181 a.C.-2019 d.C. Aquileia

di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.

 

Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.

 

Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.

L’area del Foro romano, Aquileia.

 

A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviri Publio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.

L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.

 

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).

Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia — l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.

Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).

 

Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.

Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia  gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.

 

Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.

 

Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.

Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.

Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).

 

I Marsi «apud finem Gallicum»

da A. La Regina, I sanniti, in AA.VV., Italia, omnium terrarum parens. La civiltà degli Enotri, Choni, Ausoni, Sanniti, Lucani, Brettii, Sicani, Siculi, Elimi, Milano 1989, pp. 399-401.

 

Alla guerra combattuta in Umbria e in Etruria negli anni 295 e 294 a.C. è da ricondurre il contenuto di un importante documento epigrafico proveniente dalla Marsica, dai pressi del grande santuario di Lucus Angitiae, ove esso era stato collocato in antico. Si tratta della dedica votiva di Caso Cantovios (CIL I2 5, vd. anche fasc. IV [1986], p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961) incisa su una sottile lamina bronzea. Dell’iscrizione, ora non più reperibile presso la collezione Torlonia, sono noti due apografi: uno del Barnabei, pubblicato in NSA (1877), tav. xiii, e l’altro di Jordan, ripreso in CIL I2. La documentazione raccolta dal Barnabei è conservata, e consiste in due apografi quasi uguali, dipinti ad acquerello, che riproducono l’oggetto a grandezza naturale, e tre fotografie, più piccole, di cui due della parte anteriore della lamina, e una della parte opposta su cui le lettere appaiono rovesciate e a rilievo. È inoltre conservato un appunto del Barnabei, scritto a matita, con annotazioni prese durante l’autopsia dell’oggetto, da cui trascrivo alcuni passi:

«L’altezza si può segnare con precisione essendo intatti i due lati superiore e inferiore… 0, 11. Vi è un buco a metà di ciascun lato. I due laterali sono intatti, l’inferiore e il superiore restano per metà. Superiormente ed inferiormente sono praticati nella lamina di bronzo tanti forellini con congegno assai adatto, sicché ogni forellino risultava di esatta rotondità senza lasciare smussature sulla faccia sottoposta. Non così è avvenuto pei fori grandi che sembrano fatti dopo la scrittura e con congegno ordinario, sicché essi presentano di sotto l’aspetto stesso di un foro di grattugia. È anche da notare che i forellini sono stati fatti dalla faccia stessa della scritta. Non saprei per altro affermare con certezza se ai due lati mancassero assolutamente i fori. L’ossido della lamina vi si diffonde egualmente, e farebbe supporre che non ve ne fossero, tuttavia sul lato sinistro di chi guarda al rigo 8 accanto al P è un foro fatto col sistema stesso dei forellini, ma un poco più grande, il quale potrebbe aver trovato simmetria in altri lati o nelle parti mancanti. Nel lato superiore si contano 53 forellini, altri aperti, altri chiusi dall’ossido, ed altri frammentati».

Il testo è scritto in latino e, benché da molto sia stato considerato più antico per la direzione della scrittura imperfettamente bustrofedica, esso deve essere datato agli inizi del III secolo a.C., come è stato già osservato dal Peruzzi sulla base dei segni alfabetici. Un altro elemento di datazione, finora non rilevato, ma ben evidente dalla descrizione del Barnabei, è costituito dalla lamina bronzea, in cui dobbiamo riconoscere senza alcun dubbio un frammento di cinturone, del tipo a fascia rettangolare molto alta, delimitata lungo i bordi da forellini fittamente accostati tra loro, che servivano per la cucitura sul supporto di cuoio, databile tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. (Papi 1988, pp. 152 ss.). Dalla descrizione del Bernabei si ricava che l’iscrizione è stata incisa sulla faccia interna del cinturone, poi fissata con quattro chiodi all’oggetto a cui si riferiva la dedica.

Nel suo complesso l’interpretazione del testo è ormai acquisita. Esso si riferisce a un oggetto che portarono, atolero, come dono votivo ad Angitia, Actia, a nome delle legioni marse i socii di Caso Cantouios Aprufclano, il quale si era impossessato dell’oggetto stesso, ceip(ed)= cepit, preda bellica, apur finem e/ṣalicom en ur/bid Casontoni/a/. Questa è la trascrizione comunemente accolta. Il Peruzzi, per primo, ha messo in dubbio la lettura e/ṣalicom, perché della s resta in effetti solo un breve tratto obliquo in alto, che non escluderebbe la possibilità di leggere e/talicom. Le operazioni di Caso Cantovios avrebbero avuto luogo, secondo il Peruzzi, in Lucania ove sarebbe da collocare il confine dell’Italia in quell’epoca. I Marsi avrebbero quindi partecipato, come alleati, alle imprese di Scipione Barbato. È però quanto mai improbabile che agli inizi del III secolo a.C. in ambiente latino si utilizzasse, per definire il confine italico, la nozione dell’Italia che avevano i Greci nel V secolo a.C.. Il testo può essere però interpretato diversamente, anche sulla base delle fotografie.

Dalla parola comunemente trascritta e/salicom la prima lettera si trova alla fine della terza riga ed è seguita da uno spazio non utilizzato per la scrittura. Per di più la riga seguente non mantiene la direzione bustrofedica, rispettata normalmente nel testo. La lettera e, infine, non appare ben marcata come le altre ma, nel disegno del Barnabei, risulta alquanto confusa e incompleta in basso; sulle tre fotografie essa non compare affatto ed è anzi possibile rilevare da esse che lo spazio dopo finem è occupato da una ribattitura eseguita proprio per cancellare una lettera. Questa operazione può per altro ben spiegare l’interruzione della progressione bustrofedica. Per cancellare un segno inciso su una lamina metallica così sottile è infatti necessario ribattere anche sulla superficie opposta. Se la lettera cancellata era effettivamente una e, di cui il Barnabei e Jordan hanno visto qualche traccia, l’incisore aveva omesso per errore la parola che doveva essere scritta dopo finem e aveva cominciato a scrivere la parola successiva en. Della lettera all’inizio della quarta riga resta solo l’estremità superiore obliqua, seguita da alicom. Essa non può essere una t, come ha pensato il Peruzzi, perché in tal caso il tratto superiore risulterebbe eccessivamente inclinato, e quindi anomalo rispetto a tutte le altre t che compaiono nella stessa iscrizione. D’altra parte la sua ricostruzione come s sembra essere stata suggerita più dal bordo della frattura che da altri elementi. Dalle fotografie risulta infatti che il tratto residuo della sommità della lettera è meno rettilineo di quanto compare sul disegno. Il suo andamento suggerisce piuttosto la ricostruzione di una c un po’ inclinata in avanti, come è incisa altre tre volte nella stessa iscrizione. Abbiamo dunque non e/salicom o e/talicom, bensì [[e]]/calicom = Gallicum.

 

Dedica votiva di Caso Cantovios, capo marso, alla dea Angitia. Bronzo, III sec. a.C. ca., dal Lucus Angitiae (Marsica); CIL I2, 4, p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961.

Il testo può essere dunque così trascritto:

 

Caso Cantouio/s Aprufclano cei/p(ed) apur finem [[e]]/

C̣alicom en ur/bid Casontoni//socieque dono/m

atolero Ac̣tia/pro l[ecio]nibus Mar/tses.

 

Nella prima parte dell’iscrizione si può riconoscere la formula di consueto adottata nelle dediche consolari, o comunque di comandanti militari, per oggetti predati nel corso delle operazioni belliche e portati in patria per essere deposti in santuari o in luoghi pubblici (CIL I2 608, 615, 622, specialmente 613: L. Quinctius L. f. Leucado cepit eidemque consol dedit). Caso Cantovios era dunque un comandante marso. Il suo cognome etnico ne rivela l’origine da una località con il nome sabellico di Aproficulum, si veda il pagus Ficulanus dei Vestini (CIL IX 3578) e il pagus Capriculanus a Nola (CIL X 1279), da ricercare certamente nel territorio dei Marsi. Egli doveva aver partecipato a operazioni militari che lo avevano condotto apud finem Gallicum alla testa delle sue legioni marse. Il bottino prelevato in urbe Casontonia dimostra che egli espugnò la città.

Questa non è identificata, e si è anche dubitato della forma esatta del nome, perché il segno usato per la s è irregolare (Peruzzi, p. 185 s.), ma la lettera è semplicemente mal scritta, vedi CIE 4203 casuntinial e 3688 casntinial, ambedue da Perugia. L’urbs Casontonia può essere riconosciuta in quello che poi sarà il municipium Casuentinorum, menzionato in un’iscrizione del 240 d.C. (CIL XI 4209, Terni), il cui etnico compare in Plinio, Nat. Hist. III 113 nella forma Casuentillani. Il nome sopravvive ancora oggi nel “Casentino”, la regione che si estende nell’alta valle dell’Arno, a nord di Arezzo, abitata in antico da popolazioni umbre (Nissen I 304; Beloch RG 573; Thomsen IR 116). L’etnico Casuentini presuppone il nome di città Casuentum (Casentium, nel Lib. Col. 255 L). In urbe Casuentina è dunque reso nel latino dialettale della Marsica en urbid Casontonia, ove la forma aggettivale è interpretata come sostantivo del tipo “Milonia”, “Aquilonia”, ecc.

Tutti questi elementi conducono facilmente alla individuazione del contesto storico in cui si inseriscono le vicende di Caso Cantovios. Nell’anno 295 a.C. fu inviato da Roma sul fronte settentrionale, ove dovevano essere affrontate le forze congiunte di Galli, Etruschi, Umbri e Sanniti, un esercito costituito non solo dalle quattro legioni romane e dalla cavalleria, ma anche da mille cavalieri campani e da altri contingenti formati da socii e da Latini, superiori in numero alle forze romane (Liv. X 26, 14). Dopo la battaglia di Sentino, la guerra continuò in Etruria contro Perusia e Clusium, nello stesso anno (Liv. X 30, 2; 31, 3), e contro Rusellae, Volsinii, Perusia e Arretium nell’anno seguente (Liv. X 37, 3-4).

Caso Cantovios, con le sue legioni marse, deve dunque aver partecipato a queste operazioni; prima a Sentinum, ove furono impiegate tutte le forze disponibili, e poi nell’anno successivo nei territori umbri ed etruschi al seguito di Q. Fabio, spingendosi fino a Casuentum. Come ha giustamente arguito il Peruzzi, Caso Cantovios deve essere morto in guerra, e le persone al suo seguito devono aver sciolto per lui, a nome delle sue legioni, il voto fatto ad Angitia, portando nel santuario l’oggetto su cui era affissa la lamina bronzea iscritta, ricavata dal cinturone di un’armatura italica, e forse dal cinturone dello stesso Caso Cantovios. Casuentum, sopravvissuta come municipio fino alla tarda antichità, si doveva trovare nell’area che nel Medioevo portava il nome di “Casentino”, più ristretta di quella che tuttora lo mantiene.

Testa di guerriero con elmo, da Pagliaroli di Cortino. Museo archeologico di Teramo.

Gli studi dello Schneider (1914, pp. 75; 94 = 1975, pp. 82, 100) hanno dimostrato che, finché durò l’istituzione dei comitati, nessuna località a sud del confine aretino, ossia a partire dalle pievi di Buiano, Bibbiena, Pàrtina e Sòcana, è mai stata definita in Casentino. Il municipium Casuentinorum occupava la parte estrema settentrionale della valle superiore dell’Arno, delimitata a nord dal Monte Falterona. Questo aveva costituito il confine naturale tra le popolazioni umbre insediate sul versante meridionale e i Galli che occupavano i territori pedemontani immediatamente a nord. Un sepolcreto gallico, datato tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. ne documenta infatti la presenza a Rocca San Casciano (Prati 1979, pp. 133-136). Il territorio dei Casuentini poteva dunque a buon diritto dirsi, agli inizi del III secolo a.C., «apud finem Gallicum».

I mutevoli confini della conoscenza

di A. LO MONACO, in AA.VV., I giorni di Roma. L’età della conquista, Ginevra-Milano 2010, 35-43 [link].

In poco più di ottant’anni il Senato di Roma si trovò in una situazione a dir poco singolare. Era il 229 a.C. quando i due consoli dell’anno, Cn. Fulvio Centumalo e L. Postumio Albino, furono inviati in Illiria a capo di un impressionante corpo militare (duecento vascelli, ventimila fanti e duemila cavalieri), incaricati della risoluzione di una questione spinosa, che venne poi festeggiata come un vero e proprio trionfo (ex Illurieis), sebbene non vi fossero state reali battaglie cruente e copioso spargimento di sangue, come prescritto dalla legge. Era questa la prima «traversata in armi» di Roma verso Est, come la definirà con tono solenne Polibio (II 2, 4). E già nel 146 a.C., a seguito della risoluzione del conflitto acheo con l’epocale vittoria di Lucio Mummio, Roma non aveva più alcun rivale, era ormai realmente l’unica vera potenza egemone.

Mappa con i popoli della futura provincia romana di Dalmazia.

Guerrieri illirici (III sec. a.C.) [link].
Il fenomeno della simultanea espansione romana su tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna alle coste dell’Asia Minore, è stato oggetto di una moltitudine di studi. Furono quelli decenni di repentini cambiamenti, destinati, com’è noto, a influire profondamente sulla stessa formazione di un’identità «romana», e sulla nascita di un gusto e di uno stile artistico che solo d’ora in avanti saranno compiutamente «romani». Eppure, anche negli studi recenti, pressoché inevitabilmente, l’accento cade su termini quali «imperialismo» (nell’ottica romana) o «filoellenismo» (nell’ottica greca).

