Il biglietto di invito, come quello di risposta, doveva menzionare gli elementi costitutivi che sono il tempo, il luogo, l’apparato, le persone che rendono ospitale l’ambiente, il menu, che adombra in sé una scelta di vita» (F. Citti). In Catullo tutti questi elementi sono presenti, ma il suo è uno scanzonato e goliardico invito: sarà invitato a portare con sé quel che serve per la riuscita della serata, limitandosi Catullo ad indicare tempo (paucis diebus) e luogo (apud me). Né mancano gli usuali elementi formali: l’uso del futuro, il vocativo del nome dell’invitato (Fabulle), la presenza del verbo cenare, proprio della formula stereotipa d’invito.

Oltre al celeberrimo invito a cena a Mecenate di Odi I 20, il poeta venusino propone il «biglietto» inviato all’amico Torquato e, come spesso nella sua poesia, «protagonista» del carme è il vino: non mancano tutti gli elementi propri dell’invitatio ad cenam che abbiamo già enucleato e l’invito alla frugalitas proprio della musa oraziana.

Epist. I 5

Se ti contenti di giacere ospite su divani fabbricati da Archia

né sdegni di mangiare erbaggi d’ogni sorta in un modesto piatto,

al tramonto in casa ti aspetterò, o Torquato,

berrai vino versato nei dogli fra Petrino di Sinuessa e Miturna

5   palustre quando Tauro fu per la seconda volta console.

Se ne hai di migliore, fallo pure venire, se no accontentati del mio.

Da un pezzo splende il fuoco e le stoviglie brillano per te,

lascia da parte le futili speranze e la corsa al denaro

il processo di Mosco: domani, compleanno di Cesare, giorno festo,

10 darà riposo e sonno; sarà lecito senza colpa

prolungare la notte estiva chiacchierando.

A che mi serve la Fortuna, se non m’è consentito usufruirne?

Chi risparmia pensoso all’erede ed è troppo severo

somiglia a un pazzo; voglio incominciare a bere

15 e spargere fiori, e lascerò pensare che ho perduto il senno.

Che cosa non sprigiona mai l’ebbrezza? Manda fuori i segreti,

rende evidenti le speranze, spinge in guerra l’imbelle,

scuote il peso dell’angoscia, ispira le arti.

A chi non donano fervida parlantina i calici?

20 Chi non risollevano, ridotto in povertà?

A me, convenientemente e non forzatamente, è richiesto di preoccuparmi

di queste cose: che la coperta sia decente, nitido il tovagliolo

perché non ti venga la nausea, né che il bicchiere e il piatto

non ti rispecchino, né vi sia qualcuno fra i fidi amici

25 che vada in giro a propalare i discorsi, e che ciascuno stia

con un compagno che gli sia pari. Inviterò per te Butra e Septicio

e anche Sabino, a meno che non lo trattenga una compagnia preferibile

alla nostra: una ragazza. C’è posto per parecchi seguaci,

ma se stiamo troppo stretti si sente puzza di becco.

30 Tu scrivimi in quanti sarete e, dimessi gli affari,

pianta in asso i clienti nell’atrio e scappa dalla porta sul retro[10].

Mosaico pavimentale con Bacco, Arianna, Sileno e Satiro a banchetto. II secolo d.C. Tunisi, Musée du Bardo.

«La differenza di tono da Catullo è anche troppo facile a segnarsi: Catullo si abbandona tutto al suo gioco, Orazio è anche qui contenuto e sorvegliato; l’epistola si apre con uno dei motivi più costanti sia dell’Orazio satirico sia dell’Orazio lirico, con un richiamo alla sua metriotes: la cena sarà spoglia di inutile fasto» (A. La Penna). Anche altrove (Sat. 2) Orazio biasima la ricercatezza dei cibi offerti non per la loro gustosità ma perché prescritti dalla moda del momento e contrappone ai banchetti lussuosi quelli più frugali della tradizione romana; è un richiamo ai valori del mos maiorum e, insieme, una scelta di vita: lo spazio del simposio è spazio dell’amicizia.

Ma non per tutti a Roma era così, come lasciano intravvedere i numerosi epigrammi di Marziale che parlano di «inviti a cena» e la Satira 5 di Giovenale che, rivolgendosi al cliens che riceve l’invito, mette in evidenza la stessa realtà.

