Attestazioni del rito del simposio e della phallagoghia agraria a Taranto

di G. Bonivento Pupino, Due kyliches attiche con iscrizioni dalla chora ad Est di Taranto attestazioni del rito del simposio e della phallagoghia agraria, in La vigna di Dioniso: vite, vino e culti in Magna Grecia, Atti del Quarantanovesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 24-28 settembre 2009, Taranto 2011, pp. 257-264.

 

 

Χαῖρε καὶ πίει τήνδε, χαῖρε καὶ πίει τήνδε: Salute e bevi questa, Salute e bevi questa, cioè la coppa piena di vino dove il contenitore sta metonimicamente per il liquido contenuto.

Sono dipinte queste parole su entrambi i lati di una kylix attica a vernice nera lucente, a basso piede, trovata in contrada San Donato, tra Talsano e Leporano (Taranto) (fig. 1); si tratta di un documento secondo me molto interessante per questa assise e di stretta attinenza alla tematica del convegno ed al territorio di Leporano in cui oggi, al Castello Muscettola, ci troviamo[1].

Il vaso da simposio, appartenente ad una collezione privata tarantina, è datato, sulla base delle analisi epigrafiche e stilistiche alla fine del VI secolo a.C. (530-510 a.C.).

 

kylix attica a vernice nera con iscrizione potoria da san donato (taranto). 530-510 a.c. collezione privata
Fig. 1. Kylix attica a vernice nera con iscrizione potoria da San Donato (Taranto). 530-510 a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.

La coppa parlante, attribuita alla maniera di Douris, reca un’iscrizione che mi pare elemento importante di un brindisi di rito; potrebbe – chiedo a Murray – essere un documento di vita simposiale nella chora tarantina nella fine del VI secolo a.C.?

In un’altra kylix della stessa collezione, sul fondo, è dipinto un simbolo fallico trasportato da una figura femminile; proviene da Faggiano, al confine con Leporano, e reca dipinta sul fondo la parola καλός, bello.

Segnalo soprattutto la prima coppa come attestazione di quella gioia catartica di cui parlava stamane la Kerényi, legata alla pratica del consumo del vino, quella felicità dionisiaca cui ha fatto riferimento la relatrice ricordando, tra l’altro, il celebre vaso di Pronomos: uno stato di piacere e gaudio legati proprio al simposio, la charis, uno dei valori fondamentali per la stabilità del gruppo sociale, insieme a koinonìa e philìa, espressi nei simposi del mondo greco-romano[2] da Oriente ad Occidente, fino al primo Cristianesimo: “quell’aspettativa di gioia nell’ambiente dionisiaco che l’uomo moderno è pronto a demitizzare”[3].

In mancanza dei dati del contesto non possiamo dire se la kylix parlante da San Donato[4] sia di provenienza tombale, ma la formula potoria, scandita due volte, ha secondo me un ritmo poetico che richiama ai simposi ed al godere della gioia del vino per cercare una gioia che vada oltre gli affanni terreni.

Le parole χαίρειν e πίνειν ricorrono spesso nella lirica simposiaca greca, in particolare di Alceo, che scrive: Πίνομεν τί τὰ λυχνία μένομεν; δάκτυλος ἁμέρα: Beviamo, perché attendiamo le fiaccole? Misura un dito la vita; è un topos dell’esortazione al vino che continua con l’invito a tirare giù le kylichnai dagli stipi perché il figlio di Semele e di Zeus ha dato il vino agli uomini come oblìo dei mali: οἶνον λαθικάδεα[5]; all’invito al bere si associa qui il pensiero della morte come destino dell’uomo.

Nella drinking formula si fa esplicito riferimento al χαίρειν, parola che ha la stessa radice di χάρις, la gioia auspicata dalla libagione: una gioia terrena o piuttosto ultramondana per un defunto?

Ricordo a tale proposito un’altra kylix attica, databile al 540 a.C., parte di un intero servizio da simposio, deposto sul pavimento di una camera funeraria secondo un rituale funebre, di derivazione orientale, che appare non solo come ostentazione dello status sociale del defunto ma anche adesione nell’Occidente all’ideologia religiosa salvifica alla base del cerimoniale funebre del simposio rappresentato con l’ostentazione dei beni necessari al banchetto ed al bere collettivo; la coppa è dipinta all’interno con la significativa figura di un gallo ed all’esterno reca l’iscrizione potoria “salute e bevi”; l’elegante kylix fu rinvenuta proprio in mano al defunto adulto deposto sulla kline di una tomba[6]; l’esempio documenta l’usanza antica di accompagnare il defunto nella sua sepoltura con una kylix tra le mani, iscritta per di più con le stesse parole Χαῖρε καὶ πίει che troviamo a San Donato di Talsano a Taranto.

A fronte di una documentazione letteraria che attraverso le fonti delinea la città di Taranto antica come amante del vino, ebbra alle feste di Dionysos, capace di allestire più feste dei giorni dell’anno innaffiati dal buon vino, la città non ha dato altrettanti abbondanti documenti di vasi potori iscritti, ad eccezione dei sette skyphoi della metà del IV secolo a.C. con dediche a Dionysos dai pressi del Borgo di Taranto e due da contrada Montedoro. Perciò mi sembra molto rara la kylix da San Donato, cioè dall’antica chora ad Oriente della polis.

Non mancano invece in Occidente, riguardo al simposio, documenti arcaici dal centro Italia, kylikes attiche con drinking formulae: due tazze di metà VI secolo a.C. con iscrizione Χαῖρε καὶ πίει furono segnalate proprio qui a Taranto in un Convegno di Studi Sulla Magna Grecia, tra la ceramica importata dalla Magna Grecia nel Lazio arcaico (Lanuvio), come un elemento di prova documentaria dei rapporti tra Magna Grecia e Roma nel costume simposiaco[7].

Le parole χαίρειν e πίνειν nei vasi legati al simposio greco[8] sono presenti in area magnogreca, etrusca, nel Lazio arcaico; un altro esempio di contatti tra Roma e l’area culturale magnogreca nel VI secolo a.C. è una coppa attica che, nella zona compresa fra le anse, inquadrata da palmette, mostra la medesima formula Χαῖρε καὶ πίει εὖ; l’iscrizione traducibile letteralmente con gioisci e bevi bene, caratteristica espressione augurale simposiaca, proviene dalla ceramica greca dall’Area Sacra di S. Omobono[9].

Si stanno dunque conoscendo e dibattendo sempre meglio le iscrizioni formulari potorie del tipo Χαῖρε καὶ πίει εὖ scritte su entrambi i lati soprattutto nelle coppe attiche dei Piccoli Maestri prodotte tra il 550 e il 530 a.C.; la coppa dal territorio tarantino di San Donato rientra nella lista delle kylikes parlanti da simposio; l’iscrizione augurale si presenta come formula simposiale rituale che invita alla gioia del bere con parole molto probabilmente poetiche, strutturate in verso che si ripete due volte sui lati A-B della kylix, seguendo un ritmo; ciò ci induce, questa è un’interpretazione che si può discutere, ad ipotizzare un passaggio di mano in mano della coppa stessa tra i convitati di un simposio, sotto l’egida di un simposiarca. Si documenta, con la prima coppa parlante da me qui proposta, proveniente dalla chora di Taranto, un bisogno particolare di comunicazione in un contesto da approfondire ed analizzare o discutere nel filone a mio avviso molto probabilmente della libagione simposiaca, rituale, escatologica in una comunità di tradizione laconica che venerava anche l’aspetto funerario del dio del grappolo che a Taranto era venerato come Dionysos Zagreus figlio di Persefone, la dea dell’Oltretomba, fino a giungere, in particolare nel IV secolo a.C., con Archita, a sentire fortemente la sacralità escatologica del vino particolarmente all’interno di gruppi di iniziati che col sostegno di religiosità mistica (orfica) con cui il dionisismo si era innestato proprio qui a Taranto, cercavano una speranza mistica di salvezza attraverso la bevuta condivisa.

Il termine sympòsion deriva da sympìnein, bere insieme e l’iscrizione fa appunto riferimento ad un augurio o invito indirizzato da un emittente, con l’imperativo singolare, ad un ricevente: bevi tu questa coppa; pare proprio l’indicazione di un turno di consumazione della bevanda, concomitante ad un saluto gioioso secondo la modalità del bere nel contesto simposiaco greco, quando al primo brindisi, dedicato alla salute, facendo girare la coppa verso destra, seguiva un brindisi particolare accompagnato dalle parole chaire, chaire kai su: salute, salute anche a te oppure: chaìre, chaìre kaì pìe èu: salute, salute e bevi bene, facendo il giro[10].

Tali “formule di saluto o di esortazione al bere”, chiamate oggi modernamente dagli studiosi drinking formulae, dipinte sui vasi per simposio, furono in uso dall’età arcaica fino alla ellenistica e romana; rimanendo nello stretto ambito semantico dei due verbi, essi segnano chiaramente un momento ben distinto dal deipnon, in virtù dell’esplicito incoraggiamento al pinein che si fa strumento e garanzia di quanto sotteso nel primo invito: il godimento, il piacere, quasi un anticipo di grazia liberatoria dagli affanni del mondo indotta dalla consumazione del vino.