Nelle pagine che seguono vorrei soffermarmi piuttosto su altri interrogativi, legati al cambiamento che in questi decenni si produsse sulla «conoscenza dell’altro»: i presupposti culturali, gli stereotipi pregressi, il confronto, e, infine, l’acquisizione di una reale conoscenza reciproca.

Quale Grecia?

Per prima cosa occorre interrogarsi su «quale Grecia» fosse quella cui si riferiva immediatamente la nozione stessa di «grecità» agli occhi dei Romani, a partire dai secoli precedenti alla conquista vera e propria.

I primi rapporti diretti sembrano correlare il Senato di Roma a due specifici centri della Grecia: Delfi e Atene.

Il locus religiosus per eccellenza è naturalmente Delfi: a più riprese ambascerie viaggiano alla volta del venerando santuario nella speranza che le parole dell’oracolo possano contribuire alla risoluzione di gravi crisi o al debellamento delle frequente pestilenze. La prassi, frequente in età repubblicana, è riferita addirittura da Cicerone all’età dei Tarquini in due passaggi del De re publica, nei quali egli insiste sulla decisiva influenza greca che si sarebbe avuta a Roma già ai tempi di Tarquinio Prisco e sull’invio di dona a Delfi da parte di Tarquinio il Superbo. La reale frequentazione dei Tarquini a Delfi è tuttavia argomento spinoso, unicamente basato sul ricordo, narrato a molti secoli di distanza da Dionigi di Alicarnasso (IV 69) e Livio (I 56, 4-13), della consultazione dell’oracolo da parte dei figli del re, Lucio e Arrunte, accompagnati da L. Giunio Bruto, figlio della sorella di Tarquinio. Qualche incertezza permane anche sulla storicità del ricorso all’oracolo di Delfi in occasione della conquista di Veio: prima dell’inizio della guerra, un’ambasceria sarebbe stata inviata a consultare la Pizia, mentre nelle fasi convulse dell’assedio, Furio Camillo avrebbe promesso all’Apollo delfico la decima del bottino, poi effettivamente inviata nelle forme di un cratere d’oro, scortato da tre ambasciatori (L. Valerio, L. Sergio e A. Manlio) (Livio, V 21, 2; V 28; Diodoro Siculo, 14, 93; Valerio Massimo, I 1, 4). In effetti, la base bronzea del cratere era conservata all’interno del Thesauròs dei Romani e dei Massalioti ancora nel II secolo d.C., stando almeno alla testimonianza di Appiano (Sulle cose italiche, 8). In ogni modo, sembra che relazioni precise tra Roma e Delfi siano soltanto episodiche prima del 216 a.C.: in quell’occasione, dopo l’inattesa sconfitta di Canne, è lo storico Q. Fabio Pittore a ricevere dal Senato l’incarico di interrogare la Pizia su quali preci e suppliche (quibus precibus suppliciisque) avessero potuto contribuire a risolvere la più grave crisi della storia di Roma (Livio, XXII 57, 4-5): al suo ritorno in città, sarà sua cura tradurre in latino il responso in esametri, e riferirne accuratamente in Senato. Con Fabio Pittore arriva dunque per la prima volta a Roma quello che Gagè definì acutamente un parfum delphique authentique: la corona d’alloro indossata a Delfi è deposta all’ingresso in città sull’altare di Apollo (Livio, XXIII 11, 4-6), mentre in città risuonano sia le parole stesse della Pizia, sia, per la prima volta, ordini da adempiere per sancire il ritorno alla normalità.

Testa di marmo da una statua di Tito Quinzio Flaminino. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Delfi.

In materia di competenza giuridica si ricorre invece ad Atene. Non si può trascurare al riguardo la notizia, riferita ancora da Livio (III 31), dell’invio ad Atene nel corso del V secolo a.C. dei consoli Sp. Postumio Albo, A. Manlio e P. Sulpicio Camerino, incaricati di copiare le leggi di Solone. La notizia permette di osservare una dicotomia che diverrà abituale nella mentalità dell’epoca: se a Delfi si fa ricorso in materia di religione, il sapere giuridico è esclusiva di Atene, ove le inclitae leggi di Solone a distanza di secoli vengono ancora lette, discusse e copiate. Nel passo di Livio i consoli romani sembrerebbero addirittura lavorare con moderno metodo comparativo: copiato Solone, essi muovono tra aliarum Graeciae civitates (quali non è dato sapere) al fine di conoscere i singoli ordinamenti giuridici.

In città, frattanto, si iniziava addirittura a «vedere» alla greca. Il primo caso, che segnò una vera rivoluzione di gusto nella Roma alto-repubblicana, fu quello della decorazione fittile del tempio della triade aventina (Cerere, Libero e Libera), dedicato secondo la tradizione nel 493 alle pendici del colle, affidata a due artisti greci laudatissimi, come dirà più tardi Plinio (Naturalis Historia, XXXV 154). Pochi anni dopo, nel 484, fu eretto al centro del Foro Romano un edificio sacro in onore dei due fratelli gemelli di ascendenza spartana, i Dioscuri (o i Castori per dirlo alla romana), quale segno di gratitudine per il prezioso aiuto da essi offerto in occasione della violentissima battaglia al Lago Regillo. Cinquant’anni più tardi, a seguito di una pestilenza, sarà la volta di un tempio all’Apollo Alexìkakos («Stornatore dei mali»), dedicato solo due anni dopo, nel 431, dal console Gneo Giulio (Livio, IV 29, 7). Si tratta ancora di dediche isolate, legate ad episodi singoli, non valutabili all’interno di un più generale impatto sull’urbanistica e sull’aspetto della città a quei tempi: sono però i primi casi in cui fanno la loro comparsa templi legati al culto di divinità greche, fino a quel momento «straniere».

Frattanto, almeno dal V secolo a.C., in Grecia s’iniziava a riflettere compiutamente su Roma, giungendo persino all’elaborazione dell’origine troiana della città come conseguenza ultima della fuga di Enea da Ilio in fiamme e del suo arrivo sulle coste italiche: pare che questa idea, destinata a un successo di enorme portata e già presente probabilmente nei versi di Stesicoro, fosse poi più compiutamente elaborata negli scritti di Ellanico e di Damaste di Sigeo. Il tema è molto complesso, e non si vuole in questa sede entrare nel merito del dibattito.

Nel corso del IV e del III secolo a.C. le riflessioni su Roma si moltiplicano: è un Eraclide forse allievo di Aristotele, a noi noto nelle citazioni di Plinio (III 31) e Plutarco (Vita di Camillo, 27), a ricordare a proposito delle vicende del sacco gallico una «città greca, chiamata Roma, sita lì da qualche parte, presso il mare»: nozione in verità ancora geograficamente confusa, che sembra focalizzare l’interesse, piuttosto che sulla precisione della localizzazione nello spazio, sulla comune matrice culturale. Continuano le riflessioni sulle origini mitiche di Roma (Callia, in Dionigi, I 72, 5), sui tristi avvenimenti relativi al sacco gallico della città (Teopompo, Aristotele, Eraclide), e, addirittura, sulla Rōmaikḗ archaiología (Ieronimo di Cardi). Sarà Timeo di Tauromenio, cui si deve la «scoperta di Roma» secondo una felice definizione di Momigliano, a esercitare una duratura influenza sull’élite romana e sugli stessi annalisti di età repubblicana: le sue opere, forse alla base del lavoro di Fabio Pittore, erano ancora lette da Cicerone (Ad Atticum, VI 1, 18) e da Varrone (De re rustica, II 5, 3).

A fronte di questa pluralità di riflessioni su Roma, bisogna sottolineare come nessuna fonte letteraria latina a noi nota nomini invece direttamente la Grecia in generale o alcune sue città prima della metà del III secolo a.C. Si deve certo considerare quanto la nostra visione sia distorta dal numero esiguo di opere a noi pervenute: eppure, risalta l’assenza di qualsiasi accenno diretto a località della Grecia nelle fabulae di Livio Andronico, pure di soggetto greco, nei ridottissimi frammenti degli Annales di Fabio Pittore o di Cincio Alimento, e nemmeno (ma qui probabilmente non è frutto del caso) nelle fabulae di Gneo Nevio.

Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.

Le prime testimonianze dirette sono contenute nelle fabulae di Plauto, in scena tra la seconda metà del III secolo e le due prime decadi del II secolo a.C. Poco importa in quest’ottica quanto i testi in questione siano una fedele traduzione delle commedie della Nea, o una versione più libera adattata alla cultura e alla mentalità romana: ciò che conta è che con le fabulae plautinae recitate in occasione dei ludi scaenici si inizi ad offrire alla folla di spettatori frammenti di una Grecia fino a quel momento ancora lontana e ideale. I riferimenti nei dialoghi delle fabulae sono così numerosi che si è addirittura parlato di una sorta di iper-ellenizzazione. Nella finzione della narrazione, i personaggi si muovono in uno spazio caratterizzato come greco: greci sono i nomi delle suppellettili potorie (kantharoi, kyathoi) e del mobilio, greche sono le città dove essi vivono e viaggiano, greci i loro stessi costumi di scena. Eppure è ancora una Grecia del tutto astratta: i luoghi citati non hanno mai una vera connotazione in senso geografico, utili ad ancorare le città al territorio, mentre appare sufficiente evocarne i nomi dal suono “straniero”: non è uno scenario descritto, ma semplicemente evocato alla memoria. Il procedimento è ben evidente in un passo del Mercator. Per ambientare un proprio viaggio immaginario, il protagonista Charinus finge di spostarsi da Cipro a Calcide, fino a giungere ad Atene, dove riesce infine a ritrovare la donna amata: le città sono nominate in una sequenza artificiosa, che chiaramente non è quella che avrebbe avuto un viaggio “reale”. Certo, a quest’operazione non dovette essere estranea la natura stessa dei testi, commedie che avevano bisogno solo di una cornice in cui svolgere l’azione, senza la necessità di dilungarsi in descrizioni particolareggiate. È stato osservato come si debba proprio a Plauto con ogni probabilità la coniazione di neologismi quali graecissare e, con note forse in senso peggiorativo, pergraecari e congraecari: termini che raggiungono il loro effetto comico solo a patto che il pubblico abbia giù un quadro di riferimento mentale che lo possa guidare intuitivamente alla comprensione di cosa comporti «fare il Greco». Nelle fabulae è naturalmente Atene, la nutrices Graeciae (Stico, 649), a essere capace di richiamare con il suo solo nome la “concezione” stessa di grecità (Rudens, 737). Essa è insomma «la più greca delle città greche», caratteristica che conserverà fino al tardo Impero (basti pensare alla definizione di Ateneo, che chiamava Atene «Mouseîon tēs Helládos» (Deipnosofisti, V 12, 7). E anzi, Plauto ci informa dell’esistenza della regola non scritta, quasi una consuetudine per gli autori, di piazzare la scena ad Atene, cosicché l’ambiente potesse sembrare “più greco” (Menecmi, prologo, 7). In tal senso si comprende l’intento, enunciato a chiare lettere dall’autore nel prologo del Truculentus, di «trasferire Atene a Roma, senza architetti». È forse utile richiamare che il luogo fisico in cui tali performances avevano luogo, in assenza di veri e propri teatri stabili, erano strutture effimere. Una commedia molto riuscita di Plauto, lo Pseudolus, fu messa in scena sul Palatino, dinanzi al tempio della Magna Mater, nel 191, in occasione della dedica dell’edificio sacro. Il pubblico, assiepato sulle gradinate del tempio e forse negli spazi laterali, non doveva essere però eterogeneo: in queste sue prime fasi, pare che il culto della dea, piuttosto “serrato”, fosse ancora prerogativa esclusiva della nobilitas senatoria. È certo curioso immaginare tali grecismi e richiami alla vita ateniese risuonare in cima al Palatino, in uno scenario che è stato di recente definito «l’Acropoli palatina», una delle aree più sacre dell’Urbe, ricco di memorie connesse alle stesse origini della città. Ogni anno, in occasione dei ludi scaenici previsti durante le feste in onore della dea, si svolgevano qui rappresentazioni teatrali (tra le quali numerose commedie di Terenzio), che consigliarono nel tempo la realizzazione di impianti scenici provvisori, verosimilmente su un margine della platea.

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Festoni con maschere, foglie e frutta. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Precisi riferimenti alla praeclara Atene si colgono anche nelle opere, pure molto diverse, di Ennio, Lucio Accio e Lucrezio. Se in Ennio il riferimento è puntuale ma troppo stringato per trarne considerazioni più generali, in Accio e in misura ancora più evidente in Lucrezio la città è ricordata in riferimento a un’aetas mitica. E anzi, Lucrezio sembra avere dinanzi agli occhi un’Atene “reale”, con l’Acropoli che svetta sul paesaggio urbano, e, visibile su di essa, il tempio di Atena e gli altari fumanti di offerte. Un riferimento reale a una Grecia conosciuta sembrerebbe adombrato nello stesso libro anche dal verso che narra dell’oracolo di Delfi. Nec res ulla magis quam Phoebi Delphica laurus terribili sonitu flamma crepitante crematur (6, 153): visione potente e completa, che non abbisogna, come nel caso ateniese, di precise notazioni descrittive. L’evocazione suggestiva di suono e fiamme è di per sé sufficiente a ricreare nella mente, per astratto il paesaggio delfico. In effetti il santuario di Delfi, pure oggetto di una frequentazione ormai da lunga data, non è mai descritto nelle fonti latine del periodo con reali notazioni in senso paesistico o accenni topografici: al più, si fa riferimento alla caratterizzazione delfica del dio, ma nulla di più. Analogo discorso per il santuario di Olimpia, presente solo in verso di Ennio con stringato riferimento a una vittoria negli agoni (citato in Cicerone, De senectute, 14). Qualche dettaglio maggiore si ottiene nel caso della città di Cnosso, che si dice (dicitur) di fondazione attribuibile alla stessa Vesta (citato in Lattanzio, Institutiones divinae, I 11, 45-46): lì, il sepolcro di Zeus è reso riconoscibile per mezzo dell’apposizione di un’iscrizione in un font greco ormai in disuso (antiquis litteris Graecis), che lo stesso Ennio si premura di tradurre in latino (ZAN KPONOI id est Latine Ippiter Saturni). In questo caso la descrizione sembrerebbe derivare da una conoscenza “reale” del monumento, anche considerato lo scarto nella modalità narrativa tra il dicitur della frase precedente e dell’uso verbale (est… est inscriptum) in questa.

