Χαῖρε καὶ πίει τήνδε, χαῖρε καὶ πίει τήνδε: Salute e bevi questa, Salute e bevi questa, cioè la coppa piena di vino dove il contenitore sta metonimicamente per il liquido contenuto.
Sono dipinte queste parole su entrambi i lati di una kylix attica a vernice nera lucente, a basso piede, trovata in contrada San Donato, tra Talsano e Leporano (Taranto) (fig. 1); si tratta di un documento secondo me molto interessante per questa assise e di stretta attinenza alla tematica del convegno ed al territorio di Leporano in cui oggi, al Castello Muscettola, ci troviamo[1].
Il vaso da simposio, appartenente ad una collezione privata tarantina, è datato, sulla base delle analisi epigrafiche e stilistiche alla fine del VI secolo a.C. (530-510 a.C.).

La coppa parlante, attribuita alla maniera di Douris, reca un’iscrizione che mi pare elemento importante di un brindisi di rito; potrebbe – chiedo a Murray – essere un documento di vita simposiale nella chora tarantina nella fine del VI secolo a.C.?
In un’altra kylix della stessa collezione, sul fondo, è dipinto un simbolo fallico trasportato da una figura femminile; proviene da Faggiano, al confine con Leporano, e reca dipinta sul fondo la parola καλός, bello.
Segnalo soprattutto la prima coppa come attestazione di quella gioia catartica di cui parlava stamane la Kerényi, legata alla pratica del consumo del vino, quella felicità dionisiaca cui ha fatto riferimento la relatrice ricordando, tra l’altro, il celebre vaso di Pronomos: uno stato di piacere e gaudio legati proprio al simposio, la charis, uno dei valori fondamentali per la stabilità del gruppo sociale, insieme a koinonìa e philìa, espressi nei simposi del mondo greco-romano[2] da Oriente ad Occidente, fino al primo Cristianesimo: “quell’aspettativa di gioia nell’ambiente dionisiaco che l’uomo moderno è pronto a demitizzare”[3].
In mancanza dei dati del contesto non possiamo dire se la kylix parlante da San Donato[4] sia di provenienza tombale, ma la formula potoria, scandita due volte, ha secondo me un ritmo poetico che richiama ai simposi ed al godere della gioia del vino per cercare una gioia che vada oltre gli affanni terreni.
Le parole χαίρειν e πίνειν ricorrono spesso nella lirica simposiaca greca, in particolare di Alceo, che scrive: Πίνομεν τί τὰ λυχνία μένομεν; δάκτυλος ἁμέρα: Beviamo, perché attendiamo le fiaccole? Misura un dito la vita; è un topos dell’esortazione al vino che continua con l’invito a tirare giù le kylichnai dagli stipi perché il figlio di Semele e di Zeus ha dato il vino agli uomini come oblìo dei mali: οἶνον λαθικάδεα[5]; all’invito al bere si associa qui il pensiero della morte come destino dell’uomo.
Nella drinking formula si fa esplicito riferimento al χαίρειν, parola che ha la stessa radice di χάρις, la gioia auspicata dalla libagione: una gioia terrena o piuttosto ultramondana per un defunto?
Ricordo a tale proposito un’altra kylix attica, databile al 540 a.C., parte di un intero servizio da simposio, deposto sul pavimento di una camera funeraria secondo un rituale funebre, di derivazione orientale, che appare non solo come ostentazione dello status sociale del defunto ma anche adesione nell’Occidente all’ideologia religiosa salvifica alla base del cerimoniale funebre del simposio rappresentato con l’ostentazione dei beni necessari al banchetto ed al bere collettivo; la coppa è dipinta all’interno con la significativa figura di un gallo ed all’esterno reca l’iscrizione potoria “salute e bevi”; l’elegante kylix fu rinvenuta proprio in mano al defunto adulto deposto sulla kline di una tomba[6]; l’esempio documenta l’usanza antica di accompagnare il defunto nella sua sepoltura con una kylix tra le mani, iscritta per di più con le stesse parole Χαῖρε καὶ πίει che troviamo a San Donato di Talsano a Taranto.
A fronte di una documentazione letteraria che attraverso le fonti delinea la città di Taranto antica come amante del vino, ebbra alle feste di Dionysos, capace di allestire più feste dei giorni dell’anno innaffiati dal buon vino, la città non ha dato altrettanti abbondanti documenti di vasi potori iscritti, ad eccezione dei sette skyphoi della metà del IV secolo a.C. con dediche a Dionysos dai pressi del Borgo di Taranto e due da contrada Montedoro. Perciò mi sembra molto rara la kylix da San Donato, cioè dall’antica chora ad Oriente della polis.