Le relazioni sinora ascoltate ci aiutano a mio avviso a capire ancora più a fondo la natura di questo chaire: se si tratti di una formula meramente conviviale tra vivi phìloi, omòioi, membri di un thiasos, di una cerchia, o se travalichi, sempre all’interno di un gruppo di pari, la sfera mondana; chaire, chairete sono infatti anche formule di saluto, corrispondenti al latino salve, salvete, da intendersi non solo come augurio di salute e benessere ma anche di benvenuto per l’arrivo di un ospite o di buona fortuna e di felicità per una partenza, un addio, come mi sembra più probabile nel caso della coppa con formula potoria tra le mani di un defunto.

In quest’ultimo caso o quando il vaso fosse rinvenuto all’interno di una sepoltura, si tratterebbe di una libagione funeraria, una pratica escatologica attestata nella Magna Grecia ionica dove rituali simposiaci legati al culto dei defunti sono ben documentati[11].

Nella necropoli tarantina della polis è documentato per l’età arcaica il rituale funerario del simposio in riferimento a tombe maschili come mostra, tra gli altri reperti, la sontuosa tomba a camera arcaica di via Crispi, dove i sarcofagi sono accostati alle pareti come fossero delle klinai; l’ambiente funerario è strutturato come un vero e proprio andròn, spazio simposiaco, post mortem, corredato da contenitori da vino: crateri a volute con scene dionisiache di banchetto, sono stati rinvenuti tra i sarcofagi e ridotti in frammenti, sparsi per terra dentro la stanza; oinochoai e ben 27 kylikes, trovate sia dentro che fuori i sarcofagi, dimostrano che i defunti, maschi adulti, componenti di una élite, erano stati deposti nelle tombe come se dovessero “partecipare ad un banchetto”, forse più pubblico che privato, dopo la loro morte, o “condividere un simposio con i vivi”; il simposio appare qui svolgere una doppia funzione: sociale ed escatologica, nell’ideale eroico ed aristocratico dei defunti, atleti eroizzati, per i quali si immaginava una vita beata nell’aldilà[12].

La funzione funeraria escatologica del consumo del vino nel contesto del potos è ben documentata a Taranto come mostrano ad esempio i vasi potori attici per simposio dalla tomba 12 del primo venticinquennio V secolo a.C. dall’area attuale Ospedale SS. Annunziata; anche le età tardoclassica ed ellenistica ci restituiscono, sempre dalla necropoli tarantina, vasi connessi al simposio con vino nei corredi funerari delle tombe a camera e semi-camera di IV secolo a.C. in cui il defunto era deposto su letto funebre a kline con kylikes attiche ed oinochoai apule raffigurate con scene dionisiache; inoltre i riti di libagione presso naiskoi e semata, collocati sopra le tombe ipogee, sono documentati nelle scene raffigurate sulla ceramica apula.

La seconda kylix da me segnalata in questo illustre convegno documenta un rituale di Phalloforiai processioni sacre a Dionysos che prevedevano il trasporto di phalloi scolpiti in legno di fico, pianta sacra al dio; sono ricordati dalle fonti le pompai per Dionysos con inni di accompagnamento ai simboli per eccellenza della generazione e della vita[13] (fig. 2), impazzimento collettivo e grandi bevute.

 

kylix attica a figure rosse da faggiano (taranto) con phallagoghia dionisiaca. secondo venticinquennio v sec. a.c. collezione privata
Fig. 2. Kylix attica a figure rosse da Faggiano (Taranto) con phallagoghia dionisiaca. Secondo venticinquennio V sec. a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.

 

Nelle Phalloforiai, propiziatorie del raccolto la cui origine fu attribuita agli Egizi[14] e che si diffusero successivamente nel mondo agricolo dell’antica Grecia e poi in Italia e nei territori dominati dai Romani, il trasporto del phallos attraverso la città rientrava nel cerimoniale agrario collettivo per la fecondità dei campi[15]. La scena sul fondo della kylix da Faggiano potrebbe far riferimento ad un culto rurale di Dionysos per la fertilità della terra nella chora a Levante di Taranto? Un aspetto specifico delle Dionisie tarantine? Le processioni delle feste Phalloforiai o Phallagoghiai prevedevano oltre al trasporto dell’idolo anche la consumazione di vino.

Le Dionisie Rurali celebrate nel mese di Poseidone (dicembre-gennaio) avevano soprattutto il carattere di feste della fecondità dei campi di antichissima tradizione agraria e proprio la phallagoghia era la parte essenziale della rustica festa che prevedeva komos e canti senza troppi freni inibitori; il corteo era inoltre animato dalle canefore, che recavano festoni di edera (il vegetale che orna il fondo della coppa e sacro a Dionysos) e canestri di fiori o di frumento, focacce di varie forme, grani di sale, frutta, uva ed altri simboli sacri; le phallofore, in buona parte sacerdotesse di Afrodite, recavano devotamente il simulacro insieme alle Baccanti incaricate di cerimonie particolari.

Plutarco ci descrive una di queste processioni in campagna, retaggio di più antichi riti agrari greci: in testa venivano portati un’anfora piena di vino, misto a miele, e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano un fallo per propiziare la fecondità della terra con pioggia di acqua mista a miele e succo d’uva.

In questa coppa da Faggiano decorata nel fondo con ramo di edera, è interessante che sia una fanciulla, Menade Baccante o più probabilmente sacerdotessa di Afrodite, dai capelli racchiusi nella cuffia a sakkos, protagonista del rituale di accompagnamento dell’idolo, divinità generatrice, su cui è dipinta la parola καλός.

È nota dalle fonti la passione per il vino nell’antica Taranto che alle Dionisie si ritrovava “tutta ebbra” intendendo secondo me l’intero popolo tarantino dalla città alla campagna. Una terra feconda, produttrice dell’apprezzato Aulone, ricordato dalle fonti antiche, che attestano quindi la produzione vitivinicola in questo settore della chora ad Est della polis tarantina dove non poteva mancare una organizzazione produttiva dei terreni nel rispetto delle proprietà sacre allo stesso dio del vino, sacri terreni di cui abbiamo eco solo da fonti locali che richiamano un Santuario nella “Contrada Nisio”.

Com’è noto i riti dionisiaci a Taranto furono osteggiati dai Romani fino alla emanazione del Senatus Consultus de Baccanalibus che infierì sui pastori che abitavano nella chora i quali, perseguitati in quanto seguaci di Dionysos, si erano riuniti in bande e rendevano insicuri i publica pasqua, i pascoli pubblici di Roma; ma gli stessi Romani apprezzarono il vino di queste parti!

Purtroppo, come ha detto oggi pomeriggio il Brun, si sono un po’ trascurati gli studi sulla campagna antica e quest’osservazione vale per il territorio rurale magnogreco ad oriente di Taranto che oggi corrisponde a Talsano, Lama, San Vito, San Donato, Faggiano, Leporano, Pulsano. Riguardo a questo settore della chora tarantina orientale il territorio, prevalentemente ancora oggi rurale, offre purtroppo penuria di dati archeologici spesso reperiti sporadicamente da collezioni private come i due esempi da me proposti.

Per di più la ricerca archeologica sull’antica chora tarantina viene ostacolata dalla rapida urbanizzazione della campagna; perciò mi sembra ci sia molto da riflettere su quanto ci ha detto Brun sulla trascuratezza degli studi relativi alle terre rurali del mondo antico, tra cui inserirei anche le terre tarantine.

Chissà che da questo convegno non parta una maggiore volontà di studio e di ricerca focalizzata sulla campagna!

I documenti ceramici che vi ho segnalato, dal territorio di Faggiano e San Donato, mi sembrano importanti anche per richiamare l’attenzione soprattutto sull’agro di Talsano (Taranto) che ha dato già documenti archeologici credo interessanti per questo convegno; basti pensare al rinvenimento nel cosiddetto praedium di Luciniano, su un lieve rialzo collinare dominante l’orlo sudorientale della Salina Grande, di una fattoria dell’epoca di Archita. Il toponimo prediale, uno dei numerosi in anum presenti nel territorio agrario di Taranto, ci riporta ad una fase di latifondismo romano non coeva ai rinvenimenti ma successiva e testimonia la continuità abitativa nell’ambito dell’economia agraria legata alla viticoltura la cui organizzazione potrebbe ricevere nuova luce anche dalle relazioni odierne.

Si tratta di una contrada tarantina ancora a forte impatto agricolo con monocoltura prevalente a vino; secondo me è un territorio questo molto interessante e poco valorizzato in cui esistono ancora, purtroppo malridotte, masserie degne di valorizzazione, insistenti su siti archeologici e quindi da tutelare e valorizzare; nella contrada Luciniano un’omonima masseria rispetto alla quale ad appena 650 metri in direzione nordoccidentale furono rinvenuti, durante l’impianto di un vigneto nel 1982[16], resti archeologici della fattoria e della necropoli vicina tra cui orli di pithoi per conservare le derrate, ceramica a vernice nera, un sarcofago; lo scasso per piantare la vite ha rivoltato e portato in superficie le tegole crollate dell’antica struttura abitativa rurale; la ceramica permette la datazione V-III secolo a.C.