Più in generale, la Grecia ricordata nelle opere di questi secoli è una Grecia ammantata dalla clara fama del suo passato o di alcuni avvenimenti esemplari: basi pensare al richiamo a Leonida pronunciato da Catone (citato in Aulo Gellio, Noctes Atticae, III 7, 19) , o alla Grecia ideale ricordata in un’orazione di Gaio Gracco (Orationes, 44, 17). Gli altri scritti sono purtroppo troppo frammentari per poterne trarre conclusioni di carattere generale: la voce Graecia ricorre solo nelle tragedie di Lucio Accio (Tragedie, 464, 560) e in locuzione aggettivale nelle Satire di Lucilio (9, 335; 27, 709; 29, 915), in cui si tenta di ottenere un effetto comico mediante l’impiego di suoni che dovevano risultare al pubblico sgraziati e “stranieri”.

La lingua dell’altro.

La traduzione di Livio Andronico dell’Odissea di Omero, intorno alla metà del III secolo a.C., fu una vera e propria rivoluzione culturale. Non si trattava di una mera trasposizione lessicale (tanto che non vi compaiono mai prestiti linguistici), quanto di una traduzione “artistica”: risultarono determinanti la scelta della resa degli eleganti esametri omerici in saturni, il metro dell’antica poesia oracolare latina, e una certa predilezione per l’utilizzo di espedienti retorici al fine di accentuare il páthos del modello originario. Il lavoro di Livio divenne così un vero e proprio libro di testo, utilizzato per più generazioni, e ancora letto da Cicerone e Orazio. È curioso ricordare come, alle orecchie di Cicerone, raffinato grecista, la traduzione di Livio avesse ormai l’aspetto, vetusto e un po’ rigido c’è da pensare, degli xóana dedalici (Brutus, 18, 17).

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

La conoscenza del greco doveva essere a Roma a quel tempo già di lunga durata, forse diffusa anche grazie all’elevato numero di schiavi provenienti dalla Magna Grecia. Nel 282, a ridosso dell’arrivo di Pirro in Italia, Postumio Megello era stato oggetto dei sarcasmi dei Tarantini per il suo modo, considerato “barbaro”, di rivolgersi in greco alla folla riunita a teatro per ascoltarlo: notazione che riflette, in ogni modo, come il console non solo fosse già in grado di esprimersi in quella lingua, ma che scegliesse intenzionalmente di farlo (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5,1; Appiano, Sanniti, VII 2). In questi decenni nell’Urbe si poteva leggere, scrivere, far di conto, imparare il greco, la giurisprudenza e la politica (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5). Pare che la prima scuola pubblica, un grammatodidaskaleîon, sia stato aperto a Roma nel 235, e che vi abbia insegnato il liberto Spurio Carvilio (Plutarco, Quaestiones Romanae, 59); sappiamo inoltre che Livio ed Ennio (entrambi peraltro semi-graeci come li definì Svetonio) si dedicarono all’insegnamento anche del greco sia in privato sia in pubblico, in una scuola sull’Aventino, il collegium scribarium histrionumque annesso al tempio di Minerva (Svetonio, Grammatici retoresque, 1). Si leggevano in greco, ed erano evidentemente comprensibili, i titoli di alcune opere di Livio Andronico (Aiax mastigophorus), Nevio (Akontizomenos, Agrypnuntes, Astiologa, Colax) ed Ennio (Hedyphagetica). Non solo: gli intrecci di molte di queste tragedie sono legate ai miti del ciclo troiano (Achille, Aiace, Andromeda) con il quale il pubblico iniziava a familiarizzare.

Ma non è tutto. Gli incerti eventi del III secolo a.C. avevano consigliato l’introduzione, in città, di riti secondo il costume greco (Graeci riti): i ludi tarentini in onore di Dis Pater e Proserpina nel 249 (con un inno composto da Livio Andronico e cantato da un coro di ventisette fanciulle); i ludi apollinares nel 212, e un secondo inno, composto da un ormai anziano Livio Andronico nel 207 in onore di Giunone Regina. Talora, un cerimoniale “alla greca” fu prescritto entro le maglie di culti antichi: lo dimostra, in modo eclatante, il caso del culto di Cerere sull’Aventino, che vide l’introduzione di due sacerdotesse pubbliche di origine greca (o, per meglio dire magno-greca, considerata la loro provenienza da Velia e Napoli). Sappiamo molto poco di come questi riti dovessero essere integrati all’interno della religione romana e cosa essi comportassero nella realtà delle cose: in talune occasioni festive, certi settori della città, chiusi al normale traffico cittadino, potevano forse risuonare di processioni, danze o gare “alla maniera greca”. In ogni modo i vari rituali finirono ben presto con l’essere integrati e con il costituire, mescolati alla tradizione, un’unità inscindibile sentita come autenticamente “romana”.

Frattanto, si scrivevano in greco le prime storie di Roma: le Storie di Fabio Pittore, di Cincio Alimento, di Acilio Glabrione, di Postumio Albino. In una curiosa premessa, quest’ultimo giungerà persino a scusarsi della sua non perfetta padronanza della lingua greca, ammissione che scatenò la pungente ironia di Catone (Polibio, 39, 1; Plutarco, Vita di Catone, 12, 6). Nel tempo il greco divenne parte integrante della formazione scolastica dei fanciulli: Quintiliano (Institutio oratoria, I 1, 12) e Tacito (Annales, 29, 1) ci informano come ai loro tempi (e certo anche prima) fosse addirittura invalsa la consuetudine di far precedere l’apprendimento del greco rispetto al latino nell’età prescolare.

T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.

Ma il greco non era una lingua esclusivamente “letteraria”. Pare che negli uffici della questura fosse possibile far eseguire per conto del Senato tradizione di documenti ufficiali contenenti decisioni sulla Grecia. dovevano essere redatti in greco, ad esempio, scritti destinati alla comunicazione con i sovrani ellenistici: sembrerebbe questo il caso della lettera, scritta da Roma e indirizzata a un Seleuco intorno alla metà del III secolo a.C., con la quale si prometteva al re l’amicizia e l’alleanza del Senato, in cambio dell’immunità fiscale a vantaggio degli Iliei. Risalgono a questi anni accesi dibattiti che animavano la vita culturale cittadina sulla modalità delle più corrette traduzione dal greco al latino, e le prime tradizioni dei titoli delle cariche ufficiali, che portarono all’equiparazione di anthýpatos e proconsul, presbeutḕs e legatus, tamías e quaestor. Va infine ricordato come il primo “ambulatorio” medico, installato in una taberna acquistata con fondi pubblici presso il compitum Acilii (Plinio, XXIX 12), fosse stato aperto nel 219 a.C.: competenza che richiese, verosimilmente, l’impiego di personale specializzato, ovviamente di lingua greca.

La conoscenza del greco era dunque abbastanza radicata nella Roma del III secolo a.C. Come notò acutamente Momigliano, essa divenne ben presto un impareggiabile strumento di dominio: «Né Polibio né Posidonio si resero conto di quale superiorità i leader romani avevano acquisito grazie al semplice fatto di saper parlare e pensare in greco, mentre quelli greci avevano bisogno di interpreti per capire il latino». Alcuni dei consoli inviati a Taranto o in Grecia erano in effetti già in grado di sfoggiare un’ottima conoscenza del greco: Flaminino (Plutarco, Vita di Flaminino, 6), Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei Gracchi (Cicerone, Brutus, 20, 79), Lutazio Catulo (Cicerone, De oratore, II 7, 28), o P. Licinio Crasso Dives, console nel 131 a.C., capace di rispondere in cinque diversi dialetti greci ai supplici che si erano rivolti a lui (Valerio Massimo, VIII 7, 6; Quintiliano, XI 2, 50). La loro fu, comunque, sempre una scelta “politica” e consapevole. Emilio Paolo, capace di passare senza problemi da una lingua all’altra (Livio, XLV 8, 8; XXIX 3), si rivolge in greco a un Perseo prigioniero e sconfitto, ma ricorre al latino (e ai servizi di tradizione del suo pretore Gneo Ottavio) nel comunicare, da vincitore, le decisioni del Senato alla folla riunita ad Anfipoli. Che si trattasse di scelte intenzionali è chiaro dall’episodio di Catone, intento ad Atene a parlare in latino (!) a una folla riunita per l’occasione, nonostante egli fosse perfettamente in grado di esprimersi in greco (Plutarco, Vita di Catone, 12, 5).

Busto di Carneade. Marmo, I secolo d.C. Museo dei Marmi di Firenze.

È di un qualche interesse sottolineare come, per parte loro, i Greci non abbiano mai utilizzato la lingua latina. Per l’intero corso dell’età repubblicana non è dato il caso di nessun greco incaricato di una missione diplomatica capace di esprimersi fluentemente in latino. Gli ambasciatori greci inviati al Senato ricorsero di norma ai servizi di traduttori. È forse il caso di Cinea, ambasciatore di Pirro nel 280 a.C. (Plutarco, Vita di Pirro, 18); lo è con certezza in quello dei tre filosofi del 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao, i cui interventi furono tradotti in latino per merito del senatore Gaio Acilio, versato nella conoscenza della lingua straniera, tanto da scrivere, in greco, una storia di Roma che doveva giungere al 184 a.C. (Aulo Gellio, Noctes Atticae, VI 14, 9; Macrobio, Saturnalia, I 5, 16). Per una concessione forse di Silla, sarà solo Molone di Rodi, maestro di Cicerone e di Cesare, il primo straniero ad avere il permesso di poter parlare in Senato senza avvalersi dell’uso di interpreti (Valerio Massimo, II 2, 3): ma i tempi erano ormai mutati, e la conoscenza della lingua greca a Roma doveva essere sentita ormai come basilare nella formazione letteraria della nobilitas senatoria.

In Grecia invece persino gli spazi pubblici, le agoraí, i santuari continuavano a essere affollati da donari le cui dediche rimanevano, senza eccezioni, in greco. Le rare dediche bilingui sono esclusivamente opera di consoli romani, che indirizzano agli dèi locali le loro dediche in latino, premurandosi di fornire in greco appropriate traduzioni. A Olimpia, la prima iscrizione in latino sarà opera soltanto di Agrippa, che fece ricorso alla “sua” lingua (forse addirittura non leggibile per i Greci dell’epoca!) per commemorare, in lettere bronzee dorate, i propri interventi di restauro nel pronao del tempio di Zeus.

Che la scelta e la gestione della lingua siano stati nel corso della conquista del Mediterraneo autentici strumenti di dominio lo dimostrano le riflessioni di Valerio Massimo (II 2), ormai agli inizi dell’età imperiale: «I Romani forzarono i Greci a parlare con loro mediante l’ausilio di un interprete, non solo nella nostra città, ma persino in Grecia e in Asia, cosicché il rispetto e la reverenza verso la lingua latina si diffusero attraverso i vari popoli».

La percezione dell’altro.

La reale conoscenza degli altri è talvolta anticipata, a livello di coscienza collettiva, dalla creazione di stereotipi o di astratti valori generici di riferimento.

Dal punto di vista dei Greci, i Romani furono inseriti, già intorno alla metà del IV secolo a.C., all’interno della categoria dei «barbari», classificazione che aveva origine in una visione binaria del mondo che risaliva già a Tucidide e che riuniva entro tale concetto ogni popolazione che non fosse di lingua o cultura ellenica: era un mondo di «altre genti» opposte agli Elleni. Non era una distinzione in chiave etnica, quanto legata a differenze “culturali” e a un lessico che alle orecchie dei Greci doveva risultare come il prodotto di suoni incomprensibili (bar-bar). Probabilmente Aristotele, nei suoi nómima barbariká, parlava già di Roma come di una città «barbara».

Filippo V. Didramma, Anfipoli 180 a.C. Ar. 8,46 gr. Dritto: Testa diademata verso destra.

Il ricorso a questo concetto, che diventerà un vero e proprio artificio retorico, è frequente nella gestione politica di conflitti e alleanze: è esemplare il caso dell’acarnano Licisco, che ricorre al concetto di «barbarie» opposto alla comune matrice «ellenica» nel tentativo di impedire l’alleanza di Sparta con l’Etolia (e quindi con Roma) nel corso del conflitto del 210 con Filippo V (Polibio, IX 37, 7-39; 44) e ancora, forse nel corso del medesimo scontro, l’analogo discorso pronunciato dal rodio Trasicrate (Polibio, XI 4-5), nel quale viene riservato ai pur antichi “soci in affari” l’epiteto di bárbaroi. A esso possono essere affiancati i termini, di nuova coniazione e piuttosto significativi, di allóphyloi («gente con un altro modo di sentire») o allogenḕs («gente nata altrove»): tra i numerosi casi, si segnala quello del concilio panetolico di Naupatto (primavera del 199), in cui sono gli ambasciatori di Filippo (Livio, XXXI 29) ad avvertire come siano un pericolo «quegli stranieri, separati da noi più che per la lingua, gli usi e le leggi, che non da distanza di mare o di terra». Il cliché della barbarie e dell’ignoranza dei Romani sarà molto difficile da sradicare, tanto che, ormai in età augustea, Dionigi di Alicarnasso a premessa della sua opera storica scriverà: «Tutti i Greci [dei suoi tempi] ignorano la storia di Roma, e immaginano che i primi abitanti di Roma fossero errabondi, barbari, e non uomini liberi».

