ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di Plutarch, De Alexandri Magni fortuna aut virtute, in F. Cole Babbitt (ed.), Plutarch, Moralia, Cambridge-London, HUP, 1936, pp. 393-397.
Lisimaco di Tracia. Tetradramma, Magnesia al Menandro 305-281 a.C. ca. Ar. 17, 19 gr. Recto: testa diademata di Alessandro divinizzato, con le corna di Ammone.
E per prima cosa considera, se vuoi, un fatto incredibile, confrontando i discepoli di Alessandro con quelli di Platone e di Socrate. Costoro insegnarono a discepoli felicemente dotati di talento per natura e che parlavano la stessa lingua o che, almeno, erano in grado di comprendere il greco; eppure molti non si lasciarono convincere, ma allievi come Crizia, Alcibiade e Clitofonte si volsero in altra direzione, rifiutando il loro insegnamento come se fosse un morso. Se osservi l’azione educatrice di Alessandro, invece, vedi che egli indusse gli Ircani alla pratica del matrimonio, insegnò agli Aracosi a coltivare i campi, convinse i Sogdiani a nutrire i loro padri anziché ucciderli, i Persiani a rispettare le proprie madri e a non prenderle in moglie. O straordinario potere della filosofia, grazie alla quale gli Indi si inchinano davanti agli dèi dei Greci, gli Sciti seppelliscono i loro morti e non li mangiano! Noi ammiriamo l’ascendente di Carneade perché ha fatto di Clitomaco un greco, lui che si chiamava prima Asdrubale ed era cartaginese di nascita; ammiriamo anche il genio di Zenone, perché ha convinto Diogene di Babilonia a dedicarsi alla filosofia; ma quando Alessandro civilizzava l’Asia, Omero divenne lettura comune e i figli dei Persiani, dei Susiani, dei Gedrosi declamavano le tragedie di Euripide e di Sofocle. Socrate fu accusato dai sicofanti di introdurre divinità straniere; grazie ad Alessandro la Battriana e il Caucaso si inginocchiarono davanti agli dèi dei Greci. Platone scrisse un progetto di costituzione, ma non convinse nessuno ad applicarlo, tanto era rigido. Alessandro, invece, dopo aver fondato più di settanta città tra i popoli barbari ed aver diffuso in tutta l’Asia le istituzioni greche, riuscì a vincere e ad imporsi su costumi rozzi e selvaggi. E, mentre siamo in pochi a leggere le leggi di Platone, miriadi di uomini hanno usato ed usano le leggi di Alessandro, dato che i vinti sono stati più felici di quelli che si sono sottratti alla sua conquista; questi ultimi, infatti, nessuno li salvò da una vita miserabile, mentre i primi condussero una vita felice grazie al vincitore. È vero quanto disse Temistocle, quando in esilio ottenne grandi doni dal Re persiano ed ebbe i tributi di tre città, (una forniva pane, una vino e l’altra il companatico): “Figli miei, se non fossimo periti, periremmo”. Questo sarebbe più giusto dirlo nel caso dei popoli che furono conquistati da Alessandro: “Non avrebbero conosciuto la civilizzazione se non avessero conosciuto la sconfitta”. L’Egitto non avrebbe Alessandria, né la Mesopotamia Seleucia, né la Sogdiana Proftasia, né l’India Bucefalia, né il Caucaso una città greca. Grazie alla fondazione di queste città, la barbarie ebbe fine e il peggio cambiò sotto la progressiva influenza del meglio. Se è vero che i filosofi si vantano prima di ogni altra cosa di ingentilire e di disciplinare i costumi rozzi e grossolani e se è vero che Alessandro ha chiaramente cambiato la natura selvaggia di innumerevoli popolazioni, a buon diritto egli dovrebbe essere ritenuto il più grande dei filosofi.
I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it., lievemente modificata, di D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 262 s.).