Un altro sito rurale nei pressi del primo, sempre a Luciniano, riporta come il primo alla chora agraria tarantina dal V al III secolo a.C.; il successivo intervento della Soprintendenza, a causa della presenza dei vigneti, non ha però consentito, come leggiamo nelle notizie ufficiali sullo scavo, la lettura complessiva dell’area, mentre l’espianto di un vigneto vecchio che aveva sconvolto tombe e portato in superficie lastroni tombali, ha permesso di trovare numerose sepolture ad inumazione maschili e femminili, tra cui alcune imponenti di V secolo a.C., altre di IV-III a.C., e molte già manomesse dai clandestini[17].

Quello che ci interessa ai fini del presente dibattito in relazione a Brun è la conclusione cui è giunta la Soprintendenza: che già nel V secolo a.C. la chora era frequentata dagli insediamenti con una diffusione delle fattorie ancora più fitta da metà IV secolo a.C. secolo che corrisponde all’economia agraria voluta da Archita. Resti di pithoi segnalabili anche in località Sanarica in un’area insediativa frequentata sin dall’età arcaica.

Ho fatto questi esempi per richiamare nuovamente la vostra attenzione sulla chora tarantina a Est di Taranto continuamente saccheggiata dai tombaroli. Ma dopo la relazione di Brun aumenta lo sconforto per la campagna tarantina che sparisce anche nelle sue più antiche testimonianze al sopravanzare urbano: vediamo oggi palazzi moderni al posto di masserie (di per sé monumenti da tutelare) che sono andate distrutte (Masseria Gagliardo), anche se ricche di storia, in particolare della produzione vinaria nel territorio di Talsano.

Secondo me questa terra necessita di progetti e di programmazione ad hoc per l’emersione o la valorizzazione almeno dei dati archeologici già emersi.

Auspico che in futuro qualcuno colga questo stimolo di ricerca ed un appello per questa terra ancora ricca di vigneti ma sempre più povera di dati archeologici, lasciati a scavi di emergenza: lo merita veramente.

Chiedo alla professoressa Lin Foxall se non ritenga utile applicare alle antiche fattorie magnogreche di Leporano e della chora tarantina quel modello di ricerca ed interpretativo quale il suo qui egregiamente illustrato per le fattorie greche di età classica. Alla prof.ssa Isler-Kerényi mi permetto di aggiungere alla sua ricca documentazione le sculture raffiguranti Dionysos giovane prassitelico del museo di Taranto e, riguardo al cratere di Derveni, le chiedo se la spiegazione erotico iniziatica in senso escatologico, preminente nella ceramica illustrata dalla relatrice, non la possa applicare anche a questo vaso in metallo con scena di matrimonio di Dioniso e Arianna o se altro è il messaggio. Cari amici, chaire kai piei tende.

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Abbreviazioni bibliografiche

Fedele et Alii, Antichità della Collezione Guarini, Galatina 1984.

Bonivento Pupino, Collezione Guarini: opportunità per l’istituzione di un museo civico a Pulsano, in Atti Convegno Marina di Pulsano, Pulsano 1990.

Burkhardt, I riti funerari degli Italici e dei Greci sulla costa ionica tra VIII e VI sec. a.C. Influenze reciproche e sviluppi indipendenti, in AIACNews 1-2 (2008), con bibl. prec.

Castagnoli, in ACT 8, Napoli 1968, pp. 93-99.

Cerri, Iscrizioni metriche in lingua greca su vasi arcaici trovati nel Lazio, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Urbino 1974.

Ciacci, Piccola guida al riconoscimento delle forme di alcuni vasi attici ed etruschi, in Introduzione allo studio della ceramica in archeologia, Siena 2007.

Costamagna, Taranto-Talsano: insediamenti rurali, in Taras II, 1-2 (1982), pp. 199-206.

  1. Dell‘Aglio, TARANTO, Lucignano di Talsano, in Taras XVII, 1 (1997), pp. 89-92.
  2. Giangrande, Sympotic literature and epigram, L‘Epigramme Grecque, in Entret. Fond. Hardt, XIV, Genève I967, pp. 93-174.
  3. R. Immerwahr, Attic Script. A Survay, Oxford 1990.
  4. Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft: Soziologie und Liturgie

frühchristlicher Mahlfeiern, Bodenheim 1996.

Kretschmer, Die griechischen Vaseninschriften, ihrer Sprache nach untersucht, Gütersloh 1894.

Langlotz, La scultura, in ACT 10,Napoli 1971, pp. 217-247.

Lippolis et Alii, Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo a.C., Milano 2007.

Lombardo et Alii, Nuovi documenti epigrafici greci dall’area del Golfo di Taranto: Metaponto e Saturo. Vino e pratiche simposiali in un’iscrizione vascolare metapontina, in StAnt X (1997), pp. 313-336.

H. Penney, Indo-European Perspectives, Studies in Honour of Anna Morpurgo Davies, Oxford 2004.

Valanes, Χαῖρε καὶ πίει ἀγγεῖα τοῦ πότου, in Ktēma Chatzēmichale, N. Kephisia 1996.

Valavanis – D. Kourkoumelis, Χαῖρε καὶ πίει, bere navi, Atene 1995.

M. Voigt, Sappho et Alcaeus Fragmenta, Amsterdam 1971.

Wachter, Drinking Inscriptions on Attic Little-Master Cups: A Catalogue (AVI 3), in Kadmos XLII , 1-2, Berlin 2004, pp. 141-89.

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Note:

[1]  Per la formula chaire kai piei eu sulla ceramica attica nell’Orizzonte della Magna Grecia ionica cfr. Lombardo et Alii 1997, pp. 313 ss., n. 33 con rinvio, tra gli altri, a Immerwahr 1990; per le due kylikes da contrada San Donato, tra Leporano e Talsano (Taranto) (con formula potoria) e da Faggiano (con formula acclamatoria) qui da me segnalate cfr. Fedele et Alii 1984, p. 45, tav. XLII, f. 12; p. 48, tav. XLVIII, f. 3 e Bonivento Pupino 1990.

[2] Klinghardt 1996.

[3] Langlotz 1970, p. 242.

[4] Una coppa con simile iscrizione in Kretschmer 1894, p. 195.

[5] Voigt 1971, fr. 346 (edidit).

[6] Tomba 20, necropoli chiusina La Pedata, Museo Civico Archeologico Chianciano.

[7] Castagnoli 1968, p. 97 ripreso da Cerri 1974, pp. 59-61, con annotazione molto interessante sulla struttura metrica della formula potoria nel metro lirico ferecrateo.

[8] Giangrande 1967; Valanes 1966; Valavanis – Kourkoumelis 1995; Wachter 2004; Χαῖρε καὶ πίει εὖ (AVI 2) in Penney 2004, pp. 300-322.

[9] Antiquarium Comunale, inv. 17419 – Scavi Colini 1938.

[10] Ciacci 2007, p. 189: raffigurazione di una coppa attica a figure rosse del pittore Oltos (510 a.C. circa), in cui compare l’iscrizione bevi anche tu.

[11] Considerazioni interessanti si sono fatte sui riti di libagione iterati per il defunto nei diversi cicli annuali nelle aree sepolcrali metapontine (cfr. contrada Ricotta, necropoli con attestazione nel III sec. a.C. della formula chaire incisa su stele come saluto o commiato al defunto o defunta).

[12] Per stanze funerarie arredate come sale maschili per simposi, con sarcofagi lungo le pareti ed utensili per simposio cfr. Lippolis et Alii 2007 e recentemente Burkhardt 2008.

[13] Cfr. Heracl., DK 15.

[14]  Hdt., II 48-49.

[15]  Plut., De cupiditate divitiarum, VIII 527 d.

[16] Costamagna 1982.

[17] Dell’Aglio 1997.

Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).

La ceramica “orientalizzante”

di F. CANCIANI, La cultura orientalizzante e le sue espressioni figurative, in Storia e civiltà dei Greci (Dir. R. BIANCHI BANDINELLI) – Vol, II – Origini e sviluppo della città: l’Arcaismo, Milano 1977.

Con il termine di «Protoattico» si indica la produzione ateniese tra la fine dell’VIII e la fine del VII secolo a.C.; comunemente essa viene divisa in tre periodi: antico (710-680 a.C.), medio (680-630 a.C.) e tardo (630-600 a.C.). Data la consistenza della tradizione figurativa precedente, il passaggio all’Orientalizzante non è netto, e vari elementi di ascendenza geometrica si conservano alquanto a lungo. La personalità che sembra avventurarsi per prima oltre la tradizione è il Pittore di Analatos. Il vaso eponimo, l’ὑδρία 313 del Museo Nazionale di Atene, la cui destinazione funeraria è sottolineata dai serpenti plastici che si snodano sull’ansa, sulla spalla, intorno all’imboccatura, conserva molti elementi di origine geometrica: cornice, riempitivi, la fila di quadrupedi sotto le anse, il χορός intorno al collo.

