ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
da F. FERRARI, Epica storica e didascalica, in ID., R. ROSSI, L. LANZI (eds.), Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Con espansione online. Vol. 3: L’ellenismo e l’età imperiale, Bologna 2012.
L’attacco del poema contiene un Inno a Zeus, unico e sommo. Dato che il dio svolge una funzione propulsiva riguardo al lavoro dei campi, si ricalca qui il modello esiodeo. Zeus infatti dà agli uomini segni propizi, rivela quando la zolla è buona per la semina, ha disposto in cielo le costellazioni dalle quali si possono trarre i segni delle stagioni e i tempi del ciclo lavorativo, sì che ogni cosa cresca sicura.
Ma questo Zeus, nella sua bontà provvidenziale e nella sostanziale unicità, è identificabile anche con il dio supremo della dottrina stoica. Come nell’Inno a Zeus del filosofo Cleante, anche nel proemio dei Phaenomena il signore degli dèi della religione tradizionale personifica la mente divina reggitrice dell’universo.
Anche il dio di cui Arato elogia la grandezza e l’onnipotenza è onnipresente («di Zeus sono piene tutte le vie e tutte le piazze, e pieno ne sono il mare e i porti»); egli è padre amorevole degli uomini e loro benefattore, è il principio immanente che compenetra di sé tutto l’essere, spargendo ovunque i semi generatori delle cose e dal quale la materia informe riceve l’impronta e prende vita; è la provvidenza (πρόνοια) che lega gli eventi nella serie inviolabile delle cause.
Cominciamo da Zeus, che noi uomini non cessiamo mai
d’invocare; tutte le strade sono piene di Zeus,
tutte le piazze delle città: ne è pieno il mare,
e i porti: sempre abbiamo bisogno di Zeus!
Stirpe siamo sua, e benignamente indica agli uomini
i segni favorevoli, e li manda al lavoro,
ricordando loro i mezzi di vita, quando la terra
è migliore per i buoi e la zappa, e quando è il momento giusto
di potare gli alberi e seminare tutte le specie.
Lui stesso infatti ha fissato i segni nel cielo,
distribuendo gli astri nel corso dell’anno,
perché indicassero agli uomini i tempi meglio disposti
e le coltivazioni crescessero salde.
Per questo gli uomini se lo propiziano sempre, per primo e per ultimo.
Salve a te, o padre! Meraviglia e benessere grande degli uomini!
A te e alla tua prima generazione! E salve anche a voi, o Muse soavi,
tutte quante! Guidatemi per tutto il canto,
perché chiedo di celebrare secondo il rito le stelle!
Calamide (o bottega di Calamide), Cronide di Capo Artemisio (dettaglio). Statua, bronzo, c. 480-470 a.C. dai fondali euboici. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Riaffiorano qui moduli ed elementi dell’antica tradizione innodica. In particolare, l’uso di specificare che si intende iniziare il canto ricordando la divinità celebrata è presupposto già in Odissea VIII 499 (θεοῦ ἤρχετο, «cominciava dal dio») per il racconto sul Cavallo di Troia intonato da Demodoco e compare, a principio di alcuni inni omerici; più in particolare, l’avvio da Zeus appariva in Alcmane (fr. 29 Davies ἐγὼν δ᾽ ἀείσομαι/ ἐκ Διὸς ἀρχομένα, «ed io canterò cominciando da Zeus»), veniva ricordato come caratteristica dei rapsodi da Pindaro (Nemea II 1 s.) e in età ellenistica è recuperato anche da Teocrito nel suo Encomio di Tolomeo (Id. XVII 1, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι, «Cominciamo da Zeus e terminate con Zeus, o Muse»); per la sua topicità, vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, nr. 805. E sulla stessa linea del formulario tradizionale (cfr. Esiodo, Teogonia 34, Teognide 3 ecc.) è la specificazione, al v. 14, che gli uomini invocano Zeus «per primo e per ultimo».
Anche la sottolineatura della funzione del dio come propulsiva al lavoro agricolo, pur non rientrando nella dizione innica, si richiama pur sempre al modello esiodeo (cfr. soprattutto v. 6, λαοὺς δ᾽ ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta le genti al lavoro», con Esiodo, Erga 20, dove della buona Contesa si dice che καὶ ἀπάλαμνόν περ ὁμῶς ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta al lavoro anche l’indolente»). Ma le antiche memorie letterarie e cultuali (anche il dire che di Zeus sono piene le piazze e i porti presuppone gli epiteti ἀγοραῖος e λιμένιος) vengono caricate di un senso nuovo grazie a una visione del dio supremo che nella sua bontà provvidenziale e nella sua sostanziale unicità ha come punto di riferimento la dottrina stoica e probabilmente, se (come pare) è anteriore, l’inno a Zeus dello stoico Cleante (in tal caso τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν al v. 5 rappresenterebbe una vera e propria “citazione” di ἐκ σοῦ γὰρ γενόμεσθα v. 4 dell’inno di Cleante); e la collocazione della preghiera alle Muse alla chiusa anziché al principio di un proemio epico coincide con quella delle Argonautiche di Apollonio Rodio.
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Bibliografia:
M. FANTUZZI, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα. Arat. Phaen. 1 e Theocr. XVII 1, M&D 5 (1980), 163-172 [Jstor].
J. RYAN, Zeus in the Phaenomena, in J.J. CLAUSS, M. CUYPERS, A. KAHANE (eds.), The Gods of Greek Hexameter Poetry, From the Archaic Age to Late Antiquity and Beyond, Stuttgart 2016, 152-163 [academia.edu].
K. VOLK, Letters in the Sky: Reading the Signs in Aratus’ Phaenomena, AJPh 133 (2012), 209-240 [academia.edu].
K. VOLK, Aratus, in J. CLAUSS, M. CUYPERS (eds.), A Companion to Hellenistic Literature, Malden MA 2010, 197-210 [academia.edu].
da G. REALE , Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 319-340 [testo rielaborato, con bibl. ampliata].
I. Zenone, la fondazione della Stoa e le diverse fasi dello Stoicismo [1]
1. L’incontro di Zenone con Cratete e con il socratismo. – Nel 312/311 a.C. giunse ad Atene, dall’isola di Cipro, un giovane di stirpe semitica, con l’intento di prendere diretto contatto con le fonti della grande cultura ellenica e di dedicarsi interamente alla filosofia. Era Zenone[2], l’uomo che avrebbe dovuto fondare quella che, forse, fu la più grande delle Scuole dell’età ellenistica. Un giorno, suo padre Mnasea, che commerciava fra Cipro e Atene, di ritorno da uno dei suoi viaggi, gli portò alcuni scritti socratici: con molta probabilità, furono proprio questi «libri socratici» a far maturare nel giovane la decisione di trasferirsi ad Atene.
Nella capitale della cultura ellenica non furono gli uomini delle due grandi Scuole dell’Accademia e del Peripato a determinare l’orientamento di Zenone; al contrario, fu un rappresentante delle Scuole socratiche minori: Cratete, discepolo di Diogene il Cinico, a sua volta allievo di Antistene[3]. Ma Cratete Cinico offrì a Zenone soprattutto un esempio pratico di vita filosofica, che rispondeva solo in parte a quelle esigenze che il giovane sentiva urgere dentro di sé. In Cratete, infatti, mancava una giustificazione teoretica adeguata alla sua scelta di vita e, pertanto, nel suo insegnamento.
Zenone di Cizio. Busto, marmo, copia romana di età augustea da originale ellenistico del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Zenone si accostò anche a un’altra Scuola socratica minore, che in quel tempo mieteva ancora successi, e precisamente quella dei Megarici: infatti, ci viene riferito che egli fu alunno di Stilpone, il quale verso la fine del secolo IV a.C. era una grossa celebrità. Ma la dottrina megarese mutilava Socrate ancor più di quella cinica, esaltando il momento logico-dialettico e rischiando addirittura di riportarsi su posizioni presocratiche. L’incontro con Stilpone, tuttavia, incise su Zenone in modo non lieve: la logica e la dialettica della Stoa, infatti, avrebbero rivelato indubbi influssi di matrice megarica (cfr. SVF, 1, fr. 1).
2. Il ripudio della «seconda navigazione». – Oltre la voce dei Socratici minori, Zenone volle ascoltare anche quella degli Accademici. Le nostre fonti ci riferiscono, infatti, che Zenone fu discepolo anche dei platonici Senocrate e Polemone. Ora, per quanto questo contatto con l’Accademia abbia influito su di lui e lo abbia aiutato a maturare e a risolvere problemi particolari, nonché a dare una consistenza e uno spessore speculativo al suo filosofare (che avrebbe differenziato la Stoa da tutti gli altri sistemi dell’età ellenistica), non gli vietò, tuttavia, di prendere una posizione nei confronti del problema metafisico in netta antitesi con quella di Platone.
Zenone, dunque, rifiutò gli esiti della «seconda navigazione», e, non meno di Epicuro, assunse posizioni decisamente materialistiche: negò non solo l’esistenza trascendente delle Idee, riducendole a pensieri della mente umana, ma rifiutò pure di attribuire loro quella statura ontologica che Aristotele, pur confutando la loro trascendenza, aveva mantenuto (cfr. SVF, I, fr. 65).
Zenone respinse altresì l’esistenza di un’anima spirituale per sua natura diversa dal corpo e anche di Intelligenze immateriali e trascendenti – quali il platonico Demiurgo, l’aristotelico Motore Immobile e le aristoteliche Intelligenze motrici delle sfere celesti. Al contrario, per lui, l’anima era di natura corporea: se non fosse tale – precisa Cleante, riferendo un’argomentazione risalente, però, a Zenone – non si potrebbero spiegare i rapporti che essa ha con il corpo. L’anima è, dunque, pneuma e fuoco (πῦρ): sopravvive per un certo periodo alla morte del corpo, ma poi si dissolve (cfr. SVF, I, frr. 135; 146; 518).
In questa concezione, corporeo era anche il dio, il quale era fatto coincidere con il Principio attivo dell’universo, immanente all’universo stesso; il dio era fuoco eterno (si vd. infra).
3. Il ripensamento di Eraclito e il concetto di φύσις come fuoco artefice. – Zenone non si limitò ad ascoltare filosofi a lui contemporanei, ma lesse e meditò anche i libri degli antichi. Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, la lettura delle opere di Eraclito. Infatti, l’idea eraclitea del fuoco, che è φύσις, λόγος, θεός, ripensata e opportunamente rielaborata, sarebbe divenuta centrale nell’ontologia stoica.
A questo proposito, dobbiamo ribadire un rilievo essenziale: la φύσις eraclitea, riveduta da Zenone, non poteva più mantenere il significato presocratico arcaico, ossia un valore al di qua delle distinzioni di organico-inorganico, di materia-spirito, di corporeo-incorporeo, di immanente-trascendente, di sensibile-soprasensibile. Dopo le acquisizioni platoniche e aristoteliche, la concezione della φύσις poteva essere determinata solo in funzione di queste distinzioni. E così Zenone trasse dal principio eracliteo, cui si era ispirato, conseguenze vitalistiche, ilozoistiche, organicistiche e panteistiche: che tutto fosse vivo, che la materia fosse intrinsecamente dotata di vita, che tutto fosse organismo vivente e che tutto fosse dio e che il dio coincidesse con il cosmo, che φύσις e θεῖον si identificassero reciprocamente, erano tutte tesi implicite nei Presocratici – ma solo con gli Stoici sarebbero divenute esplicite e tematiche. Una volta negata la trascendenza platonica-aristotelica, il dio, se ammesso come esistente, doveva essere necessariamente immanentizzato e identificato con il cosmo e con la natura. Come meglio si vedrà esponendo la fisica, gli Stoici furono i primi veri panteisti, cioè i primi pensatori a identificare Dio e Natura con piena consapevolezza.
Ricostruzione a disegno del lato occidentale della Stoa Poikile, così come avrebbe dovuto apparire intorno al 400 a.C. [agora.ascsa.net].4. I rapporti con Epicuro. – Un avvenimento che agì in modo determinante su Zenone fu indubbiamente la fondazione del Giardino a opera di Epicuro, nel 307/306 a.C. Questo fatto nella vita spirituale di Atene costituiva una vera e propria rivoluzione. Nei confronti della nuova Scuola Zenone dovette subito nutrire sentimenti contraddittori: un misto di attrazione e repulsione, di ammirazione e di disprezzo, di consenso e di dissenso. Egli dovette certamente capire che Epicuro cercava di soddisfare quegli stessi bisogni che anche lui provava, che cercava di dar voce a quelle istanze che pure lui sentiva come imprescindibili, che intendeva e praticava la filosofia in quella nuova valenza di «arte del vivere», non ignota alle altre Scuole, ma da esse solo imperfettamente realizzata. Ma se Zenone condivideva il concetto epicureo di filosofia nonché il conseguente modo di porre i problemi speculativi, non accettò le soluzioni a tali questioni e divenne tosto fiero «avversario» dei dogmi del Giardino: gli ripugnavano profondamente le due idee basilari del sistema epicureo, vale a dire la riduzione del mondo e dell’uomo a un mero accozzo di atomi e l’identificazione del bene morale con il piacere. L’apertura del Giardino, pertanto, dovette agire da stimolo su Zenone in due sensi: da un lato, dovette fargli maturare l’idea di fondare una propria Scuola; dall’altro, con i suoi dogmi, dovette stimolarlo a costruire un termine di riferimento polemico per la soluzione di tutto l’arco dei problemi filosofici.
5. La genesi della Stoa e il suo sviluppo. – Zenone non era cittadino ateniese e, pertanto, non godeva del diritto di acquistare un immobile; per questo motivo, tenne le sue lezioni lungo il portico che era stato dipinto dal celebre pittore Polignoto di Taso (floruit 480-455 a.C. ca.). In greco, appunto, «portico» si diceva στοά e per tale ragione la nuova Scuola ebbe il nome di Stoa; i suoi seguaci furono detti «quelli della Stoa» o anche semplicemente «Stoici» (SVF, I, fr. 2).
Nel Portico di Zenone, a differenza che nel Giardino di Epicuro, era ammessa la discussione critica intorno ai dogmi dello stesso fondatore della Scuola e, per tale motivo, questi furono soggetti ad approfondimenti, revisioni e ripensamenti. Di conseguenza, mentre la filosofia epicurea non subì modificazioni di rilievo e fu, in pratica, solamente o prevalentemente ripetuta e chiosata, rimanendo sostanzialmente immutata, quella di Zenone affrontò innovazioni anche notevoli ed ebbe un’evoluzione piuttosto considerevole.
La battaglia di Maratona. Ricostruzione dell’affresco di Polignoto nella Stoa Pecile, da C. ROBERT, Die Marathonschlacht in der Poikile und weiteres über Polygnot, Halle auf Saale 1895, tav. 1-2.