24. [1] […] Nei tempi antichi regnava nella Celtica[1] – così si racconta – un uomo famoso che aveva una figlia di statura eccezionale e molto più bella delle altre. Ella, orgogliosa della sua forza fisica e della sua ammirata bellezza, respingeva tutti coloro che aspiravano a sposarla, ritenendo che nessuno fosse degno di lei. [2] Al tempo della sua spedizione contro Gerione, Eracle venne nella terra dei Celti dove fondò la città di Alesia; la fanciulla lo vide e ne ammirò il valore e l’eccellenza fisica, accettò con grande entusiasmo di unirsi a lui e anche i genitori furono d’accordo. [3] Dall’unione con Eracle nacque un figlio di nome Galate che superava di molto gli appartenenti alla sua stessa tribù per virtù d’animo e forza fisica. Diventato adulto e avendo ereditato il regno avito, egli conquistò molte terre confinanti e compì grandi imprese militari. Ormai famoso per il suo coraggio, Galate chiamò i suoi sudditi “Galati” con il proprio nome: da questi poi prese nome tutta la “Galatia”.
Statua di divinità guerriera. Lamina di bronzo sbalzato e occhi di pasta vitrea, I secolo a.C. da Beauvais. Musée Départmental de l’Oise.
Testa (forse di un dio). Argilla, 150 a.C. da Keltské Nálezy (Rep. Ceca).
25. [1] Dopo aver parlato del nome dei Galati, bisogna dire qualcosa anche sul loro territorio. La Galatia è abitata da molte tribù di diversa grandezza: quelle più grandi contano circa 200.000 uomini, mentre le più piccole 50.000; una di queste ultime è legata ai Romani da antica parentela e amicizia che si è conservata fino ai nostri tempi. [2] La regione, situata prevalentemente a settentrione, gode di un clima invernale ed è straordinariamente fredda; durante l’inverno, infatti, nei giorni nuvolosi, cade non pioggia bensì neve abbondante, mentre nei giorni di sereno v’è molto ghiaccio e gelo intenso, a causa del quale i fiumi, ghiacciati, si trasformano da soli in ponti: non soltanto i viandanti occasionali, in piccoli gruppi, li attraversano camminando sulla superficie gelata, ma anche interi eserciti con decine di migliaia di uomini, accompagnati da bestie da soma e da carri ricolmi, vi passano sopra indenni. [3] Attraverso la Galatia scorrono numerosi e ampi fiumi che tagliano variamente la pianura con i loro corsi; gli uni scorrono alimentati da laghi estesissimi, gli altri traggono origine e alimentazione dai monti; gli uni sboccano nell’oceano, gli altri nel nostro mare. [4] Il più grande fra quelli che scorrono fino al nostro mare è il Rodano, il quale nasce dalle Alpi e si getta in mare attraverso cinque bocche. Di quelli che scorrono verso l’oceano, i maggiori sembrano essere il Danubio e il Reno, sul quale, ai nostri tempi, Cesare, detto “il Divo”, gettò con meraviglia di tutti un ponte, vi fece passare a piedi l’esercito e assoggettò i Galati che abitavano oltre il fiume. [5] Nella terra dei Celti vi sono anche molti altri fiumi navigabili ma occorrerebbe troppo tempo per descriverli. Quasi tutti, però, solidificati dal gelo, trasformano i loro letti in ponti ma, poiché il ghiaccio, a causa della sua levigatezza, fa scivolare coloro che li attraversano, i locali vi spargono sopra della paglia e si rendono sicuro il passaggio.
Cernumno assiso in trono fra Apollo e Mercurio. Bassorilievo, calcare, I sec. d.C., da Reims.
26. [1] In gran parte della Galatia si verifica un fenomeno particolare e strano che non ci è sembrato opportuno trascurare. Dalla regione dove il sole tramonta e da settentrione, in estate, soffiano abitualmente dei venti di tale impetuosità e violenza da sollevare in alto da terra pietre grosse tanto da empire una mano e una fitta nube di pietrisco: insomma, questi venti, infuriando con veemenza, strappano agli uomini armi e vesti, strappano ai cavalli i cavalieri. Poiché il clima è vessato dal freddo eccessivo, la Galatia non produce né vino né olio. [2] Perciò, tra i Galati quanti sono sprovvisti di tali prodotti, ricavano dall’orzo una bevanda che si chiama zythos e fanno uso dell’acqua con cui lavano i favi di miele. [3] Ma, amando smodatamente il vino, bevono a sazietà e senza diluirlo quello importato dai mercanti; poiché ne fanno dunque un uso selvaggio, spinti dalla loro passione, si ubriacano e cedono al sonno o a stati di furore. Per questo molti mercanti italici, avidi come sempre, ritengono un dono di Ermes la passione dei Galati per il vino. Essi lo trasportano su barche, attraverso i fiumi navigabili, o su carri, attraverso la pianura, e ne ricevono in cambio un utile incredibilmente elevato: cedono un’anfora di vino e ricevono un ragazzino, scambiando, dunque, la bevanda con un servo.