Pittore di Analatos. Χορός di giovani e donne (dettaglio del collo). Pittura vascolare dall’ὑδρία 313 in stile orientalizzante e geometrico, inizi VII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Pittore di Analatos. Χορός di giovani e donne (dettaglio del collo). Pittura vascolare dall’ὑδρία 313 in stile orientalizzante e geometrico, inizi VII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La forma del vaso è però sfinata, il collo altissimo; il contorno delle figure è fluido, organico. Sulla spalla ai lati di una pianta si affrontano due leoni famelici, con grandi occhi risparmiati, fauci e artigli ben in evidenza. Sotto l’ansa verticale è un’ampia zona con motivi fitomorfi derivati dalle palmette incorniciate fenicie, resi però con una sensibilità per la sostanza vegetale estranea ai modelli. Il gusto coloristico del Pittore si manifesta nelle superfici coperte di punti, nelle corpose strisce di vernice. Ad un momento più avanzato della sua attività appartiene l’anfora CA 2985 del Louvre, anch’essa una forma tardo-geometrica, ma con un collo spropositato; ogni articolazione è annullata dalle pareti di argilla all’interno delle anse, e il vaso acquista una fluidità di contorno quasi organica. Attorno al corpo si svolge una sfilata di carri, sul collo di un χορός e una fila di sfingi sono divisi da rosette alternate a brevi trecce verticali. Le figure sono a silhouette e a contorno, le donne portano ampie vesti coperte di punti, i cavalli, delicati e nervosi, hanno una criniera a lunghe ciocche ondulate indicate a graffito. L’anfora, più matura dell’ὑδρία per il calcolato equilibrio dei contrasti di colore, rappresenta bene il coesistere di tradizione e nuovi fermenti, caratteristico per il Protoattico Antico.

Pittore di Analatos. Anfora CA 2985 Louvre. Pittura vascolare di una loutrofora protoattica, da Atene. 690 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore di Analatos. Anfora CA 2985 Louvre. Pittura vascolare di una λουτροϕόρος protoattica, da Atene, 690 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Un caso fortunato ci consente di intravvedere l’organizzazione di una bottega ateniese. Una sola bottega infatti ha prodotto su commissione per un’unica sepoltura cinque crateri e altre ceramiche – ora conservati nella Collezione Universitaria di Magonza – affidandone la decorazione a tre pittore diversi in collaborazione tra loro: il Pittore di Analatos, il Pittore N e il Pittore di Passas. Il Pittore di Analatos, il più notevole dei tre, mostra il suo gusto coloristico nel largo uso del bianco, anticipando una voga caratteristica per il Protoattico Medio. I crateri combinano elementi diversi: il calderone con manici ad anello sormontati da un fiore di loto e il sostegno troncoconico di derivazione orientale, i serpenti plastici caratteristici per i vasi funerari greci. La decorazione pittorica è tutta improntata da un incombente simbolismo funerario: file di guerrieri, leoni famelici e uccelli in volo sul campo di battaglia, sfingi minacciose, forse le Keres, demoni della morte. Le figure, benché spigolose, sono piene di vitalità e di energia, i leoni, di magrezza spettrale, sembrano grandi cani e nulla devono all’iconografia orientale. I soli elementi forestieri sono le sfingi e le palmette incorniciate.

Pittore della Mesogaia. Hydría ad uso funerario. Pittura vascolare di stile protoattico, da Atene. 700 a.C. ca. Berlin Antikensammlung.
Pittore della Mesogaia. Ὑδρία di uso funerario. Pittura vascolare in stile protoattico, ca. 700 a.C. da Atene. Berlin, Antikensammlung.

Tra i contemporanei del Pittore di Analatos i due più importanti sono il Pittore della Mesogaia e il Pittore dell’Avvoltoio, che ne condividono la formazione ancora geometrica e il gusto per gli ornamenti curvilinei. Il Pittore della Mesogaia dipinge con baldanza alcune ὑδρίαι, inserendo in una cornice ancora abbastanza fedelmente geometrica centauri alati, sfingi, leoni, χοροί, grandi viticci che richiamano quelli dei vasi protocorinzi del gruppo di Cuma; le sue opere più tarde arrivano agli inizi del Protoattico Medio. Il Pittore dell’Avvoltoio ha un disegno preciso e una nitida distribuzione di chiari e di scuri, che sembra rifarsi alla migliore tradizione geometrica. Alla sua bottega è attribuita un’anfora nel Metropolitan Museum di New York, decorata con donne piangenti e con una sfilata di carri interrotta da un solitario cavaliere; un gusto geometrico, quasi retrospettivo, si avverte nella sua puntigliosa simmetria con cui i due leoni affrontati sulla spalla sono risolti in due doppie spirali contrapposte.

Pittore dell’Avvoltoio. Coppa protoattica con alto piede, dall’Attica. 715-700 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore dell’Avvoltoio. Coppa protoattica con alto piede, ca. 715-700 a.C. dall’Attica. Paris, Musée du Louvre

Nel Protoattico Medio si intrecciano tendenze diverse, e spesso è difficile scorgere relazioni tra le singole personalità: una prima fase, sino alla metà del secolo, si distingue per il largo uso del colore bianco (black and white style). Caratteristici sono soprattutto grandi vasi, anfore, crateri, che sembrano contenere a stento una decorazione straripante: animali in lotta, scene mitologiche; le formulazioni, uniche e irripetibili, rivelano il formarsi di una tradizione. Rappresentativo di questa tendenza, confusa ma vitale, è il Pittore della Scacchiera; un suo cratere nel Museo di Berlino è decorato con un daino azzannato da due leoni; le figure sono a silhouette con particolari risparmiati o graffiti; le teste dei leoni, disegnate a contorno, tradiscono la conoscenza dell’iconografia tardo-hittita in particolari come sopracciglia arcuate, il muso corrugato, ma la derivazione è generica, senza la puntigliosa esattezza e la felice sintesi decorativa dei contemporanei leoni protocorinzi.
Le due personalità di maggior rilievo sono però il Pittore di Polifemo e il Pittore della Brocca degli Arieti, che continuano in varia misura rispettivamente la tradizione dei Pittori della Mesogaia e di Analatos. L’opera più significativa del Pittore di Polifemo è la grande anfora, da cui prende il nome, impiegata ad Eleusi per l’inumazione di un bambino. Soltanto la parte anteriore del vaso è decorata, su quella posteriore sono schizzati sommari viticci. Sul corpo è rappresentato Perseo, assistito da Atena, in fuga davanti alle Gorgoni Steno ed Euriale, mentre a sinistra giace il grande corpo decapitato di Medusa. L’iconografia delle Gorgoni è ancora incerta, e le loro teste ricordano stranamente i contemporanei calderoni con protomi di animali. Sulla spalla dell’anfora si affrontano un leone e un cinghiale, mentre sul collo è rappresentato l’accecamento di Polifemo; Odisseo si distingue dai suoi compagni per il colore bianco del corpo. Sono figure smisurate, impegnate in azioni drastiche, ai limiti del possibile. Su un ὑποκρατήριον dello stesso Pittore, pure a Berlino, una generica sfilata di personaggi riccamente vestiti acquista invece significato mitologico grazie all’iscrizione “ΜΕΝΕΛΑΣ” dipinta accanto a uno di essi.

Pittore di Polifemo. «Anfora di Eleusi». L’accecamento di Polifemo (Dettaglio sul collo). 660 a.C. ca. Museo Archeologico di Eleusi.
Pittore di Polifemo. L’accecamento del Ciclope (dettaglio del collo). Pittura vascolare dalla cosiddetta «Anfora di Eleusi», c. 660 a.C. Eleusi, Museo Archeologico Nazionale.