Gli studiosi hanno ormai messo bene in chiaro che nella storia della Stoa è necessario distinguere tre periodi: 1) il periodo dell’antica Stoa, che va dalla fine del IV secolo a tutto il secolo III a.C., in cui la filosofia del Portico fu via via sviluppata e sistemata a opera della grande triade di scolarchi (Zenone, appunto, Cleante[4] e soprattutto Crisippo[5] – fu, in particolare, quest’ultimo, pure di origine semitica, che, con oltre 700 libri, fissò in modo definitivo la dottrina della prima stagione della Scuola)[6]; 2) il periodo cosiddetto della media Stoa, fra il II e il I secolo a.C., che si caratterizzava per infiltrazioni eclettiche nella dottrina originaria; 3) il periodo della Stoa romana, o della nuova Stoa (ormai in età cristiana), in cui la dottrina si fece essenzialmente meditazione morale e assunse forti toni religiosi, in conformità con lo spirito e le aspirazioni dei nuovi tempi.
II. La tripartizione della filosofia e il λόγος
Anche Zenone e la Stoa accettavano la tripartizione della filosofia stabilita dall’Accademia (che era stata sostanzialmente accolta persino da Epicuro); anzi, la accentuarono e non si stancarono di foggiare nuove immagini per illustrare, nel modo più efficace, il rapporto che legava fra loro le tre parti. L’intero della filosofia, dunque, era da essi paragonato a un frutteto in cui la logica corrispondeva al muro di cinta che delimitava l’ambito del medesimo e che fungeva, a un tempo, da baluardo di difesa; gli alberi rappresentavano la fisica, perché erano come la struttura fondamentale, ovvero ciò senza cui non ci sarebbe stato il frutteto; infine, i frutti, che erano ciò a cui tutto l’impianto mirava, rappresentavano l’etica. Altra celebre immagine era quella dell’uovo: il guscio protettivo raffigurava la logica, l’albume la fisica, il tuorlo l’etica. Posidonio avrebbe poi addotto, invece, l’immagine dell’organismo vivente: la logica come l’ossatura, la fisica come il sangue e la carne, l’etica come l’anima. Tutte queste immagini esprimevano tanto la preminenza dell’etica quanto l’imprescindibilità delle altre due parti della filosofia stessa (cfr. SVF, II, frr. 38-39).
Ma gli Stoici, a differenza delle altre Scuole che ammettevano la tripartizione della filosofia (e, soprattutto, a differenza degli stessi Epicurei, i quali, peraltro, oltre che la tripartizione, riconoscevano la medesima subordinazione gerarchica proposta dagli Stoici), seppero additare, in maniera originale, il fondamento che solidamente legava le tre parti nel principio del λόγος: esso era inteso come principio di verità in logica, come principio creatore in fisica e come principio normativo in etica.
A questo proposito, risulta assai significativo che gli Stoici, per indicare questo principio di spiritualità immanente e di razionalità, che stava a fondamento del loro sistema, non avessero scelto il termine νοῦς («intelligenza»), ma avessero preferito il concetto eracliteo di λόγος, perché essi ritenevano di trovare espressa in esso una molteplicità di significati che riuniva il momento soggettivo e quello oggettivo, l’antropologico e il cosmologico, il gnoseologico e l’ontologico e, quindi, poteva fungere chiaramente da comune denominatore.
Così resta chiarito quanto sopra si è detto: come, cioè, il λόγος costituisse un principio unitario, il quale, con le sue tre diverse valenze, generava le tre parti della filosofia; il λόγος come principio di verità, con le sue leggi del pensare, del conoscere e del parlare, costituiva l’oggetto specifico della logica; il λόγος come principio ontologico del cosmo rappresentava l’oggetto della fisica (intesa, questa, nel senso originario e presocratico di «scienza della natura»); e, infine, il λόγος quale principio finalizzatore, ossia come principio che determina il senso di ogni cosa – e, quindi, anche il fine e il dover essere dell’uomo – costituiva l’oggetto dell’etica.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.
III. La logica dell’antica Stoa
1. Il ruolo e le articolazioni della logica stoica. – Lo Stoico non solo sentiva di essere nella verità in ogni momento del suo sistema, ma orgogliosamente proclamava di essere in grado di dimostrarlo logicamente a se stesso e agli altri. Si comprende, quindi, come gli Scettici dovessero scegliere proprio gli Stoici come loro bersaglio polemico preferito: essi, infatti, erano i filosofi più dogmatici dell’età ellenistica. E trascinati nella polemica scettica, gli Stoici affilarono ulteriormente le loro armi dialettiche e finirono per dare ancor più peso alla logica – differenziandosi così sempre più dagli Epicurei, i quali mostrarono interessi molto scarsi per tale disciplina e raggiunsero, pertanto, in essa risultati alquanto modesti. I nuovi studi hanno messo bene in luce che, in realtà, la logica stoica doveva essere altra cosa rispetto a quella aristotelica, dato che si muoveva in direzioni differenti e addirittura opposte, riprendendo elementi di matrice prearistotelica elaborati nell’ambito delle Scuole socratiche minori e, in particolare, dalla Scuola megarica.
Già la distinzione delle parti della logica propugnata dagli Stoici indica chiaramente la sua matrice non aristotelica: Zenone, infatti, con un’angolazione prearistotelica distingueva la logica in dialettica e retorica, in quanto egli riconosceva due sole possibilità per il discorso – quella di procedere per argomenti e quella di svilupparsi in maniera oratoria (cfr. SVF, I, fr. 75).
Siamo, peraltro, informati che alla tradizione logica alcuni Stoici attribuivano altresì il compito di fornire i canoni o i criteri di verità, analogamente agli Epicurei. Anzi, alcune fonti ci dicono che proprio la dottrina del criterio della verità aveva il primo posto nell’insegnamento.
Luca della Robbia, Dibattito fra Platone e Aristotele, o ‘Filosofia’. Marmo dal lato nord del campanile di Firenze (basamento inferiore), 1437-1439. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
2. Il criterio della verità: la sensazione e la rappresentazione catalettica. – Secondo questa dottrina, l’anima era, originariamente, come una tabula rasa e, per azione dell’esperienza, acquistava via via le sue conoscenze. Si capisce, quindi, che, essendo la sensazione e la rappresentazione sensoriale il momento iniziale, ossia l’ingresso nell’anima della conoscenza, gli Stoici abbiano dedicato a esse attente analisi e, stante la temperie fondamentalmente sensistica e materialistica della loro gnoseologia, abbiano finito per indicare – come si vedrà – se non addirittura nella sensazione – come avevano fatto gli Epicurei, che erano ancora più accentuatamente sensisti – appunto nella rappresentazione il criterio della verità. Base della conoscenza, per gli Stoici, dunque, era la sensazione (αἴσθησις), la quale era intesa come impressione provocata dagli oggetti sugli organi sensoriali dell’uomo. Questa impressione, poi, si trasmetteva tramite i sensi all’anima e si imprimeva in essa, generando in tal modo la rappresentazione (φαντασία) (cfr. SVF, II, frr. 53 e 83).
Il materialismo di fondo della Stoa doveva, però, comportare non poche difficoltà nel determinare la natura di tale impronta sull’anima. Zenone e Cleante intesero l’impressione come materiale impronta sull’anima, mentre il più raffinato e smaliziato Crisippo parlò di alterazione qualitativa.
La rappresentazione veritativa, secondo gli Stoici, non implicava soltanto un sentire, ma postulava altresì un assentire, un acconsentire e un approvare provenienti dal λόγος, insito nell’anima dell’uomo. L’impressione, a loro avviso, non dipende dal singolo, ma dall’azione che gli oggetti esercitano sui suoi sensi e gli uomini non sono liberi di accogliere quest’azione o di sottrarsi a essa; tuttavia, essi sono, in un certo senso, liberi di prendere posizione di fronte alle impressioni e alle rappresentazioni che si formano in loro, dando a esse l’assenso del λόγος, oppure rifiutando loro questo assenso (συνκατάθησις). Solo quando si dà loro il proprio assenso, si ha l’apprensione (κατάληψις), e la rappresentazione che ha ricevuto l’assenso è rappresentazione comprensiva o catalettica (καταληπτική φαντασία), cioè criterio di verità (cfr. SVF, I, frr. 60-66; II, fr. 91).
La spontaneità dell’assenso, proclamata dagli Stoici, è il punto di gran lunga più delicato da capire, ma anche il più importante. Gli Stoici erano ben lungi dal pensare che il λόγος avesse, rispetto alla sensazione, un’autonomia o una funzione regolativa del tipo di quella che si ritrova nelle moderne gnoseologie, ed erano lungi dal ritenere che la rappresentazione catalettica fosse una specie di sintesi o una sorta di misurazione che lo spirito operava sui dati sensoriali. La libertà di assenso era, in ultima analisi, non altro che il riconoscere l’evidenza oggettiva e il respingere la non-evidenza. La presupposta convinzione degli Stoici era che, in realtà, quando un individuo era realmente di fronte a un oggetto, si producevano in lui un’impressione e una rappresentazione dotate di forza ed evidenza tali che naturalmente lo portavano all’assenso e, quindi, alla rappresentazione comprensiva; e che, dunque, per converso, quando l’individuo aveva rappresentazione comprensiva, e cioè dava il proprio assenso a un rappresentazione, si trovava sicuramente di fronte a un oggetto reale. Pertanto, il presupposto di una piena corrispondenza fra reale presenza dell’oggetto e rappresentazione evidente, che conduce all’assenso, finiva per essere, in realtà, predominante.
Anonimo, Zenone di Cizio. Incisione da Thomas Stanley, The History of Philosophy…, 1655.
3. La conoscenza intellettiva, le προλήψεις e i concetti universali. – La conoscenza non si esauriva, secondo gli Stoici, nell’ambito della sensazione e nemmeno in quello dell’esperienza in generale, che non era altro se non il consolidarsi di ricordi di rappresentazioni sensibili della medesima specie. Gli Stoici riconoscevano che l’uomo ha anche capacità di pensare e di ragionare, ossia di formare rappresentazioni intellettive (ἔννοιαι), di connetterle fra loro e, quindi, di procedere a inferenze in modi diversi; pertanto, essi poterono elaborare una vera e propria logica, che denominarono «dialettica».
Per intendere quest’ultima occorre comprendere la dottrina stoica della genesi, della natura e del significato dell’«universale» (o meglio, di ciò a cui gli Stoici riducevano questo concetto).
Se prima non abbiamo sensazioni, non possiamo avere rappresentazioni intellettive e concetti. Dalla sensazione si passa all’intellezione, in primo luogo, con un’operazione immediata: per esempio, da questo bianco che vedo alla nozione (generale) di bianco; da questo colore alla nozione di colore. In secondo luogo, per passaggio mediato, cioè operando per via di associazione, combinazione, divisione sulle nozioni ottenute per immediata evidenza e così trasformandole in varia maniera (cfr. SVF, II, frr. 83; 87).
È da notare, inoltre, che anche gli Stoici riconoscevano l’esistenza di προλήψεις («nozioni»), concependole come «naturale concezioni degli universali», ovvero come un processo che avviene in modo naturale già nel bambino e che giunge a compiutezza entro il settimo anno. Quelle «nozioni» che si riscontrano in tutti gli uomini sono «universali». Gli Stoici hanno parlato addirittura di «nozioni innate alla natura umana» a proposito di alcuni concetti morali. Questo linguaggio, però, mal si accorda con l’affermazione che l’anima è una tabula rasa. Peraltro, è da rilevare che il λόγος dell’uomo altro non è se non una parte e un momento del λόγος universale e, come tale, deve non solo essere capace di raggiungere la verità, ma deve altresì avere in sé, in un certo qual modo, qualche germe della verità medesima (cfr. SVF, II, fr. 473; III, fr. 218; III, fr. 69).
Jean-Léon Gérôme, La verità. Olio su tela, 1896. Museum Anne-de-Beaujeu.
4. Gli «esprimibili» e la loro incorporeità. – Qual è la natura degli «universali», ossia di ciò che il pensiero pensa, congiunge e disgiunge in vario modo? Gli Stoici ammettevano, oltre alle cose esistenti e alle parole significanti, anche un tertium quid, ossia i contenuti di pensiero, «i significati», che affermavano essere meri λεκτά («concetti esprimibili»), sostenendo che tali cose fossero «incorporee» (cfr. SVF, II, frr. 166 e 187).
Che i contenuti del Pensiero, che sono il frutto della nostra attività razionale e che esprimiamo e comunichiamo con le parole (cioè gli universali), siano, per gli Stoici, meri «esprimibili» e «incorporei», si spiega abbastanza facilmente tenendo presente quanto segue: l’essere è sempre e solo corpo e come tale individuale; i contenuti del pensiero si predicano di molti individui e, pertanto, essi non sono individuali e non possono essere corpi e, quindi, realtà. Di conseguenza, essi sono non-corporei, non già nel significato spiritualistico e quindi positivo, ma nel senso negativo di mancanza di quella caratteristica che è tipica della realtà e dell’essere, che per gli Stoici è solo la corporeità. Inoltre, sono λεκτά, in quanto essi esistono solo congiuntamente al λέγειν e al διαλέγειν umano, ossia in dipendenza dal nostro dire, pensare e ragionare. La posizione degli Stoici era, dunque, concettualistico-nominalistica, in quanto riconosceva l’universale come qualcosa che dipendeva dal pensare e parlare, ma gli rifiutava un’esistenza reale.
Con questa concezione del λεκτόν immateriale come concetto (come σημαινόμενον) se ne intreccia una seconda, attestata da altre fonti e dallo stesso Sesto Empirico, che è assai più complessa, ma non meno importante per la retta comprensione della filosofia del Portico, in generale, e della dialettica, in particolare, e che, dunque, è necessario riferire.
Nel contesto del materialismo stoico, che – come si è già accennato – è di carattere ilozoistico e vitalistico, la concezione del rapporto causa-effetto è del tutto particolare e senza un preciso riscontro in tutto il pensiero precedente. Solo la causa è realtà, è essere, è «corpo»; l’effetto, invece, è un mero accidente, sprovvisto di realtà corporea e, dunque, «incorporeo». Gli effetti sono, pertanto, considerati meri «predicati» e quindi «incorporei».
Ma perché l’effetto-accidente-incorporeo è detto «predicato»? È evidente che, nel qualificarlo in questo modo, gli Stoici si siano basati soprattutto su questa considerazione: «il predicato» è «ciò che è congiunto a una e a più cose» (SVF, II, fr. 183); ora, se è congiunto a più cose, non è individuale e, dunque, ha una universalità; e per questa ragione esso rientra fra gli esprimibili, che sono universali.
Crisippo. Busto, marmo greco, copia romana di I-II sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.
5. La dialettica. – Gli Stoici definivano la dialettica in maniera socratica: «La dialettica è scienza del discutere rettamente su argomenti per domanda e riposta» (SVF, II, fr. 48). Orbene, il «discutere» (διαλέγειν) ha a che fare sia con parole sia con nozioni o, per dirla stoicamente, con cose significanti e con significati: per conseguenza, la dialettica si occupa di entrambe le cose. Crisippo definiva la dialettica come segue: «La dialettica si riferisce al significante e al significato» (SVF, II, fr. 122).
