Clistene e la fondazione della democrazia

Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.

L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.

Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.

Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).

Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.

L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].

Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).

Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.

La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).

Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).

L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.

Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).

Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).

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Sofistica e democrazia

di A. CIRIACI, Sofistica e democrazia, Chaos e Kosmos 9 (2010), pp.  33-44.

Il V secolo a.C. è caratterizzato, come è noto, da due grandi eventi, strettamente connessi tra di loro, che segnano e mutano profondamente la città di Atene, la più importante della Grecia sul piano della potenza militare e su quello politico, economico, sociale e culturale: la definitiva affermazione della democrazia e il tramonto del mondo aristocratico, non solo come specifico fenomeno politico, ma anche sociale ed etico.

La storia della sofistica copre un ampio arco temporale, compreso tra la seconda metà del V secolo a.C. e i primi decenni del IV, in cui la storia politica ateniese subisce le variazioni più notevoli. Qualunque sia l’atteggiamento dei singoli Sofisti nei confronti del regime democratico, non si deve mai dimenticare che la sofistica nel suo insieme è figlia della democrazia ed è, anzi, impossibile comprenderla appieno, se non si considera il pensiero dei singoli Sofisti come un tentativo di porre in evidenza, formulandoli razionalmente, i problemi emersi nell’ambito della situazione storica generale.

La democrazia estende indiscriminatamente a tutti i liberi cittadini il diritto alla partecipazione al potere e alle cariche pubbliche, in nome della capacità di ciascun individuo di fornire un contributo validi alla vita politica, rivalutando il πολίτης in quanto tale, al di là di qualsiasi appartenenza a una parte o a un settore della compagine cittadina. Il Sofista diviene allora una figura necessaria alla vita della città: non c’è più la necessità di ammaestrare i discendenti della stirpe nobiliare all’aristocratica virtù eroica, bensì di educare tutti gli uomini, membri del nuovo stato democratico, alla ἀρετή politica, intesa non tanto, o non solo, come osservanza delle leggi, quanto come conoscenza dei mezzi con i quali l’individuo può acquistare successo negli affari e potenza fra il popolo, indirizzandolo alla scelta del giusto, non più ordinando, ma persuadendo e spiegando.

Cresila, Busto di Pericle. Marmo, copia romana da un originale greco del 430 a.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Al di là della molteplicità di interessi e di problemi formulati dalla sofistica, è importante rilevare, nel pensiero dei singoli Sofisti, la presenza di un comune atteggiamento speculativo, del tutto caratteristico, che muove e guida le loro ricerche: la necessità di accettare il relativismo nei valori e in ogni altro campo, senza ridurre tutto al soggettivismo, e la convinzione che nessun aspetto della vita dell’uomo o del mondo nel suo insieme dovrebbe essere escluso dalla conoscenza ottenuta attraverso ragionata discussione[1].

Sebbene non si possa considerare la sofistica come una scuola filosofica, si può senz’altro constatare l’esistenza di un vero e proprio “movimento sofistico”, dotato di una sua sensibile unità, ma che non esclude esiti anche molto diversi tra loro nel pensiero e nelle opere dei suoi singoli rappresentanti. Andando oltre lo stretto ambito del pensiero filosofico, infatti, la sofistica influenza personaggi e autori, i quali, anche se da angolazioni e, in alcuni casi, con intenti diversi, pongono in risalto le medesime problematiche. Senza dubbio, è possibile rintracciare echi del pensiero sofistico non solo nelle figure di alcuni importanti personaggi politici od oratori, e nei pubblici dibattiti e nelle assemblee, di cui abbiamo testimonianze attendibili, ma anche, solo per citare qualche esempio, nell’opera storica di Tucidide, nelle tragedie di Euripide e nelle commedie di Aristofane. “Movimento sofistico” indica, dunque, non solo il gruppo più o meno ristretto di filosofi, i quali si sono dati o a cui è stato dato il nome di sofisti, ma un concetto sufficientemente ampio da poter includere, in realtà, un movimento di idee più vasto.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