Si tratta certo di giudizi sempre manipolati in chiave politica. prova ne sia il fatto che, già nel 200 a.C. nel corso della II Guerra macedonica, lamentando le pesante devastazioni cui Filippo V aveva sottoposto il territorio dell’Attica, Atene invoca i Romani come «secondi agli dèi» (Livio, XXXI 30, 4). E, pochi anni dopo, l’entusiasmo suscitato dall’atteggiamento di Flaminino, vincitore su Filippo V a nome dei Greci, porterà ad accostare al suo nome l’epiteto di sōtḗr («salvatore») e addirittura alla creazione di festival legati al suo nome: a partire da questa fase il ritornello della “barbarie” sembra perdere di smalto, a deciso vantaggio di un atteggiamento più ossequioso, che diviene ancora più smaccato subito dopo la vittoria di Emilio Paolo su Perseo e lo smembramento della Macedonia in quattro “distretti” non autonomi. L’assetto geopolitico è ormai mutato, e i Romani sono con ogni evidenza l’unica potenza egemone del Mediterraneo: abbandonata ogni remora, essi stessi sembrano in questa fase più inclini ad atteggiamenti arroganti e spavaldi, allontanandosi dal delicato sistema di equilibri cui si erano attenuti sinora (valga, tra tutti, l’episodio del “cerchio” di Popilio Lenate ad Antioco IV, su cui cfr. Polibio XXIX 27, e Livio, XLIV 19; XLV 12).

Pavel Glodek, Battaglia di Cinoscefale.

Parallelamente anche l’atteggiamento dei Greci subisce una virata: istruttiva al riguardo la visita di Prusia II di Bitinia a Roma, il quale, col capo rasato e abbigliato come un liberto, fermo sulla porta della Curia si sarebbe rivolto ai senatori riuniti all’interno invocandoli «dèi salvatori». È evidente come un simile atteggiamento di smaccata sottomissione suonasse eccessivo agli occhi di un Greco: e infatti Polibio descrive la visita del re con una nota di biasimo malcelato, in chiave quasi caricaturale (Polibio, XXX 18, 1-4). Può essere utile, a contrasto, confrontare la versione dello stesso avvenimento fornita da Livio, decisamente più sobrio (XLV 44, 4-20).

È un dato di fatto che la pressoché integrale scomparsa delle fonti di parte greca ci privi della possibilità di comprendere quali fossero gli elementi dello Stato o della società romana percepiti come “strani” o “sgraziati” agli occhi dei Greci. Riusciamo a recuperare appena qualche isolato frammento.

«Il Senato gli era apparso come un’assemblea di molti re»: con queste parole Plutarco racconta le impressioni del tessalo Cinea, ambasciatore nel 280 a.C. di Pirro, inviato al Senato per trattare la pace e il rilascio dei prigionieri (Plutarco, Vita di Pirro, 19, 6). Era costui un abile oratore, allievo di Demostene, di ottima memoria. E la sua in verità non dovette essere un’impressione superficiale, legata semplicemente alla sensazione di trovarsi al cospetto di una moltitudine di senes, abbigliati nelle candide toghe e riuniti in assemblea plenaria, anche se l’effetto scenografico della seduta dovette certo avere la sua parte. Pare piuttosto di essere alle prese con il resoconto di un’analisi attenta sulla qualità della forma di governo dei Romani, lucidamente esaminata, e sentita come “contrastante” rispetto alla forma di governo monarchico, incentrata sulla figura del basileús unico al quale erano demandati tutti i poteri (affari interni, affari esteri), al più affiancato da una commissione di consiglieri.

Pirro dell’Epiro. Busto, marmo, da un originale del 290 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Si tratta evidentemente dello stesso atteggiamento di curiosità “scientifica” che, qualche tempo più in là, si legge nell’elogium di Roma contenuto in 1 Maccabei. Siamo nel 161 a.C., nelle fasi centrali della rivolta giudaica contro il re di Siria Antioco IV. L’aiuto di Roma viene invocato da Giuda Maccabeo con una lettera che è a tutti gli effetti una valutazione del sistema di governo romano, considerato superiore a quello degli Stati ellenistici: «Nessuno fra loro ha assunto il potere regio, con i simboli del diadema e della porpora per dominare. Esiste invece presso di loro un’assemblea di trecentoventi membri che si riunisce ogni giorno per deliberare nell’interesse del popolo e per mantenere l’ordine nello Stato. Essi conferiscono ogni anno il potere del comando su tutto il loro territorio a un solo personaggio al quale tutti obbediscono senza invidia e gelosia». Il complesso apparato cerimoniale e il fasto delle corti ellenistiche dovette fungere da vivido contrasto agli occhi degli ambasciatori orientali ammessi dinanzi ai senatori: e tuttavia, subito dopo la lode per il rifiuto di diadema e porpora (tipico dei re), anche in questo caso l’attenzione si sposta su aspetti più legati all’analisi costituzionale, sebbene con qualche imprecisione.

Basti ricordare, a contrasto, come l’accusa di ricercare regnum in Senatu, rivolta agli inizi del secolo (ma già dopo i successi contro Antioco III) a Scipione Africano e al fratello, avesse stigmatizzato il tentativo di ricercare una qualsiasi posizione di preminenza all’interno della compagine del sistema, non tollerabile e perciò sprezzantemente qualificata.

Qualche decennio più in là, la riflessione sugli ordinamenti e sulla costituzione romana occuperà un intero libro (il sesto) delle Storie scritte a Roma da uno storico greco, Polibio. E anche in questo caso, non mancano pagine di comparazione tra le forme di governo greche e quelle dei Romani, ormai signori del Nuovo Mondo: sono esaminati potere monarchico e forme dell’ordinamento costituzionale, con la proibizione dell’accentramento del potere nelle mani di un singolo e l’esaltazione dei pregi della divisione di poteri nella gestione collettiva della cosa pubblica (consoli, Senato e plebe).

Antioco IV. Tetradramma, Akko-Ptolemais 175-164 a.C. Ar. 17,0 gr. D – Testa diademata di Antioco verso destra.

Agli occhi dei Greci di quei tempi, tuttavia, la coralità della gestione collettiva dello Stato romano doveva risultare ancora non del tutto comprensibile: «Se per caso uno soggiorna a Roma quando il console non è presente, il regime politico gli appare senz’altro aristocratico. È per questo che molti Greci, anche dei re, finiscono per convincersi che quasi tutti gli affari sono di competenza del Senato» (Polibio, VI 13, 8-9).

Ma gli aspetti legati alle istituzioni politiche non erano i soli capaci di suscitare la curiosità e animare il dibattito.

Nella quarta decade di Livio è il racconto della rivalità tra i due figli di Filippo V (Livio, XL 5): Perseo, convinto assertore della possibilità di una qualche forma di indipendenza del regno macedone da Roma, e Demetrio, che, ostaggio per qualche anno nell’Urbe dopo la sconfitta di Cinoscefale, era adesso fautore di una linea politica più vicina ai Romani. Nel tentativo di indurre Filippo V a uno scontro con Roma e di rendere Demetrio inviso al padre, i cortigiani intavolarono allora una discussione su Roma, schernendone gli usi, le istituzioni, le imprese, persino alcuni dei più illustri cittadini. Poi, e qui si entra nel vivo della questione, essi giunsero a schernire l’aspetto della città, ai loro occhi “rea” di non essere ancora adorna di edifici pubblici e privati ([…] speciem ipsius urbis nondum exornatae neque publici neque privatis locis). La scena è ambientata nel 182 a.C., la pace di Apamea ha da qualche anno segnato la fine dei conflitti con Antioco III e sancito l’estensione del dominio di Roma al Mediterraneo orientale. Che senso ha dunque il biasimo agli occhi di un Greco di una città che si appresta a divenire la capitale del Mediterraneo? Bisogna considerare, ed è stato ripetuto molte volte, come in quegli anni Roma fosse ancora una città di legno e terracotta: il primo edificio templare in marmo, opera dell’architetto Ermodoro di Salamina, sarà dedicato solo dopo il 146 a.C. La moda dell’uso del marmo, anche policromo, nella costruzione degli edifici o nel loro arredo scultoreo sembra esplodere come conseguenza dell’espansione romana nel Mediterraneo proprio intorno alla metà del II secolo a.C.: arrivano allora a Roma gli splendidi marmi africani (giallo antico dalla Numidia, o porfido e basalto dall’Egitto), i rinomati marmi bianchi dalla Grecia (pentelico, imezio, pario, nassio, tasio), il pavonazzetto dalla Frigia. È impossibile dunque che all’inizio del secolo l’aspetto della città, a confronto con quello delle altre grandi capitali, fosse percepito ancora come misero.

Ma non dovette essere unicamente questione di materiali da costruzione. Sebbene aduse all’impiego del marmo ormai da secoli, alcune città greche in questa fase non dovevano infatti essere splendide né risplendenti ai dettami della moderna architettura ellenistica, almeno non come noi siamo indotti a ritenere. Il periegeta Eraclide critico, autore nel III secolo a.C. di un trattatello Sulle città dell’Ellade a noi pervenuto in frammenti, così descrive l’Atene dei suoi tempi: «[…] a causa della sua antichità, è mal distribuita in strade e quartieri; le strade sono strette e tortuose; la maggior parte delle case è a buon mercato, ma poche sono comode. Se uno straniero visitasse solo queste, ben difficilmente crederebbe che si tratti della famosa città degli Ateniesi» (FrGrHist. II, 264). Dunque, anche ad Atene nessuna regolare e ordinata pianificazione urbanistica, ma isolati e quartieri che si sovrappongono l’un l’altro tanto da suscitare una sorta di sgomento all’idea di trovarsi dinanzi alla “famosa” città di Pericle, di Platone e dei tragediografi. Neanche in questo caso la città ideale sembra riflettersi nella realtà dello spazio urbano a disposizione. Ma ecco che, imbattendosi negli edifici pubblici, lo straniero in visita ha modo di ricredersi: sono enumerati, in rapida sequenza, «un teatro degno di essere menzionato, grande e ammirevole, un magnifico santuario di Atena, visibile da lontano con il suo tempio […] che fa una grande impressione su chi lo contempli. Tre ginnasi: l’Accademia, il Liceo e il Cinosarge, tutti piantati ad alberi e con prati». Dunque, non è questione di “gusto”, né di assetto urbanistico, quanto dell’individuazione di alcuni elementi sentiti come imprescindibili nel delineare la fisionomia greca di una città: teatro, santuario, ginnasi. In tale prospettiva, sono perfettamente comprensibili le parole di scherno dei cortigiani di Filippo. Nella Roma degli inizi del II secolo a.C. non vi era infatti ancora alcuno di questi edifici: non un teatro né un ginnasio, gli stessi templi avevano ancora enormi tetti in terracotta, né vi era alcun edificio nel quale potere passeggiare al riparo dal sole o ammirare qualche bella opera d’arte, come tra i portici di un’agorà di qualsiasi cittadina greca.

Angus Mcbride, Antioco IV e Popilio Lenate.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Il dibattito sugli ornamenta urbis è a Roma di grande attualità nella seconda metà del I secolo a.C., fase in cui, ormai archiviata la questione della supremazia romana nel bacino del Mediterraneo, si discute di quanto fosse cambiata la città a seguito di quelle conquiste. I due termini ricorrono infatti nelle opere di Cicerone sempre in riferimento allo spoglio di città sconfitte da parte dei generali vincitori, il cui prezioso bottino giungerà di lì a poco nell’Urbe, trasformandone l’aspetto per sempre: Marcello a Siracusa (In Verrem, II 4, 121, 6), L. Calpurnio Pisone a Bisanzio (De provinciis consolaribus, IV 7), Emilio Lepido (Filippiche, XIII 4, 8). Di lì a breve, tale background porterà alle considerazioni di Strabone (un Greco!), sulla noncuranza dei “vecchi” Romani per la bellezza della città, cura alla quale, a suo giudizio, i Romani dei suoi tempi si dedicarono con grande dispendio di mezzi, riempiendo la città di molte e belle opere (Strabone, V 3, 7). È la stessa linea del famoso manifesto di Augusto, che si gloriava di aver «trovato una città di mattoni e averne lasciata una di marmo». Non si può del tutto escludere, dunque, che la ricostruzione di Livio e gli argomenti da lui attribuiti ai cortigiani di Filippo abbiano risentito in qualche misura di questo dibattito sulla trasformazione e l’abbellimento della città, di grande attualità ai suoi tempi.

Per parte romana, è di un qualche interesse rilevare come la visione del mondo non sia mai stata binaria (Romani/resto del mondo), e che anzi gli stereotipi coniati in “favore” di Greci e della Grecia siano molto più numerosi e dettagliati rispetto a quanto non sia avvenuto per gli altri paesi di recente conquista. Se per gli Africani è sufficiente ricordare la vanitas, per gli Iberi la feritas, per i Germani la fluxa fides o per i Parti la perfidia, per i Numidi una stupefacente attitudine al sesso (in venerem incredibile effusi), per i Greci ci si sbizzarrisce, con l’invenzione di nozioni come levitas, arrogantia, ineptia, volubilitas linguae e molti altri ancora, il cui ambito semantico è in genere connesso con una loro maggiore dimestichezza nell’uso linguistico, parallela a una minore attitudine sul versante pragmatico o militare. Eppure, tali concetti, che ricorrono con una certa frequenza negli scritti di Sallustio, Cicerone, Livio, Orazio e Ovidio, sembrerebbero attestati solo a partire dalla metà del I secolo a.C.: non riflettono dunque una fase di esplorazione e primi contatti, ma un orizzonte in cui la Grecia si conosce ed è stata ormai ben integrata […].