Il Pittore della Brocca degli Arieti è di poco più giovane del collega e ne differisce per uno slancio più contenuto, un più calcolato equilibrio compositivo, un gusto attento al particolare. Sul collo di un’anfora frammentaria conservata a Berlino, Peleo affida il piccolo Achille alle cure di Chirone; il centauro ritorna dalla caccia portando in spalla, appesi a un bastone, tre cuccioli – di leone, di cinghiale, di lupo – da cui trarrà nutrimento il suo pupillo. Su un cratere, pure a Berlino, è rappresentata probabilmente l’uccisione di Egisto da parte di Oreste, e la drasticità dell’azione è accentuata da tre bizzarre figure sotto le anse, forse demoni; sotto si snoda una fila di cavalli al pascolo, con zampe esili e lunghe criniere, che ricordano analoghe figure del Pittore di Analatos. Il vaso eponimo, uno dei più maturi, è un’oinochòē a bocca circolare, una forma estranea alla tradizione attica e forse derivata dal repertorio cretese o greco-orientale, con sulla spalla la fuga di Odisseo e dei suoi compagni dalla grotta di Polifemo aggrappati agli arieti del Ciclope.
Di particolare interesse è una serie di vasi a destinazione funeraria, con fantasiose aggiunte plastiche, decorati dopo la cottura con ricca policromia. Un esempio assai elaborato è un’οἰνοχόη del Ceramico, databile verso il 660 a.C.: sulla spalla tre figure femminili a tutto tondo sembrano reggere l’imboccatura, l’ansa è sormontata da un fiore, due serpenti si snodano sulla spalla e spuntano poi dall’interno del collo; la πρόθεσις dipinta sul corpo documenta la continuità di tradizione e di iconografia con l’età geometrica. Anche l’ἐκφορά è documentata da un gruppo fittile trovato a Vari.
Nella seconda metà del VII secolo a.C. lo slancio si mitiga, le figure si fanno più compatte e precise, mentre la policromia si arricchisce con il frequente impiego del rosso. Un’opera particolarmente rappresentativa per questo momento di transizione e consolidamento è l’anfora da Cinosarge nel Museo di Atene, decorata sul collo con una coppia di lottatori, sul corpo con due personaggi su un carro tirato da cavalli alati, che sembrano congedarsi da una donna. Le figure delle due scene principali sono a contorno, con ricca policromia, mentre in un pannello sulla spalla è inserito un quadrupede a silhouette; lo sfondo è invaso da riempitivi geometrici e fitomorfi.
Alla fine del secolo prevale ormai la tecnica a figure nere, di derivazione corinzia. La personalità più notevole è il Pittore di Netos, la cui produzione giovanile era stata dapprima raggruppata sotto l’etichetta di Pittore della Chimera. Il suo gusto per le composizioni è ben rappresentato dal cratere di Vari, con il mito di Prometeo liberato da Eracle, mentre il cratere A dello stesso ritrovamento, con i grandi gruppi antitetici di fiere che dilaniano un animale ha la grandiosità delle – più tarde – sculture frontonali in πόρος sull’Acropoli. Sul collo dell’anfora eponima, Atene 1002, è rappresentato Eracle che uccide il centauro Nesso; sul corpo a sinistra giace Medusa decapitata, al centro le due Gorgoni inseguono Perseo, che però non compare. Il confronto con l’anfora del Pittore di Polifemo è istruttivo: le Gorgoni hanno assunto la loro fisionomia definitiva e si muovono rapide sopra il mare, indicato da una fila di delfini. Il prevalere degli interessi narrativi porta ad una drastica riduzione dei motivi di riempimento, le figure, quasi concentrate, sono di una compressa monumentalità.
A Corinto la situazione è del tutto diversa, e la cesura tra il Tardo Geometrico e il Protocorinzio Antico è netta. L’Orientalizzante appare a Corinto in modo quasi improvviso, con l’immissione di tutta una serie di elementi nuovi, probabilmente conseguenza di contatti diretti e intensi con il Vicino Oriente; la prima fase, il Protocorinzio Antico, appartiene ancora all’ultimo venticinquennio dell’VIII secolo a.C. Caratteristici sono gli ἀρύβαλλοι, vasetti per profumi, spesso con delicata decorazione miniaturistica. Parallelamente si svolge una produzione monotona, ma di alta qualità tecnica, di vasi con decorazione lineare sub-geometrica. Forme frequenti sono particolarmente le κύλιξ e la κοτύλη, derivata dal tipo Aetos 666, decorata dapprima con file di uccelli schematici eseguiti meccanicamente con un pennello multiplo, poi con file di «sigma». Sulla sequenza tipologica, relativamente chiara, della κοτύλη, e soprattutto dell’ἀρύβαλλος, si basa la cronologia del Protocorinzio, e indirettamente quella di tutto l’Orientalizzante. Il Protocorinzio Antico è caratterizzato dall’ἀρύβαλλος globulare, che si diffonde rapidamente dopo sporadiche apparizioni nel Geometrico, e dal persistere di σκύφοι del tipo Tapso; la κοτύλη tende a diventare sempre più slanciata. Alla fine del periodo la parte inferiore dei vasi non è più verniciata, ma racchiusa da una schematica corolla di raggi triangolari. La decorazione comprende numerosi elementi figurativi: cervi al pascolo, uccelli, pesci, protomi di animali, motivi vegetali; su un’οἰνοχόη conica del Metropolitan Museum è rappresentato anche un cratere con protomi di grifone sul relativo ὑποκρατήριον. I vasi del gruppo di Cuma, così chiamati dal luogo di ritrovamento di alcuni di essi, sono decorati con elaborati viluppi vegetali che interpretano con libertà spunti orientali; sul collo delle οἰνοχόαι si conserva ancora la decorazione a uccelli e file di sigma.

Autore ignoto. Aryballos protocorinzio a forma di testa femminile con combattimento tra opliti, da Tebe. 650-630 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore anonimo. Ἀρύβαλλος protocorinzio con protome femminile e rappresentazione di un combattimento oplitico sul corpo, c. 650-630 a.C. da Tebe. Paris, Musée du Louvre.

Nel Protocorinzio Medio gli interessi figurativi si fanno più complessi, appaiono episodi del mito, battaglie, animali in lotta o in corsa; si sviluppa la tecnica a figure nere, con i contorni e i particolari indicati mediante linee graffite, forse ispirata al procedimento, usuale della toreutica, di rifinire le figure a bulino. Gli ἀρύβαλλοι sono di forma più allungata, ovoide, alti in media 6-8 cm, spesso con più fregi di puntiglioso miniaturismo. Su un ἀρύβαλλος dall’Heraion di Argo appaiono i primi leoni protocorinzi, che tradiscono la derivazione da modelli tardo-hittiti nel disegno delle zampe e della testa con le fauci spalancate e la lingua pendente; una delle fiere, con il corpo maculato e la testa di prospetto, è forse una pantera. Di solito gli ἀρύβαλλοι sono decorati sulla spalla con elaborati viluppi di palmette, fiori e boccioli di loto. Nei fregi secondari ricorre spesso il motivo del cane che insegue una lepre; reso a semplice silhouette, esso è la decorazione principale di una serie di ἀρύβαλλοι o κοτύλαι di qualità andante, che continuano sino alla fine del secolo.
Un ἀρύβαλλος a Berlino con il suicidio di Aiace è opera di un ceramografo – il Pittore di Aiace – che ha decorato pure altri vasi con soggetti mitologici; le figure schiacciate nei due fregi sovrapposti, con membra troppo lunghe, si muovono gesticolando con impegno, ma sembrano a disagio nello spazio troppo basso. Le scene mitologiche sono piuttosto frequenti nel Protocorinzio Medio, ma non sempre di facile esegesi: come nel Protoattico, si tratta di esperimenti caratteristici per il costituirsi di una tradizione, che non stabiliscono ancora una norma iconografica. Non mancano opere di carattere diverso: grandi vasi, οἰνοχόαι, κοτύλαι, decorati con poche figure campite sul fondo chiaro. Particolarmente rappresentativo per questa tendenza è il Pittore dei Cani, che dipinge alcune κοτύλαι con cani e leoni in corsa, figure nervose ed eleganti, rette da una mordente linea di contorno, raggiungendo effetti monumentali. Su una κοτύλη da Egina del Pittore di Bellerofonte è rappresentata la lotta dell’eroe con la Chimera, un mostro che trova appena ora la sua definizione iconografica rielaborando spunti orientali.

Gruppo di Alari. Cani da caccia in corsa. Aryballos protocorinzio, da Corinto. 650-620 a.C. ca. Musée du Louvre.
Gruppo di Alari. Cani da caccia in corsa. Pittura vascolare da un ἀρύβαλλος protocorinzio, ca. 650-620 a.C. da Corinto. Paris, Musée du Louvre.

L’iconografia del leone costituisce uno degli elementi più indicativi delle connessioni orientali del Protocorinzio – e in genere di tutto l’Orientalizzante. Nella prima metà del secolo si seguono modelli siriaci e tardo-hittiti, con muso massiccio, fauci spalancate, lingua pendente, naso corrugato, sopracciglia arcuate, orecchie a cuore o semicircolari, testa e punta del muso contornati, criniera sommaria e compatta, artigli indicati con linee parallele. Esemplare per la rielaborazione protocorinzia dell’iconografia del leone tardo-hittita è la protome che serve da imboccatura all’ἀρύβαλλος Macmillan, conservato nel British Museum. Il vasetto appartiene a una particolare classe a cavallo tra il Protocorinzio Medio e il Protocorinzio Tardo, che si distingue per un uso assai disinvolto della policromia, ed è un vero miracolo di tecnica miniaturistica; alto appena 6,8 cm, è decorato con ben quattro fregi: sulla spalla un intreccio di palmette e fiori di loto, sul corpo una battaglia e, in grandezza decrescente, una corsa di cavalli e una caccia alla lepre.
Nella seconda metà del secolo, nel Protocorinzio Tardo (650-635 a.C.) la produzione aumenta, ma il livello è spesso più modesto. Gli ἀρύβαλλοι sono ora di forma più slanciata, a pera (ἀρύβαλλοι piriformi), si diffonde una nuova forma di brocca a sacco, l’ὄλπη . Le figure hanno maggior ricchezza di particolari anatomici, indicati con incisione, e più abbondanti ritocchi di colore. Si diffonde l’uso di larghe fasce di vernice, in cui sono graffite con un compasso file di squame disposte ad embrice ravvivate con ritocchi di colore.
Non mancano opere di qualità. Un’ὄλπη trovata a Veio, tarda opera del Pittore dei Cani, ripropone il tema del leone che azzanna un toro con il piglio monumentale caratteristico del Maestro; le figure, graffite sul fondo di vernice, sembrano la traduzione ceramica di un’opera della toreutica.