Tra i problemi formulati e discussi dalla sofistica, e dagli intellettuali e dagli artisti attivi nell’Atene periclea e post-periclea, quelli relativi alle questioni politiche occupano un posto certamente non secondario. Non solo i Sofisti, in qualità di maestri e di educatori, promettono di insegnare a qualsiasi cittadino il modo migliore di condurre una discussione pubblica (nell’ambito di un’assemblea, di un tribunale, ecc.), consentendo a chiunque di poter partecipare attivamente alla vita politica della πόλις, ma gli esponenti del movimento sofistico sono i primi a compiere una consapevole riflessione sulla politica in generale. Tipicamente sofistica, ad esempio, è la controversia tra i sostenitori del diritto positivo (νόμος) e quelli del diritto naturale (φύσις), certamente generato dalla nascita e dalla progressiva affermazione della democrazia. Sempre i Sofisti sono i primi filosofi a mostrare interesse per lo studio dei νόμοι e delle πολιτείαι, fornendo un contributo essenziale alle ricerche sulla storia delle costituzioni antiche[2]. Non mancano, infine, le prime riflessioni teoriche sulla democrazia in generale e, più specificamente, sul regime democratico ateniese, così come si era venuto a delineare dall’età di Pericle in poi. Ampiamente testimoniate risultano le posizioni di quei Sofisti, e di quegli autori influenzati dalla sofistica, che, per ragioni diverse, avversavano la democrazia e, in particolare, il regime democratico ateniese, come, ad esempio, la celebre Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) dello Pseudo-Senofonte[3]. Meno numerose, al contrario, sono le testimonianze provenienti da autori e scritti democratici.

Una delle più importanti “teorie democratiche della democrazia” si può rintracciare nel celebre Epitafio di Pericle, il discorso tenuto dallo statista ateniese per celebrare i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso (431-430), riportato nell’opera di Tucidide[4], da sempre oggetto di dibattito e di studio. L’Epitafio, così come gli altri discorsi presenti nell’opera, è frutto di una rielaborazione tucididea, molto posteriore agli avvenimenti narrati. Illustrando il suo metodo di lavoro, lo storico afferma:

a seconda di quanto ciascuno a mio parere avrebbe potuto dire nel modo più adatto nelle diverse situazioni successive, così si parlerà nella mia opera, ché io mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati[5].