Un momento che dovrebbe essere dedicato alla celebrazione dell’amicizia rivela, attraverso i cibi offerti, l’arroganza del patronus che a sé riserva cibi raffinati e prelibati ed al cliens concede cibi di poco pregio o addirittura ripugnanti andandosi così ad iscrivere l’offerta di cibo in un simbolico rituale che sottolinea la differenza di classe sociale.

 

Marziale, Epigr. III 60

Siccome m’inviti a cena e ormai non mi dai più denaro come prima,

perché non mi vengono servite le tue stesse pietanze?

Tu t’ingozzi di ostriche ingrassate nello stagno Lucrino,

Io mi succhio un mitilo dopo averne rotto la conchiglia:

5   tu mangi boleti, io funghi porcini;

tu sei impegnato con i rombi, io invece con piccoli spari;

tu ti rimpinzi di grasse cosce di tortora dal color dell’oro,

a me viene presentata una gazza morta in gabbia.

Perché io ceno senza di te, pur cenando con te, o Pontico?

10 Non si dà più la sportula, approfittiamone: mangiamo gli stessi cibi[11].

(trad. it. G. Norcio)

 

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Un gatto che azzanna un uccello e anatre, uccelli, pesce e conchiglie. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Giovenale, Satire V, passim

[…] Anzitutto, piantati bene in testa che, invitato a cena,

non fai che ricevere il saldo completo dei tuoi passati servizi.

Il pasto è il frutto di un’ininfluente amicizia: il padrone te lo mette in conto,

e anche se avviene raramente, tuttavia te l’addebita […]

E che cena poi! Un vino che non vorrebbe assorbire

la lana greggia […]

Lui stesso beve vino travasato quanto i consoli avevano i capelli

e tiene uva pigiata al tempo delle guerre sociali.

[…] Osserva quella lampreda che vien portata al padrone:

come adorna il bacile col suo lungo corpo e come, circondata attorno

dagli asparagi, pare spregiare i convitati con la coda,

mentre arriva tenuta alta sulle palme di un altissimo schiavo.

Ma a te viene servito, in un piccolo piatto, un gamberetto

circondato da mezzo uovo, vera cena mortuaria.

Quello lì, invece, innaffia il suo pesce con olio di Venafro, ma a te,

poverino, verrà portato un livido cavolo che puzza

di lucerna […]

Del padrone sarà una triglia inviata dalla Corsica

o dalle scogliere di Taormina […]

A Virrone si serve una murena enorme che viene

dai gorghi di Sicilia […]

Per voi è pronta un’anguilla parente dell’affilata biscia

o un pesce del Tevere macchiettato †dal ghiaccio† e

abitatore delle sponde, impinguato dal flusso della cloaca

ed uso risalire la fogna della Suburra fino al centro città.

[…] Agli amici di bassa risma verranno serviti funghi sospetti,

al padrone un boleto, ma di quelli che Claudio mangiò

prima di quello della moglie, dopo il quale non mangiò più nulla!

Virrone, per sé e per gli altri Virroni, farà portare

quelle mele, delle quali soltanto l’odore basterebbe a nutrirti,

di quelle che produceva il perenne autunno dei Feaci:

potresti credere che siano state sottratte alle sorelle africane.

Tu invece mangi una mela imbozzacchita, quale rosicchia

sui bastioni lo scimmione che, coperto di scudo e di elmo,

timoroso della sferza, impara a vibrare la lancia dall’alto d’un’irsuta capretta.

(trad. it. P. Frassinetti)

 

Scena di banchetto. Mosaico, V sec. d.C. da Aquileia. Musée de le Château de Boudry

In modo simile dunque, attraverso una continua antitesi tra ciò che mangia il patronus e ciò che è da lui offerto ai clientes sia Marziale sia Giovenale enfatizzano la differenza fra le portate che, per chi invita, è giusta rimarcatura di diversa posizione sociale, per chi è invitato, è frutto di discriminazione e fonte di umiliazione.

Che questi comportamenti nella società romana, soprattutto in età imperiale, dovessero essere frequenti risulta anche dall’epistolario di Plinio il Giovane.