Brixia. Storia della città romana

di A. VALVO, Santa Giulia, Museo della città. L’età romana. La città – le iscrizioni, Milano 1998, pp. 11-14.

 

Tito Livio menziona Brescia e Verona come i principali insediamenti della popolazione dei Cenomàni, di origine celtica; Plinio il Vecchio aggiunge alle prime due anche Cremona; per il geografo Tolomeo il dominio dei Cenomàni si estendeva fino a Bergamo, Mantova e Trento. Il nome di Brescia (lat. Brixia) deriva da *brig-(e)s-ia (dalla radice, probabilmente ligure, bric-, «montagna tagliata a picco»). Altri nomi di centri della Gallia Cisalpina hanno la stessa etimologia: ad esempio, Brixellum (Brescello). Brescia è nota alle fonti letterarie, a partire dal I secolo a.C., come caput Cenomanorum («capitale dei Cenomàni»), sorta nelle vicinanze del fiume Mella; per Catullo essa è la «città madre» di Verona. È molto probabile che l’insediamento cenomàno fosse situato in posizione elevata (sul colle Cidneo) ma non si può escludere che si estendesse anche nel piano, come lasciano immaginare materiali di scavo di età preromana rinvenuti nell’area del foro, allora forse adibita a mercato. Prima che i Bresciani ricevessero, nell’89 a.C., il diritto latino e lo statuto di colonia, venendo così assimilati alle popolazioni latine e instaurando rapporti privilegiati con Roma (come si dirà più avanti), la storia di Brescia coincide sostanzialmente con la storia dei Cenomàni. Successivamente, la rapida e intensa romanizzazione della Cisalpina favorì la completa integrazione delle popolazioni di origine celtica e dei tanti immigrati di origine romana e italica che si erano insediati sul territorio padano. L’appartenenza originaria alla stirpe celtica rimase ancora evidente nell’onomastica degli indigeni e nei culti religiosi, sebbene le divinità celtiche subissero anch’esse un processo di romanizzazione attraverso l’attribuzione di caratteristiche proprie di divinità romane (la cosiddetta interpretatio romana).

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I sec. d.C. da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

I primi rapporti fra Romani e Cenomàni.

Lo storico Polibio racconta che nel 225 a.C. Veneti e Cenomàni accolsero di buon grado l’alleanza che veniva offerta loro dai Romani, prossimi a impegnarsi nella guerra contro le popolazioni galliche dell’Italia settentrionale. Questa alleanza, conclusa da parte romana per motivi strategici e dai Cenomàni nella speranza di estendere il loro dominio fino all’Adda a danno degli Insubri, stanziati più a occidente, costituisce il più antico rapporto di collaborazione fra Celti e Romani di cui si abbia notizia sicura. La successiva vittoria romana consentì ai Cenomàni di conseguire i vantaggi sperati: l’ampliamento del loro territorio e l’accrescimento del loro prestigio presso le popolazioni della Cisalpina e delle valli alpine. Per consolidare la conquista territoriale nel territorio gallico i Romani dedussero, nel 218 a.C., le colonie di Piacenza e di Cremona, una al di qua l’altra al di là del Po, entrambe di diritto latino (i coloni che ne facevano parte assumevano tutti lo status giuridico dei Latini). Questa decisione di stanziare dei coloni – sostanzialmente dei soldati, secondo la concezione che avevano i Romani di colonia – provocò reazioni negative presso le popolazioni della Cisalpina e anche presso i Cenomàni, nonostante i buoni rapporti che intercorrevano con Roma.

Alimentarono il malcontento delle popolazioni della Cisalpina emissari del cartaginese Annibale, che si preparava a portare la guerra in Italia e che sperava di ottenerne l’appoggio. I Cenomàni inizialmente rimasero fedeli a Roma, poi si staccarono da essa, senza tuttavia ribellarsi apertamente.

Statere cenomane. Ar. 7,40 gr., fine II sec. a.C. Recto: testa laureata maschile voltata a destra.

L’alleanza con Roma.

Fu alla fine della guerra annibalica, nel 201 a.C., che i Cenomàni, unite le loro forze a quelle degli altri popoli della Cisalpina, assalirono Piacenza, che fu conquistata, e Cremona, che invece resistette. Le operazioni militari condotte dai Romani in Cisalpina si conclusero con la vittoria definitiva su Insubri e Cenomàni nel 197. Questa data segna l’inizio di una stretta e leale collaborazione dei Cenomàni (e degli Insubri) con Roma, avviata e facilitata dalle miti condizioni di pace applicate dai vincitori. I Romani, contrariamente al loro costume, lasciavano integro il territorio delle popolazioni vinte, ne rispettavano la costituzione interna di carattere tribale e territoriale, consentivano di avere proprie forze armate e non imponevano alcun tributo. A cambiare in maniera definitiva le prospettive dei rapporti fra Roma e i Cenomàni fu, però, il formale trattato di alleanza (foedus) che i Romani conclusero con loro dopo il 194, facendoli passare allo stato di alleati (socii foederati). Si trattava degli alleati più settentrionali di Roma, ai quali era delegato il compito, assai delicato e strategicamente della massima importanza, di controllare ed eventualmente di affrontare le popolazioni settentrionali, sia quelle delle valli alpine, ancora primitive e dedite alla rapina, sia quelle che avrebbero potuto attraversare i valichi alpini e penetrare in Italia. Stava qui, probabilmente, la ragione di tanta benevolenza romana nei loro confronti.

 

La romanizzazione del territorio e la concessione del diritto latino (89 a.C.).

Ricostruire le vicende storiche dei Galli della Cisalpina (quindi dei Cenomàni e di Brescia, in particolare) è reso molto difficile dal completo silenzio delle fonti, soprattutto letterarie, intorno agli avvenimenti di quasi un secolo: fra il 187 e l’89 a.C. Il processo di romanizzazione, al quale le popolazioni della Cisalpina aderirono senza resistenze, maturò nel corso del II secolo a.C., favorito da scambi commerciali sempre più intensi, resi più facili dalle vie di comunicazione fluviali e lacuali e dalla costruzione di strade che univano Roma al settentrione della penisola (via Aemilia) e il mar Tirreno con l’Adriatico (via Postumia). Lungo queste vie di comunicazione transitavano eserciti in marcia ma anche mercanti di provenienza per lo più romana e italica; la vivacità dell’artigianato locale, la fertilità della terra e la bellezza naturale del territorio attiravano nuove presenze, soprattutto dall’Italia centrale e meridionale, e incoraggiavano l’impiego di capitali in attività agricole e commerciali. In questo modo, non appena si fu consolidata la presenza romana sul territorio, singoli o piccole comunità vi si stabilirono in forma definitiva. Il processo di romanizzazione ricevette ulteriore impulso nell’89 a.C. con la concessione del diritto latino (ius Latii) alle comunità italiche alleate – quindi anche ai Cenomàni – rimaste fedeli a Roma durante la guerra sociale (91-89 a.C.). Il diritto latino avvicinava alla cittadinanza romana e comportava dei vantaggi, consistenti soprattutto in alcuni diritti, come quello di trasferirsi a Roma e di diventarne cittadini col permesso dei censori.

Brixia ricevette anche lo statuto di colonia latina, sebbene non venisse effettuata alcuna deduzione di coloni: si trattava, nella realtà, di una finzione giuridica che conseguiva lo scopo di rendere capillare la romanizzazione del territorio italico. Allo statuto di colonia latina dovette seguire la centuriazione del territorio, cioè la suddivisione in lotti. Essi erano delimitati da linee ortogonali tra loro e seguivano un orientamento predeterminato (aderente all’orografia e all’idrografia del territorio). La suddivisione del terreno che risultava, dal caratteristico aspetto a reticolo, era regolare e veniva registrata in un catasto (forma). La centuriazione comportava opere di bonifica e diboscamento e conferiva al paesaggio un aspetto nuovo e ordinato che, per il territorio degli Insubri e dei Cenomàni (e, in generale, per la Gallia Cisalpina), è sostanzialmente quello attuale (nonostante le profonde alterazioni subite, soprattutto negli ultimi cinquant’anni). Essa portava con sé un incremento della produzione agricola e perciò del benessere economico.

Sul territorio bresciano vennero operate ben tre centuriazioni, in tempi successivi: l’ultima quando Brixia divenne colonia civica Augusta (prima dell’8 a.C.). Risale certamente al tempo dell’acquisizione del diritto latino l’organizzazione del diritto latino l’organizzazione urbana della città secondo un impianto costruttivo tipicamente romano, riconoscibile ancor oggi. Anche il santuario tardorepubblicano, del quale rimangono importanti resti sotto il capitolium di età flavia che domina l’area del foro, risale alla prima metà del I secolo a.C. (ma scavi recentissimi hanno accertato l’esistenza di un precedente edificio santuariale risalente al II secolo a.C.) ed è probabile che al I secolo a.C. risalga anche la prima cinta muraria edificata a difesa della città.

Ricostruzione assiometrica dell’area del foro romano, a Brescia.

 

Dal diritto latino al conseguimento della cittadinanza romana (49 a.C.).

Al tempo della guerra civile tra Mario e Silla (88-82 a.C.) anche alla Gallia Cisalpina non furono risparmiati saccheggi e rovine. Dall’82-81, quando divenne provincia (Gallia Cisalpina), e fino al 42 a.C., quando il governo provinciale venne abolito da Ottaviano ed essa entrò a far parte del territorio italico, la Cisalpina fu governata militarmente da un magistrato romano, con grave limitazione dell’autonomia amministrativa della quale aveva goduto ampiamente fino a quel momento.

Nel 49 a.C., per la lex Roscia, tutti i Traspadani erano diventati cittadini romani. Promotore della concessione della cittadinanza fu Gaio Giulio Cesare. Egli aveva stabilito un rapporto di stretta collaborazione e di piena intesa con le élites della Transpadana, dalle quali aveva ottenuto l’appoggio necessario per continuare con successo la conquista gallica. Il legame con Cesare, nipote di Gaio Mario, e la presenza nella Transpadana di esuli mariani provenienti dall’Italia centrale, soprattutto dall’Etruria, alimentarono i sentimenti filo-cesariani, divenuti filo-ottavianei al tempo della guerra civile seguita all’uccisione di Cesare. È significativo che, ricevuta la cittadinanza, i Bresciani fossero ascritti alla tribus Fabia, a quanto pare la stessa del dittatore. Ai centri urbani della Transpadana, ora abituati da cittadini romani, venne dato lo statuto municipale (i cittadini erano detti municipes, perché si accollavano i munera, cioè i doveri propri dei cittadini). Le comunità locali conservavano la loro autonomia amministrativa ma si assumevano gli oneri dei cittadini romani (tra i quali il servizio legionario). Il governo municipale era tenuto da due quattuorviri iure dicundo (massime autorità locali, con potestà di amministrare la giustizia civile) coadiuvati da due quattuorviri aedilicia potestate (che curavano l’ordine pubblico, il mercato, la condizione delle strade eccetera). Quanto l’Italia settentrionale si fosse ormai integrata culturalmente nell’Italia romana lo testimoniano a sufficienza i personaggi di primo piano, protagonisti della vita letteraria (poesia, storia, biografia, eloquenza, filosofia) del I secolo a.C. provenienti dall’Italia settentrionale: Emilio Macro, Gaio Cassio Parmense, Gaio Cornelio Gallo, Marco Furio Bibaculo, Gaio Elvio Cinna, Publio Quintilio Varo, Gaio Valerio Catullo, Publio Virgilio Marone, Cornelio Nepote, Tito Livio e numerosi altri. Tra il 27 (anno in cui ricevette il titolo di “Augusto”) e l’anno 8 a.C. (termine cronologico fissato in base all’epigrafia) l’imperatore Augusto conferì a Brescia lo statuto ordinario di colonia civica Augusta cioè «colonia di cittadini (romani) fondata da Augusto».

Pietra tombale di Pantagato, servo di C. Terenzio Basso Mefanate Etrusco (Inscr. It. X V 468). Cippo, pietra locale, I sec. d.C. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

Brescia, colonia civica Augusta.

Nell’età augustea Brescia colse nuove opportunità di crescita economica e culturale, come è attestato in maniera esauriente dal ricco materiale archeologico ed epigrafico, tra i più vasti ed interessanti dell’Italia settentrionale; quello epigrafico esteso cronologicamente soprattutto tra I e III secolo. Brescia, come si è detto, aveva assunto un importante ruolo strategico sia dal punto di vista economico e commerciale (vie di comunicazione, artigianato ed economia agricola) che politico e militare (avamposto verso le popolazioni e i valichi alpini, amministrazione delle comunità limitrofe e periferiche). La definitiva strutturazione urbana di Brescia risale all’età augustea e sarà ultimata al tempo di Tiberio (14-37 d.C.). Essa, oltre a dare la definitiva impronta di città romana, quale ancor oggi è dato di vedere, fornì alla popolazione bresciana i servizi indispensabili, data l’importanza assunta dalla sua vita associata e il suo sviluppo, organizzandone gli spazi urbani. Testimonianze epigrafiche e archeologiche attestano che il rifornimento idrico necessario era assicurato da un acquedotto che collegava Brescia alla val Trompia; l’acqua rappresentava, naturalmente, la prima esigenza per una città; l’abbondanza di essa consentiva di costruire fontane pubbliche e terme, oltre a garantire una migliore igiene. Forse è da attribuire ad Augusto anche la costruzione della definitiva cinta muraria della colonia, che si sarebbe resa indispensabile per difenderla dalle azioni di brigantaggio e dalle razzie compiute dalle popolazioni delle valli alpine prima di venire sottomesse. Le mura tornarono d’attualità al tempo della successione imperiale dell’anno 69. Plinio il Vecchio attesta esplicitamente l’inserimento di Brixia e del suo territorio (ager Brixianus) nella regio X augustea, allorché Augusto ripartì amministrativamente tutto il territorio dell’Italia in undici regiones.