I discorsi che compaiono nell’opera sono, quindi, una ricostruzione dello storico ateniese, come rivela anche un’analisi formale dei testi, che evidenzia, in tutti, lo stile tipico di Tucidide, influenzato dalle regole compositive della retorica e della sofistica. È importante, però, secondo quanto egli stesso afferma, che nell’opera sia stato riprodotto fedelmente il pensiero generale dei vari discorsi pronunciati e che, in questo senso, essi si possano ritenere autentici. Anche l’Epitafio di Pericle, per le stesse ragioni, si può considerare veritiero. Poiché l’Epitafio, più che un discorso commemorativo, è in realtà uno straordinario elogio della democrazia, si può affermare che già Pericle avesse formulato una teoria democratica della democrazia e che proprio l’Epitafio pericleo rappresenti ampiamente, con una storicità che non va sottovalutata, la teoria democratica. L’attività politica di Pericle, quindi, non fu dettata dal caso, né da una semplice e demagogica volontà di mantenere il potere, conquistando il favore del popolo con riforme a esso favorevoli. La politica di Pericle, al contrario, fu sostenuta e guidata da una solida teoria democratica, che è il punto di riferimento di tutta l’azione riformatrice e di governo dello statista ateniese. Le sue riforme, apportate alla costituzione di Clistene del 508-507 a.C., per lungo tempo sostanzialmente immutata, sono indirizzate a rendere finalmente compiuta la democrazia ateniese, allargandone progressivamente i diritti a tutto il popolo. La prima grande riforma è quella attuata da Efialte, capo del partito democratico, e Pericle. Nel 462 essi fecero votare una legge che riduceva le competenze dell’Areopago alla sola giurisdizione sui reati di sangue, trasferendone gli altri poteri alla Bulé e al tribunale degli Eliasti. Dopo la morte di Efialte, Pericle proseguì la riforma della costituzione, introducendo l’ἡλιαστικόν, un’indennità ai giudici popolari di due oboli al giorno, compenso non certo eccessivo e, anzi, inferiore alla media del salario giornaliero d’un operaio comune, ma che consentiva a qualsiasi cittadino di dedicare diversi giorni dell’anno alla funzione di giudice, che aveva costituzionalmente diritto di esercitare fin dai tempi della costituzione di Clistene. Dopo aver consegnato i tribunali nelle mani del popolo, Pericle introdusse il principio della μισθοφορία, la remunerazione dei pubblici uffici, un’indennità di quattro oboli al giorno per gli arconti, di cinque ai buleuti, di una dracma ai pritani, la quale aprì la via alla riforma più importante e decisiva, quella che nel 457-456 ammise gli zeugiti all’arcontato e, successivamente, i teti a tutte le magistrature sorteggiate. A questo punto, il potere passò direttamente nelle mani della Bulé e dell’Ecclesía, cioè nelle mani del popolo ateniese e, soprattutto, in quelle delle poche magistrature rimaste elettive per la competenza tecnica che esse esigevano in chi le ricopriva. Prima fra tutte, quella degli strateghi, il cui Collegio, guidando da allora in poi tutti gli altri magistrati ed esercitando la massima autorità nell’Ecclesía e nella stessa Bulé, rappresentò il fulcro del potere esecutivo. Pericle, eletto per una trentina d’anni quasi consecutivi (dal 460 circa in poi) alla carica di stratego, e quasi sempre col rango di Presidente di quel Collegio, fu per trenta anni costituzionalmente a capo della democrazia ateniese. La politica attuata da Pericle è riconducibile, dunque, a due principi essenziali: 1) il potere deve essere del popolo nella sua totalità e non di una piccola parte di cittadini; 2) le alte cariche, che comportano il diritto di deliberare ed agire per il popolo, devono essere affidate a quanti siano più adatti e più abili a svolgere tali funzioni. Pericle diede grande importanza all’educazione e alla cultura del popolo ateniese. Il potere acquisito dopo le sue riforme richiedeva che tutta la cittadinanza, trovatasi a essere per la prima volta artefice del proprio destino, fosse pienamente consapevole delle problematiche e delle questioni, su cui era chiamata a dibattere. Anche per questo motivo quindi, e non solo perché spinto da un personale interesse per il sapere e l’arte, Pericle fece di Atene il centro culturale della Grecia, ospitando gli intellettuali più importanti dell’epoca in ogni ambito della conoscenza.

Atene. Acropoli, ricostruzione grafica del complesso cultuale (disegno di J. Kürschner).

Sebbene, per ovvie ragioni, solo una piccola parte della popolazione potesse avere accesso o essere interessata alle discussioni dei personaggi del circolo di Pericle, e solo le classi più abbienti potessero permettersi, ad esempio, di istruirsi a pagamento presso i Sofisti, il generale clima culturale voluto dallo statista ateniese influenzò, in ogni caso, tutta la cittadinanza. I grandiosi lavori pubblici sull’Acropoli, con la costruzione e la decorazione del Partenone affidati, tra il 447 e il 432, alla direzione di Fidia e, soprattutto, l’allestimento dei cori lirici, tragici e comici in occasione delle varie feste annuali della città, finanziato dai cittadini più abbienti, in cui tutti potevano ammirare gratuitamente le opere di Sofocle e Euripide, ne sono gli esempi più evidenti.

Maschera. Terracotta, IV-III sec. a.C. dalla Stoa di Attalo, Atene.