Insomma, la dialettica stoica si divide in due grandi sezioni: una riguarda il linguaggio e la sua struttura, l’altra le forme del pensiero.
Nello studio del linguaggio gli Stoici gettarono le premesse per lo studio scientifico della grammatica: la teoria della declinazione con la determinazione dei «casi» fu, probabilmente, la loro più significativa scoperta in questo campo. È da notare che, nella sezione della dialettica concernente il linguaggio, gli Stoici inclusero anche le questioni concernenti la definizione, il genere, la specie.
Nell’altra sezione della dialettica gli Stoici si occuparono, invece, delle forme del pensiero. Questa seconda parte, dunque, oltre che dei giudizi e dei sillogismi, si occupava dei «predicati», che, secondo gli Stoici, erano i verbi: questi, appunto, erano gli «esprimibili ellittici» (o «incompleti»), come, per esempio, «scrive», «discorre», «corre».
6. La retorica. – Come sopra già abbiamo rilevato, la retorica, secondo gli Stoici, era un modo fondamentale del parlare, del λέγειν, cioè del λόγος, e, in quanto tale, faceva parte di diritto della logica. D’altra parte, è pur vero che gli Stoici attribuivano alla retorica un valore decisamente subordinato alla dialettica: infatti, la retorica era considerata la scienza che permetteva di esporre bene e chiaramente il vero, ma quest’ultimo poteva essere scoperto solo mediante la dialettica.
Come si vede, da onnipotente strumento politico di convinzione e di commozione degli animi – quale Gorgia l’aveva esaltata e Platone l’aveva bollata – la retorica divenne semplicemente l’arte del parlare con eleganza, cioè l’arte di dire in modo raffinato la verità: la dialettica esprimeva la verità in modo secco e sintetico, mentre la retorica la esponeva in maniera appropriata e ornata.
Pittore di Bruxelles. Colloquio fra due uomini. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. Museo C. Faina.
IV. La fisica nell’antica Stoa
1. Il materialismo e il corporeismo della Stoa. – La caratteristica precipua, che differenziava la fisica stoica non solo da quella del Giardino, ma, in certa misura, anche da quella di tutti i pensatori greci, era la seguente: il suo materialismo si configurava nettamente come monismo panteistico. Infatti, se alcuni dei sistemi presocratici, sotto certi aspetti, possono apparire monistici e panteistici, è solo perché noi oggi li interpretiamo facendo uso di chiarificazioni e di scoperte posteriori e li giudichiamo in funzione di categorie di cui noi non sappiamo, né possiamo, più fare a meno, ma che i Presocratici certamente non possedevano; però, tali categorie, dopo Platone e Aristotele, erano ben acquisite presso gli Stoici.
Per cominciare, è bene chiarire il senso che va dato al concetto di materialismo nell’ambito stoico: senza questa preliminare chiarificazione sfuggirebbe il senso peculiare del monismo panteistico del Portico. Gli Stoici, come gli Epicurei, negavano l’esistenza di qualsiasi realtà che fosse puramente spirituale. E, sempre come gli Epicurei, essi rivolgevano contro Platone quelle stesse armi che egli nel Sofista aveva usato per confutare quei pensatori, i quali sostenevano che non esisteva nient’altro che non fosse corpo. Infatti, Platone (Sophist. 247d sg.) aveva detto che avesse titolo per essere considerato “reale” solo ciò che fosse capace di agire e di patire e che tale fosse proprio l’essere ideale. Come gli Epicurei, ancora, anche gli Stoici predicavano che la capacità di agire e di patire appartenesse solamente alle cose corporee (cfr. SVF, I, fr. 90; II, frr. 329 e 359).
L’essere, in quanto tale, dunque, è materialità e corporeità. Sulla base di questo, si capisce come gli Stoici dovessero considerare corporea tutta quanta la realtà, senza eccezione. Corpo era il dio, corpo era l’anima, corpo era il bene, corpo era il sapere, corpi erano le passioni, i vizi e le virtù (cfr. SVF, III, fr. 84).
2. Il monismo panteistico. – Nella determinazione del concetto di «corpo» gli Stoici battevano la via opposta a quella pluralistico-atomistico-meccanicistica percorsa dagli Epicurei. Corpo era, per gli Stoici, materia e qualità (o forma), unite fra loro in maniera tale da essere strutturalmente inscindibili. La qualità-forma era considerata la causa o il principio attivo, mentre la materia costituiva il principio passivo; la prima era sempre immanente alla seconda e in nessun caso ne poteva essere separata né poteva sussistere di per sé. Questo principio che, nella concezione stoica, pervadeva la materia, la informava e la plasmava, la muoveva e la squassava tutta quanta, era, al di là dei vari nomi che assunse (mente, anima, natura, ecc.), il dio stesso (cfr. SVF, I, ffr. 85-88; 158; II, frr. 303 sgg.). La penetrazione del dio (che era inteso come corporeo) attraverso la materia e la realtà tutta (considerata corporea anch’essa) per lo Stoicismo era possibile in virtù del dogma della «commistione totale dei corpi». Respingendo la teoria epicurea degli atomi, gli Stoici ammettevano la divisibilità all’infinito dei corpi e, quindi, la possibilità che le parti dei corpi si potessero fra loro intimamente unire, così che due corpi potessero fondersi perfettamente in uno solo. È evidente che questa tesi abbia comportato l’affermazione della penetrabilità dei corpi, e, anzi, coincideva con questa: poiché il principio attivo, che è il dio, è inscindibile dalla materia, e poiché non c’è materia senza forma, il dio è in tutto ed è tutto. Il dio coincide con il cosmo.
Antonio da Correggio, Giove ed Io. Olio su tela, 1533. Wien, Kunsthistorisches Museum.
3. Lo svuotamento ontologico dell’incorporeo. – In base a quanto è stato fin qui precisato, è possibile comprendere la curiosa posizione che gli Stoici assunsero nei confronti dell’«incorporeo». Si è detto che la riduzione dell’essere a corpo comportasse, come necessaria conseguenza, la riduzione dell’in-corporeo (di ciò che è, appunto, privo di corpo) a qualcosa che fosse privo di essere. L’«incorporeo», allora, mancando appunto di corporeità, difettava di quei connotati che erano considerati distintivi dell’essere, ossia il fatto di non poter agire né patire.
Gli elementi incorporei non erano, tuttavia, il nulla e nemmeno si esaurivano nell’ambito dei λεκτά (delle «cose esprimibili»), di cui si è già detto. Infatti, è riferito che, oltre ai λεκτά, gli Stoici affermavano essere «incorporei» pure il luogo, il tempo e l’infinito (cfr. SVF, II, frr. 501-502). Questa concezione dell’«incorporeo» era tale da suscitare delle aporie, delle quali gli stessi Stoici avevano consapevolezza. Infatti, sorge spontanea la domanda: se l’«incorporeo» non ha essere, perché non è corpo, allora è non-essere? Per sfuggire a tale difficoltà gli Stoici furono costretti a negare che l’essere fosse, per così dire, il genere supremo e che fosse predicabile di qualsiasi cosa, e ad affermare che il genere più ampio di tutti fosse il «qualcosa» (cfr. SVF, II, frr. 329-332).
Naturalmente, in questo contesto, perdeva ogni senso la tavola aristotelica delle categorie, che erano considerate le supreme «divisioni» e i supremi «generi» dell’essere. Gli Stoici ridussero le categorie a due fondamentali: la sostanza intesa come sostrato materiale e la qualità intesa come la qualità che, in unione con il sostrato, determinava l’essenza delle singole cose. L’una e l’altra erano considerate materiali e corporee ed erano indisgiungibili l’una dall’altra.
Statua di Iside-Tyche-Pelagia. Marmo, I-II sec. d.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
4. Il finalismo e la Provvidenza (πρόνοια). – Contro il meccanicismo degli Epicurei, gli Stoici difesero a spada tratta un rigorosa concezione finalistica. Già Platone e Aristotele avevano formulato un’immagine nettamente teleologica del cosmo; ma gli Stoici procedettero oltre: infatti, se tutte le cose, senza eccezione, erano da intendersi come prodotte da quell’immanente principio divino, che era il λόγος, intelligenza e ragione, tutto era rigorosamente e profondamente pensato come razionale, tutto era come la ragione voleva che fosse e come non poteva volere che fosse, tutto era come dovesse essere e come era bene che fosse, e l’insieme di tutte le cose era considerato perfetto: non c’era ostacolo ontologico all’idea dell’artefice immanente, dato che la stessa materia era veicolo del dio, e così tutto ciò che esiste aveva un suo preciso significato ed è stato fatto nel migliore dei modi possibili.
In conseguenza dell’affermazione del finalismo, anche il discorso sulla Provvidenza (πρόνοια) emerse in primo piano. Nell’ambito delle filosofie presocratiche il concetto di Provvidenza era assente. Lo stesso Aristotele non l’aveva collegata alla concezione di fine. Invece, questa dottrina si ritrovava nei Memorabili di Senofonte, e si trovava congiunta alla concezione del Demiurgo nel Timeo platonico. Ma solo con gli Stoici la Provvidenza spiccò in primo piano, occupando un posto importantissimo nella loro speculazione. La Provvidenza stoica – si badi – non aveva nulla a che vedere con quella di un dio personale; essa, in ultima analisi, non era altro che quel finalismo universale che è stato già esaminato: essa esprimeva, cioè, quell’essere ogni cosa (anche la più piccola) fatta come era bene e come era meglio che fosse da parte del λόγος. E come la Provvidenza era immanente e fisica, così non c’è da stupirsi che essa provvedesse più alla specie che non all’individuo e che, quindi, non si occupasse dei singoli uomini in quanto singoli: solo una concezione della divinità e della Provvidenza come personali avrebbe potuto permettere un guadagno in questo senso (cfr. SVF, I, frr. 171-172; II, fr. 1153).
William Blake, The Ancient of Days. Olio su tela, 1794. London, British Museum.
5. Il Fato. – Senonché questa Provvidenza immanente degli Stoici, vista sotto altra prospettiva, doveva rivelarsi come «fato» e come «destino» (εἱμαρμένη), ossia come ineluttabile necessità. Gli Stoici intesero questo Fato come la serie irreversibile delle cause, come l’ordine naturale e necessario di tutte le cose, come l’indissolubile intreccio che legava tutti gli esseri, come il λόγος, secondo cui le cose avvenute sono avvenute, quelle che avvengono, avvengono, e quelle che avverranno, avverranno. E poiché tutto era fatto dipendere dal λόγος, tutto era considerato necessario, anche l’evento più insignificante. Si è, dunque, agli antipodi della visione epicurea, che con la «declinazione degli atomi» poneva ogni cosa in balìa del caso e al fortuito (cfr. SVF, I, frr. 175-176).
Su queste basi è chiaro come gli Stoici dovessero difendere la mantica: se tutto era determinato e predeterminato, con opportuna arte il futuro avrebbe potuto essere scrutato e, in qualche modo, previsto (cfr. SVF, II, fr. 1187).
Jacques Réattu, L’apoteosi di Prometeo, portato in cielo da Minerva e dal genio della libertà. Olio su tela, 1792.
6. La Necessità e la Libertà. – I detrattori dello Stoicismo ben si accorsero che nel contesto di questa concezione fatalistica non fosse possibile far posto alla libertà umana. Se ogni evento era rigidamente determinato, e perfino la caduta di un capello non poteva essere casuale, non aveva più alcun senso l’impegno morale, appunto perché l’esito dell’azione era predeterminato in ogni caso, e non aveva più alcun senso la responsabilità, perché non dall’uomo, ma dalla necessaria e immodificabile serie delle cause dipendevano, come tutte le cose, anche le azioni umane. Crisippo cercò di risolvere l’aporia, ma con ben scarso successo. Essa, infatti, era strutturalmente insolubile. Non era possibile ammettere l’εἱμαρμένη nel senso stoico e, insieme, salvare l’umana libertà: l’una, infatti, distruggeva l’altra, e viceversa, irreparabilmente.
La vera libertà del saggio stava nell’uniformare i propri voleri a quelli del Destino, stava nel volere insieme al Fato ciò che il Fato voleva. E questa era «libertà», in quanto razionale accettazione del Fato, che era razionalità: infatti, il Destino era il λόγος, e perciò volere i voleri del Destino era volere i voleri del λόγος. Libertà, dunque, era impostare la vita in totale sintonia con il λόγος.
Cleante espresse perfettamente questo concetto di «libertà» nei seguenti versi:
Guidami, o Zeus, e tu, o Fato,
dovunque io sia stato destinato,
da voi: vi seguirò senza esitare:
qualora non volessi, risulterei malvagio,
e dovrei seguirvi, non di meno.
(cfr. SVF, I, fr. 527).
Seneca avrebbe detto con lapidaria sentenza: Duncunt uolentem fata, nolentem trahunt (ad Lucil., 107, 10). È questo un punto di forza della saggezza stoica che fece grande impressione, perché insegnava che era possibile affrancarsi dal Destino comprendendone le ragioni, le leggi e, di conseguenza, sintonizzandosi con esse.
Zeus di ‘Marbury Hall’. Statua, marmo, copia romana del I sec. d.C. da originale greco del V secolo a.C. Paul Getty Museum.
7. Il cosmo e il posto dell’uomo nell’universo. – Il mondo e le cose del mondo nascono dall’unica materia-sostrato qualificata via via dall’immanente λόγος, che è, esso pure, uno, eppure capace di differenziarsi nelle infinite cose. Il λόγος è come il seme di tutte le cose, è come un seme che contiene molti semi (i λόγοι σπερματικοί, che i latini avrebbero tradotto con l’espressione rationes seminales).
Dall’originario λόγος-πῦρ si formano i quattro elementi: l’elemento fuoco, l’elemento aereo, che, riscaldato dal fuoco, com’è noto, è detto πνεῦμα (spirito); quindi, si formano l’elemento liquido e quello solido e tutto il cosmo e tutte le cose del cosmo, a opera del fuoco stesso e del πνεῦμα, che circolano in tutte le cose. Grande importanza gli Stoici attribuirono al concetto di τόνος («tensione») del fuoco, o meglio del πνεῦμα, che sarebbe una specie di forza propulsiva che va dal centro agli estremi limiti e poi ritorna al centro, assicurando così unità alle singole cose e al tutto.
Il πνεῦμα si distende per l’universo con un’intensità e una purezza differenti e, quindi, genera le varie cose on una precisa gradazione gerarchica, pur restando uno. Nascono in questo modo le cose inorganiche, in cui il πνεῦμα agisce e si manifesta come ἕξις («forza che garantisce alle cose coesione e durata»); sorgono, quindi, gli organismi vegetali in cui il πνεῦμα si comporta e si presenta come capacità di nutrirsi, di crescere e di riprodursi, cioè come φύσις («principio di crescita»); nascono, infine, gli animali, in cui il πνεῦμα si manifesta come ψυχή («principio di vita»), e quindi come sensazione e istinto e, nell’uomo, come λόγος (cfr. SVF, II, frr. 458-462; 714-716).