L'«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Combattimento tra due falangi oplitiche (dettaglio). Pittura vascolare tardo-corinzia a figure nere e policrome dalla cosiddetta «Olpe Chigi», c. 630 a.C., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

L’olpe Chigi, nel Museo di Villa Giulia a Roma, appartiene alla stessa classe policroma dell’ἀρύβαλλος  Macmillan ed è opera dello stesso pittore. Nei due fregi maggiori sono rappresentati una battaglia di opliti, il giudizio di Paride, una sfilata di carri e cavalieri, una caccia al leone; la composizione è bilanciata, con sapiente uso di sovrapposizioni. La movimentata caccia al leone ricorda le imprese dei re assiri nelle loro riserve, ma è svolta con un piglio fabulistico estraneo ai modelli orientali. Attorno al collo verniciato si snoda una bianca ghirlanda di palmette e fiori di loto; due fregi minori sul corpo del vaso hanno scene di caccia: uno, in bianco sul fondo nero, presenta il consueto motivo dei cani che inseguono vari quadrupedi; l’altro, policromo, disteso, con un cacciatore in agguato dietro un cespuglio, ha uno straordinario senso di aria aperta.
Vengono svolte anche scene di argomento quotidiano: un’οἰνοχόη frammentaria trovata ad Egina mostra una fila di animali condotti al sacrificio, descritti con minuzia nei particolari dell’anatomia. Tra gli ornamenti di riempimento, ora spesso molto fitti, sono frequenti le rosette a puntini, che si trasformeranno poi in cerchietti con un punto al centro. Nel Protocorinzio Tardo i leoni presentano spesso elementi dell’iconografia assira, derivati probabilmente attraverso la mediazione siro-hittita: muso più appuntito, pieghe a palmetta sotto gli occhi, folta criniera, che saranno più evidenti nel Transizionale. Le forme più comuni sono ἀρύβαλλοι, ὄλπαι, οἰνοχόαι, κοτύλαι, decorati con file di animali; sugli ἀρύβαλλοι sono frequenti le composizioni antitetiche. Appaiono sporadicamente forme nuove, che si diffonderanno in seguito: l’ἀρύβαλλος sferico, l’ἀλάβαστρον, entrambi di derivazione orientale. Le figure tendono a diventare più grandi e corpose, alla precedente vivacità di atteggiamenti subentra una certa staticità.
Nel periodo di transizione al Corinzio, il cosiddetto «Transizionale» (636-620 a.C.), questi fenomeni si accentuano, mentre l’ἀρύβαλλος piriforme è gradualmente soppiantato dall’ἀλάβαστρον. Le figure tendono ad allungarsi, appaiono bizzarre creature mostruose, come uccelli con testa di pantera. Su ἀρύβαλλοι e ἀλάβαστρα sono frequenti coppie araldiche di leoni, sfingi, grifoni; nei casi più felici si giunge a una formulazione monumentale dei corpi felini, rielaborando liberamente elementi desunti dall’iconografia del leone assiro. Di notevole interesse è l’attività di botteghe e di pittori, come il Pittore della Sfinge, la cui attività si estende dal Transizionale al Corinzio Antico.
Le metope fittili del tempio di Apollo a Thermos in Etolia, la cui decorazione architettonica fu affidata a una bottega corinzia, costituiscono un prezioso documento della pittura di età transizionale. Si riconoscono tra l’altro un Γοργόνειον, Perseo con la testa di Medusa, Chelidone e Aedone, le figlie di Proitos, figure membrute, descritte minuziosamente e campite con sicurezza nella metopa, che occupano in tutta la superficie. Più che pitture, sono disegni colorati, vicini per tecnica e qualità ai migliori prodotti della ceramica, come i vasi del gruppo policromo.

Filomela, figlia di Pandione, re di Atene. Metopa dipinta, terracotta, VII sec. a.C. ca. dal Tempio di Apollo di Thermos (Etolia). Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Filomela, figlia di Pandione, re di Atene. Metopa dipinta, terracotta, VII sec. a.C. ca. dal Tempio di Apollo di Thermos (Etolia). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Con l’avvento del Corinzio la produzione aumenta considerevolmente, ma le opere di alta qualità si fanno più rare. La cesura con il Transizionale non è netta e si riscontra una certa continuità nelle forme e nel repertorio iconografico. Nel Corinzio Antico (620-590 a.C.) appaiono anche forme nuove, come la pisside a pareti curve, il cratere a colonnette, mentre prosegue la tradizione del fregio orientalizzante di animali e creature fantastiche. Gli ἀρύβαλλοι e gli ἀλάβαστρα sono spesso decorati con un’unica figura, che si dilata a coprire tutta la superficie del vaso; frequente è un personaggio alato con il corpo anguiforme, convenzionalmente chiamato «Tifone». Caratteristiche sono le rosette a macchia, divise internamente a graffito, che a volte riempiono così fittamente ogni superficie disponibile, da far quasi scomparire le figure. Scene con personaggi – cavalieri, guerrieri, comasti – sono abbastanza frequenti, mentre più rare sono le rappresentazioni mitologiche. Tra queste va ricordata quella di Eracle a banchetto nel palazzo di Eurialo a Echalia su un cratere nel Museo del Louvre, per la sua composizione pacata, l’equilibrio nell’uso delle figure nere e a contorno, la sicurezza del segno; sotto si svolge una cadenzata corsa di cavalieri. Il solo elemento di origine orientale, ormai remota è il fregio di palmette e fiori di loto sulla spalla del cratere. La tradizione del fregio orientalizzante di animali continua sino alla metà del VI secolo, ma è destinata a spegnersi per progressivo esaurimento; sulle opere di maggior impegno, quelle con scene di carattere narrativo, è sempre confinato in posizione secondaria. I vasi corinzi non hanno però una tradizione narrativa così ricca e articolata come i vasi attici, e forse questo è uno dei motivi che ne hanno determinato il declino.
Tra le creazioni più felici della ceramica protocorinzia sono alcuni vasetti plastici, in forma di uccelli, di protome di leone; per la definizione dei volumi e l’intimo rapporto di forma e decorazione sono tra le espressioni più riuscite della plastica del VII secolo.

Scena di κῶμος. Pittura vascolare in stile corinzio dal cosiddetto «Cratere di Eurito», c. 600 a.C. Paris, Musée du Louvre.
Scena di κῶμος. Pittura vascolare in stile corinzio dal cosiddetto «Cratere di Eurito», c. 600 a.C. Paris, Musée du Louvre.

La situazione dell’Argolide è ancora poco chiara. Continua una tradizione sub-geometrica, piuttosto trita, documentata dai ritrovamenti nel santuario di Agamennone a Micene, ma non mancano esempi di notevole impegno figurativo. Su uno scudo fittile da Tirinto, databile intorno al 700 a.C., è forse rappresentato il duello fra Achille e Pentesilea; i personaggi, esagitati e grotteschi, hanno il corpo a silhouette e la testa a contorno, le armi e le vesti sono descritte con minuzia. Su un frammento di cratere trovato ad Argo, già nel secondo venticinquennio del VII secolo, è rappresentato l’accecamento di Polifemo ad opera di Odisseo. Le figure sono a contorno, lunghe e spigolose, l’incarnato è reso con un colore giallo ocra. Per ora si tratta però di pezzi isolati, che non si inseriscono in una tradizione riconoscibile.
In ambiente euboico-cicladico la situazione è sostanzialmente simile a quella del Tardo Geometrico, mentre la documentazione per la Tessaglia è elusiva. In Eubea i ritrovamenti di Calcide ed Eretria documentano il persistere di grandi anforoni, decorati con leoni, sfingi, processioni di donne, motivi vegetali, caratteristici viluppi in forma di “8”; le figure sono dipinte a contorno e a silhouette, con vivace policromia. La produzione euboica ha comunque perso la qualità e la diffusione raggiunte nel Tardo Geometrico.

Nelle Cicladi la situazione è complessa, e permangono le difficoltà già incontrate nel Geometrico per localizzare le singole botteghe. Una serie caratteristica è costituita dai vasi del gruppo A(d) di Delo, anfore, ὑδρίαι, σκύφοι, decorati con file di animali, cavalli, capre, grifoni, qualche sporadico leone, e riempitivi fittissimi e minuti; di solito il corpo del vaso è circondato da una vistosa faccia a scacchiera. Gli animali, allungati, quasi filiformi, sono di tradizione geometrica. Probabilmente uno sviluppo più tardo di questa classe è costituito dai vasi «melii», in cui si conservano molti dei caratteri motivi di riempimento.

Pithos-anfora di tipo «melio». Eracle e Deianira su un carro trainato da cavalli alati. Sul collo – Hermes, Artemide e due cavalli, da Aptera (Creta). Fine VII secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Eracle e Deianira su cocchio trainato da cavalli alati (dettaglio sul corpo centrale); Hermes, Artemide e due cavalli (dettaglio sul collo). Pittura vascolare da un’anfora di tipo melio, fine VII sec. a.C. da Aptera (Creta). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

I vasi, soprattutto anforoni, del gruppo «nesiotico lineare» continuano la tradizione della ceramica «paria» di età geometrica e ne hanno condiviso le localizzazioni più svariate. Tra di essi si riscontrano alcuni dei rari casi di contatti con l’iconografia frigia: caratteristici sono gli uccelli con una rientranza a “U” tra le ali e la coda, e i quadrupedi con il corpo riempito di punti ma con la spalla risparmiata. In relazione con questo gruppo sono alcune opere relativamente isolate, ma di eccezionale qualità. Alcune anfore presentano da un lato una grande figura di animale, dall’altro due metope con cerchi concentrici. Su un’anfora a Stoccolma è un cervo al pascolo, su un’altra a Leida un leone accovacciato. Le figure, snelle e nervose, hanno una serrata articolazione, che conferisce loro carattere monumentale. Ancora più singolare è un’οἰνοχόη, trovata ad Egina ed ora nel British Museum, con l’imboccatura e il collo in forma di protome di grifone, ancora anteriore alla metà del VII secolo. La spalla è ripartita in tre metope; quelle laterali contengono ciascuna un cavallo, quella centrale un leone che azzanna un cervo. Le figure, disegnate a contorno e con la spalla delineata, sono fragili, sinuose; il leone riprende l’iconografia siro-hittita, mentre i cavalli mostrano sulla coscia posteriore un singolare motivo a “S” che trova riscontri su bronzetti iranici.