All’epoca di Pericle e sotto il suo comando, la repubblica ateniese non solo era un regime compiutamente democratico, ma la democratizzazione si era estesa alle esigenze sociali della popolazione a tal punto che lo Stato si era assunto la responsabilità di garantire i mezzi di sussistenza a tutti i cittadini, anche a coloro che per motivi di età o di salute, o per condizioni di famiglia non potessero procurarseli col proprio lavoro, grazie a un avanzato sistema di provvidenze. Con frequenti distribuzioni di cereali, con pensioni di un obolo al giorno agli inabili al lavoro, col mantenimento a spese dello Stato degli orfani dei morti in guerra, si provvedeva alla sorte di coloro che non avrebbero potuto mantenersi in altro modo. Questo grande apparato, cui si deve aggiungere il mantenimento dell’esercito, della flotta e delle milizie mercenarie (che, in linea di massima, gravava però sui tributi degli alleati della Lega delio-attica), si reggeva su tre cespiti di entrate: 1) i redditi dei beni demaniali, tra cui il più importante era l’appalto delle miniere d’argento del Laurio; 2) i tributi indiretti, come i vari dazi (l’ἐλλιμένιον per l’uso dei porti, la δεκάτη per le merci in entrata e in uscita dal Mar Nero attraverso il Bosforo, ecc.), le speciali tasse d’esercizio per le professioni che richiedevano la vigilanza della polizia, il rimborso delle spese processuali da parte di coloro che ricorrevano ai tribunali, o i proventi risultanti dai beni confiscati ai debitori dello Stato e ai condannati per cause politiche; 3) le contribuzioni personali dei singoli cittadini, le λειτουργείαι, alle quali erano tenuti i cittadini più ricchi di Ateniesi. Queste si distinguevano in ordinarie (la coregia, l’allestimento dei cori lirici, tragici e comici in occasione delle varie feste annuali della città; la ginnasiarchia, l’allestimento delle gare ginniche) e straordinarie (la più gravosa era la trierarchia, consistente nell’allestimento, la riparazione e il comando di una trireme, durante il periodo in cui essa partecipava ad azioni militari). A tutto ciò, naturalmente, si devono aggiungere gli ampi investimenti profusi dallo Stato per i grandiosi lavori pubblici (ad esempio, quelli effettuati all’epoca di Pericle sull’Acropoli) e per il periodico invio di numerose cleruchie, quasi sempre decise con fine esclusivamente sociale, con cui si dava modo alle classi lavoratrici di esplicare la propria attività.

Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Stando ai frammenti che gli sono attribuiti, alle testimonianze relative alla sua filosofia e alle notizie biografiche che lo riguardano, Protagora è unanimemente considerato come il Sofista più vicino alla democrazia periclea[6]. Innanzitutto, egli stabilisce con lo statista ateniese un rapporto personale, di vera e propria amicizia, testimoniato da alcuni aneddoti riportati dalle fonti antiche (il più famoso è quello che li vede discutere un’intera giornata su chi o che cosa sia da ritenersi responsabile per la morte accidentale di un giovane, avvenuta durante una festa celebrata con i giochi: se il giavellotto, l’atleta che lo ha lanciato, o gli organizzatori dei giochi stessi)[7]. In secondo luogo, fin dal suo primo viaggio ad Atene (che si tende in genere a collocare tra il 450 e il 444 a.C.), Protagora entra a far parte del circolo di Pericle[8], divenendo col tempo uno stretto collaboratore dello statista, il quale nel 444 lo nomina legislatore della nuova colonia panellenica di Turii, per la quale il Sofista redasse con ogni probabilità una costituzione democratica, forse sul modello di quella ateniese[9]. Un’altra notizia, controversa e ancora oggi dibattuta, è quella relativa al processo per empietà intentato contro il Sofista da Pitodoro, all’epoca del suo secondo soggiorno ad Atene, verso il 423- 422[10]. È senz’altro vero che l’accusa di empietà mossa nei confronti del Sofista non fosse priva di un qualche fondamento. Protagora, infatti, è noto per la sua posizione agnostica in ambito teologico («riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana»)[11]; nega, inoltre, che l’anima possa esistere separata dal corpo, tesi che è possibile desumere dal fatto che al Sofista di Abdera sia attribuito uno scritto, intitolato Intorno alla sorte nell’Ade (περὶ τῶν ἐν Ἅιδου)[12], in cui dovevano certamente riflettersi le sue affermazioni sugli dei e sull’anima («l’anima non è nient’altro che le sensazioni, come attesta anche Platone nel Teeteto»)[13], riportate da Diogene Laerzio. Se Protagora toglie alle tradizionali rappresentazioni degli dei l’influsso sul pensiero e l’azione umana, è probabile anche che avesse trattato allo stesso modo le rappresentazioni dell’oltretomba. Con l’aldilà egli nega anche l’esistenza separata dell’anima, che gli pare superflua accanto ai sensi. Non si deve, però, dimenticare che Pitodoro era un partigiano dell’oligarchia, futuro membro del governo dei Quattrocento. Se la notizia riportata da Diogene Laerzio fosse vera, si potrebbe ipotizzare che il processo a Protagora sia stato intentato, in realtà, per ragioni politiche[14], e sarebbe un’ulteriore prova che il Sofista era un convinto democratico. Oltre a queste poche notizie biografiche, la testimonianza che meglio rivela le convinzioni democratiche di Protagora è certamente quella del cosiddetto mito di Prometeo, contenuto nell’omonimo dialogo di Platone, e del successivo discorso esplicativo del Sofista[15].

