181 a.C.-2019 d.C. Aquileia

di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.

 

Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.

 

Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.

L’area del Foro romano, Aquileia.

 

A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviri Publio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.

L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.

 

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).

Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia — l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.

Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).

 

Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.

Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia  gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.

 

Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.

 

Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.

Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.

Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).

 

La legge agraria di Tiberio Gracco

di D. Pangaro, Sulla legge agraria di Tiberio Gracco. La versione di Appiano, in InStoria, N. 59 – Novembre 2012 (XC).

La versione di Appiano

 

 

La res publica romana, come ci riporta il libro I delle Guerre Civili di Appiano, non appena effettuava la conquista militare di un determinato territorio lo suddivideva, e ne rendeva una parte ager publicus: questo terreno dello Stato, e quindi dei cives romani, veniva dato agli abitanti delle nuove realtà coloniali che si potevano creare a ridosso delle nuove conquiste oppure o anche a chi si insediava in città già esistenti. La Repubblica romana era solita riconoscere due tipi di giurisdizione alle colonie: erano propriamente dette coloniae Latinae (colonie di diritto latino) e coloniae civium Romanorum (colonie di diritto romano). Queste due realtà giuridiche avevano scopi comuni in origine, ma diritti ed assegnazioni di terra estremamente diverse: se concordiamo con l’ipotesi che queste servissero all’assolvimento di compiti difensivi di territori e coste, si dovrà però notare che queste erano partecipi dell’attività dello Stato in maniera differente, ed usufruivano dell’ager in parti non eguali.
Le colonie di diritto latino godevano di parziali diritti, ed avevano un quantitativo di terra più o meno uguale per tutti gli insediamenti dello stesso tipo giurisdizionale: giusto per citare qualche cifra diciamo che a Thurii, colonia calabrese dedotta nel 194 a.C., i 3000 pedites ed i 300 equites ebbero come dotazione circa 20 iugeri i primi, 40 iugeri i secondi; nell’altra colonia calabrese di Vibo, dedotta circa un anno dopo, i 3700 pedites e i 300 equites, ricevettero rispettivamente 15 iugeri e 30 iugeri.
Numeri importanti, e di sicuro maggiori rispetto a quelli dati in dotazione ai coloni romani, in genere 2 iugeri: ai non addetti ai lavori sembrerebbe che la res publica romana favorisse la nascita di colonie latine e sfavorisse invece quelle di diritto romano, scoraggiando queste ultime con la magra dotazione dei 2 iugeri. In realtà, il fatto stesso di essere cittadini romani dava diritto d’accesso a tutto l’ager publicus, potendo quindi sfruttare l’immenso territorio ottenuto con la conquista. D’altro canto, Roma non poteva occuparsi di approvvigionare le colonie latine, che, anzi, dovevano diventare esse stesse fonte di reddito e di milizie per la res publica: si dovevano creare le condizioni necessarie allo sviluppo di realtà statali formalmente autonome, favorendo la crescita in loco di attività economiche assai redditizie, laddove nelle colonie romane sussisteva il modello socio-agrario della piccola azienda familiare.

La deduzione delle colonie, sia romane sia latine, doveva seguire un iter preciso e prestabilito; in altre parole, occorrevano le giuste formule giuridiche recitate dagli “attori” preposti: in origine ogni nuova colonia veniva avallata con un senatus consultum; considerando che con tale termine si indicava solitamente quella delibera fatta dal Senato in casi d’emergenza, con cui si dava ordine perentorio ai consoli di eseguire gli ordini della res publica a qualsiasi costo, e se si prende ad esempio quello contro i Baccanali e quello ultimum che portò Mario ad intervenire contro i suoi tirapiedi Glaucia e Saturnino, si ha l’impressione che l’atto di fondar colonie fosse – almeno nei primi momenti – una procedura straordinaria, forzata e mal voluta dall’élite patrizia.