Ricostruzione della battaglia di Bedriacum (Calvatone), 69 d.C., fra Flaviani e Vitelliani. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

 

Brescia e la società bresciana in età imperiale.

Le lotte sanguinose per la successione imperiale seguite alla morte di Nerone coinvolsero soprattutto la città di Cremona, che «per tre giorni bastò a tutto», racconta Tacito, ma anche Brescia subì di riflesso la sua parte di danni. Dopo la vittoria, Vespasiano incoraggiò la ricostruzione di tutti i centri dell’Italia settentrionale che avevano subito danni e perciò anche Brescia. Le circostanze favorirono una nuova sistemazione urbanistica del foro e degli edifici adiacenti e soprattutto l’edificazione del capitolium, simbolo della grandezza di Roma, dedicato nel 73, sotto il regno di Vespasiano, come ricorda la dedica monumentale, frammentaria. Accanto alle provvidenze imperiali svolse un ruolo importante per la ricostruzione monumentale della città la munificenza dei cittadini bresciani. In età flavia, o poco tempo dopo, ai Camunni venne riconosciuto uno statuto autonomo: essi, infatti, dopo aver costituito la civitas Camunnorum sotto Tiberio ebbero una res publica loro e propri magistrati, e vennero ascritti a una tribù diversa da quella dei Bresciani (la Quirina invece della Fabia).

Fra il II e il V secolo la città e il territorio vennero coinvolti in vicende belliche, ora legate alla successione imperiale ora alle incursioni di popoli barbari: i Marcomanni, ricacciati a fatica da Marco Aurelio e Lucio Vero dopo che ebbero devastato l’Italia settentrionale (166-168); gli Alamanni, sconfitti da Gallieno, Claudio II il Gotico e Aureliano verso la fine del III secolo; gli Unni, che occuparono una dopo l’altra Aquileia, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano e Pavia, nel 452. Nei primi secoli dell’Impero (I-III) i Bresciani consolidarono il prestigio che si erano costruiti sia in Italia sia all’estero. Le attività commerciali dei suoi cittadini, il formarsi di una nobiltà municipale attiva e competente, la fama di onestà e di probità che circondava i suoi abitanti, come attesta Plinio il Giovane, misero Brescia in particolare evidenza fra le città dell’Impero. Prova di questo è l’ascesa alle più alte cariche dello Stato, attraverso la carriera senatoria, e alle più elevate responsabilità nell’amministrazione dell’impero, attraverso la carriera equestre – soprattutto fra II e III secolo – di esponenti di potenti famiglie bresciane.

L’ampia documentazione epigrafica in nostro possesso ci consente di conoscere la presenza e l’attività dei numerosi collegia attivi a Brixia (sodalizi di spiccato carattere religioso, che offrivano un ambito di amicizia fraterna e provvedevano al funerale degli aderenti). Tra questi, le attestazioni più numerose riguardano il collegium dei fabrii (per lo più tignuarii, cioè «carpentieri»), che provvedevano allo spegnimento degli incendi; compito analogo avevano i dendrophori, il cui carattere religioso (culto di Attis e Cibele) risulta particolarmente accentuato; c’erano poi i centonarii («cenciaioli»), i pharmacopolae publici («farmacisti e speziali»), gli iumentarii («conduttori di bestie da soma»), i praecones («araldi e banditori»). Il culto dell’imperatore era affidato ai seviri Augustales: si trattava, per lo più, di liberti (ex servi) che, disponendo di un discreto patrimonio, si assumevano il compito sentito come il più onorevole. Numerosi anche i culti religiosi praticati nella colonia. Accanto alle divinità tradizionali romane erano venerate divinità di origine celtica già in parte romanizzate, come le Matronae e le Iunones, e altre che conservavano il loro carattere originario, come Bergimus.

Le «Matres de Vertault». Gruppo scultoreo, terracotta, I-II secolo d.C. Vertault, Musée de la civilisation celtique.

 

Gli inizi del Cristianesimo.

L’affermazione del Cristianesimo a Brescia fu sicuramente precoce se la Chiesa era già organizzata tra la fine del II e l’inizio del III secolo, ma il primo vescovo storicamente certo fu Clateo, che risale agli inizi del IV. A quest’epoca risalgono anche le prime testimonianze epigrafiche cristiane della città. La penetrazione del Cristianesimo nel territorio bresciano avvenne invece più tardi, al principio del V secolo, in concomitanza con le invasioni barbariche e con il cedimento dell’organizzazione amministrativa romana (come nel resto della Lombardia e, in generale, dell’Italia settentrionale). Questo favorì la maggiore attrazione esercitata dalla città di Brescia sul territorio circostante, anche sul piano religioso. La Chiesa bresciana venera i martiri Faustino e Giovita fin dal tempo antico (al più tardi dall’VIII secolo) e sopra l’area occupata dalla chiesa di San Faustino ad sanguinem venne costruita la chiesa di Sant’Afra; il luogo è ricordato anche da San Gregorio Magno ma il culto dei due martiri potrebbero risalire al tempo del vescovo Gaudenzio (397-400 circa). Tra la fine del V e l’inizio del VI secolo vennero costruite le chiese di Santa Maria Maggiore, sull’attuale occupata dal Duomo Vecchio, e San Pietro de Dom, affiancata alla prima, che occupava l’area  dove oggi sorge la nuova cattedrale.

Roma e la Grecia

di F. GUALDONI, in Arte classica, Milano 2007, pp. 125 sgg.

«Gli antichi Romani non si curavano della bellezza, tutti presi da cose più grandi e più necessarie». In questo passo di Strabone è sintetizzato il rapporto complesso che la cultura romana dei primi secoli intrattiene con l’ellenistica, così come con quelle italiche più evolute – in specie l’etrusca – sino alla seconda metà del II secolo a.C.
La sofisticatezza dei modelli greci, l’apprezzamento puramente estetico del bello, il fasto decorativo non solo non appartengono alla cultura romana ma vengono avvertiti come ostili, come elementi tali da erodere un senso di appartenenza fondato su valori altrimenti concreti e funzionali di civitas.
L’origine e i costumi delle genti romane sono rurali, e a fronte del vitalissimo espansionismo militare ed economico che contraddistingue i primi secoli il modo di vita fa valore della semplicità, della frugalità, dell’utilità. Rispetto al mondo greco la cultura urbana matura in modo affatto differente: Roma è già di per se stessa la città, non una città, e il suo potere per lungo tempo non ha bisogno di ratifiche e manifestazioni sul piano simbolico. Il suo confine e perimetro è una linea sacra non difensiva, il pomerium – la città verrà dotata di mura munite solo dopo l’invasione gallica del 390 a.C. – secondo un concetto che permarrà anche in età imperiale, e il suo interno è concepito come una macchina funzionale, in cui è prevalente la risposta alle esigenze pratiche di vita di un agglomerato complesso di abitanti. La copertura della Cloaca Massima, l’antica condotta fognaria, i due acquedotti costruiti nel 312 e nel 272 a.C., l’avvio di una pratica rete viaria lastricata, sono nei primi secoli di vita della città opere di utilità pubblica avvertite come prioritarie rispetto alla stessa edificazione di templi, le cui proporzioni rimarranno, sino all’età imperiale, modeste.
Del resto la stessa struttura della società presenta, sul piano simbolico per eccellenza, quello religioso, forti tipicità. La comunità è strutturata sulla coesione di forti nuclei familiari, i quali rappresentano il primo inderogabile fattore di identità. Il ruolo centrale è attribuito al pater familias, il patriarca, responsabile a un tempo del partecipare della famiglia alla vita collettiva e della religione privata, non secondaria rispetto alla pubblica, in cui gran luogo hanno i sacrifici alle icone dei Lari e dei Penati, divinità protettrici private della terra e della dispensa, e ai Mani, gli antenati la cui presenza era garantita e al tempo stesso esorcizzata da immagini all’interno della casa, che contrassegnavano la continuità della stirpe e il complesso dei suoi valori sociali e morali. La pietas, amore verso i genitori, è lo stesso sentimento con cui ci si rivolge agli dèi.
Il passaggio da questa religiosità privata, che fa dell’interno della casa un luogo a sua volta sacrato, tipica del retaggio rurale e con evidenti residui animistici, a una religione comunitaria di tipo uranico, in cui progressivamente si opera il sincretismo con gli dèi olimpici greci avviato con l’identificazione della triade celeste Giove, Giunone, Minerva (gli etruschi Tinia, Uni, Menrva) con Zeus, Hera e Atena, e delle divinità ctonie Cerere e Proserpina con Demetra e Persefone, non intacca il ruolo della religiosità domestica, e contribuisce a spiegare la non particolare rilevanza, a quel tempo, degli edifici pubblici di culto.

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

Altro elemento di forte tipicità è il prevalere dei riti sui dogmi. La religiosità romana pone al centro l’uomo e le sue azioni, cui il rituale mira a rendere favorevoli, quasi contrattualmente (tale è il senso del votum) le forze soprannaturali, e non le divinità stesse, le quali peraltro non agiscono di propria iniziativa nella vita degli uomini: l’assenza di una cultura mitica, così sviluppata invece nel mondo greco, ne è testimonianza evidente.
Da ciò discende un elemento cruciale riguardante la cultura artistica, l’assenza di una vera discontinuità concettuale tra immagine del divino e immagine umana, tra figura sacrata e figura individuale, entrambe appartenendo a un sistema unico di onori che la società e i suoi nuclei fondanti attribuiscono a chi incarni i valori condivisi cui far riferimento.
Plinio testimonia, peraltro, l’uso antico della terracotta per le statue delle divinità (in uno strato ancor più arcaico esse erano lignee), e il bronzo per quelle degli uomini; marmo, oro, avorio essendo materiali lussuosi non appartenenti alla tradizione. Quando, nel 396 a.C., Camillo saccheggia Veio, ne riporta le statue sacre in quanto sacre, così come accadde alla statua di Giove condotta a Roma da Preneste nel 380 a.C., e a quella di Giano quadrifronte presa a Falerii nel 241 a.C., secondo la ben conosciuta tendenza ad appropriarsi dell’altro impossessandosi dei suoi segni identitari di culto.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia in marmo di III sec. da un originale ellenistica di Lisippo del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quando, nel 212 a.C., dalle vinte Capua e Siracusa vengono a Roma come bottino statue marmoree e bronzee, ori, argenti, decori lussuosi, e poi nel 210 a.C. da Taranto altre ricchezze tra cui l’Eracle di Lisippo, e in seguito centinaia di quadri e statue dalle prime vittorie greche dopo quella nel 194 a.C. su Filippo V di Macedonia, l’atteggiamento è palesemente mutato. Quelle statue, quei quadri, non valgono in quanto signa delle altrui religioni, ma in quanto opera d’arte, indicatori d’una tutta umana qualità della vita contrassegnata da simboli ormai squisitamente culturali. È ben vero, d’altronde, che sino al II secolo a.C. anche l’attività edilizia e architettonica, la più tipica romana, non mostra ambizioni qualitative particolari. Il tempio Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva nel 509 a.C., così come quello eretto in onore della triade «plebea» e tutta ctonia Cerere, Libero e Libera nel 493 a.C., vedono all’opera nel primo caso maestranze etrusche, come testimonia il nome tramandateci dalle fonti del veiente Vulca, e nell’altro magno-greche. Le decorazioni fittili, vivamente dipinte, adornavano edifici di concezione originale, debitrice dell’architettura templare etrusca, dalla quale derivavano i concetti strutturali fondamentali.

Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino, a Roma.

L’edificio, di non grandi dimensioni, si ergeva su un alto podio ed era accessibile grazie a una gradinata che saliva verso l’unica facciata, colonnata, oltre la quale si schiudeva la cella tripartita, dedicata alla triade divina, chiusa dalla parete posteriore del tempio.
Dal III secolo a.C. è documentato con sicurezza l’uso di materiali litici come tufo, travertino, peperino, e soprattutto della tecnica dell’opus caementicium, un conglomerato fluido di calce e sabbia mescolato a ghiaia o a frammenti di tufo il quale, asciugandosi, acquisisce una straordinaria solidità e consente di legare stabilmente tra loro altri materiali costruttivi, schiudendo soluzioni assai diverse dall’elementare sistema trilitico in uso nel mondo greco, limitato dal modesto rapporto tra peso intrinseco e capacità statica degli elementi impiegati.
Nel II secolo a.C. fanno la loro apparizione altri tipi architettonici. Gli archi commemorativi e onorari, sovrastati da statue, celebrativi di campagne militari vittoriose, sfruttano la tecnica nuova dell’opus caementicium per creare ampie strutture a fornice di valore monumentale; analogamente, la struttura ad arco consente realizzazioni complesse come i corsi degli acquedotti e i ponti in muratura sul Tevere, e nei secoli successivi darà vita a costruzioni grandiose, come teatri e anfiteatri.
Le basiliche, strutture coperte a pianta rettangolare e sviluppo longitudinale divise in tre navate, destinate a scopi civili, sono tra gli edifici che qualificano il foro, spazio aperto di commercio e vita pubblica sul quale affacciano gli edifici pubblici. In esse è testimoniato l’uso dei mattoni d’argilla corti (opus latericium), di largo impiego in tutta l’edilizia imperiale per la flessibilità d’uso.
È con la stagione del potere di Silla, colui che nell’86 a.C. saccheggia Atene e che dopo aver vinto Mario esercita la dittatura, ovvero il potere supremo e non condizionato tipico delle situazioni di emergenza, tra l’82 e il 79 a.C., che ha inizio il processo di rinnovamento architettonico di Roma in senso monumentale. Esso prosegue con Giulio Cesare per trovare compimento in età augustea, allo scorcio dell’età repubblicana e all’avvio di quella imperiale.
L’influenza della cultura ellenistica, si avverte nell’introduzione del modello della tholos nei tempietti a pianta circolare, nell’adozione del marmo e delle sue policromie come elemento decorativo, nell’impiego degli ordini greci. Essi, tuttavia, vengono in certo senso sovrapposti al concetto costruttivo romano, la cui tecnica consente ben altri ardimenti, testimoniati ad esempio dal terrazzamento del tempio di Giove a Terracina, per cui vengono ridotti a semplici partiture decorative, con predominio del corinzio, in un gioco di pieni e vuoti in cui colonne e semi-colonne dialogano con la nuova cadenza visiva degli archi. Ciò accade nella scena architettonica e nell’architettura stessa dei teatri, che contraddicendo l’antica morigeratezza di costumi, che stabiliva che fossero solo strutture provvisorie in legno, si fanno in quest’epoca stabili: il Teatro di Marcello in Roma, avviato da Cesare e compiuto sotto Augusto, mostra la possibilità di reggere la grande cavea senza sfruttare un pendio naturale, ma con un sistema di ampie arcate, ritmate pittoricamente negli ordini sovrapposti dalle semi-colonne tuscaniche, ioniche e corinzie. Allo stesso principio risale la concezione degli anfiteatri, edifici circolari nei quali si svolgevano ludi gladiatori e circensi.