Salvator Rosa, Democrito e Protagora. Olio su tela, 1663-64.

A quanto sembra, Protagora fu autore di uno scritto, intitolato Intorno alla condizione originaria dell’uomo[16], che è da considerarsi la fonte probabile delle idee, che, più o meno liberamente riportate da Platone, sono poste in bocca al Sofista nel dialogo platonico che porta il suo nome[17]. In sintesi, Protagora sostiene che poiché la natura degli uomini non consente loro di vivere isolatamente, essi si sono riuniti cedendo a un bisogno istintivo, hanno trovato i mezzi per vivere e hanno potuto creare tutti gli strumenti atti a rendere la vita più comoda. La convivenza, però, è impossibile senza le leggi, che consentono di regolare i rapporti tra gli uomini, e l’assenza di leggi è un danno ancora più grande della vita isolata. È necessario, allora, che la legge e la giustizia regnino tra gli esseri umani e non siano mai rimosse da loro, poiché sono saldamente legate a essi per natura. L’importanza del mito di Protagora sta, soprattutto, nell’aver fornito l’elaborazione più completa di questioni ampiamente discusse tra gli intellettuali di Atene in quel periodo. In particolare, il Sofista sostiene: 1) una teoria del progresso, secondo la quale l’uomo procedette da un’originaria condizione naturale verso uno stato di progressiva civilizzazione[18]; 2) l’impossibilità che le qualità innate, sufficienti a garantire il necessario per vivere, possano bastare a consentire la vita associata, evitando che gli uomini commettano ingiustizie l’uno ai danni dell’altro: il νόμος deve subentrare, dunque, alla φύσις[19]; 3) una giustificazione teorica della democrazia ateniese, così come si era venuta delineando nell’età di Pericle. Uno degli intenti di Protagora è quello, infatti, di dimostrare che tutti gli uomini, seppure in misura diversa, sono in possesso delle due virtù morali, αἰδώς (il “rispetto reciproco”) e δίκη (la “giustizia”), e che tutti, di conseguenza, possono fornire il loro contributo nelle discussioni morali e politiche. Nell’ambito, però, di un’assemblea riunita per prendere importanti decisioni, che riguardano tutta la comunità, diviene un problema riuscire a stabilire quale sia, tra tutte quelle pronunciate, l’opinione da seguire. Il relativismo di Protagora, espresso in uno dei suoi più celebri frammenti («di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono»)[20], affermando che l’opinione sostenuta da ogni singolo uomo è sempre vera e, dunque, che non esistono opinioni più vere di altre, investe, ovviamente, anche la sfera politica. La via d’uscita è offerta nella cosiddetta Apologia, contenuta nel Teeteto di Platone[21]. Sebbene, infatti, sostiene il Sofista per bocca di Socrate, tutte le opinioni siano ugualmente vere, esistono, però, in ogni ambito della vita umana delle opinioni migliori di altre, più forti e più utili, e sono proprio queste che devono prevalere sulle altre. Il κρείττων λόγος, il discorso più forte, che si impone sull’ἥττων λόγος, quello più debole[22], è proprio dell’uomo che, dopo un lungo processo educativo, è entrato in possesso della πολιτικὴ ἀρετή. Quest’ultima designa la capacità di esprimere nelle faccende private e nella vita politica l’opinione che vince sulle altre, perché migliore per il singolo e per la città. Proprio la πολιτικὴ ἀρετή è l’unico oggetto dell’insegnamento di Protagora, come lo stesso Sofista dichiara nell’omonimo dialogo di Platone[23], il cui intento è quello di rendere gli uomini buoni cittadini. L’acquisizione della πολιτικὴ ἀρετή, per gli stessi motivi indicati nel mito narrato dal Sofista, è ugualmente possibile per tutti gli uomini. È necessario, però, che alle doti naturali, presenti in misura diversa in ogni singolo uomo, si affianchi un lungo periodo di studio, il quale, per altro, non deve essere limitato agli anni della giovinezza, ma deve proseguire per tutta la vita: essa è, infatti, un continuo processo di educazione etico-sociale[24]. La democrazia, dunque, per Protagora, è un regime pienamente giustificato, poiché consente a tutti i cittadini di fornire il proprio contributo, ognuno secondo le proprie possibilità, a tutte le decisioni che riguardano lo Stato, quindi la collettività. Nello stesso tempo, però, è necessario non dimenticare il principio meritocratico, che premia chi è in grado di imporre sulle altre l’opinione migliore, propria di chi è in possesso della πολιτικὴ ἀρετή. In questo modo, «Protagora offre a Pericle, in una parola, la giustificazione razionale della sua funzione nella città»[25].