Riportiamo, ad esempio, Epist. II 6, 1-4:

Lungo sarebbe, e neppur ne vale la pena, risalire molto indietro per dire come sia avvenuto ch’io cenassi in casa di un tale che non era affatto mio intimo: uomo, a sentir lui, magnifico insieme ed economo, ma a parer mio tanto sontuoso quanto gretto. A se stesso e ad alcuni faceva servire vivande squisite, agli altri cibi comuni e scarsi. Anche i vini aveva fatto disporre entro piccole fiale di tre qualità diverse, non per lasciare libertà di scelta ma perché non si potesse opporre rifiuto: una qualità per sé e per noi, un’altra per gli amici minori (ché ha amici di gradi diversi), e l’altra per i suoi e nostri liberti.

Quegli che giaceva al mio fianco notò la cosa e mi domandò se io l’approvassi. Risposi di no. «E tu» fece «come ti regoli?». «Faccio servire a tutti le stesse cose; a una cena io invito, non a un affronto; e tratto in modo eguale quelli che ho fatto miei eguali nella mensa e nel triclinio». «Anche i liberti?». «Anche i liberti; perché in tale occasione li considero commensali, e non liberti». E quello: «Ti deve costar caro». «Oh, niente affatto». «Come mai?». «Come? Perché i miei liberti non bevono il vino che bevo io, ma bevo io quello che bevono anche i liberti»[12].

(trad. it. G. Vitali)

 

È evidente l’atteggiamento di disgusto da parte di Plinio che «esprimendo il suo ideale antitetico di uguaglianza assoluta di tutti i convitati – liberti compresi – resa possibile dalla parsimonia nella scelta delle vivande, prende le distanze e stigmatizza questi eccessi tipici dei nuovi ricchi» (G. Migliori).

 

 ***

 

[1] Formula convenzionale di invito, dove il futuro ha un valore iussivo, ossia di comando, nell’ambito di una proposizione che viene ad essere l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi compare a sorpresa nel v.3; la cena per i Romani era il pasto principale della giornata ed iniziava intorno alle tre del pomeriggio.

[2] L’indeterminatezza della data da un lato contrasta con la perentorietà dell’invito e con la certezza della sua accettazione, dall’altro sembra alludere ironicamente alle incerte condizioni di ospitalità di cui apprenderemo nei versi successivi; e l’espressione si tibi di favent («se gli dèi ti sono favorevoli»), inciso proprio della lingua d’uso, rinforza il dubbio che non si tratterà di una cena comune.

[3] È litote per cum, rispetto a cui è più efficace.

[4] Indica la luminosità e la grazia della puella (probabilmente un’intrattenitrice musicale.

[5] Ecco l’aprosdóketon, ovvero la cosa inattesa, in questo caso il fatto che la condizione della cena è che Fabullo porti la cena stessa – concetto ben reso dal richiamo tra il cenabis dell’incipit e cenam del v.4, entrambi a inizio di verso –, o meglio i suoi ingredienti (qui enumerati anche con il polisindeto del v.5).

[6] È detto con affetto ma anche con una sfumatura ironica.

[7] Espressione proverbiale, come proverbiale – da Ipponatte alla letteratura ellenistica – è l’idea del poeta pitocco e male in arnese (che qui non va certo presa sul serio).

[8] Si tratta di un profumo oleoso; quella di profumarsi durante i banchetti era un’usanza importata dall’Oriente.

[9] Altro motto di spirito, che da una parte enfatizza il valore del profumo, dall’altra ridimensiona l’intervento divino.

[10]    Si potes Archiacis conviva recumbere lectis/nec modica cenare times holus omne patella,/supremo te sole domi, Torquate, manebo,/vina bibes iterum Tauro diffusa palustris/inter Minturnas Sinuessanumque Petrinum./si melius quid habes, arcesse, vel imperium fer./iamdudum splendet focus et tibi munda supellex,/mitte levis spes et certamina divitiarum/et Moschi causam: cras nato Caesare festus/dat veniam somnumque dies; impune licebit/aestivam sermone benigno tendere noctem./Quo mihi fortunam, si non conceditur uti?/parcus ob heredis curam nimiumque severus/adsidet insano, potare et spargere flores/incipiam, patiarque vel inconsultus haberi./quid non ebrietas dissignat ? operta recludit,/spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem,/sollicitis animis onus eximit, addocet artes. /fecundi calices quem non fecere disertum?/contracta quem non in paupertate solutum?/Haec ego procurare et idoneus imperor et non/invitus, ne turpe toral, ne sordida mappa/corruget naris, ne non et cantharus et lanx/ostendat tibi te, ne fidos inter amicos/sit qui dicta foras eliminet, ut coeat par/iungaturque pari. Butram tibi Septiciumque,/et nisi cena prior potiorque puella Sabinum/detinet, adsumam. locus est et pluribus umbris:/sed nimis arta premunt olidae convivia caprae,/tu quotus esse velis rescribe et rebus omissis/atria servantem postico falle clientem.