Autore ignoto. Oinochoe con protome a testa di grifone. Sulla spalla un leone che attacca un cervo e due cavalli, da Egina. 675-650 a.C. ca. British Museum.
Autore ignoto. Un leone che attacca un cervo e due cavalli. Pittura vascolare su οἰνοχόη con protome a testa di grifone, c. 675-650 a.C. da Egina. London, British Museum.

Più sicura è l’attribuzione a Nasso di gran parte dei vasi del gruppo B di Delo, grazie anche al ritrovamento in quell’isola di un anforone policromo con Ares e Afrodite su un carro tirato da cavalli alati. Le forme del gruppo B(a) sono alte e slanciate, la decorazione è limitata alla parte anteriore, sulla spalla e sul collo. Frequenti sono composizioni araldiche con sfingi o animali affrontati, eseguiti con un disegno minuto e attento, che li distingue dalle figure di più vasto respiro del nesiotico lineare. Anche le connessioni con l’Oriente sono diverse, più varie: la sfinge di un’anfora porta il grembiule caratteristico delle sfingi fenicie, altre hanno un ricciolo a spirale che scende dalla sommità del capo, come le consorelle siriache. Un’οἰνοχόη decorata con leoni e cavalli è stata trovata in una tomba nella necropoli di Cuma; purtroppo il contesto, che suggerirebbe una datazione alla fine dell’VIII secolo, è stato ricostruito ed ha dubbio valore cronologico. Il gruppo B(a) sembra comunque appartenere alla prima metà del VII secolo.
Alcune anfore del gruppo C di Delo, decorate da ambo i lati con grandi protomi di animali, si riallacciano sia al nesiotico lineare che alla tradizione nassia, e la loro posizione non è chiara. Comunque devono appartenere ormai alla seconda metà del VII secolo; la predilezione per le protomi suggerisce contatti con l’Attica.
Poco prima della metà del VII secolo a.C. si affermano i cosiddetti vasi «melii», che sembrano soppiantare quelli di Nasso e del nesiotico lineare. Si tratta di una classe di vasi, soprattutto grandi anfore funerarie, dei quali sono ancora problematiche la localizzazione e la cronologia; il fatto che molti siano stati trovati a Taso e a Neapolis – l’odierna Kavala – rende probabile la loro attribuzione a Paro, che stabilì una colonia a Taso all’inizio del VII secolo. La genesi del gruppo non è chiara; i precedenti più plausibili sono i vasi A(d) di Delo. Un’anfora relativamente antica, databile poco dopo la metà del secolo, è quella inv. 911 del Museo di Atene. Sul corpo è rappresentato Apollo con due figure femminili su un carro tirato da cavalli alati, cui muove incontro Artemide che tiene un cervo per le corna; sul collo si affrontano due guerrieri, assistiti da due figure femminili. Nello spazio libero sono disposti con cura fitti riempitivi: volute, fioroni, losanghe, linee spezzate. Le figure, disegnate a contorno, con viva policromia, si muovono con impaccio, i cavalli hanno zampe tese e lunghissime. Al gruppo va attribuito pure un piatto, trovato a Taso, sul quale è rappresentato Bellerofonte in lotta contro la Chimera, con figure fragili, legnose, e parco uso di riempitivi. Alla fine del secolo appartiene ormai l’anfora 354 di Atene, con Eracle e Deianira su un carro tirato da cavalli alati; i personaggi, pieni e corposi, ricordano le metope di Thermos, mentre i fitti riempitivi e le rosette a petali presuppongono la conoscenza di opere del Corinzio Antico.

Due piatti, trovati a Delo e a Taso, decorati con eleganti coppie di leoni araldici, sono prodotti in una bottega di Taso, derivata da Paro ma aperta anche a influenze greco-orientali; particolari come il labbro inferiore arricciato a spirale, denotano la conoscenza di opere urartee. Il problema dei rapporti tra botteghe cicladiche e greco-orientali è però ancora tutto da chiarire.
Una categoria particolare è costituita dai grandi pìthoi decorati a rilievo trovati in Beozia e nelle Cicladi, probabilmente fabbricati a Tenos. Alcuni di essi sono decorati con episodi del mito troiano, desunti dai poemi ciclici: l’agguato di Achille ai buoi di Enea, il cavallo di Troia; e dall’Iliade: l’offerta del peplo ad Atena. Si tratta di opere di notevole qualità, con un gusto ingenuo e attento per la descrizione: il cavallo di Troia ha ruote alle zampe e il corpo costellato di finestrelle, nelle quali si scorgono le teste degli eroi greci. Su un altro πίθος Perseo decapita Medusa; la Gorgone, stranamente in forma di centauro, forse un’allusione a Pegaso, nato dalla sua unione con Poseidone, non ha ancora trovato la sua precisazione iconografica. A sinistra delimita la scena un albero formato da spirali sovrapposte, derivato dall’albero della vita dell’iconografia orientale.

Autore ignoto. Coppa beotica orientalizzante con gli uccelli. 560-540 a.C. ca., da Tebe. Musée du Louvre.
Autore ignoto. Coppa beotica con la raffigurazione di uccelli, stile orientalizzante, ca. 560-540 a.C. da Tebe. Paris, Musée du Louvre.

La Beozia mantiene i contatti con le isole, come mostra anche l’importazione di numerosi πίθοι decorati a rilievo. Rispetto al Geometrico però i contatti si sono allentati e la produzione, particolarmente anforoni con animali e motivi vegetali, ha un carattere gradevole ma modesto. Non è ancora chiaro il nesso tra l’Orientalizzazione e le caratteristiche coppe con uccelli, sinora documentate appena nel VI secolo a.C.
In Laconia il Sub-geometrico si attarda sino alla metà del VII secolo a.C. con manifestazioni a volte caotiche. Successivamente appaiono timidi esperimenti di decorazione orientalizzante – leoni, tori, stambecchi –, ma una tradizione figurativa si forma appena alla fine del secolo. Tra le forme più frequenti sono coppe e σκύφοι con labbro altissimo (le cosiddette «λάκαιναι»); motivi caratteristici sono file di pavoni e ghirlande di melegrane. Alla fine del secolo si sviluppa una produzione di anforoni decorati a rilievo di grande qualità ma di breve durata; il repertorio comprende scene di battaglia e di caccia, nelle quali è ripreso in modo originale il tema orientale del signore degli animali.
A Creta l’Orientalizzante comincia piuttosto presto, prima ancora della fine dell’VIII secolo a.C., e del resto motivi di derivazione orientale non erano mancati neppure nel breve periodo geometrico; ora però l’isola presenta una maggiore uniformità culturale. Continua la produzione di πίθοι cinerari, che diventano slanciati e sono decorati con cerchi bianchi concentrici sul fondo di vernice, mentre gli ἀρύβαλλοι di derivazione cipriota si diffondono sempre più. L’inizio dell’Orientalizzante coincide con una rinnovata diffusione di elementi naturalistici e curvilinei: trecce multiple, palmette, fiori di loto – gli esempi più tardi mostrano contatti con le Cicladi –, uno strano motivo che combina ibridamente in un’unica forma un’ape e un fiore di loto. Caratteristici per la zona di Cnosso sono grandi πίθοι con decorazione policroma, blu e rosso sul bianco dell’ingubbiatura. Singolare è un’ὑδρία trovata a Kavousi, nella parte orientale dell’isola, decorata da un lato con un carro in corsa, dall’altro con donne piangenti, a figure nere, con particolari e contorni graffiti. Le donne ricordano quelle del cinturone di bronzo da Fortetsa, mentre il carro trova confronti su vasi cicladici della prima metà del secolo e sul rilievo in calcare di Chanià.
Alla metà del secolo appartiene l’unica personalità di rilievo, il pittore che ha decorato un ἀλάβαστρον da Fortetsa con tre sfingi mostrando sicura assimilazione della tecnica e stile protocorinzi, e pure un’οἰνοχόη, coppe e ἀρύβαλλοι di schietta tradizione cretese.
Nel corso del VII secolo, ben documentato anche nella ricca necropoli di Arkades nella Pediada, si sperimentano le tecniche più diverse con risultati bizzarri e spesso felici, senza però sviluppare una precisa tradizione figurativa. Tra le opere più riuscite sono l’οἰνοχόη di Arkades con sul collo una coppia a contorno (Teseo e Arianna?) e sulla spalla una fila di animali risparmiati nel fondo scuro, e un piatto da Praisos decorato da un lato con un cavaliere, dall’altro con un eroe in lotta con un pesce e con una gigantesca figura femminile (Peleo e Tetide?), databili rispettivamente poco prima e poco dopo la metà del VII secolo a.C. La figure, snelle, mobili, con membra lunghe e profili aguzzi, richiamano quelle della contemporanea toreutica cretese. Alcuni vasi di Arkades, derivati da modelli orientali, rivelano l’assimilazione di ideologie e pratiche di culto: un ἁσκός con protome di leone collegato a una patera, conservato a Heidelberg, ricorda oggetti rituali siriaci in pietra e avorio; un leone sdraiato con una patera tra le zampe anteriori è l’immediata traduzione ceramica di figure orientali in faïence; particolari come il muso corrugato, le sopracciglia arcuate, le orecchie semicircolari sono desunti dall’iconografia siro-hittita.