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Note:

[1] Cfr. Kerferd 1988, p. 11.

[2] Non è pensabile, naturalmente, un confronto tra questi primi tentativi e la ormai matura riflessione costituzionale greca del IV secolo a.C. e poi dell’età ellenistica. Con la sofistica, ci si trova agli albori di questi studi e perfino il linguaggio, per così dire, «tecnico» si va ancora formando e stabilendo lentamente. In questo senso, un esempio calzante è rappresentato dall’assenza, per gran parte del V secolo, del termine δημοκρατία. La democrazia, come è noto, nasce in Grecia, e specificamente ad Atene, nel 508-507 a.C., frutto dell’opera riformatrice di Clistene. Per definire l’innovazione politica clistenica, la tradizione storiografica utilizza sia il termine δημοκρατία, sia alcuni suoi parziali sinonimi, come ἰσονομία e ἰσηγορία. Poiché questa tradizione è successiva a Clistene, si è portati a credere che il termine δημοκρατία ancora non esistesse all’epoca delle riforme clisteniche. Tale tendenza sembra confermata dal fatto che la prima attestazione della parola δημοκρατία, sebbene in forma di perifrasi, compare nelle Supplici di Eschilo (cfr. Aesch. Suppl. 604: δήμου κρατοῦσα χείρ, «la mano dominante del popolo»), opera rappresentata nel 463. Il termine vero e proprio è attestato a partire da Erodoto, che però lo utilizza solo in due occasioni (cfr. Herod. VI 43, 14; VI 131, 4), al contrario, ad esempio, di ἰσονομία e di perifrasi, come πλῆθος δὲ ἄρχον, «il governo del popolo», con cui lo storico di Alicarnasso è solito designare il regime democratico (ad esempio, nel celebre λόγος τριπολιτικός, in Herod. III 80-82), che compaiono invece con una certa frequenza. Il termine δημοκρατία si afferma, dunque, piuttosto lentamente e, in generale, si può affermare che esso soppianti definitivamente tutti gli altri, a partire dal IV secolo a.C.

[3] Sulla Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte o del Vecchio Oligarca, scritto risalente alla fine del V secolo a.C. e importante documento, che testimonia lo stretto legame esistente tra le idee di alcuni Sofisti della cosiddetta seconda generazione e gli ambienti oligarchici, cfr. Gigante 1953; Isnardi Parente 1953; Vegetti 1977; Serra 1979; Lapini 1987-1988; Lapini 1997.