Teatro di Marcello, Roma. Particolare della facciata con i due ordini di arcate. I resti sono inglobati nel palazzo dei Savelli (XVI secolo).

Proprio l’accezione decorativa e ostentatoria dell’arte greca tutta fa sì che essa trovi spazio, nel ricco ed ellenizzante I secolo a.C., soprattutto nel consumo privato, declinandosi in spazi come ville e giardini dalle articolazioni complesse ed esuberanti, in cui le statue – originali, copie, reinvenzioni – perdono ogni altra accezione che non sia l’estetica, e in cui persino tipi architettonici cultuali come il ninfeo, nel mondo greco semi-sotterraneo e dedicato al culto delle Ninfe, divengono puro accidente scenografico: è tuttavia dalla forma absidata del ninfeo, unita all’assialità longitudinale a tre navate della basilica, che deriverà di lì a qualche secolo il modello basilicale cristiano.
Degli ornamenti della vita privata nelle ville patrizie, e del grado di penetrazione della voga ellenistica, è testimonianza il tesoro di Boscoreale, corredo di vasellame da tavola in argento trovato in una villa dell’area pompeiana nel 1895 insieme ad altri oggetti aurei meno interessanti sul piano artistico, ma denotanti l’immensa ricchezza del proprietario. I decori esterni delle coppe, che presentano talora rilievi anche all’interno, sono a motivi vegetali alternati con pittoresche immagini allegoriche, e indicano il grado di enfasi fastosa con cui il gusto ellenistico viene declinato e fruito in ambiente romano nel I secolo a.C. Analoga qualità decorativa traspare dal coevo tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868, in cui a decorazioni complesse si alternano raffigurazioni divine di gusto sofisticatissimo.
Il caso della scultura è assai più complesso. Una destinazione pubblica della statuaria si radica nell’uso di collocare nella città effigi bronzee celebrative e commemorative dei cittadini illustri, in molti casi secondo la tipologia originale della statua posta su una colonna. Sono ritratti spesso eseguiti dopo la morte del personaggio, quindi tipizzati, come avviene nella Grecia del IV secolo a.C., ma dotati di una caratterizzazione realistica che appartiene al portato originale dell’arte etrusca prima e poi romana, in cui hanno un gran peso la ritrattistica funeraria e il culto degli antenati: ne è tipico il modello delle imagines clipeatae, ritratti realizzati a rilievo di individui collocati al centro di uno scudo o medaglione circolare. Già nei canopi e nei sarcofagi etruschi è evidente l’intento ritrattistico che presiede alla realizzazione dei volti, dei quali è concettualmente e culturalmente fondamentale l’identificazione. Tale tradizione, fondandosi su una pratica concepita peraltro come artigianale, quindi senza particolari implicazioni colte, trasferisce all’arte romana dei primi secoli un linguaggio immediatamente verista, crudo e diretto, lontano dall’idea stessa di stile e di elaborazione ideale. Essa permane anche quando, tra il III e il II secolo a.C., i rapporti con l’arte ellenistica si fanno più stretti, e la ritrattistica ideale greca consente a tale atteggiamento di evolversi dal punto di vista tecnico e formale, pur senza tradire la propria natura originaria.
Popolaresco e tendenzialmente ignaro sul piano stilistico, tale strato artigianale permane a lungo come humus dell’ambiente artistico romano. Se la cultura tradizionalista legata alla virtus romana concepisce la scultura meramente in funzione civica e religiosa, dunque utilitaria e scevra da implicazioni estetiche, non riconoscendo ai suoi artefici altro statuto che l’artigianale, quella affascinata dalla luxuria ellenistica è xenofila e snobistica, apprezza e onora i maestri stranieri (ecletticamente neoattici oppure baroccamente ellenistici, da Pasitele a Arcesilao, da Stephanos a Cleomene, largamente omaggiati dalle fonti) ma in quanto stranieri, verso i quali esercitare un mecenatismo a sua volta imitativo, perpetrando un sostanziale disconoscimento della figura dell’artista come intellettualmente degna e autorevole in seno alla comunità.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini

Il ritratto verista, di stringata sintesi fisionomica, e un’arte del rilievo fatta di diretta, fresca descrittività e narratività, attenta all’evidenza iconografica quanto schietta sul piano esecutivo, sono dunque caratteristiche che transitano dal III-II secolo a.C. sino all’età imperiale, riemergendo come nutrimento primario dell’arte imperiale stessa da Traiano in poi. Esemplare è da questo punto di vista, naturalmente, proprio la ritrattistica funebre. Una statua di personaggio togato che regge nelle mani i busti del padre e del nonno è perfettamente esplicativa di questo filone. Il personaggio, ben connotato, fa delle fisionomie degli antenati i signa stessi della propria gens. Tale fedeltà descrittiva è robusta e sintetica, ed è riscontrabile in una serie di busti e di rilievi funerari che dal I secolo a.C. si inoltrano alla prima età imperiale, indicando differenti livelli di fattura, da un maturo realismo che supera i limiti del semplice verismo a espressioni di ingenuo piglio popolare.
Dal III-II secolo a.C. sino all’età cesariana si dipana una serie di testi e busti ritrattistici che ben indicano l’intrecciarsi della vigorosa sintesi etrusco-italica con elementi più popolareschi e con accentuazioni veristiche di sapore addirittura espressionista; ma anche con il fertile influsso della ritrattistica greca del IV secolo a.C., che agisce nella tensione vitale e nell’intensità psicologica, oltre che nell’equilibrio formale, di alcune di queste opere. La testa del Bruto Capitolino, scandita su piani netti con il fitto lavorio di capigliatura e barba, seccamente chiaroscurati, a evidenziare gli elementi identificativi maggiori, le labbra sottili, il forte naso e le orbite che ombreggiano lo sguardo intensificandone il protagonismo, è sicuramente uno dei raggiungimenti più alti del periodo più antico. Alla stessa epoca, III-II secolo a.C., appartiene una testa di fanciullo la cui stereometria è addolcita dal luminismo dolce delle superfici, non lontano dalle coeve teste fittili etrusche.
Anche la ritrattistica del I secolo a.C., dalla quale ci si attenderebbe una eroizzazione del personaggio all’uso greco, che ne amplifichi l’eccezionalità rispetto all’uomo comune, presenta piuttosto un’attenzione alla misura spirituale dell’individuo che ne definisce la sostanza psichica, non una retorica grandeur. Ritratti di personaggi illustri come Cicerone, dai lineamenti maturi e intensi, e Cesare, effigiato con sobrio realismo e modi di austera semplicità, ne indicano il concreto valore individuale, senza spinte eroizzanti o divinizzanti. È quanto emerge anche da una delle opere maggiori a noi giunte, il cosiddetto Arringatore. Al maturo realismo del volto si affianca, qui, anche una descrittività sobria e diretta che riguarda il corpo tutto, non risentendo di alcun modello sculturale ideale che faccia da paradigma.
Dei rari rilievi dell’epoca sopravvissuti, l’Ara di Domizio Enobarbo, diversamente datata dagli studiosi tra la fine del II secolo e gli ultimi decenni del I a.C., mostra un caso di convivenza complessa tra elementi ellenistici, prevalenti nella scena mitologica raffigurante le nozze tra Nettuno e Anfitrite, con Tritoni e Nereidi, e autoctoni, tipici della scena di sacrificio rituale per la purificazione dell’esercito. Le sensuose movenze curvilinee, il luminismo chiaroscurale della scena mitologica, di chiara ispirazione pergamena, sono in evidente contrasto con la sobrietà della scena storica, scandita come una theoria classica ed eseguita con pesantezza accademica non priva di abbreviazioni popolareggianti.
Una prima sintesi tra cultura romana e modelli greci si attua sotto il principato di Ottaviano, il vincitore nel 31 a.C. della battaglia di Azio contro Cleopatra e Marco Antonio, al quale nel 27 a.C. vengono riconosciuti dal Senato il titolo di Augusto e l’imperium militare, e che concentrando progressivamente su di sé tutti i poteri repubblicani, sino alla carica di pontefice massimo, la più alta autorità religiosa conferitagli nel 12 a.C., avvia la gestione monocratica dello Stato.
Dall’ellenismo Augusto deriva in primo luogo la consapevolezza dell’importanza della cultura come valore di appartenenza, come reagente e collante in grado di agire nella formazione di un’identità romana precisata e autorevole. L’azione letteraria di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, favorita e orientata dal principe, mira ad accreditare la rinascita di un’età aurea pacificata e florida, in cui la virtus romana rifulga come modello per il mondo tutto, nonché a vestire di mito la figura di Augusto, discendente, per il tramite di Enea, da Venere.
Il programma di trasformazione monumentale di Roma, già concepito e avviato da Silla e da Cesare, è parte integrante della strategia culturale di Augusto, che ricerca forme e modi che assommino il potere romano, la sua sagace concretezza, e il carisma colto dell’antica Atene: in questo ambito alla scultura viene attribuito parimenti il ruolo di fissare e diffondere un’iconografia insieme nobile e propagandisticamente persuasiva.
Documento per eccellenza di questo programma è l’Ara Pacis, inaugurata nel 9 a.C., un altare decorato a rilievi poggiante su un podio con gradinata e circondato da un recinto marmoreo. Accessibile da due porte che si aprivano – nella collocazione originale – sulla via Flaminia e sul Campo Marzio, il recinto è decorato all’esterno da uno straordinario complesso di rilievi su due ordini separati da un meandro continuo. L’ordine inferiore è decorato da volute correnti di acanto, il superiore da scene figurate rispondenti a un preciso programma iconografico. All’interno, la fascia alta è scandita da una serie di festoni vegetali retti da bucrani. Il fregio vegetale esterno ha un valore insieme decorativo e allegorico. L’acanto, dal cui cespo si diparte la serie fastosa di motivi curvilinei, simboleggia la forza prorompente della natura che genera e si rigenera: tra le sue volute si colloca una varietà infinita e minuziosa di motivi come palmette, fiori, viticci, foglie d’edera e di vite, abitata da piccoli animali, dalla lucertola alla rana allo scorpione. Di estrema eleganza, nascente dal gioco sottile delle linee curve e del ritmo scandito tra ripetizioni e varianti, il fregio è, nel suo trionfo del naturale, il pendant concettuale dell’ordine superiore: là è l’effetto storico della pax deorum guadagnata da Augusto, qui è la manifestazione nella natura, fiorente e rigenerata: l’ordine cosmico, l’armonia tra divino e umano e naturale, è pienamente ristabilito. I due pannelli superiori che affiancano la porta occidentale, la principale, aperta su Campo Marzio, raffigurano l’uno Enea, in veste sacerdotale, sacrificante ai Penati, l’altro, di cui restano pochi frammenti, Marte con Faustolo che guardano Romolo e Remo allattati dalla Lupa.