Il decreto stabiliva la natura giuridica della colonia (romana o latina) e il numero dei coloni che vi si dovevano recare; in seguito i comitia tributa eleggevano tre commissari incaricati della deduzione coloniale. Questi Triumviri coloniae deducendae agroque dividendo si occupavano di pianificare l’impianto urbano, di stabilire i confini della colonia, di preparare la costituzione della nuova comunità e infine reclutavano i coloni. La costituzione ne definiva la religiosità, l’ambito delle cerimonie, ne assicurava la legge, l’ordine e l’amministrazione della giustizia, oltre che specificare i magistrati locali e la loro modalità di elezione. Ma prima di ciò, i triumviri dovevano suddividere il territorio destinato ai nuovi coloni. Da questa suddivisione venivano escluse le terre viritane, l’ager compascuus, l’ager occupatorius, l’ager publicus stipendiorus datus adsignandus (lasciato al medesimo titolo agli antichi proprietari), l’ager publicus a censoribus locatus e l’ager quaestorius. Il territorio veniva diviso secondo un reticolato di quadrati, che misuravano circa 20 actus (710 metri) per ogni lato, coprendo una superficie totale di 200 iugeri: questi quadrati presero il nome di centurie, da cui la definizione di centuriazione del territorio. Si prendeva come punto di riferimento l’Est, un elemento naturale, e si tracciava una linea verso Ovest: questa prendeva nome di decumanus maximus; perpendicolarmente si tracciava una seconda linea, il kardo maximus, della stessa lunghezza (asse Nord-Sud). Di norma, il decumanus maximus corrispondeva alla strada principale, ed era più largo rispetto al Kardo Maximus, considerato come strada di livello inferiore. In seguito, si tracciavano altri decumani ed altri kardines paralleli a quelli principali, in modo da formare un reticolato di quadrati (la centuriazione).
Volendo rifarci alle fonti, Varrone nel De re rustica ci dà informazioni preziosissime a riguardo dei sistemi di misurazione romane: l’unità fondamentale era il giogo, che in Campania era definito “verso”, mentre presso i Romani e nel Lazio era chiamato “iugera”; 1 giogo (o iugera) era l’estensione di terreno che una coppia di buoi poteva arare in un giorno. Uno iugera corrispondeva a 2 actus quadrati: 1 actus era uguale a 120 piedi in lunghezza e larghezza; 2 iugeri formavano un heredium, un estensione di terra che si vuole sia stato per la prima volta distribuito da Romolo; 100 heredia costituivano una centuria, che era un’area di forma quadrata con lato di 2400 piedi. Le centurie erano disposte in modo che ce ne siano 2 per ogni lato, formando il saltus. L’affidamento ai coloni veniva definito tramite un sorteggio tra gli aventi diritto, e perciò il nome sors degli appezzamenti di terreno dati a questi.
Non sempre il decumanus maximus era orientato nella direzione Est-Ovest, ma poteva essere anche Nord-Sud: in questo caso si dirà che la centuriazione sarà rivolta verso Sud, quindi in Meridiem. Questo orientamento fu eseguito a Cosenza, dove si è riscontrata una centuriazione rettangolare di 200 iugera sulla sinistra del fiume Crati orientata, appunto, in Meridiem, ovvero verso Sud.
Le colonie avevano molteplici scopi: avamposto di difesa delle coste e di controllo interno del territorio, ma potevano essere un’eventuale testa di ponte per un futuro avanzamento nella conquista in un determinato scenario ostile, come anche semplice sfogo demografico di una popolazione in esubero. L’attività coloniaria fu, come ci dice Velleio Patercolo, particolarmente attiva a partire dal 383 a.C., diffondendo la colonizzazione nelle regioni limitrofe del Lazio, per poi arrestarsi nel periodo di tempo tra il 218 ed il 203 a.C., arco di tempo in cui Annibale restò in Italia; l’attività coloniale riprese, almeno in apparenza, nel 197 a.C., con la fondazione delle coloniae maritimae lungo l’Italia meridionale tirrenica, continuando poi negli anni del secondo tribunato di Gaio Gracco con le colonie di Scolacium Minervorum, Tarentium Neptunia e Cartagine, prima colonia extra-italica, consacrata a Giunone (Carthago Iunionia). Nell’età dei Gracchi, a differenza di quanto fossero stati negli anni precedenti, le colonie si distinsero per il ruolo economico e sociale che andavano rivestendo, ovvero si rivelarono un mezzo potente per risollevare le condizioni agricole nella penisola italiana, oltre che provvedere al bisogno delle masse di veterani.

Illustrazione che mostra l’utilizzo della groma per la centuriazione dei campi. Ricostruzione di G. Moscara.

 