[4] Cfr. Thuc. II 35-46.

[5] Thuc. I.22: ὡς δ’ ἂν ἐδόκουν ἐμοὶ ἕκαστοι περὶ τῶν αἰεὶ παρόντων τὰ δέοντα μάλιστ’ εἰπεῖν, ἐχομένῳ ὅτι ἐγγύτατα τῆς ξυμπάσης γνώμης τῶν ἀληθῶς λεχθέντων, οὕτως εἴρηται (trad. it. F. Ferrari).

[6] Si veda, in proposito, la ricostruzione del pensiero politico di Protagora nella recente traduzione dei frammenti dei Sofisti curata da Bonazzi 2007, pp. 45-52, a cui si rimanda anche per ulteriori e aggiornate indicazioni bibliografiche

[7] Cfr. Plutarch. Pericl. 36 (= 80 A 10 D.-K.).

[8] Nel trentennio che va dal 460 al 430 a.C., il fulcro dell’intensa attività speculativa e artistica, che anima l’Atene periclea, è il cosiddetto circolo di Pericle, del quale fanno parte personaggi come Anassagora di Clazomene, Empedocle di Agrigento, Zenone di Elea, Ippocrate di Cos, Ippodamo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso, Protagora di Abdera, gli ateniesi Damone, Fidia e Tucidide.

[9] Non vi sono notizie certe circa il tipo di costituzione redatta da Protagora per la colonia di Turii; alcuni studiosi, tra cui Untersteiner 1996, pp. 6-7, ritengono una prova sufficiente che la legislazione protagorea non fosse democratica, il fatto stesso che, almeno nelle intenzioni iniziali di Pericle, la nuova città dovesse essere una colonia panellenica. Diodoro di Sicilia, però, ci informa che, quando Sibari fu distrutta dai Crotoniati e i Sibariti sopravvissuti invocarono l’aiuto di Sparta e Atene per rifondare la città, gli Spartani rifiutarono di partecipare alla ricostruzione, mentre gli Ateniesi accettarono, invitando volontari da ogni parte della Grecia (cfr. Diod. XII 10). Come sostiene Bayonas 1967, p. 46, le città che cooperarono nell’impresa dovevano, dunque, essere quasi tutte alleate di Atene, e, in queste condizioni, quella della nuova colonia non poteva che essere una costituzione democratica.

[10] Cfr. Diog. Laërt. IX 54 (= 80 A 1 D.-K.). Su tutte le questioni, cfr. Brancacci 2002.

[11] Cfr. Diog. Laërt. IX 51 (= 80 B 4 D.-K.): περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι οὔθ’ ὡς εἰσίν, οὔθ’ ὡς οὐκ εἰσίν· πολλὰ γὰρ τὰ κωλύοντα εἰδέναι, ἥ τ’ ἀδηλότης καὶ βραχὺς ὢν ὁ βίος τοῦ ἀνθρώπου (trad. it. M. Timpanaro Cardini). Per l’interpretazione del frammento, cfr. Untersteiner 1996, pp. 43-45; Guthrie 1971, pp. 234-235; Kerferd 1988, pp. 163-172; Schiappa 2003, pp. 141-154.

[12] Si veda il catalogo delle opere attribuite a Protagora redatto da Diogene Laerzio (cfr. Diog. Laërt. IX 50-56 = 80 A 1 D.-K.).

[13] Cfr. Diog. Laërt. IX 51 (= 80 A 1 D.-K.): Ἔλεγέ τε μηδὲν εἶναι ψυχὴν παρὰ τὰς αἰσθήσεις, καθὰ καὶ Πλάτων φησὶν ἐν Θεαιτήτῳ (trad. it. M. Timpanaro Cardini).

[14] Stessa sorte, del resto, subita da altri importanti esponenti della cerchia periclea, come Anassagora, Aspasia, Fidia (cfr. Bonazzi 2007, p. 46).

[15] Cfr. Plat. Prot. 320 C–328 B (= 80 C 1 D.-K.).