Non mancano invece in Occidente, riguardo al simposio, documenti arcaici dal centro Italia, kylikes attiche con drinking formulae: due tazze di metà VI secolo a.C. con iscrizione Χαῖρε καὶ πίει furono segnalate proprio qui a Taranto in un Convegno di Studi Sulla Magna Grecia, tra la ceramica importata dalla Magna Grecia nel Lazio arcaico (Lanuvio), come un elemento di prova documentaria dei rapporti tra Magna Grecia e Roma nel costume simposiaco[7].
Le parole χαίρειν e πίνειν nei vasi legati al simposio greco[8] sono presenti in area magnogreca, etrusca, nel Lazio arcaico; un altro esempio di contatti tra Roma e l’area culturale magnogreca nel VI secolo a.C. è una coppa attica che, nella zona compresa fra le anse, inquadrata da palmette, mostra la medesima formula Χαῖρε καὶ πίει εὖ; l’iscrizione traducibile letteralmente con gioisci e bevi bene, caratteristica espressione augurale simposiaca, proviene dalla ceramica greca dall’Area Sacra di S. Omobono[9].
Si stanno dunque conoscendo e dibattendo sempre meglio le iscrizioni formulari potorie del tipo Χαῖρε καὶ πίει εὖ scritte su entrambi i lati soprattutto nelle coppe attiche dei Piccoli Maestri prodotte tra il 550 e il 530 a.C.; la coppa dal territorio tarantino di San Donato rientra nella lista delle kylikes parlanti da simposio; l’iscrizione augurale si presenta come formula simposiale rituale che invita alla gioia del bere con parole molto probabilmente poetiche, strutturate in verso che si ripete due volte sui lati A-B della kylix, seguendo un ritmo; ciò ci induce, questa è un’interpretazione che si può discutere, ad ipotizzare un passaggio di mano in mano della coppa stessa tra i convitati di un simposio, sotto l’egida di un simposiarca. Si documenta, con la prima coppa parlante da me qui proposta, proveniente dalla chora di Taranto, un bisogno particolare di comunicazione in un contesto da approfondire ed analizzare o discutere nel filone a mio avviso molto probabilmente della libagione simposiaca, rituale, escatologica in una comunità di tradizione laconica che venerava anche l’aspetto funerario del dio del grappolo che a Taranto era venerato come Dionysos Zagreus figlio di Persefone, la dea dell’Oltretomba, fino a giungere, in particolare nel IV secolo a.C., con Archita, a sentire fortemente la sacralità escatologica del vino particolarmente all’interno di gruppi di iniziati che col sostegno di religiosità mistica (orfica) con cui il dionisismo si era innestato proprio qui a Taranto, cercavano una speranza mistica di salvezza attraverso la bevuta condivisa.
Il termine sympòsion deriva da sympìnein, bere insieme e l’iscrizione fa appunto riferimento ad un augurio o invito indirizzato da un emittente, con l’imperativo singolare, ad un ricevente: bevi tu questa coppa; pare proprio l’indicazione di un turno di consumazione della bevanda, concomitante ad un saluto gioioso secondo la modalità del bere nel contesto simposiaco greco, quando al primo brindisi, dedicato alla salute, facendo girare la coppa verso destra, seguiva un brindisi particolare accompagnato dalle parole chaire, chaire kai su: salute, salute anche a te oppure: chaìre, chaìre kaì pìe èu: salute, salute e bevi bene, facendo il giro[10].
Tali “formule di saluto o di esortazione al bere”, chiamate oggi modernamente dagli studiosi drinking formulae, dipinte sui vasi per simposio, furono in uso dall’età arcaica fino alla ellenistica e romana; rimanendo nello stretto ambito semantico dei due verbi, essi segnano chiaramente un momento ben distinto dal deipnon, in virtù dell’esplicito incoraggiamento al pinein che si fa strumento e garanzia di quanto sotteso nel primo invito: il godimento, il piacere, quasi un anticipo di grazia liberatoria dagli affanni del mondo indotta dalla consumazione del vino.
Le relazioni sinora ascoltate ci aiutano a mio avviso a capire ancora più a fondo la natura di questo chaire: se si tratti di una formula meramente conviviale tra vivi phìloi, omòioi, membri di un thiasos, di una cerchia, o se travalichi, sempre all’interno di un gruppo di pari, la sfera mondana; chaire, chairete sono infatti anche formule di saluto, corrispondenti al latino salve, salvete, da intendersi non solo come augurio di salute e benessere ma anche di benvenuto per l’arrivo di un ospite o di buona fortuna e di felicità per una partenza, un addio, come mi sembra più probabile nel caso della coppa con formula potoria tra le mani di un defunto.