27. [1] In Galatia manca totalmente l’argento, ma c’è molto oro che la natura fornisce agli abitanti senza bisogno di miniere e patimenti. Infatti, la corrente dei fiumi, che attraversa anse tortuose e, urtando con violenza contro i fianchi dei monti adiacenti e strappando grossi massi, si riempie d’oro. [2] Gli addetti a tale attività lo raccolgono, frantumano le zolle che lo contengono, eliminano la terra con la forza dell’acqua e consegnano l’oro perché sia fuso nelle fornaci. [3] In questo modo accumulano una grande quantità d’oro e se ne servono come ornamento non solo le donne, ma anche gli uomini. Portano, infatti, intorno al collo, anelli di grande valore e persino corazze d’oro. [4] Presso i Celti del Nord accade un fenomeno particolare e strano riguardo ai recinti dedicati agli dèi: nei templi e nei santuari che si trovano sul territorio, giace abbandonato molto oro che è stato offerto agli dèi; nessuno degli abitanti lo tocca, impediti da timore religioso, per quanto i Celti siano persino troppo avidi di ricchezza.
Torque gallico. Bronzo e oro, 480 a.C. ca. da Vix (Francia). Historisches Museum Bern.
28. [1] I Galati sono alti di statura, muscoli flaccidi, pelle bianca, capelli naturalmente biondi ed essi, anche con artifici, sogliono accentuare la particolarità naturale del colore. [2] Lavano, infatti, frequentemente le chiome con acqua di calce e li tirano indietro dalla fronte alla sommità della testa e già fino alla nuca, così da sembrare simili nell’aspetto ai Satiri o a Pan: a seguito di questo trattamento, i capelli diventano tanto pesanti da non differire in nulla dalla criniera dei cavalli. [3] Alcuni radono la barba, altri la fanno un po’ crescere; i nobili radono le guance, lasciando crescere i baffi in modo tale da nascondere la bocca. Perciò quando mangiano, i baffi si riempiono di cibo, quando bevono, la bevanda passa come attraverso un filtro. [4] Tutti mangiano seduti non su sedili, ma per terra, adoperando come tappeti pelli di lupo o di cane. Sono serviti dai più giovani, maschi e femmine, che abbiano l’età adatta. Vicino a loro vi sono camini traboccanti di fuoco, con calderoni e spiedi pieni di pezzi di carne. Ricompensano gli uomini valorosi, donando loro i pezzi di carne migliori: e così il Poeta presenta Aiace, onorato dai capi quando riuscì vincitore nel duello con Ettore: «il filetto allungato lo donò in premio ad Aiace»[2]. [5] Invitano anche gli stranieri ai banchetti e dopo il pranzo chiedono loro chi siano e di che cosa abbiano bisogno. Anche durante il convito, venuti a diverbio per motivi occasionali, sono soliti sfidarsi e affrontarsi in duello, senza dare alcuna importanza alla morte. Presso di loro, infatti, si è imposta la dottrina pitagorica, [6] secondo la quale, le anime degli uomini sono immortali e, dopo un certo numero di anni, l’anima penetra in un altro corpo e torna a vivere. Perciò alcuni, in occasione di esequie funebri, gettano sul rogo le lettere che hanno scritto ai loro parenti morti, convinti che i defunti un giorno potranno leggerle.