Piante e animali della terra sono in funzione dell’uomo: per l’uomo è stato creato tutto ciò che sta nel mondo sublunare. Ben si comprende, quindi, la definizione data dagli Stoici: l’universo è il sistema costituito dagli dèi e dagli uomini e dalle cose create per loro.
Giovanni Lanfranco, Providentia. Incisione su rame, 1600-1625 c. Universitätsbibliothek Salzburg.
8. La conflagrazione universale e l’eterno ritorno. – Ma c’è ancora un punto essenziale concernente la cosmologia degli Stoici da illustrare. Come i Presocratici, anche gli Stoici ritenevano il mondo generato e, quindi, corruttibile (ciò che nasce, deve, a un certo momento, morire). Del resto, era l’esperienza stessa che diceva loro che, così come esisteva un fuoco creatore, esisteva anche un fuoco, o un aspetto del fuoco, che bruciava, inceneriva e distruggeva tutto. E, in ogni caso, era impensabile che le singole cose del mondo fossero soggette a corruzione e non il mondo che di esse era costituito. La conclusione era, perciò, obbligata: il fuoco a misura aveva creato e a misura avrebbe distrutto: di conseguenza, al fatidico compimento dei tempi, si sarebbe verificata una conflagrazione universale, ossia una generale combustione del cosmo (ἐκπύρωσις), che sarebbe stata anche una sorta di universale purificazione, e ci sarebbe stato solamente fuoco. A ciò avrebbe fatto seguito una nuova rinascita (παλιγγενεσία) e tutto si sarebbe ricostituito esattamente come prima (ἀποκατάστασις). Sarebbe rinato il cosmo, questo medesimo cosmo, il quale per l’eternità avrebbe continuato a essere distrutto e ad autorigenerarsi non solo nella sua struttura complessiva, ma anche negli accadimenti particolari (l’eterno ritorno); sarebbe rinato ciascun uomo sulla Terra e sarebbe stato tale quale fu nella precedente vita (cfr. SVF, II, frr. 585-625).
Andreas Cellarius, Orbita dei pianeti e delle costellazioni intorno alla terra. Illustrazione, 1660. Gorizia, P.zzo Coronini Cronberg.
9. L’uomo. – Nell’ambito del mondo, come si è visto, l’uomo occupava una posizione preminente: questo privilegio derivava, in ultima analisi, dal fatto di essere più di ogni altro ente partecipe del λόγος divino. Gli Stoici ritenevano che l’uomo fosse, infatti, costituito oltre che dal corpo anche dall’anima, la quale era intesa come un frammento di quella cosmica e, dunque, un frammento del dio, giacché l’anima universale non era altro che il dio medesimo (cfr. SVF, II, fr. 633).
Naturalmente, nel contesto dell’ontologia stoica, l’anima (ψυχή) non era sostanza immateriale, ma corporeità, sia pure corpo privilegiato, ossia πῦρ o πνεῦμα. Essa permeava tutto intero l’organismo fisico, vivificandolo; il fatto che essa fosse materiale non era d’impedimento, giacché gli Stoici ammettevano la penetrabilità dei corpi. Proprio in quanto permeava tutto l’organismo umano e presiedeva alle sue funzioni essenziali, l’anima era distinta dagli Stoici in otto parti: una centrale, chiamata egemonico, cioè la parte che dirigeva e che coincideva essenzialmente con la ragione; cinque parti costituenti i cinque sensi; una parte che presiedeva alla fonazione e, infine, quella che era preposta alla generazione. Oltre alle otto parti gli Stoici distinsero, in una medesima parte, differenti funzioni: così l’egemonico o parte principale dell’anima aveva in sé la capacità di percepire, di assentire, di appetire, di ragionare.
La morte era considerata la separazione dell’anima dal corpo, ma non in senso metafisico, quale pensava Platone; bensì una separazione fisica, come già per gli Epicurei. Ma mentre questi ultimi sostenevano che l’anima, separandosi dal corpo, si disperdeva subito, gli Stoici credevano a una sopravvivenza di essa (cfr. SVF, I, frr. 126 sgg.).
Il padre, particolare del sarcofago di M. Cecilio Stazio con scena di vita infantile. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
10. I destini dell’anima. – La posizione che gli Stoici assunsero nei confronti della sopravvivenza dell’anima era a mezza strada fra quella di Platone e quella di Epicuro. L’anima avrebbe perdurato dopo la morte, ma fino a quando? Il terminus a quem ultimo era dato dal momento della conflagrazione universale. Ma sua questo punto i filosofi del Portico si dividevano: alcuni, come Cleante, pensavano che tutte le anime indistintamente durassero fino al momento della conflagrazione universale; altri invece, come Crisippo, ritenevano che solo le anime dei saggi avessero il privilegio di una così lunga durata.
Il luogo destinato alle anime, che avrebbero assunto una forma sferica, sembra che fosse quello situato sotto la Luna. Esse avrebbero mantenuto le loro facoltà conoscitive, avrebbero avuto un certo ruolo nella divinazione e nei sogni e le migliori di esse avrebbero dato origine ai cosiddetti «Eroi» (cfr. SVF, II, frr. 810-822).
Ma anche quando, al sopraggiungere dell’anno cosmico, le anime fossero state assorbite nell’anima universale e nel fuoco eterno, non sarebbero scomparse se non in senso relativo: infatti, grazie alla palingenesi, ogni anima, così come ogni altra cosa, sarebbe tornata a ricostituirsi, all’infinito; e, in questo senso, l’esistenza di ciascun’anima e di ciascun uomo avrebbe ripreso in eterno.
1. Il λόγος come fondamento dell’etica. – La parte più significativa e più viva della filosofia del Portico non era tuttavia l’originale e audace fisica, bensì l’etica: infatti, fu con il loro messaggio etico che gli Stoici, per oltre mezzo millennio, seppero dire agli uomini una parola veramente efficace, che fu sentita come particolarmente illuminante circa il senso della vita, come profondamente consolatrice dei mali dell’umanità, come liberatrice dalle illusioni.
Anche per gli Stoici, così come per gli Epicurei, lo scopo ultimo del vivere era il raggiungimento della felicità. E l’etica appunto avrebbe dovuto determinare in che cosa esattamente consistesse la felicità e quali fossero i mezzi appropriati per conseguirla; anzi, proprio come per gli Epicurei, la soluzione di questo problema costituiva non già – come per i sistemi classici – lo scopo di un settore della filosofia, ma lo scopo unico di tutte le sue parti.
Anche per gli Stoici, ancora come per gli Epicurei, l’impostazione e la soluzione dei problemi etici erano perseguite al di fuori degli schemi ellenici più collaudati, in funzione di nuovi parametri desunti da una nuova interpretazione della φύσις. Anche il motto degli Stoici era: «Vivere conformemente alla natura», o «Vivere secondo i dettami della natura» (SVF, II, frr. 2-19), dove per «natura» è da intendersi sia la φύσις universale, sia la φύσις dell’uomo, la quale della φύσις universale è un momento e una parte.
Ma il disaccordo con gli Epicurei si manifesta, e in modo assai marcato, non appena si passa alla determinazione specifica di questa natura. Impossibile, per gli Stoici, ammettere che l’istinto fondamentale dell’uomo fosse il sentimento del piacere insieme al suo contrario (il sentimento del dolore): se così fosse, l’uomo e l’animale sarebbero sul medesimo piano e non si differenzierebbero. Un’obiettiva considerazione sulla natura umana mostra che la sua peculiarità consiste proprio nell’essere dotato di ragione, la cui portata va ben oltre il calcolo dei piaceri. La differente visione metafisica dell’uomo, che dava all’anima razionale e al λόγος dell’uomo un rilievo ontologico nettamente superiore che nell’Epicureismo (il λόγος umano era un frammento e un momento di quello divino), permise a Zenone e ai suoi seguaci di dare alla caratteristica che differenzia l’uomo da tutte le altre cose uno spessore ontologico più consistente (cfr. SVF, III, frr. 11; 200).
Dunque, la φύσις caratteristica dell’uomo è il λόγος (la «ragione»), e come lo scopo di ogni essere è quello di attuare la propria φύσις, così il fine ultimo dell’uomo sarà quello di attuare appunto la ragione; e, per conseguenza, sulla base dei modi e delle maniere in cui la ragione si attua perfettamente si deducevano tutte le norme della condotta morale.
Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.
2. Il primo istinto. – Ma ritorniamo un passo indietro e vediamo meglio come nella sfera della φύσις generale era collocata esattamente la φύσις particolare dell’uomo: se osserviamo l’essere vivente, noi costatiamo, in generale, che esso è caratterizzato dalla costante tendenza a conservare se medesimo, ad appropriarsi del proprio essere e di tutto quanto sia atto a conservarlo e a evitare ciò che gli è contrario, a conciliarsi con se stesso e con le cose che sono conformi alla propria essenza. Questa caratteristica degli esseri viventi era indicata dagli Stoici con il termine οἰκείωσις (appropriazione, attrazione = conciliatio). Dalla οἰκείωσις, appunto, doveva muovere la deduzione del principio dell’etica. Nelle piante e nei vegetali in genere questa tendenza era considerata del tutto inconsapevole, negli animali essa era consegnata a un preciso istinto o impulso primigenio, mentre nell’uomo questo impulso era ulteriormente specificato e sorretto dall’intervento della ragione. Ecco dunque come si determinava il senso della formula di cui si è detto al precedente paragrafo (vd. infra §). Vivere conformemente alla natura significava vivere realizzando pienamente questa appropriazione o conciliazione del proprio essere e di ciò che lo conservava e lo attuava, e poiché l’uomo non è semplicemente essere vivente, ma è essere razionale, il vivere secondo natura doveva essere un vivere “conciliandosi” con il proprio essere razionale, conservandolo e attuandolo pienamente (cfr. SVF, I, frr. 197 sg.; 178 sgg.).
Theodoor Galle, Il filosofo Cleante. Incisione dall’edizione di J. Moretus della L. Annaei Senecae philosophi Opera, quae exstant omnia, a Iusto Lipsio emendata, et scholijs illustrata (Amberes 1605).
3. Il principio delle valutazioni: i beni, i mali e gli indifferenti. – Se il piacere non è qualcosa di originario, ma è solo un fenomeno concomitante, non è possibile fondarsi su di esso per valutare ciò che è bene e ciò che è male, ma bisogna risalire a ciò che è originario e primo. E poiché primi e originari sono l’istinto della conservazione e la tendenza all’incremento dell’essere, ecco trovato il principio della valutazione: “bene” è ciò che conserva e incrementa il nostro essere; “male”, invece, è ciò che lo danneggia e lo diminuisce. Al primo istinto era, dunque, strutturalmente connessa la tendenza a valutare, nel senso che tutte le cose, commisurate al primo istinto, a secondo che risultassero giovevoli o dannose, erano considerate beni oppure mali. Il bene, dunque, era identificato con il giovevole e l’utile; il male con il nocivo. Ma si badi: poiché gli Stoici insistevano nel differenziare l’uomo da tutte le altre cose, mostrando come esso fosse determinato non solo dalla sua natura propriamente animale, ma soprattutto dalla natura razionale – cioè dal privilegiato manifestarsi in lui del λόγος – così il principio delle valutazioni avrebbe assunto due differenti valenze, a seconda che fosse riferito alla φύσις puramente animale, oppure a quella razionale. Altro, infatti, sarebbe ciò che giova alla conservazione e all’incremento della vita animale e ciò che favorisce laconservazione e l’incremento della vita razionale e del λόγος.
Risulta necessaria, di conseguenza, una differenziazione gerarchica dei beni, a seconda che essi siano di giovamento e di incremento alla ragione, oppure semplicemente alla vita animale. A dire il vero, in questa distinzione gli Stoici si spinsero a un tale punto di rigore e di intransigenza da considerare veri e autentici beni esclusivamente quelli che incrementavano il λόγος e veri e autentici mali esclusivamente quelli che erano in contrasto con la φύσις razionale. E viceversa, solo ciò che appariva contrario a questi beni, di conseguenza, era ritenuto il vero male, perché rendeva l’uomo come non doveva essere, cioè «cattivo», «vizioso». Tutto questo si riassumeva nel celebre principio stoico: bene è solo la virtù, male è solo il vizio.
E ciò che giova al corpo e alla nostra natura biologica come era considerato? E il contrario di questo come poteva essere dominato? La tendenza di fondo dello Stoicismo era quella di negare a tutte queste cose la qualifica di “beni” e di “mali”, appunto perché – come si è visto – bene e male erano solo ciò che giovava e solo ciò che nuoceva al λόγος; pertanto, solo il bene e solo il male morale. Di conseguenza, tutte quelle cose che sono relative al corpo, sia che nuocciano sia che non nuocciano, erano considerate «indifferenti» (ἀδιάφορα), o meglio moralmente indifferenti. Fra queste cose erano collocate sia quelle fisicamente e biologicamente positive (vita, salute, bellezza, ricchezza, ecc.) sia quelle fisicamente e biologicamente negative (morte, malattia, bruttezza, povertà, ecc.) [cfr. SVF, III, fr. 117).
Questo nettissimo distacco operato fra beni e mali, da un lato, e indifferenti, dall’altro, era indubbiamente una delle note caratteristiche più tipiche dell’etica stoica e già nell’Antichità fu oggetto di enorme stupore, di vivaci consensi e dissensi e suscitò molteplici discussioni fra gli avversari e perfino fra i seguaci stessi della filosofia del Portico.
4. I valori relativi, i «preferibili» e i «non preferibili». – La legge generale della οἰκείωσις implicava che, dal momento che era un istinto di tutti gli esseri quello di conservare se medesimi e poiché proprio questo istinto era fonte delle valutazioni, si dovesse riconoscere come positivo tutto ciò che li conservasse e li incrementasse, anche al semplice livello fisico e biologico. E così, non solo per gli animali, ma altresì per gli uomini, si doveva ammettere come positivo tutto ciò che fosse conforme alla natura fisica e che garantisse, conservasse e incrementasse la vita, come la salute, la forza, la vigoria del corpo e delle membra, e così via. Questo elemento positivo secondo natura era chiamato dagli Stoici valore (o stima), mentre l’opposto negativo era detto mancanza di valore.
Pertanto, quegli elementi «intermedi» fra i beni e i mali cessavano di essere del tutto «indifferenti»; o meglio, pur restando moralmente indifferenti, diventavano, dal punto di vista fisico, «valori» o «disvalori».