Dettaglio dal fregio dell’Ara Pacis: Enea che sacrifica ai Penati. 9 a.C. ca. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Enea, dunque la discendenza da Venere proveniente da Troia, nell’atto di compiere un rito tipico del pontefice massimo; Romolo e Remo, dunque la discendenza autoctona da Marte, accolti e cresciuti dal pastore Faustolo, esponente delle popolazioni italiche precedenti Roma: il programma iconografico è esplicito. Simmetrici, sul lato opposto sono i due pannelli raffiguranti Roma vincitrice e pacificatrice, del quale quasi nulla ci è pervenuto, e la Tellus, la Terra madre, tra piante e animali, ambiguamente ritratta un po’ come Venere un po’ come Cerere, che regge sulle ginocchia due fanciulli ed è affiancata da due figure femminili sedute rispettivamente su un cigno e su un drago marino, raffiguranti gli spiriti fecondatori della terra e dell’acqua. I lati nord e sud del recinto esterno raffigurano una processione sacra cui prende parte lo stesso Augusto con littori, sacerdoti, la famiglia imperiale, in una vera e propria teoria nella quale l’evocazione classica greca si salda con un preciso intento ritrattistico. Il fregio dell’ara vera e propria, ridotto a pochi frammenti, non consente ipotesi iconografiche solide. Dal punto di vista stilistico il gioco delle pose e dei panneggi, svolti con abile effetto chiaroscurale tra cadenze verticali e fluenze diagonali, determina netti rapporti narrativi ed emotivi tra figura e figura, ricorrendo anche all’incrociarsi degli sguardi reciproci, che intensificano l’esplicito valore ideologico dell’immagine dovuto alla riconoscibilità dei personaggi. Il clima ellenistico, trasparente dalla spettacolarità dell’insieme, del suo senso fastosamente decorativo e naturalistico, si stempera in una deliberata ripresa del classico che già può essere detto, a queste date, classicismo: il richiamo alla grande arte attica della seconda metà del V secolo a.C. non è, qui, pura questione di gusto, ma scelta da leggere nel quadro del programma politico-culturale di Augusto.
Un peso fondamentale, e per certi versi nuovo, assume in questo momento la ritrattistica. Il ritratto ufficiale del princeps diviene l’elemento iconografico che anche nei domini più lontani impone il carisma del monarca: esso dunque deve possedere una sorta di riconoscibilità “ufficiale”, un misto tra realismo e idealizzazione, in grado di eroizzare il personaggio attraverso l’interpretazione psicologica più che attraverso la tipizzazione divinizzante.
La varietà di teste giunte a noi, scalate negli anni dalla presa e dell’esercizio di potere di Augusto, mostra una certa oscillazione tra l’ispirazione più esplicitamente realistica e quella idealizzante, per far posto in seguito a un’iconografia ufficiale e ripetuta.
Le opere più rappresentative di questa fase sono la statua eroica proveniente dalla villa di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, a Prima Porta, e quella in veste di pontefice massimo da via Labicana. La prima rappresenta il principe in armi, secondo uno schema iconografico ispirato al Doriforo di Policleto ma aperta a un ritmo più mosso grazie al braccio destro teso, bilanciato dal panneggio sul sinistro. Il volto è reso con accuratezza fisionomica, ma è privo delle crudezze italiche, sintetizzato in un’espressione intensa che conferisce al personaggio un’aura di umanità e intelligenza, dunque di eroismo esercitato responsabilmente nel mondo, non al di sopra di esso in virtù di un potere autocratico. A tale definizione della sua autorità Augusto è programmaticamente attento. Egli si presenta come il restauratore della centralità dell’idea di Roma e della sua storia repubblicana, non come colui che l’ha dissolta: il suo potere non è personale, ma esercitato con dignità in nome di Roma. Sulla corazza, scolpita a rilievo alto, scene allegoriche si alternano a figure storiche in cui un generale romano, forse Tiberio, è circondato da figure di vinti. La statua velata si sottrae a maggior ragione a ogni suggestione eroica per fare di Augusto una sorta di pater, di capo spirituale, come fosse il pater familias di Roma tutta, nel segno di più compiuta appartenenza all’identità civica.
Impressionante è l’attività architettonica che dall’età augustea caratterizza tutto il periodo della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) e flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano), cioè il I secolo d.C.
Svetonio attribuisce ad Augusto il merito di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. In realtà, è proprio nel I secolo d.C. che l’uso dei laterizi cotti si diffonde e consente, a Roma come nelle province, imprese imponenti di cui il Pont du Gard, presso Nimes, e la Porta Palatina di Torino, accesso munito alla città fondata nel 28 a.C., sono testimonianze eloquenti. È peraltro vero che un impiego diffuso del marmo e delle sue possibilità decorative risale a questo momento, realizzandosi in un’amplissima diffusione dello stile corinzio, come testimoniano esemplarmente il comportamento del Teatro di Marcello, dedicato nell’11 a.C. e ispiratore dell’Anfiteatro Flavio (noto più tardi come Colosseo) eretto da Vespasiano, e il tempio augusteo detto la Maison Carrée di Nimes.

Iscrizione epigrafica di M. Vipsanio Agrippa sulla facciata del Pantheon (27-25 a.C.), fatta riposizionare da P. Elio Adriano durante la sua ricostruzione dell’edificio nel decennio 118-128 d.C.

Più complesso è il caso del capolavoro dell’architettura augustea, il Pantheon, tempio di tutti gli dèi. Dedicato nel 27 a.C. da Marco Agrippa, generale e genero di Augusto, era a pianta rettangolare, rivestito di marmo, con capitelli bronzei, Cariatidi e frontone figurato. Il suo aspetto si deve alla ricostruzione di età adrianea, nel terzo decennio del II secolo d.C., con il grande pronao a colonne corinzie che si apre su una cella a pianta circolare, con esedre e colonne corinzie, coperta da una cupola semisferica, la cui concezione è stata per secoli oggetto di studio e ammirazione, e sarà modello per l’architettura rinascimentale. Delle originali decorazioni bronzee nulla è sopravvissuto.
Nel I secolo d.C. si diffonde anche l’uso di rendere monumentali le porte urbane a fornice con semicolonne corinzie, frontoni e rilievi, trasformandole sempre più in veri e propri archi commemorativi, che assumono ben presto fisionomia autonoma. Tale processo giunge a compimento nell’arco di Tito, eretto da Domiziano per celebrare le vittorie giudaiche del predecessore nel 70 d.C. Le semicolonne corinzie con elementi ionici su alto zoccolo, l’estradosso dell’arco e il fregio decorati, un attico con iscrizioni, perfezionato il fronte. All’interno dell’arco, l’intradosso è decorato a cassettoni e l’interno dei piloni di sostegno con rilievi figurati, che inaugurano l’uso di celebrare i fasti militari dell’impero con vere e proprie narrazioni. Sull’attico si trovava una quadriga con l’imperatore sul carro, in bronzo dorato.
Del tutto innovativa è la concezione scultorea che presiede ai rilievi narrativi. Scavate nella pietra senza levigature superficiali, e lasciando in vista ai bordi la superficie originale in modo da dar conto della profondità, le figure trascorrono dal limite del tutto tondo a rilievo pressoché disegnativo sullo sfondo. Esse, tuttavia, non sono scalate su piani paralleli convenzionali, ma variamente articolate secondo una profondità continua, che senza soluzioni trascorre dal primo piano allo sfondo. Tale caratteristica è accentuata dal raggruppamento e dalle sovrapposizioni diverse tra figure, e dall’effetto chiaroscurale dovuto all’incidenza diretta della luce naturale, che produce effetti pittorici non artificiosi. Ulteriore elemento di innovazione, certo derivato da modelli pittorici ellenistici, è la scelta di risparmiare nella parte alta una fascia dello sfondo, corrispondente al cielo sapientemente solcato dalle lance, anziché spingere l’altezza delle figure sino al bordo superiore, come avviene nel rilievo classico. L’allegorismo e il cauto classicismo del tempo di Augusto sono ormai alle spalle, e la sintesi matura tra realismo narrativo romano e illusionismo ellenistico comincia ad avvicinarsi: essa troverà pieno compimento in età traianea.

Enea e Didone. Affresco, 10 a.C.-45 d.C., dalla Casa del Citarista (I, 4, 5). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. che si attribuisce la quasi totalità delle pitture romane giunte a noi. Esse in gran parte provengono dall’area vesuviana – dove la data dell’eruzione del vulcano, 79 d.C., offre un sicuro termine cronologico – ma anche da Roma. Si tratta esclusivamente di decorazioni murali destinate all’ornamentazione di edifici privati, dunque esemplari della luxuria romana e del suo gusto ostentatorio, propenso all’enfasi e alla sovrabbondanza.
Un’arte della pittura su tavola era in realtà diffusa sin dall’età repubblicana. Essa era legata alla narrazione, tra sintetica e allegorica, dei fatti memorabili durante le celebrazioni dei trionfi, oppure collocata per ragioni affini in edifici pubblici: si trattava, con ogni probabilità, di figurazioni essenziali e di impronta stilisticamente non evoluta, di valore per lo più illustrativo. Artisti greci immigrati e locali, in genere schiavi e liberti vista la scarsa considerazione sociale attribuita alla figura dell’artista, operavano affiancati in questo come in altri campi prediletti dal mondo romano: la ritrattistica, di viventi e dei maiores defunti, le pitture votive, le raffigurazioni popolaresche di ludi. Dalla Grecia, poi, fioriva l’importazione di pinakes, di tema sia storico che decorativo, oggetto di un vero e proprio collezionismo maniacale, tipico status symbol ellenizzante.
La pittura murale ha soprattutto carattere decorativo, e sotto molti punti di vista risente dell’influenza ellenistica, in modo particolare di quella alessandrina, alla quale si devono il prevalere di elementi paesistici suggestivi e la tecnica della compendiaria, ovvero una pittura fatta di tocchi rapidi e corsivi, di sapore impressionistico, in cui peso quasi nullo ha la tradizione greca della nitida linea di contorno e protagonista è il colore, dai toni fastosi e ricchi, dall’ocra d’oro alla porpora al blu d’Armenia, il cui pregio era tale che, testimonia Vitruvio, il loro acquisto era a carico del committente.
L’abbondanza delle pitture da Pompei e da Ercolano ha consentito nel 1882 ad August Mau, nella fondamentale pubblicazione Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeij (Storia della decorazione parietale a Pompei), di suddividere le tipologie di decorazioni pittoriche in quattro stili, corrispondenti con le debite cautele a quattro fasi cronologiche scalate dal I secolo a.C. al 79 d.C. Pur precisata in molti punti e assai più articolata sulla base degli studi successivi, tale classificazione è tuttora in uso. Il primo stile, derivante da esempi ellenistici del II secolo a.C., prevede uno zoccolo sopra il quale la parete è ripartita in blocchi imitanti marmi variegati, alabastro, porfido, con coloriture intense in cui dominano nero, rosso, giallo. Semplici elementi architettonici, come porte chiuse, pilastri, metope, fregi, scandiscono e compartiscono questo tipo di pitture. Nel secondo stile la quadratura architettonica evolve sino a trasformarsi in un illusionistico chiostro colonnato, nei cui riquadri appaiono panorami urbani e architetture illusionistiche di tipo prospettico, oltre a vedute paesistiche, di sapore e ispirazione certo teatrali. In questa fase compaiono anche festoni vegetali e fregi continui ricchi di figurette dipinte in modo veloce e impressionistico, quasi bozzettistico, con freschi effetti narrativi e artifici come colpi di luce e sapidi chiaroscuri.
Alcune opere eminenti, attribuibili a esecutori di qualità superiore, appartengono a questa fase. La pompeiana Villa dei Misteri presenta partizioni architettoniche semplici che delimitano ampi riquadri a fondo rosso in cui gruppi di figure rappresentano scene d’iniziazione misterica.

Satiro danzante. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa dei Misteri a Pompei.

La villa di Livia a Prima Porta, in Roma, scavata nel 1869, si caratterizza per l’abbondanza di festoni vegetali e per la vasta descrizione ravvicinata di un giardino, motivo tipico di questa stagione del gusto, con minuzie naturalistiche e delicati accenni bucolici, in una concezione comunque eminentemente decorativa. Il miniaturismo idilliaco della pittura ellenistica si nutre qui, nelle mani di un artefice consapevole, del gusto descrittivo e diretto della tradizione romana, con un risultato di sintesi di notevole livello, confrontabile per certi versi – precisione nel differenziare le specie vegetali, attenzione descrittiva negli animali – al decorativismo naturalistico del fregio vegetale dell’Ara Pacis.
Caratteristica del terzo stile è l’abolizione della scenografia architettonica in favore di decorazioni esili e calligrafiche come candelabri culminanti in figurette, tralci, corone, e di illusioni di tessuti tesi con figurazioni centrali, emulanti le ricche decorazioni in tessuto delle case, dei quali nulla ovviamente ci è giunto, con inserzione di illusionistici pinakes. Talora, anziché essere raffigurati direttamente sulla parete, i pinakes erano eseguiti su stucco o marmo e incastonati nella parete stessa. È tra secondo e terzo stile che si diffonde la moda delle nature morte, il cui sviluppo e la cui proliferazione presuppongono un fitto e continuo scambio tra produzione di quadri veri e propri e raffigurazione degli stessi quadri nei contesti decorativi della pittura parietale.
Il quarto stile torna, dopo la finezza grafica delle grottesche del terzo, a un’accelerazione degli elementi scenografici e della sovrabbondanza decorativa. Ricco di tipologie diverse, rende protagonisti gli illusionismi architettonici collocandovi figure e scene vere e proprie, oppure larghe vedute paesistiche, dove la pittura compendiaria raggiunge effetti di autentica suggestione impressionistica, senza più la preoccupazione naturalistica tipica del secondo stile.
Rispetto ai modelli ellenistici, è proprio la tendenza a semplificare e rendere schietto il clima visivo l’elemento di innovazione che si può riferire alla cultura romana. Poco, tuttavia, si può dire in merito alla qualità specifica di queste pitture, di concezione e fattura ascrivibili all’alto artigianato, in assenza di una vera e propria cerchia di maestri riconosciuti. È nei riquadri figurati, ispirati spesso a temi ellenistici spinti verso un clima definitivamente idilliaco, che la pittura pompeiana raggiunge talora esiti di straordinaria fragranza.
Anche l’arte dei pavimenti a mosaico si diffonde secondo esempi ellenistici, sostituendo progressivamente i più semplici pavimenti in cocciopesto con incrostazioni marmoree, e quelli con decorazioni geometriche continue, incornicianti piccoli elementi figurativi riquadrati, tipici della casa romana. Se gli esempi più direttamente impliciti nell’arte ellenistica, in genere copie di pinakes, sono a tessere piccole in pasta colorata, le traduzioni romane impiegano più larghe tessere in marmo e pietre dure, e talora paste vitree colorate, con effetti più corsivamente decorativi.
Della pittura ritrattistica romana nulla è sopravvissuto. Tuttavia, la ritrattistica di età imperiale è evocata dalla produzione tipica di un’area specifica dell’Egitto, il Fayum, isola sul Basso Nilo, da cui provengono circa seicento ritratti funerari databili dall’età neroniana al IV secolo. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno che venivano fissate sull’involucro delle mummie secondo l’uso egizio, e che, nell’evolvere da un più schietto realismo a forme di idealizzazione del tipo frontale con gli occhi fissi, mostrano un rapporto continuo e diretto con l’arte romana di madrepatria.