29. [1] Nei viaggi e in battaglia essi si servono di cocchi a due cavalli, sui quali viaggiano un auriga e un guerriero. Quando in guerra s’imbattono in cavalieri nemici, lanciano contro di loro il giavellotto e, poi, scesi dal carro, li affrontano con la spada. [2] Alcuni di loro disprezzano a tal punto la morte da farsi incontro al pericolo nudi con addosso soltanto una fascia. Si fanno accompagnare anche da assistenti di nascita libera, scelti fra i poveri, dei quali si servono in combattimento come aurighi e scudieri. In occasione delle battaglie campali, sono soliti spingersi oltre la prima linea dello schieramento e sfidare a duello i più valorosi fra i nemici, scuotendo le armi per spaventare gli avversari. [3] Quando qualcuno accetta di combattere, celebrano con canti il coraggio degli avi e vantano il proprio valore; ingiuriano e umiliano l’avversario e, in generale, cercano di fargli perdere le staffe con insulti prima del combattimento. [4] Tagliano le teste dei nemici caduti in battaglia e le appendono ai finimenti del cavallo; consegnano ai servi le armi insanguinate e le portano via come bottino, innalzando un peana e un canto di vittoria; appendono con chiodi in casa queste prede di guerra, come quelli che hanno ucciso delle belve feroci a caccia. [5] Imbalsamano con olio di cedro le teste dei nemici più illustri e le custodiscono con cura in casse, mostrandole agli ospiti e vantandosi se qualcuno degli avi o i padri o loro stessi non vollero accettare il lauto riscatto offerto per la testa: dicono che alcuni di loro vadano orgogliosi per non aver accettato una quantità d’oro pari al peso della testa, mostrando così una certa barbarica magnitudo animi. Eppure, se è atto nobile non vendere la prova tangibile del proprio valore guerriero, è parimenti da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla propria stirpe.
Illustrazione ricostruttiva di un tipico carro da guerra celta. A. McBride.
30. [1] Fanno uso di vestiti terrificanti: tuniche tinte e ricamate con vari colori, pantaloni che essi chiamano brachæ; sulle spalle assicurano con fibbie dei mantelli a righe, pesanti d’inverno e leggeri d’estate, sui quali alternano fittamente quadrati di diversi colori. [2] Usano come armi scudi alti quanto un uomo, ornati in modo vario e particolare; alcuni di essi presentano figure bronzee di animali ben lavorate a sbalzo, non a scopo ornamentale, ma al fine di proteggere. Indossano sul capo elmi di bronzo, ornati con grandi figure a sbalzo, che danno un aspetto di grande imponenza a chi li usi: ad alcuni elmi sono applicate, in modo da formare un tutt’uno, delle corna, mentre su altri sono rappresentate teste d’uccello o di quadrupede. [3] Hanno trombe di tipo particolare e barbarico: soffiandovi dentro, emettono un suono aspro, adatto alla mischia di guerra. Gli uni portano corazze lavorate a maglia di ferro, altri ritengono sufficiente quanto hanno ricevuto dalla natura e vanno nudi in battaglia. Hanno spade non corte, ma lunghe, legate con catene di ferro o di bronzo e portate a destra. Alcuni hanno sulle tuniche cinture dorate o argentate. [4] Impugnano delle aste (loro le chiamano lanciæ), che hanno punte di ferro lunghe anche più di un cubito e larghe poco meno di due palmi. Le loro spade non sono più piccole dei giavellotti usati da altri popoli, i loro hanno la punta più larga di quella delle spade; alcuni giavellotti sono stati fabbricati con la punta dritta, altri presentano una ripiegatura tortuosa su tutta la punta, affinché non solo taglino per effetto del colpo, ma persino lacerino le carni e, tirando indietro l’asta, squarcino la ferita.
Spade hallstattiane. Disegno ricostruttivo di J.G. Ramsauer.
