Mario, Saturnino e la crisi dell’anno 100

da W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 149-154.

 

Anche se Mario con i suoi tre trionfi era giunto al vertice del successo, e veniva celebrato come «terzo fondatore di Roma», la nobilitas non aveva dimenticato il suo comportamento aggressivo nei confronti di Quinto Cecilio Metello Numidico, e continuava a vedere in lui il parvenu che era giunto ai vertici approfittando di un’emergenza ai confini del dominio di Roma, con l’aiuto del popolo e a spese dei nobiles, in realtà i veri benemeriti dello Stato. Così egli non poté neppure realizzare ciò che per i nobiles romani era da sempre lo scopo principale: restituire i pieni poteri in cambio di maggiore peso politico. Infatti, proprio al parere dei consolari in Senato veniva accordata la massima attenzione, tanto che essi erano sempre i primi a prendere la parola. Nello Stato romano, costoro erano considerati come principes. La nobilitas però non voleva concedere una collocazione così prestigiosa neppure al cinque volte console Mario, che si vide perciò costretto a cercare altre magistrature, per avere almeno l’autorità legata alla carica.

Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.

Nell’ultimo decennio del II secolo, l’opinione pubblica era sempre più ostile nei confronti dell’élite ed era perciò assolutamente favorevole a questo suo piano. La Lex Coelia del 107 aveva introdotto le tabellae, la votazione scritta, anche nei processi per alto tradimento (perduellio); in questo modo Gaio Popilio Lenate, che aveva concordato una vergognosa capitolazione di fronte ai Tigurini, quand’era legato del defunto console Lucio Cassio Longino, fu mandato in esilio prima ancora che fosse emessa la sentenza di condanna. Il console del 106, Quinto Servilio Cepione, aveva poi restituito interamente le corti permanenti ai senatori, togliendole ai cavalieri. Ma la sua legge aveva presto perduto credibilità proprio a causa del suo comportamento: a Roma per alludere alle macchinazioni oscure dei nobiles divenne in seguito usuale l’espressione l’«oro di Tolosa» (aurum Tolosanum), in riferimento a quello di cui Cepione si sarebbe indebitamente appropriato. Molto peggio: nell’ottobre 105 lo stesso Cepione era fuggito di fronte alla catastrofe di Arausio, dalla quale pure era in gran parte responsabile. Aveva per questo perduto immediatamente per abrogazione (cioè per decreto popolare) l’imperium consolare. Ai tribuni della plebe contrari all’adozione di un simile procedimento, inusitato, era stato impedito con la forza di opporvisi. Il tribuno della plebe del 104, Lucio Cassio Longino, impose inoltre una legge per cui chiunque avesse perduto il proprio imperium in seguito ad abrogazione, o fosse stato condannato dal popolo, avrebbe perduto anche il proprio seggio in Senato. In questo modo, la condizione di senatore dipendeva ormai dal beneplacito dell’assemblea popolare, e il potere dei tribuni della plebe poteva giungere a turbare perfino il destino politico dei nobiles di rango più elevato. La secolare pretesa del Senato di essere l’unica guida dello Stato non era più accettata supinamente dal resto della cittadinanza, ma era invece legata alle prestazioni dei suoi singoli membri.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Rappresentazione di un cittadino togato in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella in una cista elettorale.

 

L’oligarchia, inoltre, si rese nemici alcuni ambiziosi arrivisti. Così, per esempio, per motivi non chiari fu tolta al questore del 104, Lucio Apuleio Saturnino, la competenza per gli approvvigionamenti di cereali dell’Urbe, affidandola invece al princeps senatus, Marco Emilio Scauro. Saturnino, offeso, si vendicò ben presto dell’umiliazione, poiché, appena fu tribuno della plebe l’anno seguente, propose una legge che stabiliva un prezzo soltanto simbolico del grano per i cittadini di Roma. Dopo che ad alcuni suoi colleghi fu impedito con la forza di opporre il loro veto, il quaestor urbanus, Quinto Servilio Cepione, il figlio del console del 106, fece addirittura distruggere i pontes per le votazioni. Saturnino, però, non si diede per vinto. Fece approvare una legge per cui qualsiasi offesa recata alla maestà del popolo romano (maiestas populi Romani laesa) andava denunciata a un tribunale composto esclusivamente da membri di rango equestre: questo tipo di delitto aveva, volutamente, contorni molto ampi, in modo che il maggior numero possibile delle misure prese dai nobiles potesse rientrarvi. I due generali responsabili della catastrofe di Arausio, infatti, Quinto Servilio Cepione senior e Gneo Mallio, furono condannati e mandati in esilio proprio in base a questa Lex Apuleia de maiestate.