Autore ignoto. Πίθος orientalizzante, c. 675 a.C. da Arkades (Creta). Paris, Musée du Louvre.
Πίθος orientalizzante, c. 675 a.C. da Arkades (Creta). Paris, Musée du Louvre.

Un ἀρύβαλλος della metà del secolo, conservato a Berlino, esemplifica la situazione di Creta con la molteplicità delle sue connessioni: la forma e la decorazione sono di origine cipriota, la protome plastica femminile sotto l’imboccatura si adegua con riserva al canone dedalico, l’uso di decorare in questo modo il collo di un vaso è di origine fenicia.
Creta ha pure una ricca produzione di πίθοι a rilievo. La forma più frequente è una sorta di anforone con due anse verticali, troppo diverso dai πίθοι minoici per pensare a una connessione diretta. La decorazione figurata è ottenuta mediante stampi e cilindretti; i primi esempi, che appaiono verso il 700 a.C., portano figure di guerrieri e di centauri. Nel VII secolo sono frequenti figure di cavalli, leoni, sfingi, singole o affrontate, e poi cavalieri, coppie di personaggi, πότνιαι θηρῶν, di solito inquadrati in metope sul collo e sulla spalla del vaso; il resto del πίθος è decorato con spirali e motivi fitomorfi. Le fasce divisorie e le cornici portano rosette, spirali correnti, piccoli fregi con scene di caccia, carri e cavalli in corsa. Alla fine del secolo appartiene un gruppo di πίθοι, trovati a Festo, la cui decorazione figurata è limitata a un solo, grande animale che campeggia sul collo, mentre sul corpo sono distribuiti ampi ornati curvilinei. Gli esempi più recenti dei πίθοι a rilievo scendono ormai ai primi anni del VI secolo a.C.
Vista nel suo complesso, la ceramica cretese, alquanto discontinua, rielabora spunti orientali senza formare una tradizione figurativa coerente e non sembra aver svolto nella trasmissione di iconografie orientali al mondo greco il ruolo determinante che le è stato più volte attribuito. Miglior fortuna avrà la toreutica.
Le regioni greco-orientali – le grandi isole, la costa dell’Asia Minore – formano una sostanziale unità culturale, che trova espressione nel cosiddetto «stile della capra selvatica». All’interno dell’apparente uniformità si intravvedono varie diversificazioni, ma non è ancora possibile localizzare con sicurezza le varie botteghe. Per le città greche dell’Asia Minore l’inizio del VII secolo è un momento piuttosto difficile, che vede le rovinose scorrerie dei Cimmeri e poi la nascente espansione del regno di Lidia. Nonostante la loro posizione geografica i centri greco-orientali elaborano con un certo ritardo un proprio stile orientalizzante, ed anche gli elementi figurati sono dapprima alquanto rari. In tutta la regione si mantiene a lungo la tradizione geometrica e continua la voga delle caratteristiche coppe a uccelli, decorate in modo sempre più sommario: dopo la metà del VII secolo a.C. la parte inferiore della vasca, non più coperta di vernice, è racchiusa da una corona di raggi a contorno. Molte coppe sono di produzione sicuramente rodia, ma non mancano imitazioni locali.

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Raffigurazione della Πότνια θηρῶν (particolare). Pittura vascolare da un’anfora in stile orientalizzante, c. VII sec. a.C. da Tebe. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Una delle prime figurazioni di un certo impegno – una divinità maschile con il πόλος sul capo e le braccia alzate nel gesto dell’epifania – è un’anfora di Exochi a Rodi, ed è significativo che il vaso riprenda alquanto fedelmente modelli nassi. Al primo venticinquennio del secolo appartengono vari esperimenti figurativi – un centauro e altre figure su una situla da Camiro, una figura femminile armata, forse Atena, su uno scudo fittile di Samo – ma si tratta di tentativi impacciati, ancora di gusto sub-geometrico, anche se sullo scudo è impiegata l’incisione. Un repertorio orientalizzante si forma timidamente appena nel secondo venticinquennio del VII secolo: sfingi, animali, ornati curvilinei, motivi vegetali. Le figure sono campite con eleganza su uno sfondo disseminato di riempitivi: fiori, stelle, croci, suscitando quasi l’impressione di un tessuto decorato; forse s’ispirano veramente a stoffe, per noi irrimediabilmente perdute. Elementi come le superfici riempite di punti o un particolare tipo di svastica trovano confronti immediati nell’arte della Frigia.
Il caratteristico «stile della capra selvatica» si forma però appena verso la metà del VII secolo a.C. per continuare poi, con le sue manifestazioni più attardate, sino alla metà del secolo successivo. Si tratta di una produzione piacevole, di un discreto livello qualitativo, che raggiunge anche una certa circolazione nel mondo greco. Le figure sono di solito a silhouette, con la testa a contorno e i particolari dell’anatomia indicati con linee risparmiate. Le forme più diffuse sono l’oinochóē con bocca trilobata, l’οἰνοχόη con bocca rotonda, il δεῖνος, vari tipi di piatto con e senza piede. Il repertorio iconografico è piuttosto limitato: leoni, tori, sfingi, grifoni, cani, uccelli e soprattutto le caratteristiche capre selvatiche in corsa o al pascolo, derivate dall’iconografia assira o siriaca. In un momento più avanzato la parte inferiore delle οἰνοχόαι è racchiusa da una ghirlanda di fiori e boccioli di loto o da una corona di alti raggi triangolari. Al centro della spalla compaiono spesso gruppi antitetici ai lati di un elemento vegetale, talvolta anche animali in lotta; l’iconografia del leone, inizialmente di tipo siro-hittita, assimila gradualmente elementi assirizzanti. Sulle opere più antiche i fregi sono divisi da semplici ornamenti; in seguito i fregi, divisi da semplici strisce di vernice, aumentano spesso in altezza e gli animali tendono ad allungarsi.

Autore ignoto. Combattimento tra Menelao ed Ettore per il corpo di Euforbo. Pittura vascolare da un piatto rodio in stile orientalizzante, da Camiro (Rodi). 600 a.C. British Museum.
Duello tra Menelao ed Ettore per il corpo di Euforbo. Pittura vascolare da un piatto rodio in stile orientalizzante, c. 600 a.C. da Camiro. London, British Museum.

Alla fine del VII secolo appaiono vari elementi derivati dalla tradizione del Corinzio Antico: figure nere, incisione, rosette a macchia, spesso impiegati promiscuamente alla tradizionale tecnica delle figure a risparmio. Scene di carattere narrativo sono rare; l’esempio più notevole è un piatto a British Museum con un episodio omerico, il duello di Ettore e Menelao sul corpo di Euforbo. I due contendenti, armati come opliti, disegnati a contorno con vivace policromia, si affrontano simmetricamente su uno sfondo fitto di riempitivi. Le «fruttiere», specie di grandi piatti su piede, sono decorate spesso con protomi umane e di animali, motivi geometrici e fitomorfi.
Alcune botteghe locali sono riconoscibili per certe caratteristiche peculiari. Chio si distingue per i calici biansati, spesso dalle pareti sottilissime, e per un accentuato gusto per la policromia che, agli inizi del VI secolo, si manifesta in complesse decorazioni in bianco, giallo, rosso applicati sul fondo di vernice. La fabbrica, dalla caratteristica ingubbiatura bianca, è di ottima qualità tecnica. Nel VI secolo la produzione chiota acquista notevole indipendenza, affrontando composizione anche di notevole impegno narrativo, come la caccia al Cinghiale Calidonio su un cratere trovato a Neapolis, ora nel Museo di Kavala.
Le botteghe della Ionia e dell’Eolide sembrano caratterizzate da un disegno più impacciato, a volte angoloso, una policromia più viva, riempitivi più fitti e disordinati. Particolarità iconografiche rivelano contatti con le culture dell’Anatolia: il leone di un’οἰνοχόη di Smirne ricorda quelli degli scudi di bronzo urartei per la conformazione generale e anche per il particolare del labbro inferiore arricciato a spirale.
A Rodi verso il 700 a.C. comincia la produzione di πίθοι decorati a rilievo, per continuare poi sin quasi alla fine del VI secolo. I πίθοι attribuibili al VII secolo sono decorati con motivi frequenti nel repertorio greco-orientale tardo-geometrico e orientalizzante: spirali correnti, a volte contrapposte o combinate in composizioni a tappeto, rombi con ai vertici meandri contrapposti, viticci, disposti in una fitta successione di fregi che coprono la metà superiore del vaso. La decorazione figurata sembra iniziare piuttosto tardi, verso la fine del VII secolo a.C., e non presenta la varietà di soggetti che si è osservata a Creta e a Tenos: i motivi più frequenti sono sfingi, grifoni, carri in corsa.