In quest’ultimo caso o quando il vaso fosse rinvenuto all’interno di una sepoltura, si tratterebbe di una libagione funeraria, una pratica escatologica attestata nella Magna Grecia ionica dove rituali simposiaci legati al culto dei defunti sono ben documentati[11].
Nella necropoli tarantina della polis è documentato per l’età arcaica il rituale funerario del simposio in riferimento a tombe maschili come mostra, tra gli altri reperti, la sontuosa tomba a camera arcaica di via Crispi, dove i sarcofagi sono accostati alle pareti come fossero delle klinai; l’ambiente funerario è strutturato come un vero e proprio andròn, spazio simposiaco, post mortem, corredato da contenitori da vino: crateri a volute con scene dionisiache di banchetto, sono stati rinvenuti tra i sarcofagi e ridotti in frammenti, sparsi per terra dentro la stanza; oinochoai e ben 27 kylikes, trovate sia dentro che fuori i sarcofagi, dimostrano che i defunti, maschi adulti, componenti di una élite, erano stati deposti nelle tombe come se dovessero “partecipare ad un banchetto”, forse più pubblico che privato, dopo la loro morte, o “condividere un simposio con i vivi”; il simposio appare qui svolgere una doppia funzione: sociale ed escatologica, nell’ideale eroico ed aristocratico dei defunti, atleti eroizzati, per i quali si immaginava una vita beata nell’aldilà[12].
La funzione funeraria escatologica del consumo del vino nel contesto del potos è ben documentata a Taranto come mostrano ad esempio i vasi potori attici per simposio dalla tomba 12 del primo venticinquennio V secolo a.C. dall’area attuale Ospedale SS. Annunziata; anche le età tardoclassica ed ellenistica ci restituiscono, sempre dalla necropoli tarantina, vasi connessi al simposio con vino nei corredi funerari delle tombe a camera e semi-camera di IV secolo a.C. in cui il defunto era deposto su letto funebre a kline con kylikes attiche ed oinochoai apule raffigurate con scene dionisiache; inoltre i riti di libagione presso naiskoi e semata, collocati sopra le tombe ipogee, sono documentati nelle scene raffigurate sulla ceramica apula.
La seconda kylix da me segnalata in questo illustre convegno documenta un rituale di Phalloforiai processioni sacre a Dionysos che prevedevano il trasporto di phalloi scolpiti in legno di fico, pianta sacra al dio; sono ricordati dalle fonti le pompai per Dionysos con inni di accompagnamento ai simboli per eccellenza della generazione e della vita[13] (fig. 2), impazzimento collettivo e grandi bevute.

Nelle Phalloforiai, propiziatorie del raccolto la cui origine fu attribuita agli Egizi[14] e che si diffusero successivamente nel mondo agricolo dell’antica Grecia e poi in Italia e nei territori dominati dai Romani, il trasporto del phallos attraverso la città rientrava nel cerimoniale agrario collettivo per la fecondità dei campi[15]. La scena sul fondo della kylix da Faggiano potrebbe far riferimento ad un culto rurale di Dionysos per la fertilità della terra nella chora a Levante di Taranto? Un aspetto specifico delle Dionisie tarantine? Le processioni delle feste Phalloforiai o Phallagoghiai prevedevano oltre al trasporto dell’idolo anche la consumazione di vino.
Le Dionisie Rurali celebrate nel mese di Poseidone (dicembre-gennaio) avevano soprattutto il carattere di feste della fecondità dei campi di antichissima tradizione agraria e proprio la phallagoghia era la parte essenziale della rustica festa che prevedeva komos e canti senza troppi freni inibitori; il corteo era inoltre animato dalle canefore, che recavano festoni di edera (il vegetale che orna il fondo della coppa e sacro a Dionysos) e canestri di fiori o di frumento, focacce di varie forme, grani di sale, frutta, uva ed altri simboli sacri; le phallofore, in buona parte sacerdotesse di Afrodite, recavano devotamente il simulacro insieme alle Baccanti incaricate di cerimonie particolari.
Plutarco ci descrive una di queste processioni in campagna, retaggio di più antichi riti agrari greci: in testa venivano portati un’anfora piena di vino, misto a miele, e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano un fallo per propiziare la fecondità della terra con pioggia di acqua mista a miele e succo d’uva.
In questa coppa da Faggiano decorata nel fondo con ramo di edera, è interessante che sia una fanciulla, Menade Baccante o più probabilmente sacerdotessa di Afrodite, dai capelli racchiusi nella cuffia a sakkos, protagonista del rituale di accompagnamento dell’idolo, divinità generatrice, su cui è dipinta la parola καλός.