In altre parole, le cose che stavano fra beni e mali morali erano, alcune valori, altre disvalori: alcune valori in maggiore o minore grado, altre disvalori in maggiore o minore grado. Ne conseguiva che, da parte della nostra natura animale, le prime dovevano essere oggetto di «preferenza», le seconde di «avversione». Di qui una seconda distinzione, strettamente dipendente alla prima: fra indifferenti «preferiti» e indifferenti «respinti» (cfr. SVF, I, frr. 191-192).
Queste differenziazioni corrispondevano non solo a un’esigenza di attenuare realisticamente la dicotomia troppo netta fra beni e mali e indifferenti, di per sé paradossale, ma trovavano nei presupposti del sistema una giustificazione addirittura maggiore che non la sopraddetta diversificazione. Perciò, ben si capisce come il tentativo di Aristone e di Erillo di sostenere l’assoluta ἀδιαφορία («indifferenza») delle cose che non sono beni né mali abbia trovato una netta opposizione in Crisippo, che difese la posizione di Zenone e la consacrò in via definitiva.
Liva Drusilla nelle vesti di Ops, con covone e cornucopia. Statua, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
5. Virtù e felicità. – Chi ha seguito fin qui avrà sicuramente notato come anche negli Stoici, non meno che in Platone e in Aristotele, acquisti perfetta espressione quella concezione dell’ἀρετή («virtù»), che noi sappiamo essere una delle costanti tipiche del pensiero morale greco, fin dalle sue origini. La virtù umana è la perfezione di ciò che è peculiare e caratteristico dell’essere umano; e poiché caratteristica dell’essere umano è la ragione, la virtù è la perfezione della ragione. Pertanto, il «vivere secondo natura», che si è visto essere precetto basilare dell’etica stoica, coincide esattamente con il «vivere secondo ragione» e, quindi, con il «vivere secondo virtù»; e poiché la virtù è l’espressione e l’attuazione perfetta della natura umana, essa è eo ipso felicità: infatti, la vita beata (εὐδαιμονία) altro non è che questo pieno e perfetto realizzarsi della φύσις umana.
Sulla base di queste premesse, è evidente come gli Stoici dovessero combattere sia la tesi epicurea che subordinava la virtù al piacere come un mezzo per ottenere un fine, sia la concezione escatologica che legava la virtù a un premio ultraterreno: come perfezione della φύσις umana la virtù valeva per se medesima, non produceva la felicità come qualcos’altro da sé (fosse questa piacere o premio ultraterreno), ma era essa stessa la felicità e, dunque, andava desiderata, cercata, amata e coltivata in sé e per sé (SVF, III, fr. 54).
Così lo Stoico è reso dalla virtù perfettamente autosufficiente: non ha bisogno di piaceri, che non sono perfezionamenti della sua natura di uomo, ma solo fenomeni passeggeri e, in ogni caso, non interamente in suo potere; non ha bisogno nemmeno di una vita futura che aggiunga qualcosa a quella perfezione che già possiede con la virtù; non teme di perderla per opera altrui, perché nessuno gliela può strappare di dosso, essendo essa ontologicamente radicata nella sua natura; con la virtù, insomma, l’uomo tocca un vertice di assolutezza, in cui si sente uguale agli dèi: «Per nulla la felicità di Zeus è preferibile né più bella né più pregevole di quella dei sapienti».
Crisippo. Busto, marmo, copia romana da originale ellenistico di fine III sec. a.C. London, British Museum.
6. Identità della virtù in tutti gli esseri razionali. – La riduzione della virtù a perfezione del λόγος e, quindi, a scienza conteneva in sé una conseguenza che, fondamentalmente, né Socrate, né Platone e nemmeno Aristotele ebbero il coraggio di trarre, o che trassero in maniera incompleta, perché condizionati dalle convinzioni sociali del loro tempo e, in particolari, dai valori della πόλις («città-stato»). Alludiamo all’affermazione dell’identità assoluta della virtù negli uomini, a qualunque ceto, sesso e condizione appartenessero – perfino gli schiavi –, che espressamente e ripetutamente gli Stoici ribadirono. Già Epicuro aveva accolto nel suo Giardino uomini di varia estrazione sociale, donne e perfino le ἑταῖραι («etère»). La caduta delle strutture poliadiche, le quali, in passato, per gli stessi filosofi avevano costituito quasi categorie del pensare politico, spesso sovrapponendosi ai loro stessi principi metafisici, rendeva ormai possibile una coerenza di pensiero morale, che, per le ragioni addotte, era mancata nei filosofi dell’età classica.
In verità, Epicuro mantenne qualche riserva e manifestò certe reticenze. Gli Stoici, invece, furono più decisi dal punto di vista dottrinale: riferendosi al pensiero già proprio degli Stoici antichi, infatti, Seneca scrisse: «La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi e liberti e schiavi e re ed esuli; non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell’uomo nudo»[8].
E un’ulteriore conseguenza, a questa strettamente connessa, gli Stoici dedussero dalla riduzione della virtù a scienza e a saggezza: non solo è uguale la virtù in tutti gli uomini, ma è uguale altresì la virtù degli uomini e quella degli dèi. Tale affermazione fece enorme impressione agli antichi e fu giudicata come smodata ed empia, ma era coerente con i principi stoici.
Johannes Moreelse, Eraclito. Olio su tela, 1630 c.
7. L’azione retta (κατόρθωμα). – Gli Stoici non si limitarono alle considerazioni generali circa l’essenza della virtù e del vizio, ma scesero, spinti dal loro accentuato interesse etico, a un attento esame della condotta morale, delle azioni di cui essa era costituita e dalle differenti valenze morali che le azioni umane potevano avere, creando così concetti nuovi e originali. Chi possiede la virtù, cioè il λόγος armonizzato in modo perfetto, non può se non compiere «azioni perfette», ossia azioni che corrispondono in tutto e per tutto alle istanze del λόγος perfetto. Ciò vuol dire che le azioni portano con sé necessariamente la carica di perfezione della fonte da cui derivano. Insomma: la virtù, quando sia posseduta, si riverbera su tutte le azioni e su tutti gli atteggiamenti morali e si manifesta perfino nell’inconscio.
Tenendo presente questo, è agevole comprendere che cosa sia quello che gli Stoici denominavano κατόρθωμα («azione retta», «azione perfetta», «azione virtuosa»): era quell’azione che si radicava nella virtù e che, quindi, conteneva «tutte le caratteristiche della virtù» medesima (SVF, III, fr. 11); si chiamava in questo modo, perché derivava da un ὀρθός λόγος: era azione perfetta, perché ispirata e sorretta da un λόγος perfetto.
Da queste dottrine gli Stoici trassero le seguenti conseguenze:
Non si deve giudicare se un’azione sia retta o meno (cioè se sia o no un κατόρθωμα) dal suo esito e dal raggiungimento del risultato che si era proposta, ma la si deve valutare dal suo punto di partenza.
Non si può giudicare se un’azione sia retta o no (se sia, cioè, un κατόρθωμα o meno) dai suoi tratti estrinseci: un’azione può benissimo assomigliare esteriormente a un κατόρθωμα, ma non esserlo affatto, se manca la giusta disposizione, se non c’è il sostegno dell’ὀρθός λόγος. Un saggio e uno stolto potranno fare la stessa cosa, ma la loro azione risulterà uguale solo esteriormente, e sarà, invece, diversissima intrinsecamente: κατόρθωμα sarà la prima e solo la prima, come risulta necessariamente da quanto si è spiegato al punto precedente, e mai potrà esserlo la seconda.
Poiché l’«azione retta» è prodotta dalla virtù, cioè dalla saggezza, ne consegue che nessuno stolto potrebbe mai compiere azioni rette, ovvero che, per compierne, dovrebbe prima diventare saggio. Il che significa, però, che i più non avranno mai la possibilità di compiere azioni rette (κατορθώματα), perché i più non sono saggi.
Guerriero, detto Vulneratus deficiens (o ‘Il Gladiatore Farnese’). Statua, marmo bianco, copia romana del 190 d.C. c. da originale greco del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
8. Il dovere (καθῆκον). – Le azioni umane non si possono, però, distinguere con un taglio netto fra «azioni rette o virtuose» (κατορθώματα) e quelle contrarie, cioè le «azioni viziose» o «errori» (ἁμαρτήματα): infatti, fra le prime e le seconde si colloca tutta una fascia di azioni intermedie, che gli Stoici hanno cercato di determinare con precisione. Già si è visto come fra i beni e i mali (morali) gli Stoici ponessero una serie di «indifferenti» (ἀδιάφορα), che avevano un certo loro valore, o un certo loro disvalore, se non morale, almeno naturale, e che quindi risultavano «preferiti» o «respinti». Analogamente, fra «azioni virtuose» e «azioni viziose», che riguardano propriamente l’aspetto spirituale e morale dell’individuo, gli Stoici ammettevano azioni dotate di un valore relativo o di un disvalore relativo. Si tratta di tutte quelle azioni che riguardano soprattutto la componente naturale e fisica dell’uomo, dalla quale non è possibile prescindere. Quando queste azioni siano compiute conformemente a natura – cioè, in modo razionalmente corretto – hanno una piena giustificazione razionale e, quindi, sono dette «azioni convenienti», o «doveri» (καθήκοντα).
In verità, è da rilevare che la traduzione di καθῆκον con «dovere» forza in senso moderno il pensiero stoico; alla lettera bisognerebbe tradurre con «ciò che è conveniente»: in questo modo, si capirebbe meglio come Zenone abbia attribuito dei «convenienti» anche agli animali e alle piante; anche questi, infatti, per esistere, devono rispettare determinate condizioni, conformarsi a certe esigenze della natura. Ma è chiaro come specialmente per l’uomo si possa e si debba parlare di «azioni convenienti», o di «doveri»: il paragone con gli animali e con le piante serve solo a mostrare come il καθῆκον sia legato alla natura biologica e fisica dell’uomo, a differenza della virtù e dell’atto virtuoso, che riguardano, invece, l’aspetto propriamente morale e spirituale dell’individuo. È chiaro che le azioni del soggetto comune, le quali non possono mai rientrare nella sfera delle azioni moralmente perfette (κατορθώματα), rientrano a pieno diritto in questo ambito. La condotta dell’uomo medio, dunque, ha essa stessa dei parametri per essere intesa e detiene un punto di tangenza, benché parziale, con la condotta del saggio. Naturalmente, come esistono comportamenti che hanno valore di «doveri» (καθήκοντα), così ci sono azioni che recano l’opposto segno del disvalore e, cioè, sono sconvenienti, e, infine, ce ne sono alcune assolutamente indifferenti (cfr. SVF, III, frr. 493-498).
I comandi e i precetti delle leggi sono, per la massa degli uomini, καθήκοντα, e da questi è regolata tutta l’esistenza delle persone comuni. Questo concetto di καθῆκον fu sostanzialmente una creazione stoica. I Romani, che lo resero poi con il termine di officium, avrebbero contribuito, con la loro sensibilità pratico-giuridica, a stagliare più nettamente i contorni di questa figura concettuale, che noi moderni chiamiamo «dovere».
Salvator Rosa, Paesaggio fluviale con Apollo e la Sibilla Cumana (1655).
9. Legge eterna e diritto di natura. – La legge umana non è altro che l’espressione di una legge naturale eterna, che nasce dal λόγος stesso, il quale plasma tutte le cose e, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male; insomma, impone obblighi e divieti. E il modo in cui si è visto gli Stoici dedurre bene e male morale mostra chiaramente come, in concreti, essi concepissero la φύσις e il λόγος, oltre che in dimensione ontologica, anche in senso deontologico. Dunque, la legge deriva dal Λόγος stesso che regge l’universo; peraltro, il diritto «è dato da natura» e il diritto positivo umano non è altro se non l’esplicazione di questo diritto naturale. Legge e natura, con gli Stoici, tornarono a riconciliarsi in modo perfetto: il νόμος non era più mera convenzione e opinione in contrasto con la φύσις, ma diventava la traduzione e l’interpretazione corretta delle istanze della φύσις medesima (SVF, III, fr. 308).
Centauro con Eros. Statua, marmo, copia romana di I-II sec. d.C. da originale ellenistico. Paris, Musée du Louvre.
10. Cosmopolitismo. – Per gli Stoici, l’uomo è spinto dalla natura a conservare il proprio essere e ad amare se stesso. Eppure, questo istinto primordiale non è finalizzato solo alla conservazione dell’individuo: l’uomo, infatti, estende immediatamente l’οἰκείωσις ai suoi discendenti e ai suoi simili. Insomma, è la natura stessa che, come impone di amare sé, così stabilisce di amare chi abbiamo generato e chi ci ha generati; ed è la natura che ci spinge a unirci agli altri e a giovare agli altri. Da essere che vive nel chiuso della sua individualità, come voleva Epicuro, l’uomo torna a essere «animale comunitario» (ζῷον κοινωνικόν). E la formula nuova dimostra che non si tratta di una semplice ripresa del pensiero aristotelico, che voleva l’uomo «animale politico» (ζῷον πολιτικόν): l’uomo, più ancora che essere fatto per associarsi in una πόλις, è fatto per potersi associare con tutti gli uomini. Su queste basi, gli Stoici non potevano essere se non fautori di un ideale fortemente cosmopolitico.
Sempre sulla base della loro concezione di φύσις e di λόγος, gli Stoici seppero mettere in crisi, più degli altri filosofi, gli antichi miti della nobiltà del sangue e della superiorità etnica, nonché le catene della schiavitù. La nobiltà era definita «scorza e raschiatura dell’uguaglianza» (SVF, III, fr. 350); tutti i popoli erano dichiarati capaci di giungere alla virtù; l’uomo era proclamato libero: infatti, «nessun uomo è per natura schiavo» (SVF, III, fr. 352). I nuovi concetti di nobiltà, libertà e schiavitù erano collegati alla saggezza e all’ignoranza: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
11. Le passioni e l’apatia. – Per gli Stoici, le passioni, insieme alle loro cause e ai loro effetti, erano la fonte di ogni infelicità. Pertanto, è ben comprensibile come nel Portico si discutesse in modo approfondito di esse e come si dedicassero loro specifici studi; si trattava, in effetti, di spiegare quel fenomeno importantissimo della vita morale, per cui la ragione era obnubilata, accecata e perfino travolta da moti irrazionali insiti nell’individuo.
Le passioni non erano considerate l’effetto del puro irrazionale, cioè di quanto nell’uomo vi fosse di animalesco e, in ogni caso, di non riconducibile al λόγος. Era possibile dire, dunque, che le passioni sorgessero a causa e in conseguenza di un giudizio erroneo; oppure era possibile addirittura identificarela passione con lo stesso giudizio erroneo. Ambedue queste tesi furono sostenute nella Stoa: Zenone e molti suoi discepoli sostennero la prima, mentre Crisippo, per esempio, la seconda con notevole insistenza.