31. [1] Essi sono terrificanti nell’aspetto e hanno una voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni [e alludono prevalentemente per sineddoche], chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di sminuire quelli degli altri; sono spavaldi, minacciosi e teatrali, acuti nel pensare, disposti naturalmente ad apprendere. [2] Presso di loro vi sono anche poeti lirici, che chiamano “bardi”. Costoro, cantando con strumenti simili alle lire, celebrano alcuni personaggi e vituperano altri. Vi sono poi filosofi e teologi che godono di straordinario onore e si chiamano “druidi”. [3] Si servono anche d’indovini che ritengono degni di grande rispetto: questi predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime; tutto il popolo è loro soggetto. Osservano un’usanza strana e terrificante, soprattutto quando devono indagare su qualche importante decisione: offrono in sacrificio un uomo e lo colpiscono con un coltello poco sopra il diaframma; l’uomo, colpito, cade a terra: osservando come cade, come le membra si contraggono, come scorra il sangue, gli indovini comprendono il futuro, mantenendosi fedeli in ciò a un modo di indagare antico e da molto tempo praticato. [4] È invalso l’uso presso di loro di non offrire sacrifici in assenza di un filosofo: a loro avviso, infatti, bisogna offrire primizie in ringraziamento agli dèi per mezzo di persone esperte della natura divina e che parlano – per così dire – la stessa lingua degli dèi; ritengono pure che occorra chiedere i favori con l’aiuto di tali esperti. [5] Non solo in pace, ma anche in tempo di guerra obbediscono ciecamente ai filosofi e ai poeti lirici, e obbediscono non solo agli amici ma anche ai nemici. Spesso, in occasione di battaglie campali, quando le armate si stanno avvicinando con le spade sguainate e le lance protese, essi avanzano nel mezzo e li fermano, come se stessero incantando delle belve. Così, anche fra i barbari più selvaggi, il furore cede alla sapienza e Ares ha rispetto delle Muse.
Carnyx. Bronzo, II-I sec. a.C. dal santuario di Tintignac (Francia).
32. [1] È utile fare una distinzione ignorata da molti. Si chiamano Celti quelli che abitano nella regione interna a nord di Marsiglia, lungo le Alpi e sopra i Pirenei; si chiamano invece Galatai, quelli che sono stanziati al di sopra della «zona celtica», verso le terre settentrionali, sia lungo l’Oceano, sia lungo il monte Ercinio, e tutti gli altri di seguito fino alla Scizia. I Romani, invece, comprendono insieme sotto un’unica denominazione tutti questi gruppi etnici e li chiamano complessivamente Galli. [2] Le donne dei Galati non solo sono simili agli uomini nell’imponenza fisica ma possono competere con loro anche in coraggio. I loro bambini, quando nascono, sono per lo più di carnagione chiara; con il passare degli anni mutano colore fino ad assumere quello dei padri. [3] Essendo particolarmente selvaggi quelli di loro che abitano nel Nord e quelli che confinano con la Scizia, che alcuni di loro – si dice – mangino uomini, come i Britanni che popolano l’isola chiamata Iris[3]. [4] Ovunque sono rinomati il loro coraggio e la loro ferocia e, infatti, secondo alcuni, i popoli chiamati «Cimmeri», che in tempi antichi scorrazzarono per l’Asia intera, erano proprio i Galati, poiché la denominazione «Cimmeri» si corruppe presto in quella di «Cimbri», nome con il quale sono chiamati ancor oggi. Fin da tempi remoti essi amano assalire, depredare i territori altrui e disprezzare tutti. [5] Sono proprio loro, infatti, che presero Roma, saccheggiarono il santuario di Delfi, imposero tributi a gran parte dell’Europa e, persino, a non piccola parte dell’Asia, che si stanziarono sul territorio degli sconfitti e furono chiamati «Ellenogalli», per i loro stretti rapporti con i Greci, che infine distrussero molti e grandi eserciti dei Romani. [6] Proprio perché così selvaggi, essi si macchiano di rara empietà anche quando compiono sacrifici: dopo aver tenuto in prigionia i delinquenti per cinque anni, infatti, li impalano in onore degli dèi; alcuni di costoro vengono uccisi insieme con gli animali catturati in guerra, oppure li bruciano, o li sopprimono con qualche altro supplizio. [7] Pur avendo donne di gradevole aspetto, non se ne curano per niente ma vanno pazzi – oltre ogni dire – per le relazioni omosessuali. Hanno l’abitudine di dormire per terra o su pelli di animali e di voltolarsi con due compagni, uno per parte. La cosa più strana di tutte è la seguente: incuranti del decoro, concedono facilmente ad altri il proprio corpo nel fiore dell’età né ritengono turpe un simile atto, considerando piuttosto disonorevole che qualcuno non accetti il favore concesso quando essi siano disposti a compiacerlo.
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Note:
[1] Κελτική sta per Γαλατία; con questo termine l’autore si riferisce alla regione chiamata Gallia dai Romani. I Γαλάται sono dunque i Galli.
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