[11]  Cum vocer ad cenam non iam venalis ut ante,/Cur mihi non eadem, quae tibi, cena datur?/Ostrea tu sumis stagno saturata Lucrino,/Sugitur inciso mitulus ore mihi:/Sunt tibi boleti, fungos ego sumo suillos:/Res tibi cum rhombost, at mihi cum sparulo:/Aureus inmodicis turtur te clunibus implet,/Ponitur in cavea mortua pica mihi./Cur sine te ceno, cum tecum, Pontice, cenem?/Sportula quod non est, prosit: edamus idem.

[12] Longum est altius repetere nec refert, quemadmodum acciderit, ut homo minime familiaris cenarem apud quendam, ut sibi videbatur, lautum et diligentem, ut mihi, sordidum simul et sumptuosum. Nam sibi et paucis opima quaedam, ceteris vilia et minuta ponebat. Vinum etiam parvolis lagunculis in tria genera discripserat, non ut potestas eligendi, sed ne ius esset recusandi, aliud sibi et nobis, aliud minoribus amicis – nam gradatim amicos habet –, aliud suis nostrisque libertis. Animadvertit qui mihi proximus recumbebat, et an probarem interrogavit. Negavi. «Tu ergo» inquit «quam consuetudinem sequeris?». «Eadem omnibus pono; ad cenam enim, non ad notam invito cunctisque rebus exaequo, quos mensa et toro aequavi». «Etiamne libertos?». «Etiam; convictores enim tunc, non libertos puto». Et ille: «Magno tibi constat». «Minime». «Qui fieri potest?». «Quia scilicet liberti mei non idem quod ego bibunt, sed idem ego quod liberti».

Un’analisi linguistica del “carpe diem”

di V. Felici, Riflessioni sulla lingua poetica il carpe diem oraziano, Chaos e Kosmos, VII (2006) [online].

 

Ciò che verrà proposto in questa sede è un’applicazione dei principi teorici di Jakobson a un’espressione poetica celebre quanto intraducibile: il carpe diem di Orazio. Credo sia utile prendere in considerazione le motivazioni esclusivamente linguistiche che hanno condotto Orazio a formulare questa espressione, poiché, come vedremo tra breve, uno dei principi della poetica oraziana riguarda proprio l’attenzione alla combinazione di parole adeguate.
Orazio mostra di avere un perfetto dominio dell’arte poetica e, per usare una felice definizione di Marchesi, può a ragione ritenersi «l’orafo della lirica latina»: egli è un modellatore, un incisore che alla materia nota conferisce una nuova forma. Al di là di qualsiasi interpretazione critica, è Orazio stesso ad affermare i precetti del suo modo di fare poesia nell’Epistula ad Pisones (composta probabilmente tra il 15 e il 13 a.C.). Già Quintiliano, nell’Institutio oratoria (VIII 3, 60), intese l’epistola come un vero trattato, dando ad essa il titolo con il quale viene citata tuttora: Ars poetica.
La scelta del termine ars, equivalente del greco technḗ, da un lato rimanda all’idea di una trattazione manualistica in cui vengono elencati i fondamenti della poetica, dall’altro indica che la poesia è intesa come una creazione che avviene attraverso il lavoro “manuale” e la padronanza della tecnica (il termine “poesia” viene proprio dal greco poiéō che significa in prima istanza «fare, fabbricare, costruire»). Quello del poeta è pertanto un mestiere in cui si coniugano delle doti innate, l’ingenium, con una perfetta padronanza dell’ars/technḗ. La poesia nasce dalla cura, dal limae labor et mora, dalla multa dies et multa litura, dal lucidus ordo (Ars poetica, vv. 261, 41, 291 e ss.). L’uso della lima serve proprio a dar forma la lingua poetica proprio come un artigiano dà forma alla materia.
Come nasce dunque un’espressione poetica per Orazio? Attraverso una combinazione di parole particolarmente accurata: la callida iunctura.
Nell’Ars poetica ai vv. 47-48 leggiamo: In verbis etiam tenuis cautusque serendis / dixeris egregie, notum si callida verbum / reddiderit iunctura novum («Moderato e cauto anche nella scelta delle parole, ti esprimerai in modo personale se un’accorta combinazione renderà nuova una parola usata»). In questi versi Orazio fornisce delle indicazioni sulla scelta delle parole, utilizzando una forma molto accurata (non dimentichiamo che l’Ars poetica è in primo luogo un testo poetico!). Basterà notare la costruzione a-b-a-b-a: notum (si) callida verbum / (reddiderit) iunctura novum. L’aggettivo callida sta a indicare l’astuzia, la furbizia, l’accortezza del poeta, tutte qualità intese in senso positivo. Il sostantivo iunctura è attestato qui per la prima volta e come ha suggerito Ruch (1963) si tratta di un conio oraziano, adattato all’esametro e volto a evitare termini come verba iuncta o continuata, iunctio o coniunctio che riproducono l’espressione greca sýnthesis onomátōn e sono sentiti da Orazio come tecnicismi della retorica.