Siccome le passioni erano connesse al λόγος, in quanto suoi «errori» (ἁμαρτήματα), è chiaro che non aveva senso, per gli Stoici, il moderare o il circoscrivere le passioni: come già Zenone diceva, esse dovevano essere distrutte, estirpate, sradicate totalmente. Il saggio, curando il proprio λόγος e facendolo essere il più possibile retto, non avrebbe lasciato neppure nascere nel suo cuore il germe delle passioni, o le avrebbe annientate al loro stesso insorgere. È, questa, la celebre apatia stoica, cioè la distruzione delle passioni – considerate sempre e soltanto turbamenti dell’animo. La felicità era, dunque, apatia, impassibilità (cfr. SVF, I, frr. 205 sgg.).
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
12. L’ideale del saggio. – In una concezione della filosofia intesa come problema della vita quale fu formulata in età ellenistica, ebbe grandissima importanza la caratterizzazione dell’uomo perfetto, ossia dell’individuo che viveva in totale sintonia con il λόγος; in altre parole, il «saggio» (σοφός), che costituì il paradigma ideale cui ciascuno doveva ispirarsi. Basterebbe dire che il saggio è cinto dalla corona di tutte le virtù, per dirla in breve. Ma gli Stoici non cessarono di aggiungere epiteti per caratterizzare ulteriormente la loro figura del saggio, dando fondo a tutta una aggettivazione che denotava qualità positive: il saggio non sbaglia mai, perché non ha opinione, ma scienza; il saggio fa bene tutto quel che fa, perché lo fa con ὀρθός λόγος, con lo spirito giusto; il saggio è grande, grosso, alto e forte, invitto e invincibile; inoltre, il saggio è ricco, nobile e bello: ricco anche se mendico, nobile anche se servo, bello anche se fisicamente brutto, perché ha la sua ricchezza, nobiltà e bellezza nel λόγος; il saggio è libero, perché vuole tutto ciò è necessario; sopporta e accetta tutto quanto è stabilito dal Fato; il saggio basta a se stesso, perché nel λόγος ha tutto ciò che gli occorre; nulla può turbare il saggio, perché la corazza del λόγος da tutto lo protegge e, come il saggio epicureo, così il saggio stoico anche fra le torture e i patimenti può essere felice, giacché con il λόγος trascende il dolore e lo annulla. Nella sua pace interiore egli è come Zeus (cfr. SVF, III, frr. 544-656).
Giotto di Bondone, Stoltezza. Affresco, 1306. Padova, Cappella degli Scrovegni.
Ma per quanto esaltante possa essere questa descrizione, cionondimeno emergono da più di un lato aspetti negativi: intanto l’ideale del saggio non ammette alcuna via di mezzo (o si è saggi o si è stolti e tertium non datur); e fra gli stolti non esiste gradazione gerarchica. Si annega sia in pochi centimetri di acqua sia nelle profondità oceaniche: la profondità dell’acqua non conta, perché si annega comunque; così non conta che chi è stolto lo sia poco o molto: la quantità maggiore o minore è insignificante rispetto alla qualità. Di conseguenza, anche le colpe sono tutte egualmente gravi, perché egualmente negativo è lo spirito da cui esse scaturiscono. Perciò, fra stolti e saggi c’è assoluta incommensurabilità. Ma l’apatia che cinge lo Stoico è veramente raggelante e, al limite, inumana: poiché pietà, compassione e misericordia sono passioni, lo Stoico le estirperà.
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Note:
[1] Cfr. BALTZLY D., s.v.Stoicism, in ZALTA E.N. (ed.), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford 1996 [= 2018, online]; RUBARTH S., s.v. Stoic Philosophy of Mind, in Internet Encyclopedia of Philosophy. Si vd. anche la v. Stoicismo, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].
[2] «Zenone, figlio di Mnasea, nacque a Cizio in Cipro, città greca che aveva avuto coloni fenici» (Diogene Laerzio, VII, 1), intorno al 333/332 a.C. Non c’è ormai dubbio che, come il Pohlenz ha dimostrato (Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, traduzione italiana, Firenze 1967, pp. 26 sg.;), Zenone sia stato di sangue semitico. Si trasferì ad Atene all’età di ventidue anni, non già in seguito un casuale naufragio (alla versione del naufragio Diogene stesso, che la riferisce [VII, 2], contrappone opposte versioni [VII, 5]), ma per una precisa scelta spirituale. Per quanto concerne i rapporti che egli ebbe con i filosofi che insegnavano allora ad Atene e la fondazione della Stoa, diremo più avanti. Delle sue opere, tutte per noi perdute, Diogene fornisce un elenco abbastanza nutrito (VII, 4). Zenone morì nel 262 a.C. Il suo insegnamento gli merita grande stima e rispetto, a motivo dell’elevato senso morale. La sua rettitudine e morigeratezza divennero proverbiali. Malgrado fosse straniero, gli Ateniesi gli conferirono grande onore: «Depositarono nelle sue mani le chiavi delle mura della città, gli tributarono una corona d’oro e gli elevarono una statua di bronzo» (Diogene Laerzio, VII, 6). Cfr. ALESSANDRELLI M., Nel laboratorio di Zenone. Platone e la dottrina stoica della conoscenza, Chaos&Kosmos VII (2006), pp. 18-32 [online]. Si vd. anche VON FRITZ K., s.v. Zenon 2, RE X A (1972), coll. 83-121, e la v. Zenone di Cizio, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].
[3] Cfr. la v. Cratete di Tebe, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it], e la v. Antistene di Atene, ibid. [Treccani.it].
[4] Cleante, nativo di Asso, nella Troade, dopo essere stato membro della Stoa per quasi un ventennio, successe a Zenone nella direzione del Portico nel 262 a.C. e capeggiò la Scuola per un trentennio. Morì intorno al 231 a.C. circa. Prima di diventare seguace di Zenone, fece il pugile (Diogene Laerzio, VII, 168 [ = von Arnim, S.V.F., 1, fr. 463, p. 103, 2]). Conosciuto il suo futuro maestro, si appassionò alla filosofia, per coltivare la quale non esitò, essendo povero, a sottoporsi a duri e umili lavori notturni, irrigando orti e impastando farina per una venditrice (Diogene Laerzio, ibidem). La libertà di discussione che Zenone aveva lasciato ai discepoli, a differenza di Epicuro, produsse nella Scuola notevoli scosse e quindi una crisi, che Cleante non riuscì perfettamente a dominare, mancandogli la genialità del maestro e l’acutezza e l’abilità di Crisippo. Diogene tramanda che «lasciò bellissimi libri», elencandone una cinquantina di titoli (VII, 174 sgg.). Cfr. DÖRRIE H., s.v. Kleanthes, in RE, Suppl. XII (1970), coll. 1705-1709, e CALOGERO G., s.v. Cleante, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; per una bibliografia su Cleante, si vd. A Hellenistic Biography [sites.google.it].
[5] Crisippo nacque a Soli, in Cilicia, tra il 281 e il 277 a.C. e morì fra il 208 e il 204 a.C., come si ricava da Diogene Laerzio, VII, 184 = von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 16 sg., che attinge da Apollodoro. Come ha evidenziato il Pohlenz (La Stoa, I, pp. 39 sg.), Crisippo dovette essere di origine semitica, come si desume dai tratti del volto, dal fatto che imparò il greco ormai già adulto e che commetteva errori di lingua (cfr. von Arnim, S.V.F., II, frr. 24 e 894). Fu discepolo di Cleante, dopo essere stato per un certo periodo nell’Accademia e aver ascoltato le lezioni di Arcesilao e Lacide (Diogene Laerzio, VII, 183 [= von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 8 sg.]), dai quali apprese l’arte dialettica, per cui aveva spiccate capacità: «Acquistò tale rinomanza nella dialettica – riferisce sempre Diogene Laerzio, VII, 180 [= von Arnim, ibid., II, fr. 1, p. 1, 12 sg.] – che i più credevano che se gli dèi avessero avuto bisogno della dialettica, non altra dialettica che quella di Crisippo avrebbero adottato». E in virtù di queste eccezionali abilità, egli poteva dire al maestro Cleante che gli «occorreva soltanto l’insegnamento della dottrina [della Stoa], ché avrebbe trovato da solo le dimostrazioni» (VII, 179). Malgrado alcuni dissensi con Cleante riguardanti la dottrina, la coscienza della propria superiorità e il notevole successo delle proprie lezioni, Crisippo restò fedele al maestro e alla Scuola, e alla morte di Cleante divenne direttore della Stoa. Sotto la sua guida, il Portico superò tutte le crisi interne e si impose all’esterno in maniera decisiva, tanto che di lui si disse: «Senza Crisippo, non sarebbe esistita la Stoa» (Diogene Laerzio, VII, 183 [ = von Arnim, S.V.F., II, fr. 6]). Crisippo fu anche scrittore fecondissimo: Diogene Laerzio (VII, 189 sgg. [ = von Arnim, ibid., fr. 13]) fornisce un imponente catalogo di titoli delle sue opere, tutte quante per noi perdute. Questa immensa produzione eclissò quella di Zenone e quella di Cleante e la formulazione della dottrina stoica data da Crisippo si impose pertanto come paradigmatica. Si vd. anche VON ARNIM H., s.v. Chrysippos 14, RE III, 2 (1899), coll. 2502–2509 [online]; COVOTTI A., s.v. Crisippo, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; e KIRBY J., s.v. Chrysippus, in Internet Encyclopedia of Philosophy.
[6] Per una bibliografia selezionata sui tre scolarchi, si vd. History of Logic [online].
[8] Sen. ben. III 18, 2: Nulli praeclusa uirtus est; omnibus patet, omnes admittit, omnes inuitat, et ingenuos et libertinos et seruos et reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est. Cfr. SVF, III, fr. 508.
di M. ALESSANDRELLI, Nel laboratorio di Zenone. Platone e la dottrina stoica della conoscenza, su Chaos e Kosmos VII (2006), pp. 18-32 [online].
L’obiettivo che mi propongo di realizzare in questo breve saggio è di entrare nel laboratorio o cantiere dell’epistemologia del filosofo Zenone (ca 334-262 a.C.), il fondatore dell’antica scuola stoica. Naturalmente assumo che Zenone non sia nato stoico, ma lo sia divenuto. Questa assunzione mi permette di parlare di “laboratorio zenoniano” nel senso di quell’arco di tempo in cui Zenone cominciò a definire le proprie posizioni. Poiché è ragionevole assumere che non è mai da soli che si diviene filosofi, proverò a individuare “forze” o “influenze” che Zenone assorbì e rielaborò. Vorrei in particolare tentare la ricostruzione del percorso attraverso il quale Zenone gradualmente, nel corso della sua formazione intellettuale e filosofica, giunse a perfezionare due nozioni centrali della sua filosofia, quella di mente e quella di presentazione (phantasia). Nozioni che i suoi successori (mi riferisco ovviamente a Cleante e Crisippo) erediteranno e approfondiranno ulteriormente. Che queste nozioni siano nate con Zenone, è un dato acquisito, mentre molto più controverso è il modo in cui nacquero. La mia ipotesi è che siano nate anche grazie a un originale e fecondo confronto che Zenone instaurò con il Teeteto di Platone.
Non abbiamo documenti che mettano esplicitamente Zenone in relazione con il Teeteto. Esistono tuttavia buone ragioni storico-biografiche per ritenere che il Teeteto fosse uno dei dialoghi platonici più frequentati dal fondatore della Stoa. Lo studioso della Stoà non deve mai dimenticare che quel poco che sa sulla filosofia del Portico, lo deve quasi esclusivamente a testimonianze secondarie, spesso ostili, parziali e frammentarie. Questo rende molto difficile e frustrante ricostruire il pensiero degli Stoici. Tuttavia, qualcosa, sul fondamento dei frammenti disarticolati che sono sopravvissuti, siamo in grado di dirlo, con un grado di probabilità che però non potrà mai aspirare alla certezza.
Le considerazioni che seguono, di natura biografica, si basano sull’agile e colto affresco della vita di Zenone tratteggiato da David Sedley in un suo recente lavoro. Da questa ricostruzione emerge chiaramente il primato dell’etica nel pensiero di Zenone. La riflessione di Zenone sull’etica, ispirata dalla sua precoce e appassionata immersione nella letteratura su Socrate che il padre gli procurava di ritorno dai suoi viaggi commerciali, sembra essersi sviluppata in due tappe. La prima tappa è rappresentata da una adesione al cinismo (primo maestro di Zenone sappiamo infatti essere stato Cratete cinico) e alla sua svalutazione delle convenzioni e dei beni esterni. La seconda tappa vede un ammorbidimento delle ruvide e intransigenti posizioni ciniche, grazie soprattutto all’influenza del platonismo etico e dogmatico di Polemone dal quale Zenone ereditò «una posizione etica che associava l’avanzamento morale con la “conformità alla natura”», ammorbidimento che si traduce in particolare nella riconsiderazione, ferma restando la loro sostanziale indifferenza morale, dei beni esterni come ingredienti che, adeguatamente ordinati e regolati, possono sviluppare «le nostre capacità di “vivere in accordo con la natura”, il “fine” naturale il conseguimento del quale si identifica con la perfetta razionalità». Importante è anche la circostanza che Zenone condivise il discepolato presso Polemone con Arcesilao, filosofo platonico che dal 314 (circa) al 276 (circa) fu a capo dell’Accademia. Zenone ebbe così modo, negli ultimi anni del quarto secolo, di acquisire una notevole dimestichezza con il pensiero di Platone non solo attraverso l’insegnamento di Polemone ma anche, probabilmente, attraverso il confronto con Arcesilao. A questi elementi se ne aggiunga uno altro, forse quello decisivo. L’esito felice nel perseguimento del fine di una vita autenticamente morale sembra dipendere dalla disponibilità per gli esseri umani di strumenti conoscitivi efficaci. In altri termini per poter condurre una vita conforme a natura, bisogna disporre di facoltà conoscitive adeguate all’impresa di una comprensione organica e veritiera dell’ordine razionale che informa la natura medesima. Questo è, a mio avviso, il motivo per cui Zenone conferì così grande importanza alle questioni di carattere epistemologico.
Alla luce di tutto questo, è difficile anche solo ipotizzare che Zenone non conoscesse il Teeteto platonico – un vero e proprio bacino di questioni riguardanti il tema cruciale della conoscenza e della sua possibilità, la frequentazione del quale, per il suo carattere aporetico, non doveva sembrare compromettente a un filosofo come Zenone che sicuramente già iniziava a nutrire profonda diffidenza e antipatia verso l’idealismo platonico.
Negli stessi anni della sua formazione in cui abbozzava e perfezionava, sempre sotto l’impulso di una preoccupazione etico-morale, la sua concezione della realtà nei termini di un monismo materialista (vi è un’unica realtà ed è di natura corporea) attraverso una riflessione feconda, ma non per questo meno polemica, sull’ontologia e la fisica rispettivamente del Sofista e del Timeo, Zenone veniva così ponendo le basi della sua epistemologia. Quel che Zenone andava cercando era un principio unitario che fosse il centro di tutti i processi psicologici e il responsabile di ogni funzione sensoriale e cognitiva. In altri termini, la perfetta simbiosi di mente e corpo la cui interazione trovasse spiegazione, a livello macrocosmico, nei principi della realtà attivo e passivo. L’esigenza di concepire la mente in questo modo derivava direttamente dalla sua concezione del cosmo come materia vivente attraversata e penetrata da cima a fondo dal soffio o pneuma divino che forgia e plasma ogni cosa, con la sapienza e la perizia di un artigiano. In altri termini, la mente umana per Zenone era un frammento di quella divina che conferisce forma, struttura ordine e bellezza al cosmo volgendolo provvidenzialmente verso il miglior esito possibile.