Tiberio Gracco e la sua “vecchia” legge

Nel primo dei cinque libri delle Guerre Civili, il tredicesimo dei ventiquattro che compongono la Ῥωμαϊκά (Storia romana) di Appiano ci viene mostrata, sullo sfondo di una tensione via via crescendo tra alcuni personaggi, i più illuminati del tempo, e i rappresentanti della res publica, tanto gelosi del proprio potere quanto impauriti nel perderlo: questa situazione sfocerà in contrasti dapprima sul piano politico-legale ma successivamente in ripetuti massacri, conseguente poi ad una situazione terriera difficile, che schiacciava il civis romano, o l’Italico, proprietari di piccoli appezzamenti di terra, mentre ingrassava il patrimonio fondiario dei grandi possidenti terrieri. Da quello che apprendiamo dal testo di Appiano, la terra presa da Roma veniva, quando non assegnata per le deduzioni coloniali, venduta o affittata. I Romani erano soliti distinguere le terre conquistate, denominandole in maniera differente a seconda dell’utilizzatore finale: l’ager colonicus era dedicato alla fondazione di colonie; l’ager viritanus datus adsignatus, ovvero assegnazioni viritane (da viritim), date ai singoli cittadini; con ager compascuus scripturarius si denominava la parte comune di terreno lasciata al pascolo; infine l’ager occupatorius o arcifinalis, che era appannaggio esclusivo dei cittadini romani, pagando però un canone all’Erario. Sull’ager viritanus ci sarebbe da dire un altro aspetto molto importante, ovvero quello sociale. Queste assegnazioni sono fatte a favore dei poveri e dei veterani, e quindi con lo scopo di aiutare la plebe, oltre che di eliminare i latifondi frazionando i terreni. Le assegnazioni viritane erano sempre in minore quantità rispetto alle altre tipologie per l’ovvio motivo di non poter ricavare da queste terre del denaro da parte dello Stato: ma dai Gracchi in poi, questa tendenza cambiò, grazie alla formulazione di leggi agrarie e dalle entrate fiscali delle provincie.
In Appiano vi è citato ager publicus detto quaestorius: era detto così perché era il questore a decidere dell’alienazione di un determinato lotto di terra; la proprietas restava comunque alla res publica (che ufficialmente ne rimaneva il dominus), ma venivano garantiti a chi lo acquistava alcuni diritti, tra i quali l’ereditarietà e la possessio perpetua. Il terreno pubblico indicato per l’affitto era classificato come censorius, poiché erano i censori che tramite una sorta di gara d’appalto mettevano a disposizione la terra, che poteva produrre il più alto tasso di rendita; in cambio si chiedeva al cittadino possessore la corresponsione di un vectigal. La terra non assegnata era affidata – tramite un editto – a chiunque volesse coltivarla, dietro pagamento – anche qui – di un vectigal annuo che poteva essere un decimo, per quanto riguardava le seminagioni, e un quinto, per le colture arboree.

La fonte di Appiano, oltre a ciò, spiega che la terra incolta non fosse assegnata in questo modo per la mancanza di tempo, ma perché questi terreni non erano stimati abbastanza produttivi […]. Il dato riferito dallo storico alessandrino potrebbe restituire una notizia negativa, in quanto mostrerebbe la carenza di cives, cioè un’oligandrìa, volenterosi di lavorare nuove terre in cui non mancavano quelle popolazioni locali italiche cui venivano sottratte. Va inoltre ricordato che ai coloni romani era assegnato un terreno in ottime condizioni, con strutture preesistenti tali da poterlo rendere pronto allo sfruttamento.

Eugene Guillaume, Les Gracques. Gruppo scultoreo in bronzo, 1853. Ajaccio, Musée de Palais Fesch.

 