[16] Cfr. Diog. Laërt. IX 55 (= 80 A 1 D.-K.). Secondo Untersteiner, il mito contenuto nel Protagora platonico corrisponde alla trama generale del Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως attribuito al sofista, scritto che, nella ricostruzione fornita dallo studioso italiano, occupava la terza sezione delle Antilogie, dedicata «alle leggi e a tutti i problemi che riguardano il mondo della polis» (cfr. Untersteiner 1996, pp. 18-23).

[17] Per la genuinità del contenuto del mito, riportato nel Protagora platonico, propendono, tra gli altri, Untersteiner 1996, pp. 85-92, 106 n. 24, Guthrie 1971 pp. 63-64, Isnardi Parente 1982, pp. 167-168, Kerferd 1988, pp. 160-161, Schiappa 2003, pp. 157-189; Adorno 1996, pp. XVIII; Bonazzi 2007, pp. 35-36.

[18] La teoria del progresso umano era assai popolare ad Atene: compare, infatti, già in quella che è ritenuta l’ultima opera di Eschilo, morto nel 456, Prometeo incatenato (cfr. Aesch. Prom. 442-468, 478-506); l’argomento è, poi, affrontato intorno al 440 da Sofocle nell’Antigone (cfr. Sophocl. Antig. 332-371); intorno al 421 da Euripide nelle Supplici (cfr. Eurip. Suppl. 201-213); da Crizia, morto nel 403, nel Sisifo (cfr. Aët. I 6, 7 [Dox. 294] = 88 B 25 D.-K.).

[19] Nel corso del V secolo, il problema originato dal contrasto esistente tra νόμος e φύσις era impostato in modo più semplice. Nei Persiani di Eschilo (tragedia rappresentata nel 472), la monarchia assoluta di Serse corrisponde alla natura barbarica di quel popolo: la legge tipica di questo regime si identifica ed è, dunque, l’espressione dell’ἦθος, della φύσις dei Persiani. Erodoto nelle sue Storie è convinto che la diversità delle leggi e le molteplici costituzioni esistenti, siano dovute alla diversa natura dei popoli. Protagora è, a quanto sembra, il primo a impostare la questione in modo nuovo, influenzando i successivi dibattiti del movimento sofistico: per l’Abderita, infatti, non è la φύσις a variare (tutti gli uomini sono in possesso di doti naturali, che pur essendo soggettive, contribuiscono a soddisfare i bisogni più elementari), ma il νόμος, che ogni popolo sceglie in base a ciò che pensa sia migliore per sé in un determinato momento.

[20] Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. VII 60 (= 80 B 1 D.-K.): πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνθρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν (trad. it. M. Timpanaro Cardini). Per l’interpretazione del frammento, cfr. Untersteiner 1996, pp. 65-78, pp. 115-137; Decleva Caizzi 1978, pp. 11-35; Kerferd 1988, pp. 83-110; Schiappa 2003, pp. 117-125.

[21] Cfr. Plat., Theaet. 166 a–168 c (= 80 A 21a D.-K.). Per l’interpretazione del passo platonico, cfr. Cole 1966, pp. 101-118; Burnyeat 1976.

[22] Cfr. Aristot., Rhet., II 24, 1402 a 23 (= 80 B 6b D.-K.): τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν. Si ricordi che Protagora prometteva di insegnare ai suoi allievi la capacità di «rendere più forte l’argomento più debole», nel senso, posto in luce dalla traduzione che del passo aristotelico ha dato Untersteiner, di «ridurre la minore possibilità di conoscenza a una maggiore possibilità di conoscenza». Sul significato generale e sulla valenza «eminentemente gnoseologica» di κρείττων λόγος e ἥττων λόγος nella filosofia protagorea, cfr. Untersteiner 1996, pp. 79-114; Isnardi Parente 1982, pp. 167-169; Brancacci 2008, pp. 19-44

[23] Cfr. Plat., Prot. 318 a–319 aA (= 80 A 5 D.-K.).

[24] Cfr. Plat., Prot. 325 c–326 e.

[25] Cfr. Isnardi Parente 1982, p. 169.

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