Giacomo Di Chirico, Ritratto di Q. Orazio Flacco.

Dunque la callida iunctura, perno della poetica oraziana, viene messa in atto nel momento stesso della sua enunciazione. Credo, inoltre, che questo precetto si accordi perfettamente con quanto è stato detto in merito alla funzione poetica nella teoria di Jakobson. Non resta che precisare quali sono le parole da combinare. Orazio parla di parole note che devono essere usate e rese in modo nuovo, ma a quali parole si riferisce? La scelta del poeta è dettata anche (e non solo) dall’appartenenza a una precisa tradizione poetica, sia linguistica che letteraria, e direi, in senso più ampio, a una particolare cultura.
Con “lingua poetica” non intendiamo, pertanto, semplicemente qualcosa di individuale e neppure la somma di forme linguistiche individuali di un poeta, ma piuttosto un possesso linguistico collettivo, nel quale la peculiarità e lo stile del singolo poeta sono determinati dalla sua scelta tra le forme offerte all’interno di un sistema e dalle innovazioni create in aggiunta ad esso.
Come scrive Leumann (1980: 135): «La lingua poetica è dunque un rampollo laterale sull’albero della lingua, essa conduce una mezza esistenza speciale con tradizione propria». L’eternità, per così dire, della lingua poetica è data proprio dalla contiguità con la tradizione letteraria e culturale precedente. Ciò vale soprattutto per l’antichità, in quanto nelle letterature antiche vigono due principi basilari: la costanza della forma linguistica all’interno dei generi letterari e l’accettazione dei modelli. L’imitatio è sentita, dunque, come una norma e non come vizio o difetto. Attraverso la callida iunctura il poeta può innovare nel solco della tradizione attraverso una perfetta padronanza dell’arte poetica.

Veniamo ora a considerare l’espressione carpe diem, alla luce di quanto detto finora. Questa callida iunctura appare nel Carmen 11 del I libro, anche se espressioni simili appaiono disseminate in tutta la produzione, poetica e non, di Orazio.
Riporto di seguito il testo latino con la traduzione italiana di Tommaso Marciano, che lascia in latino la iunctura suddetta proprio perché, come vedremo, è pressoché impossibile fornirne una traduzione italiana adeguata:

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc opposites debilitate pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vine liques et spatio breui
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit inuida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

 

Tu non chiedere (è un sacrilegio saperlo!) quale termine di vita,
o Leuconoe, gli dèi hanno concesso a me e quale a te
e non interrogare i calcoli babilonesi.
Come sarebbe meglio affrontare con serenità il futuro!
Sia che Giove abbia concesso parecchi inverni,
sia che abbia concesso, come ultimo,
quello che ora sconvolge il mar Tirreno
contro le opposte scogliere: sii saggia, filtra i vini
e tronca una lunga speranza in uno spazio breve,
poiché breve è la durata della vita.
Mentre noi parliamo il tempo invidioso sarà fuggito:
carpe diem, fiduciosa il meno possibile nel domani.