I ricchi imperversavano, prendendo per se la terra incolta che invece “spettava” agli italici, acquistando i terreni oppure offrendo dei canoni maggiori allo Stato: si rafforzava il ceto dei grandi possidenti terrieri a discapito dei piccoli proprietari, diventati capitecensi e quindi scesi in fondo all’ordinamento censitario. Si ricorse alle disposizioni di legge, limitando a 500 iugeri il terreno usufruibile per ogni cives romano, né di poter pascolare più di 100 capi di bestiame grosso o 500 di minuto. Ci si avvalse anche di un giuramento per vincolare tutti a rispettare le disposizioni dando, per un determinato arco di tempo, respiro ai ‘nuovi poveri’, che poterono restare sulle loro terre pagando l’affitto stabilito e coltivare il lotto assegnato loro fin dall’inizio.
In seguito, mancando forse un organo di controllo o perché coloro che erano preposti a farlo erano i maggiori detrattori della legge, tutto ritornò ad una situazione di caos, con i ricchi che spadroneggiavano sulle terre dello Stato e che, servendosi di prestanome compiacenti, si fecero intestare gli affitti di altre terre, per poi impossessarsene in maniera definitiva, lasciando così la penisola italiana piena sia di poveri non volenterosi di prestar servizio militare e di crescere figli, sia di schiavi impiegati nelle enormi estensioni di terra. Sullo sfondo di questo scenario scompaginato fece il suo ingresso Tiberio Sempronio Gracco che intendeva, grazie alla sua riforma, dare nuovo respiro alle masse di poveri cacciati con la forza dalle loro terre, e quindi nuova linfa al nerbo costituente della più grande ricchezza di Roma, il suo esercito. Egli era uomo nobile e ambiziosissimo, di grande potenza nel parlare, con un’oratoria che avrebbe potuto far apparire bella anche una causa meno nobile: fece una serie di discorsi, in cui ebbe parole di preoccupazione verso quella stirpe italica che tanto aveva dato a Roma, e che rischiava di esaurirsi a causa della povertà e della scarsezza demografica; inoltre inveì contro gli schiavi, inutili per la milizia e giammai fedeli ai padroni. Così il tribuno Tiberio Gracco propose di rinnovare la legge che vietava di occupare oltre 500 iugeri di ager publicus, con l’aggiunta di una clausola che consentiva, ai figli degli occupanti, di avere 250 iugeri a testa, per un totale di 1000 iugeri come possesso permanente e garantito: la terra che avanzava da questa riorganizzazione sarebbe stata riassegnata tra i poveri tramite l’istituzione di una commissione di tre uomini, un triumvirato agrario.
L’esubero di terra, quella occupata ed usufruita senza un pagamento di canone verso i detentori, sarebbe stata incamerata e successivamente suddivisa in lotti di 30 iugeri da distribuire parte ai cives romani, parte agli italici non come libera proprietà, ma come concessione ereditaria ed inalienabile. Il primo di questi triumvirati agrari fu composto da Tiberio Gracco, da suo fratello Gaio e dal suocero del primo Appio Claudio Pulcro: essi furono incaricati dell’incameramento e dell’assegnazione della terra in esubero, ma successivamente ebbero affidata l’importante e difficile mansione di indicare legalmente le terre demaniali e quelle di proprietà privata, compito che prima spettava solo ai censori, a consoli e pretori; Velleio Patercolo ci riporta inoltre la notizia che tale triumvirato fondava colonie. Plutarco nella Vita di Tiberio ci dice che il lavoro di Tiberio, e quindi della commissione triumvirale, poté procedere con calma poiché non vi furono opposizioni: si può intendere calma nell’accezione di un lavoro immenso, ossia la ricognizione di tutto l’ager publicus, e di conseguenza la demarcazione dei confini delle singole proprietà. Le assegnazioni non potevano essere fatte immediatamente dopo l’approvazione della legge: alcuni soggetti potevano dimostrarsi restii a cedere il surplus di terra, altri invece avere rimostranze a causa di assegnazione di terre non coltivabili. Si ritiene infatti che le assegnazioni siano state effettuate non prima del 131 a.C., e da questo deduciamo che la partecipazione di Tiberio Gracco sia stata solo all’inizio della parte preparatoria, ovvero non abbia partecipato all’attività triumvirale. Si aggiunga inoltre che tra il 132 ed il 131 a.C. si svilupperà un’intensa attività reazionaria anti-graccana. Come ultimo esempio del pensiero politico-economico di Tiberio Gracco, cioè la sua propensione alla questione della terra, riportiamo l’episodio del re Attalo III di Pergamo, morto nel 133 a.C., e del suo testamento, in cui nominava il popolo di Roma erede del suo regno. Tiberio Gracco propose una legge a favore del popolo, in base alla quale le ricchezze regali, trasportate a Roma, sarebbero state distribuite ai cittadini beneficiari della terra estratta a sorte, affinché potessero procurarsi gli attrezzi necessari alla coltivazione. Questo gesto, insieme allo schierarsi a favore della plebe rurale e alla deposizione illegale del tribuno Marco Ottavio lo portò ad inimicarsi il Senato: fu un punto di non ritorno per la politica e la vita del Gracco, che perì poco dopo insieme a 300 dei suoi, accusato di aver violato la santità del suo collega Ottavio. Tiberio Sempronio Gracco, che secondo Appiano fu ucciso per colpa del suo programma, ottimo ma attuato con la violenza, per Velleio Patercolo propose leggi che suscitarono in tutti intempestive cupidigie: egli sovvertì qualsiasi norma e trascinò lo Stato a rischi precipitosi e gravi anche se, a distanza di poche righe dice che si distinse come oratore insieme al fratello Gaio, dicendo inoltre che entrambi usarono malamente le loto ottime qualità.
Egli propose non nuove leggi, ma rinnovò semplicemente quelle che appartenevano ad un momento storico-politico in cui non sentiva il bisogno di proiettarsi verso la conquista mediterranea, ma di considerarsi pólis, con soldati-contadini auto-sufficienti che combattevano per la città, ma che ritornavano al momento della raccolta. Nel momento storico in cui Tiberio fece il suo lavoro, Roma si considera potenza mondiale, combatte e conquista fuori dai confini fisici della penisola italiana, comportando quindi lunghi periodi di permanenza lontano dalla fonte di ricchezza primaria, ovvero la terra.