È nota dalle fonti la passione per il vino nell’antica Taranto che alle Dionisie si ritrovava “tutta ebbra” intendendo secondo me l’intero popolo tarantino dalla città alla campagna. Una terra feconda, produttrice dell’apprezzato Aulone, ricordato dalle fonti antiche, che attestano quindi la produzione vitivinicola in questo settore della chora ad Est della polis tarantina dove non poteva mancare una organizzazione produttiva dei terreni nel rispetto delle proprietà sacre allo stesso dio del vino, sacri terreni di cui abbiamo eco solo da fonti locali che richiamano un Santuario nella “Contrada Nisio”.
Com’è noto i riti dionisiaci a Taranto furono osteggiati dai Romani fino alla emanazione del Senatus Consultus de Baccanalibus che infierì sui pastori che abitavano nella chora i quali, perseguitati in quanto seguaci di Dionysos, si erano riuniti in bande e rendevano insicuri i publica pasqua, i pascoli pubblici di Roma; ma gli stessi Romani apprezzarono il vino di queste parti!
Purtroppo, come ha detto oggi pomeriggio il Brun, si sono un po’ trascurati gli studi sulla campagna antica e quest’osservazione vale per il territorio rurale magnogreco ad oriente di Taranto che oggi corrisponde a Talsano, Lama, San Vito, San Donato, Faggiano, Leporano, Pulsano. Riguardo a questo settore della chora tarantina orientale il territorio, prevalentemente ancora oggi rurale, offre purtroppo penuria di dati archeologici spesso reperiti sporadicamente da collezioni private come i due esempi da me proposti.
Per di più la ricerca archeologica sull’antica chora tarantina viene ostacolata dalla rapida urbanizzazione della campagna; perciò mi sembra ci sia molto da riflettere su quanto ci ha detto Brun sulla trascuratezza degli studi relativi alle terre rurali del mondo antico, tra cui inserirei anche le terre tarantine.
Chissà che da questo convegno non parta una maggiore volontà di studio e di ricerca focalizzata sulla campagna!
I documenti ceramici che vi ho segnalato, dal territorio di Faggiano e San Donato, mi sembrano importanti anche per richiamare l’attenzione soprattutto sull’agro di Talsano (Taranto) che ha dato già documenti archeologici credo interessanti per questo convegno; basti pensare al rinvenimento nel cosiddetto praedium di Luciniano, su un lieve rialzo collinare dominante l’orlo sudorientale della Salina Grande, di una fattoria dell’epoca di Archita. Il toponimo prediale, uno dei numerosi in anum presenti nel territorio agrario di Taranto, ci riporta ad una fase di latifondismo romano non coeva ai rinvenimenti ma successiva e testimonia la continuità abitativa nell’ambito dell’economia agraria legata alla viticoltura la cui organizzazione potrebbe ricevere nuova luce anche dalle relazioni odierne.
Si tratta di una contrada tarantina ancora a forte impatto agricolo con monocoltura prevalente a vino; secondo me è un territorio questo molto interessante e poco valorizzato in cui esistono ancora, purtroppo malridotte, masserie degne di valorizzazione, insistenti su siti archeologici e quindi da tutelare e valorizzare; nella contrada Luciniano un’omonima masseria rispetto alla quale ad appena 650 metri in direzione nordoccidentale furono rinvenuti, durante l’impianto di un vigneto nel 1982[16], resti archeologici della fattoria e della necropoli vicina tra cui orli di pithoi per conservare le derrate, ceramica a vernice nera, un sarcofago; lo scasso per piantare la vite ha rivoltato e portato in superficie le tegole crollate dell’antica struttura abitativa rurale; la ceramica permette la datazione V-III secolo a.C.
Un altro sito rurale nei pressi del primo, sempre a Luciniano, riporta come il primo alla chora agraria tarantina dal V al III secolo a.C.; il successivo intervento della Soprintendenza, a causa della presenza dei vigneti, non ha però consentito, come leggiamo nelle notizie ufficiali sullo scavo, la lettura complessiva dell’area, mentre l’espianto di un vigneto vecchio che aveva sconvolto tombe e portato in superficie lastroni tombali, ha permesso di trovare numerose sepolture ad inumazione maschili e femminili, tra cui alcune imponenti di V secolo a.C., altre di IV-III a.C., e molte già manomesse dai clandestini[17].