Zenone di Cizio. Busto, marmo, I sec. d.C. Lyon, Musée gallo-romain de Fourvière.
La mia ipotesi è che Zenone trovò questo principio in una breve sezione del Teeteto, quella che va da 184 B a 187 A e in cui Platone saggia e demolisce le credenziali della percezione come candidato al rango di conoscenza.
L’argomento con cui Platone dimostra che la percezione non è conoscenza muove dalla domanda di Socrate a Teeteto:
Considera bene: quale di queste due risposte è più giusta, dire che gli occhi sono la cosa “con la quale” vediamo, oppure “mediante la quale” vediamo; dire che gli orecchi sono la cosa “con la quale” udiamo oppure “mediante la quale” udiamo?
(trad. M. Valgimigli)
La risposta di Teeteto si basa sul modo in cui gli pare che stiano le cose (a lui pare che sia più corretta la risposta che gli occhi sono ciò mediante cui vediamo anziché ciò con cui vediamo).
Socrate fornisce subito un solido fondamento all’impressione di Teeteto traendo la conseguenza sorprendente, sconcertante, assurda, paurosa (deinos), che deriverebbe dall’affermazione secondo cui i sensi sono ciò con cui noi sentiamo anziché ciò mediante cui sentiamo:
E difatti, sarebbe strano, o figlio, se un numero indefinito di sensi avessero loro sede in noi come dentro a cavalli di legno, ma non si ricongiungessero insieme in un’unica idea, sia essa anima, o come altrimenti si debba chiamare, “con la quale” “mediante questi sensi”, a guisa di strumenti, noi abbiamo la percezione di tutto ciò che è sensibile.
(trad. Valgimigli leggermente modificata)
Se noi percepissimo “con” i sensi, quanti sono questi altrettanti sarebbero i soggetti coinvolti attivamente nel percepire che ha luogo dentro di noi. Lo stato di cose che si verrebbe configurando, se i sensi fossero ciò con cui noi percepiamo, è esemplificato dal paragone dell’anima, in quanto puro contenitore di una molteplicità di organi del senso, con il cavallo di legno in cui i futuri distruttori della città di Troia si trovano ammassati, senza costituire una unità organica. È necessario pertanto che i sensi siano concepiti come dipendenti l’uno dall’altro e che vengano coordinati e asserviti a una unità superiore, «sia essa anima o come altrimenti si debba chiamare». Concepire i sensi come dipendenti l’uno dall’altro equivale per Platone a concepirli come mezzi o strumenti di cui l’anima si serve per entrare in contatto con il mondo esterno.
Egli spiega poi il motivo della distinzione tra percepire con i sensi e mediante i sensi:
Ebbene, appunto per questo io distinguo qui con tanta sottigliezza, per vedere se c’è in noi un principio unico e sempre uguale a se stesso, col quale noi riusciamo a cogliere mediante gli occhi, ciò che è bianco e ciò che è nero, mediante altri organi, certe altre qualità.
(trad. Valgimigli)
Finora l’argomento si è basato sull’assurdità, la deinotes della conseguenza sopra menzionata. È ora necessario dimostrare che vi è un principio unico e sempre uguale a se stesso, col quale noi riusciamo a cogliere mediante gli occhi, ciò che è bianco e ciò che è nero, mediante altri organi, certe altre qualità.
Gli organi del senso e i sensi che ne definiscono le funzioni sono rispettivamente parti e facoltà del corpo. Ogni senso ha il suo sensibile proprio che non può essere percepito dagli altri sensi. Ora è un fatto incontestabile che noi siamo in grado di formare pensieri che riguardano contemporaneamente almeno due oggetti di pertinenza di sensi diversi, nell’esempio platonico un colore e un suono, pensieri che ci permettono di cogliere un insieme di proprietà predicabili di entrambi (esistenza e inesistenza, identità e alterità, somiglianza e dissomiglianza, unità e pluralità). Questi predicati sono chiamati koina da Platone non solo nel senso che possono essere comuni a più cose ma anche perché la mente deve considerare più cose (almeno due) per poterli identificare. Questo è il modo in cui Platone prova l’esistenza di oggetti che solo la mente è in grado di cogliere. Almeno per quanto riguarda questi oggetti, proprietà comuni o relazionali, è provata l’esistenza di un principio unico e sempre uguale a se stesso, che è il solo in grado di coglierli. Questo però non basta perché qualcuno potrebbe ancora avanzare la pretesa che i sensi, pur incapaci di cogliere queste proprietà astratte, sono ciò con cui noi cogliamo le qualità sensibili (colori, suoni, odori, sapori, e qualità tattili), in altre parole che i sensi, non la mente, sono i soggetti attivamente coinvolti nella percezione di queste qualità. Non dimentichiamo che quello che Platone vuole provare è che la mente, la sola in grado di cogliere i koina, è anche la sola in grado di cogliere e conoscere i sensibili. Solo così potrà provare che la percezione non è conoscenza:
Mi hai liberato da un discorso molto lungo, se ti pare chiaro che certe cose l’anima le discerna da sé mediante se stessa (scil. i koina), altre invece mediante le facoltà del corpo (scil. i sensibili). Perché questa era già opinione mia, ma volevo fosse anche tua.
(trad. Valgimigli)
Troviamo qui distinte due categorie di oggetti: cose che l’anima/mente discerne da sé mediante se stessa (i koina) e cose che la mente discerne mediante le facoltà del corpo (i sensibili). Socrate completa il suo giro di argomento in questo modo:
Dunque, ci sono percezioni che uomini e bestie hanno da natura subito appena nati, e sono tutte quelle affezioni (pathemata) che giungono fino all’anima attraverso il corpo; ma quel che l’anima, riflettendoci su, riesce a scoprire intorno a codeste affezioni, sia relativamente all’essere loro che alla loro utilità, tutto ciò a gran stento si raggiunge, e col tempo e dopo molta esperienza e istruzione, da quei pochi che pur lo raggiungono.
(trad. Valgimigli)
Percepire il molle e il duro con il tatto significa semplicemente subire un’affezione, ma subire un’affezione è cosa ben diversa dall’essere in grado di esprimere un giudizio su di essi, ovvero dalla capacità di dire che questa cosa è dura o molle e di dire cosa è la durezza e la mollezza. Pertanto, la percezione è un’affezione puramente passiva della mente/anima. Solo la mente è in grado di identificare la natura delle qualità sensibili che sono oggetto dei sensi. I sensi non sono in grado di farlo (non colgono l’ousia).
Ma se i sensi non colgono l’ousia, non sono nemmeno capaci di verità (se io non sono in grado di identificare una cosa come rossa, e di dire quindi che quella cosa è rossa e che il rosso è un colore non posso dirmi capace di verità) e dove non c’è verità non c’è nemmeno conoscenza. Ecco dunque provato che la percezione non è conoscenza. Quello che Platone mette in discussione è la capacità della percezione di renderci consapevoli dell’esistenza e della natura del suo oggetto in modo tale da consentirci di esprimere un giudizio sul suo conto. Pertanto non è sulla base della percezione che noi esprimiamo un giudizio sul conto dell’oggetto della percezione medesima, ma sul fondamento dell’attività della mente, che viene così a concentrarsi sul contenuto dell’affezione per dar luogo al suo riguardo a una molteplicità di giudizi in cui se ne afferma – in base alla prima classe di oggetti, i koina – l’esistenza o la non esistenza, la natura, l’identità con sé e la diversità da altro, la somiglianza a qualcosa o l’eventuale dissomiglianza da qualcosa, il suo essere buona o cattiva e infine la sua bellezza o la sua bruttezza, in base alla seconda classe di oggetti, i sensibili, il suo essere rossa o di un altro colore, il suo emettere suoni acuti o gravi, il suo avere quel certo odore, il suo risultare al tatto molle o dura, il suo risultare al gusto dolce o amara.
Zenone di Cizio. Busto, marmo, copia romana di età augustea da originale ellenistico del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La sezione si conclude evocando il nuovo candidato allo statuto di conoscenza: l’opinione.
Myles Burnyeat ha affermato che qui, in questa breve sezione del Teeteto, abbiamo la prima affermazione nella storia della filosofia dell’idea dell’unità della coscienza. L’idea che vi sia una coscienza unitaria autrice dei processi cognitivi e percettivi, anzi unica responsabile di essi, sostanzialmente incorporea e solo contingentemente incarnata è nata con Platone in questo passo del Teeteto che stiamo commentando. Ma qui abbiamo anche qualcosa in più. Una delle più potenti svalutazioni delle capacità conoscitive dei sensi, abbassati allo statuto di meri strumenti di cui la mente/anima si serve per il compimento dei processi percettivi. Questa svalutazione ricorda e anticipa quella realizzata da Cartesio nella prima delle sei meditazioni metafisiche. Anche Cartesio, privando di ogni capacità conoscitiva la percezione, ha come obiettivo quello ben noto di fare della mente l’unica responsabile di tutti i processi cognitivi psicologici e percettivi («Ma dunque che cosa sono? Una cosa che pensa. E che è questa cosa? Invero una cosa che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente») e di imporla come sostanza pensante, con un salto logico che sconcertò i suoi contemporanei.
Era proprio questa idea ciò di cui Zenone aveva bisogno. Lo ripeto: si tratta dell’idea che vi sia un’unica mente che coordina e presiede al compimento di tutte le funzioni conoscitive, intellettuali e percettive. Zenone giungerà a chiamare la mente così intesa “egemonico”, che era per lui la parte superiore dell’anima. Tuttavia l’affermazione dell’idea dell’unità della coscienza avveniva, in questa sezione del Teeteto, a un prezzo molto alto, poiché esigeva, a causa della discontinuità platonica tra anima e corpo, la rinuncia alla percezione come fonte di conoscenza.
Questa rinuncia era però un prezzo troppo alto da pagare per Zenone. La mia ipotesi è che egli non ebbe nemmeno bisogno, per riscattare la percezione, di contrapporre dal di fuori al rigido dualismo platonico il monismo materialistico che andava elaborando, perché ravvisò nel passo platonico, forse con l’aiuto di un’idea che conoscerà poi la consacrazione a principio fondamentale della fisica stoica – l’idea che se qualcosa è in grado di patire allora è un corpo – un’aporia che egli credette risolvibile solo grazie una concezione materialistica della mente. In altri termini, secondo l’interpretazione zenoniana del passo platonico, il materialismo della mente era in qualche modo già richiesto dall’argomento platonico in quanto viziato e indebolito da una difficoltà insuperabile all’interno di una concezione discontinua e dualista dei rapporti tra mente e corpo. L’aporia è nascosta nelle righe 186 B 10-C 5 del testo platonico ed è la seguente: se noi in quanto dotati di mente o di anima patiamo e sentiamo è grazie all’anima o mente che si serve dei sensi come strumenti. In altre parole, poiché è la mente che percepisce attraverso i sensi, la capacità di sentire appartiene alla mente. Ma come può qualcosa di ontologicamente irriducibile ai sensi essere sensibile? Se la mente sente, vi deve essere tra mente e sensi un rapporto più stretto di quello innegabilmente troppo estrinseco che intercorre tra un utente e i suoi strumenti.
La trasformazione della mente da entità immateriale in entità corporea percipiente e senziente era nel progetto filosofico di Zenone il primo passo da compiere in vista di una riabilitazione completa dello statuto conoscitivo della percezione.
Sfortunatamente non sono sopravvissuti argomenti a favore della corporeità della mente esplicitamente ascritti a Zenone. Ve ne è tuttavia uno attribuito a Cleante, immediato successore di Zenone a capo della scuola. È ragionevole supporre che, data la fedeltà dimostrata più volte da Cleante verso il pensiero di Zenone, anche questo argomento fosse in armonia con la sensibilità filosofica di Zenone. Non solo, ma a leggerlo con attenzione, è veramente impressionante la sua affinità con le considerazioni che abbiamo svolto sopra sull’aporia del Teeteto. Esso recita così:
Però le affezioni corporee e quelle incorporee non possono comunicare fra di loro, mentre l’anima condivide le stesse sofferenze del corpo … Pertanto, dal fatto che l’anima comunica con le affezioni del corpo si conclude che essa è corpo.
(trad. Radice)
In maniera ancora più precisa lo stesso punto è articolato da un altro testimone (Nemesio):
Ancora Cleante afferma: l’incorporeo non patisce con il corpo, né viceversa: solo un corpo può patire con un altro corpo. E però l’anima condivide la pena del corpo quando questo è ammalato o ferito, e così il corpo con l’anima: quando questa prova vergogna, quello arrossisce, e quando questa ha paura il corpo impallidisce. Pertanto, l’anima è corpo.
(trad. Radice)
Una volta dimostrata la corporeità della mente, il problema per Zenone era quello di articolare in modo filosoficamente coerente la natura del rapporto tra mente e facoltà del senso. Ai fini dell’esatta comprensione di questo rapporto ritengo illuminante una testimonianza di Aezio in cui l’idea zenoniana dell’unica mente corporea centro della vita cosciente e conoscitiva dell’uomo è ormai divenuta teoria canonizzata, probabilmente e verosimilmente grazie a Crisippo. La mente, qui chiamata “egemonico”, viene paragonata alla testa di un polipo, e le restanti sette parti in cui l’anima si divide ai tentacoli che si protendono dalla sua testa. Aezio riferisce che l’egemonico è quella parte dell’anima in cui si hanno luogo le rappresentazioni, gli assensi, le percezioni e gli impulsi. Egli riferisce anche che sette sono le parti dell’anima che dall’egemonico hanno origine e che questo estende per tutto il corpo; che delle sette parti dell’anima cinque sono i sensi (i sensi sono ovviamente divenuti parte della mente da parti del corpo che erano in Platone), mentre le rimanenti due sono dette rispettivamente “spermatica” e “fonetica”. In particolare, i sensi sono definiti come correnti di pneuma che si estendono dall’egemonico fino ai rispettivi organi. La suddivisione dell’anima in otto parti non ne pregiudica affatto l’unità, che viene anzi garantita dalla funzione svolta dall’egemonico che è propriamente quella di coordinare e unificare le funzioni o facoltà facenti capo agli organi del senso e a quelli della riproduzione e della fonazione.