(HOR., Carm. I, 11, Trad. Tommaso Marciano a.s. 1995/1996)

 

In questa ode, Orazio si rivolge a Leuconoe, la donna dalla mente candida secondo il significato del suo nome (dal greco leukós, “bianco”, e nóos, “mente”). Questo destinatario fittizio incarna tutti coloro i quali si interrogano affannosamente sul loro futuro. Orazio inizia la sua ode proprio con un ammonimento: è un sacrilegio sapere (come viene sottolineato dalla iunctura nel coriambo scire nefas) e interrogarsi sulla fine della nostra vita. Il v. 3 si conclude proprio con l’invito ad accettare serenamente il futuro, il verbo pati si riferisce la sopportazione serena. Nel v. 4 il perfetto tribuit sta ad indicare la puntualità dell’azione compiuta da Giove nel momento in cui ha stabilito il termine di vita di ciascuno. Nel v. 5 viene proposta un’immagine paesaggistica piuttosto singolare in cui l’inverno debilitat (verbo raro prima di Orazio) il mar Tirreno. Nei versi seguenti, continuano gli ammonimenti attraverso i congiuntivi esortativi: sapias, liques e reseces. La saggezza risiede nel purificare il vino e nel recidere (resecare è verbo agricolo che sta a significare “potare i rami più lunghi”) una speranza lunga in uno spazio breve. Spatio brevi potrebbe avere anche una sfumatura causale e assieme a spem longam potrebbe esprimere un ossimoro. Nel v. 7 il pessimistico futuro anteriore fugerit sta proprio a indicare la rapidità con cui il tempo scorre e la sua inafferrabilità. Il termine usato per indicare il tempo è aetas, vale a dire il tempo biologico nella sua continuità (da confrontare con il greco aeí “sempre” e con l’aggettivo latino aeternus) che si contrappone al tempus, inteso come tempo segmentato (cfr. il greco témnō “tagliare”). Si deve notare che l’aggettivo invida ha una funzione predicativa più che attributiva; esso si riferisce al sintagma verbale, in dipendenza dal futuro anteriore: letteralmente potremmo tradurre «il tempo sarà fuggito invidioso».
L’ode si conclude con un ultimo ammonimento: carpe diem. Questa volta Orazio impiega l’imperativo presente, le cui caratteristiche semantiche sono proprio la presenza del “tu” e l’immediatezza di esecuzione della prescrizione (a livello formale non abbiamo suffissi specifici per questa forma verbale ma soltanto il puro tema).

 

Anton von Werner, Ritratto immaginario di Quinto Orazio Flacco.

 

In Orazio la quasi totalità degli imperativi può essere classificata secondo tre diversi impieghi. Possiamo trovare imperativi cultuali, che esprimono invocazioni o richieste agli dei; imperativi conviviali, che riguardano i gesti del convito come comandi al servo o inviti agli amici; imperativi gnomici, volti a indicare comportamenti ritualizzati che rassicurano contro la minaccia dell’imprevisto e dell’ignoto. A quest’ultimo gruppo appartengono molti esempi di imperativo negativo, che risponde all’esigenza di Orazio di inibire l’azione, ricercando la saggezza nella rinuncia e nel rifugio dall’angoscia del tempo e del morte, chiudendosi nell’oggi per non pensare al domani. Questa rappresenta una delle maggiori differenze rispetto a Catullo, in cui l’imperativo ha sempre un contenuto preciso e attuale, profondamente radicato nell’hic et nunc.
Carpe diem è uno dei pochi imperativi gnomici non espressi nella forma negativa, anche se anticipato nell’ode da una serie di ammonimenti “negativi” che invitano a non compiere determinate azioni (v. 1 Tu ne quaesieris, vv. 2-3 nec Babylonios temptaris numeros). Molte sono state le proposte di traduzione, ne cito solo alcune: «afferra l’oggi» (Canali), «cogli la giornata» (Mandruzzato), «goditi il presente» (Ramous). Tuttavia, come ho già detto, è difficile trovare un’espressione italiana che possa corrispondere adeguatamente alla iunctura oraziana.
In un articolo del 1973, Alfonso Traina illustra la semantica del carpe diem, a partire dalla sfera semantica del “prendere” in Orazio, rappresentata dai verbi: rapio, capio e sumo. Gli ammonimenti oraziani paragonabili a quello del Carmen I, 11 sono i seguenti:

…Rapiamus, amici,
occasionem de die, dumque uirent genua
et decet, obducta soluatur fronte senectus.

(Epod. 13, vv. 3-5)

Dona praesentis cape laetus horae:
linque seuera…

(Carm. III, 8, vv. 27-28)

Tu quamcumque deus tibi fortunauerit horam
grata sume manu neu dulcia differ in annum.