Quello che ci interessa ai fini del presente dibattito in relazione a Brun è la conclusione cui è giunta la Soprintendenza: che già nel V secolo a.C. la chora era frequentata dagli insediamenti con una diffusione delle fattorie ancora più fitta da metà IV secolo a.C. secolo che corrisponde all’economia agraria voluta da Archita. Resti di pithoi segnalabili anche in località Sanarica in un’area insediativa frequentata sin dall’età arcaica.
Ho fatto questi esempi per richiamare nuovamente la vostra attenzione sulla chora tarantina a Est di Taranto continuamente saccheggiata dai tombaroli. Ma dopo la relazione di Brun aumenta lo sconforto per la campagna tarantina che sparisce anche nelle sue più antiche testimonianze al sopravanzare urbano: vediamo oggi palazzi moderni al posto di masserie (di per sé monumenti da tutelare) che sono andate distrutte (Masseria Gagliardo), anche se ricche di storia, in particolare della produzione vinaria nel territorio di Talsano.
Secondo me questa terra necessita di progetti e di programmazione ad hoc per l’emersione o la valorizzazione almeno dei dati archeologici già emersi.
Auspico che in futuro qualcuno colga questo stimolo di ricerca ed un appello per questa terra ancora ricca di vigneti ma sempre più povera di dati archeologici, lasciati a scavi di emergenza: lo merita veramente.
Chiedo alla professoressa Lin Foxall se non ritenga utile applicare alle antiche fattorie magnogreche di Leporano e della chora tarantina quel modello di ricerca ed interpretativo quale il suo qui egregiamente illustrato per le fattorie greche di età classica. Alla prof.ssa Isler-Kerényi mi permetto di aggiungere alla sua ricca documentazione le sculture raffiguranti Dionysos giovane prassitelico del museo di Taranto e, riguardo al cratere di Derveni, le chiedo se la spiegazione erotico iniziatica in senso escatologico, preminente nella ceramica illustrata dalla relatrice, non la possa applicare anche a questo vaso in metallo con scena di matrimonio di Dioniso e Arianna o se altro è il messaggio. Cari amici, chaire kai piei tende.
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Abbreviazioni bibliografiche
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Wachter, Drinking Inscriptions on Attic Little-Master Cups: A Catalogue (AVI 3), in Kadmos XLII , 1-2, Berlin 2004, pp. 141-89.
***
Note:
[1] Per la formula chaire kai piei eu sulla ceramica attica nell’Orizzonte della Magna Grecia ionica cfr. Lombardo et Alii 1997, pp. 313 ss., n. 33 con rinvio, tra gli altri, a Immerwahr 1990; per le due kylikes da contrada San Donato, tra Leporano e Talsano (Taranto) (con formula potoria) e da Faggiano (con formula acclamatoria) qui da me segnalate cfr. Fedele et Alii 1984, p. 45, tav. XLII, f. 12; p. 48, tav. XLVIII, f. 3 e Bonivento Pupino 1990.
[2] Klinghardt 1996.
[3] Langlotz 1970, p. 242.
[4] Una coppa con simile iscrizione in Kretschmer 1894, p. 195.
[5] Voigt 1971, fr. 346 (edidit).
[6] Tomba 20, necropoli chiusina La Pedata, Museo Civico Archeologico Chianciano.
[7] Castagnoli 1968, p. 97 ripreso da Cerri 1974, pp. 59-61, con annotazione molto interessante sulla struttura metrica della formula potoria nel metro lirico ferecrateo.
[8] Giangrande 1967; Valanes 1966; Valavanis – Kourkoumelis 1995; Wachter 2004; Χαῖρε καὶ πίει εὖ (AVI 2) in Penney 2004, pp. 300-322.
[9] Antiquarium Comunale, inv. 17419 – Scavi Colini 1938.
[10] Ciacci 2007, p. 189: raffigurazione di una coppa attica a figure rosse del pittore Oltos (510 a.C. circa), in cui compare l’iscrizione bevi anche tu.
[11] Considerazioni interessanti si sono fatte sui riti di libagione iterati per il defunto nei diversi cicli annuali nelle aree sepolcrali metapontine (cfr. contrada Ricotta, necropoli con attestazione nel III sec. a.C. della formula chaire incisa su stele come saluto o commiato al defunto o defunta).
[12] Per stanze funerarie arredate come sale maschili per simposi, con sarcofagi lungo le pareti ed utensili per simposio cfr. Lippolis et Alii 2007 e recentemente Burkhardt 2008.
[13] Cfr. Heracl., DK 15.
[14] Hdt., II 48-49.
[15] Plut., De cupiditate divitiarum, VIII 527 d.
[16] Costamagna 1982.
[17] Dell’Aglio 1997.
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