Riscontriamo nella concezione stoica dell’anima ottuplice la più assoluta continuità ontologica tra l’egemonico e le facoltà del senso, che si manifesta nel fatto che la sostanza di cui questo è composto è la medesima che va a riempire gli organi diversamente conformati assicurandoli ad un pieno esercizio delle loro funzioni. È questo senza dubbio il punto in cui la distanza dalla concezione platonica si fa più grande: se è vero, come è vero, che anche qui i sensi si configurano come messaggeri di ciò che percepiscono affinché la mente possa giudicare i dati che forniscono, è altrettanto vero che essi in quanto correnti di pneuma “intelligente” sono concepiti come dotati di un’elevatissima capacità discriminatoria che consente loro di cogliere e penetrare la realtà nelle sue differenze. La mia tesi è che con gli Stoici cade la distinzione platonica tra percepire “con” e percepire “mediante” i sensi. Essa cade perché la mente è dagli Stoici concepita come un senso che si estende in tutte le parti del corpo biologicamente e strutturalmente preposte all’esercizio delle funzioni sensoriali:
La mente, fonte dei sensi e senso essa stessa, possiede una forza naturale che applica alle cose da cui è mossa. E così, essa afferra alcune rappresentazioni in modo da servirsene subito, altre per così dire le nasconde, sicché da esse nasce la memoria; le rimanenti, poi, le ordina secondo le somiglianze, sicché da queste ultime si formano quelle nozioni delle cose che i Greci chiamano ora nozioni ora anticipazioni.
(trad. Del Re)
Zenone pose le basi concettuali per una trasformazione dei sensi da parti del corpo usate dalla mente a sue estensioni.
Torniamo a Zenone e alla sua epistemologia in fieri. Reintegrati i sensi nella mente attraverso la sua riduzione a corpo, a Zenone mancava ancora qualcosa: una comprensione adeguata della natura dei processi percettivi. La via da percorrere per questa comprensione gli fu indicata nuovamente dal Teeteto. Proseguendo nella lettura del dialogo platonico, l’attenzione del giovane Zenone fu forse dopo poche pagine conquistata da una delle più belle creazioni dell’immaginazione filosofica di Platone: si tratta di un modello immaginifico e metaforico introdotto e sviluppato da Platone a partire da 191 C 8 per fondare la possibilità dell’opinione falsa. Dopo aver liquidato le pretese conoscitive della percezione Platone individua nell’opinione un candidato più adeguato al rango di conoscenza. Solo che l’opinione fa subito problema riguardo allo statuto controverso delle opinioni false. Quando un’opinione è falsa? Non si riesce bene a capire. È proprio per fondare la possibilità dell’opinione falsa che Platone introduce la celebre immagine della mente come blocco di cera.
Secondo questa immagine, nelle nostre anime vi sarebbe come un blocco di cera da improntare nel quale «noi veniamo via via imprimendo, allo stesso modo che s’imprimono segni di sigilli, qualunque cosa vogliamo ricordare di quelle che vediamo o udiamo o da noi stessi pensiamo; e quel che vi è impresso noi lo ricordiamo e conosciamo finché l’immagine sua rimane: quello invece che vi è cancellato o sia impossibile imprimercelo, lo dimentichiamo e non lo conosciamo».
Anonimo, Zenone di Cizio. Incisione da Marcus Meibomius, Diogenis Laertii de vitis, 1692.
Anna Maria Ioppolo commenta così: «Supponiamo, dice Platone, che l’anima sia una tavoletta di cera dove si imprimono le immagini delle cose, che sono conservate sotto forma di impronte: la percezione è quel processo che sigilla nell’anima le impronte, mentre le impronte che gli oggetti lasciano rappresentano la memoria. La capacità di apprendere e di ricordare le cose apprese varia da persona a persona in base alla qualità della cera di cui è fatta l’anima, più pura o meno pura, più molle o più dura. Sia le percezioni che i pensieri si imprimono nella memoria, ma possono lasciare tracce più o meno profonde ed efficaci nell’anima, dove rimangono finché non vengono cancellate e quindi dimenticate. L’errore, e con esso la possibilità dell’opinione falsa, si determina quando entrano in gioco da un lato la sensazione attuale (Teeteto vede una persona sconosciuta) e dall’altro il ricordo (Teeteto scambia lo sconosciuto per Socrate, che conosce nel senso che ne possiede un’immagine nella memoria, pur non vedendola al momento presente). L’errore si determina solo quando le cose percepite, o in quanto conosciute o in quanto sconosciute, sono abbinate a impronte della memoria non appropriate o erroneamente identificate».
Supponiamo io conosca Tizio nel senso che ne ho il ricordo sotto forma di impronta. Supponiamo anche che questa impronta sia ben rifinita e costituisca un possesso stabile nella mia memoria. Incontro Caio, che non conosco. Ne ho dunque una percezione visiva attuale. Lo vedo, in poche parole, mi è davanti in carne e ossa. Perché mi sbaglio? Una breve premessa prima di rispondere. Nella sezione che va da 184 a 187 Platone ha dimostrato l’incapacità della percezione di produrre conoscenza. Nel nostro caso, che è un caso di visione, dobbiamo presupporre questa incapacità come un dato acquisito (per Platone ovviamente). Attraverso la vista è la mia mente che vede Caio. La mia mente interpreta quanto vede alla luce di qualcos’altro, di un ricordo in questo caso. Questo è ovvio a pensarci bene. È ovvio perché il modo in cui la mente comprende e interpreta quel che sente e percepisce è dialettico, nel senso che ha luogo sempre in relazione a qualcos’altro. Se la mente è sempre orientata al riconoscimento e alla identificazione di quello che sente, riconoscimento e identificazione non potranno aver luogo se non in riferimento a qualcosa di pre-compreso che funge da termine di confronto. Io pertanto assumo il ricordo/immagine di Tizio come criterio erroneo, in questo caso, di identificazione del contenuto della mia percezione attuale che ha invece in Caio il suo oggetto. La responsabilità dell’errore non è della percezione. Supponiamo che io sia troppo lontano da Caio e quindi non riesca a vederlo bene. Da quella distanza la mente ottiene esiti percettivamente infelici usando la vista per identificare Caio. Essendo la vista puramente passiva, mero strumento, essa non ha nessuna responsabilità dell’esito infelice di questo episodio di visione. La responsabilità è solo della mente che non ha preso le giuste misure percettive nei confronti dell’oggetto.
La mia tesi è che questa immagine, per la sua compatibilità con la concezione materialistica della mente che Zenone stava mettendo a punto, mise a disposizione dello stoico un modello che forniva una spiegazione del funzionamento della memoria e dei processi fisici che sono responsabili dell’occorrenza nella mente di phantasiai sensoriali della realtà tanto vere quanto false. È ragionevole pensare infatti che l’attenzione di Zenone non fosse richiamata tanto dall’efficacia con cui questo modello riusciva a dar conto della possibilità dell’opinione, sia vera che falsa, quanto dalla forza, non solo teorica ma anche artistica, con cui esso raffigurava da un lato la possibilità della memoria e dall’altro poneva le condizioni di infallibilità e fallibilità della percezione attuale.
La precisione con cui le nostre percezioni affidano alla cera le proprie impronte, come anche la forza o debolezza della nostra memoria (quanto affermato da Socrate a 194 C 4-D 6 ovvero che quando la cera dell’anima è spessa, abbondante e liscia le impronte si distribuiscono sulla sua superficie senza sovrapporsi e cancellarsi a vicenda, ci induce a pensare che fu proprio l’immagine platonica a suggerire a Zenone la definizione di memoria come tesoro di phantasiai), dipendono sia dalla qualità della cera dell’anima (194 C 4 sgg.) sia dalla abilità conoscitiva della mente, abilità consistente nella sua capacità di procurarsi condizioni ideali di riferimento al mondo esterno per un esercizio conoscitivamente felice degli organi del senso.
È forse percorrendo i sentieri dischiusi da questa meditazione sull’immagine platonica dell’anima come blocco di cera che Zenone giunse a immaginare la mente come una sorta di esalazione sensibile (aisthetike anathumiasis), dotata delle proprietà della cera e a definire la phantasia come un’impronta nell’anima.
La ragione per cui essa è detta aisthetike può scorgersi forse nel fatto che «la sua parte egemonica si rivela in possesso tanto della capacità di accogliere, attraverso i sensi, le impronte degli oggetti esterni quanto della capacità di conservarle». La sostanza di cui essa è composta è lo pneuma, più precisamente, uno pneuma “caldo” e “intelligente”, sottilissimo e di qualità pregevole. Altrove si afferma la natura duttile dell’egemonico e la sua affinità con la cera accogliente ogni tipo di impronta. Da tutto ciò dovrebbe risultare evidente che Zenone attribuiva alla mente o egemonico, pensata come un’esalazione sensibile, le proprietà della cera. Pertanto l’anima non è propriamente un blocco di cera, ma una effusione continua di pneuma intelligente, verso l’esterno e nella direzione inversa in un movimento incessante di ricambio e raffinamento, effusione dotata delle proprietà della cera. Queste proprietà sono sostanzialmente due, ovvero la capacità di accogliere impronte e quella di trattenerle e conservarle.
Da questo si può concludere che per Zenone aveva senso parlare delle phantasiai, presentazioni, in termini di “impronte”, poiché il ricettacolo che le accoglie, l’anima, era da questi concepito in possesso delle stesse proprietà della cera. È da escludersi comunque che egli prendesse alla lettera l’immagine platonica.
Abbiamo qui un buon esempio dello stile filosofico di Zenone. Come scrive David Sedley: «Zenone sembra essere stato uno scrittore mosso dall’ispirazione piuttosto che sistematico, e fu lasciato alle generazioni successive il compito di formalizzare la sua filosofia». Da buon socratico, nell’ispirazione di fondo del suo pensarsi filosofo, sembrava prediligere il confronto continuo, lo spunto improvviso e la provocazione intellettuale. Ai suoi seguaci consegnò un’eredità di tesi e intuizioni che dopo la sua morte, soprattutto grazie a Crisippo, andarono incontro al destino di irrigidirsi in ortodossia e sistema. Affidava ad amici e discepoli lo sviluppo e l’apprendimento delle sue tesi. Non sapeva immaginare l’esercizio della filosofia se non all’interno di una comunità socratica di dialoganti. Non è allora per caso o per sfortunate circostanze dossografiche che non siano sopravvissute sue spiegazioni della sua definizione di phantasia.
Era dunque l’ipoteca su questa eredità a essere in gioco nel torneo ermeneutico che si scatenò in senso alla scuola riguardo all’autentico significato della definizione zenoniana di phantasia come “impronta nell’anima”. Sono d’accordo con Sedley quando afferma che «ciò che è significativo … non sono tanto i dettagli del dibattito, ma la sua forma». In effetti, stupisce lo sforzo compiuto dai protagonisti principali di questo dibattito, Cleante e Crisippo, per garantire alle parole del maestro l’interpretazione più coerente e rigorosa. Merita al riguardo attenzione il contributo crisippeo. Crisippo propose di intendere l’impronta zenoniana così: essa è un’alterazione dell’anima. Questa descrizione era nelle intenzioni di Crisippo il modo corretto di intendere quella del maestro. Possiamo apprezzare l’acutezza ermeneutica e filosofica di Crisippo, nonché la consonanza della sua interpretazione con i termini posti originariamente da Zenone. Se infatti la rappresentazione è un’alterazione dell’anima, più precisamente un’alterazione passiva della sua parte superiore o egemonico, sarà finalmente possibile che la mente, affollata simultaneamente da una pluralità di rappresentazioni, ammetta altrettante alterazioni o modificazioni, e questo avverrà senza cadere nelle assurdità implicate dall’interpretazione letterale della “impronta” avanzata da Cleante. È significativa, in questo contesto, l’analogia crisippea della mente con l’aria percossa da una molteplicità di voci (che ricorda l’immagine zenoniana della mente come esalazione pneumatica). L’obiettivo di Crisippo era chiaro: preservare l’unità della mente, nello spirito del maestro Zenone. Unica è la mente che si rappresenta contemporaneamente più oggetti, perché essi quando la colpiscono non la sfigurano con i loro profili, ma si limitano ad alterare lo stato del suo pneuma. È interessante osservare come il termine “alterazione” sia più vago e meno concreto di “impronta”, quasi si volesse suggerire con esso che l’oggetto non è “integralmente” responsabile della genesi di una rappresentazione nell’egemonico. Un contributo decisivo a tal fine è portato dalla mente stessa. Questo non deve però far sorgere il sospetto che per Crisippo la rappresentazione intesa come “alterazione” fosse meno affidabile o precisa della rappresentazione intesa come “impronta”. Il fatto che la mente sia attiva vuol dire solo che la precisione e la fedeltà di una rappresentazione non sono dovute integralmente all’oggetto che ne è la causa. Credo di poter concludere affermando che Crisippo, meglio di Cleante, sviluppò ed esplicitò la ricchezza di implicazioni teoriche racchiuse nella definizione zenoniana di phantasia, consegnando, ormai canonizzata, alle future generazioni di Stoici una delle più famose e caratteristiche nozioni stoiche.
Anonimo, Zenone di Cizio. Incisione da Thomas Stanley, The history of philosophy: containing the lives, opinions, actions, and Discourses of the Philosophers of every Sect, illustrated with effigies of divers of them, 1655.
I protagonisti principali di questo dibattito furono Cleante e Crisippo. Cleante aveva interpretato l’impronta in senso letterale, concependola come un basso e alto rilievo della superficie dell’anima, simile alla traccia lasciata sulla cera dal sigillo di un anello. Crisippo, dal canto suo, si oppose fermamente a questo modo d’intendere la rappresentazione. Senza entrare nei dettagli delle sue obiezioni a Cleante, vorrei provare a riassumerne la sostanza. Le rappresentazioni non possono essere calchi o copie dei loro oggetti per due ragioni. Prima ragione: supponiamo che la mente si rappresenti contemporaneamente due oggetti, uno triangolare e uno quadrangolare. Se le rappresentazioni fossero letteralmente calchi dei loro oggetti, poiché la mente che si rappresenta il primo oggetto è la stessa che si rappresenta il secondo, essa sarebbe contemporaneamente triangolare e quadrangolare. Il punto di Crisippo sembra essere qui che le rappresentazioni sono “morfologicamente”, ossia in quanto rappresentazioni, diverse dai loro oggetti. Esse sono, sotto questo aspetto, un prodotto della mente, non degli oggetti che le suscitano. Seconda ragione: se le rappresentazioni fossero letteralmente calchi dei loro oggetti, ogni nuova incisione sulla cera dell’anima finirebbe con l’oscurare la rappresentazione precedente e da ciò seguirebbe la distruzione della memoria, in quanto tesoro di rappresentazioni. In altri termini, se noi concepissimo la rappresentazione come una tuposis“, la genesi di una pluralità differenziata di rappresentazioni simultanee nell’egemonico sarebbe impossibile.
A Crisippo stava evidentemente a cuore preservare la possibilità di stabilire rapporti tra le rappresentazioni. Egli vedeva compromessa questa possibilità dalla concezione cleantea della rappresentazione come impronta.
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