(Ep. I, 11 vv. 22-23)

Nel primo esempio tratto dagli epodi, rapiamus … occasionem de die «strappiamo l’occasione dal giorno (prima che esso fugga)», il verbo rapio indica il prendere con rapidità e violenza (basti pensare al significato delle parole italiane derivate da esso: rapire, rapina e simili). Negli altri esempi, si fa riferimento a un dono. Nei versi del Carmen III, 8, Orazio dice per l’appunto: «Cogli lieto i doni dell’ora presente, lascia i gravi pensieri». Nell’Epistola I, 11 si legge: «Ogni ora fortunata che un dio ti assegna, tu prendila con mano riconoscente e non rimandare da un anno all’altro la gioia».
Il verbo capio indica il prendere per avere, quindi il possesso (come in captivus “prigioniero”). Il verbo sumo indica il prendere qualcosa per usarne (cfr. il composto perfettivo consumo) e ricorre molto spesso negli imperativi conviviali in cui assume come oggetto termini relativi al cibo e alle bevande. In questo caso l’oggetto è meno materiale, horam, ma è sempre un bene di cui godere immediatamente. Inoltre, la scelta di sumo è dettata anche dall’associazione con manu, quasi a voler visualizzare il gesto che unisce l’uomo e dio.
Il verbo carpo si pone tra due campi semantici del “prendere” e del “cogliere”. Come ha sottolineato Traina (1973: 9-11), nelle traduzioni proposte si dà per scontato il riferimento all’accezione figurata di questo termine, vale a dire l’azione del “godere” o del “gustare”. In questo modo, il significato letterale di carpo (“cogliere”) viene immediatamente investito di sfumature semantiche che rappresentano il punto di arrivo della concezione oraziana. In realtà, il valore semantico di carpo deve essere analizzato prima al di fuori dell’ode di Orazio, proprio per poter comprendere effettivamente quale fosse il significato originario e il motivo della scelta di Orazio.
Innanzitutto, bisognerà notare che tale termine è piuttosto raro nelle fonti letterarie precedenti Orazio. In secondo luogo, ritengo utile evidenziare quali significati assume la radice indoeuropea da cui deriva carpo, *(s)kerp- che ha valore generico di «dividere, separare», nelle lingue storiche. Possiamo confrontare il verbo latino anche con altre forme come il greco karpós “frutto” e keírō “tagliare” ma anche “tosare, radere”, l’indiano antico krnati “ferire”, il germanico *harbista- “raccolto” da cui si è avuto il tedesco Herbst “autunno” e l’anglosassone hoerfest “autunno”, il lituano kirpti “tagliare con le forbici”, l’iberico cirrid “lacerare”. Oltre a questi esempi, non va trascurato il verbo italiano carpire, il cui significato letterale è “afferrare, strappare via, cogliere (con astuzia, di sorpresa)”, da cui si sono sviluppati gli usi figurati come “afferrare con lo sguardo”, “scorgere di sfuggita” o ancora “afferrare con la mente” fino al significato di “riuscire a ricordare”.
In latino, il primo significato di carpo è “cogliere” nel senso di staccare fiori, erba o frutti, di qui il significato “prendere a spizzico” con un movimento lacerante e progressivo che va dal tutto alle parti, come sfogliare una margherita o mangiare un carciofo. Sul versante sintagmatico l’accostamento di carpo con dies sta a indicare che dies è la parte da staccare, da cogliere. Secondo Traina (1973: 16-17), il dies è la parte dell’aetas, il tempo nella sua continuità. A questo tempo ostile (invida) bisogna strappare l’oggi, un frammento che ci è dato di godere prima che la fuga del tempo lo cancelli.

Muse e letterati (part.). Rilievo, marmo, metà III sec. d.C. da sarcofago asiatico. Roma, Museo Nazionale.

Credo che si possano aggiungere ulteriori osservazioni all’analisi di Traina. Mi riferisco in particolare all’uso del termine dies, che a mio avviso non si limita a indicare semplicemente una parte dell’aetas. Nel lessico oraziano di Boll vengono elencati gli usi di dies, distinguendo tra un uso proprio (generico oppure definito) e gli usi figurati in cui è sinonimo di tempus o di lux. L’esempio del carpe diem è riportato negli usi generici, in cui dies si riferisce al giorno in senso astratto. Tuttavia, penso che sia possibile approfondire questa classificazione attraverso un’interpretazione più ampia di questo termine a partire dall’indoeuropeo.
Dalla radice indoeuropea *djē- “brillare, risplendere” si è avuta una forma *dje(w)- “giorno”’, che ricorre in molte lingue indoeuropee antiche come l’osco (zicolo– “giorno”), il greco (éndios “a mezzogiorno”), l’armeno (tiw “giorno”), l’ittita (sīwatt- “giorno”), l’indiano antico (dívā “durante il giorno” e divasá– “giorno”). Sylvie Vanséveren (1997) ha presentato un’analisi accurata di tutti i termini indoeuropei derivati da questa radice e utilizzati per denominare “il cielo” e “il giorno”. Questa interpretazione, volta a mettere in luce i caratteri formali (che saranno qui tralasciati) di questa radice, fornisce degli interessanti spunti per capire la semantica di dies. Il tema *dje(w)- presenta in epoca storica due valori distinti e ben attestati: un valore spaziale, quello di “cielo”, e un valore temporale, quello di “giorno”, che rappresenta la parte diurna del giorno. In latino possiamo spiegare in questo modo le forme Iūpiter (*djēu p∂ter vocativo “padre del giorno/cielo”, attestato anche nella forma Diēspiter) e Vēdiūs, rappresentazione divinizzata del cielo (al pari del greco Zeus), così come il termine deus “dio”. Allo stesso modo le forme avverbiali diū (da confrontare con l’irlandese indíu) “di giorno” e hodiē (forma nominale cristallizzata paragonabile al vedico adyā) riguardano “il giorno”, ossia con significato temporale “l’oggi”.
A mio parere, nell’ode di Orazio si può rintracciare una rappresentazione metaforica del dies, ora identificata con la divinità, personificazione del cielo (v. 2 di “dei”, v. 4 Iuppiter, che molto spesso in Orazio ricorre anche nella forma Diēspiter), ora intesa come “giorno”. Nel corso dell’ode, è come se la localizzazione spazio-temporale del giorno passasse dalla sfera divina a quella umana: attraverso il carpe diem, l’uomo è dunque esortato ad afferrare una parte della luce divina. Se questo è vero, dies va inteso in senso temporale, in quanto indica “la parte diurna del giorno”, che per l’uomo viene a coincidere con il giorno stesso. In tal modo, dies esprime la luce attraverso una sua parte: il giorno. Potremmo concludere che carpe diem si presenta come un’espressione metonimica, in cui la parte sta a rappresentare il tutto. Orazio ci invita a “cogliere il giorno”, ossia quella porzione di luce appropriandosi della quale gli uomini possono vivere, anche se solo per un tempo limitato, nello stesso modo in cui vivono gli dèi.
L’analisi formale e linguistica proposta qui si accorda con il significato filosofico più profondo del carpe diem: esso non è un’esortazione al godimento effimero di un momento fugace, ma al modo di vita del saggio epicureo il quale, come ha bene osservato Alessandro Linguiti, gode «pienamente dell’unica vita che abbiamo a disposizione, e per questo ogni momento di essa, ogni sua frazione, diviene preziosa e degna di essere assaporata fino in fondo». Già Epicuro paragonava il modo di vita del saggio a quello degli dèi: «vivrai come un dio tra gli uomini; poiché in nulla è simile ad un essere vivente vita mortale, uomo che viva fra immortali beni» (Epistola a Meneceo, § 135, trad. E. Bignone). Questa assimilazione a dio non avviene, come nella tradizione platonica, attraverso la fuga dal mondo sensibile verso una realtà trascendente: al contrario, il saggio epicureo si assimila agli dèi perché vive, nella ristretta porzione di vita che gli è concessa, con la stessa imperturbabile serenità propria degli dèi. A questo terreno afferrare parte della luce divina allude il carpe diem…Sicuramente intraducibile.

Bibliografia:

LINGUITI A., Il valore dell’istante presente nelle filosofie ellenistiche,
Chaos e Kosmos 2 (2001) [www.chaosekosmos.it ISSN 1827-0468].

LEUMANN M., La lingua poetica latina, in LUNELLI A. (ed.), La lingua poetica latina, Bologna 1980, pp. 133-178 [trad. it. da Die lateinische
Dichtersprache, in Kleine Schriften, Stuttgart 1959, pp.
131-156].

RUCH M., Horace et les fondements de la iunctura dans l’ordre de la
création poétique (A.P. 46-72), REL 41 (1963), pp. 246-269.

TRAINA A., Semantica del carpe diem, RFIC 101 (1973), pp. 1-21.