Uomo togato. Statua, marmo, 125-250 d.C. ca., da Roma.

Per quanto costituisse una minaccia per l’oligarchia senatoria, tale dispositivo giuridico non riscosse molta popolarità tra i cittadini più umili. Saturnino, allora, cercò consensi che potessero offrirgli un vasto seguito per le future elezioni. Si fece avanti il console Mario, anch’egli in cerca di alleanze. La fatica che gli era costata la competizione elettorale per il 103 gli aveva mostrato la debolezza fondamentale della sua posizione (le sue splendide vittorie sui Germani sarebbero arrivate infatti soltanto nel 102 e nel 101). In quella circostanza, il problema del mantenimento dei veterani nullatenenti reduci dalla guerra giugurtina offrì a Mario e a Saturnino l’idea di un progetto comune, che poteva portare a entrambi non soltanto i voti dei veterani, ma, nel caso, anche il loro intervento concreto durante le votazioni. Nell’estate del 103, infatti, Saturnino propose all’assemblea popolare una legge agraria che avrebbe assegnato a ciascun soldato mariano cento iugeri (cioè 25 h) di terreno nella provincia d’Africa. Nella stessa estate anche Mario fu rieletto console (ed era la quarta volta!) per l’anno successivo.

Nel 101 un uomo vicino alla cerchia di Saturnino, Gaio Servilio Glaucia, di famiglia patrizia, ma tribuno della plebe, presentò una nuova legge de repetundis che trasferiva di nuovo interamente dai senatori ai cavalieri gli incarichi di giurati nei tribunali permanenti.

La politica del 101 si incentrò sulle elezioni per l’anno seguente. Una volta respinti definitivamente i Germani, una quinta iterazione del consolato per Mario non aveva nessuna giustificazione. Glaucia, però, grazie alla sua influenza sui cavalieri, riuscì a imporla senza problemi, così come anche la propria elezione a pretore urbano. Quando anche Saturnino fu rieletto tribuno della plebe, i tre alleati avevano occupato le posizioni-chiave per l’anno 100. Il tribuno Aulo Nonio, che aveva annunciato la propria opposizione alla politica che intendeva perseguire Saturnino, fu raggiunto e ucciso dai suoi sgherri.

C. Fundanio. Denario, Roma 101 a.C. AR. 3,97 gr. Rovescio: C(aius) Fund(anius). La quadriga trionfale di Gaio Mario, console per la quinta volta.

 

La proposta di legge di Saturnino per assegnare terreni ai veterani mariani prevedeva la distribuzione in alcune zone della valle del Po, ormai sgombre dalla minaccia cimbrica; inoltre, egli presentò una seconda rogatio per far approvare la fondazione di colonie in Sicilia, Corsica, Macedonia e Africa. Il permesso accordato a Mario di concedere la cittadinanza romana a tre, o forse trecento, coloni per ogni nuovo insediamento (le fonti su questo punto sono discordi), fa pensare che i veterani che vi si dovevano trasferire provenissero dalle truppe degli alleati di Roma. Una volta insediatisi, a circa 250 km dall’Urbe, quei soldati sarebbero stati facilmente impiegabili per esercitare pressioni sulla nobilitas romana. Con quelle colonie nelle province inoltre sarebbero sorte nuove città, che sarebbero state particolarmente legate a Mario. Per questo motivo, gli oligarchi mobilitarono contro le due proposte anche i cittadini romani, che non avevano alcuna intenzione di andare a vivere lontano dalla metropoli.

Insegna di bottega con iscrizioni elettorali. Affresco, 73-78 d.C. da Pompei (VI, 13 6-7). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Saturnino, in tutta risposta, organizzò dei disordini: i veterani provocarono scontri per le strade con gli abitanti della città, mentre gli altri tribuni, che erano intervenuti per tentare mediazioni, furono respinti con la violenza. Alla fine, la forza dei militari ebbe la meglio, e le proposte divennero legge, con la clausola che obbligava i senatori, sotto pena di esilio, a giurare che le avrebbero confermate e attuate. Subendo questa umiliazioni, i membri del venerando consesso si sottomettevano pubblicamente alle decisioni dell’assemblea popolare. Non rimaneva però loro altra scelta che giurare, poiché i soldati di Mario presidiavano le strade dell’Urbe. Infatti, grazie alla loro salda organizzazione interna, consolidata nel servizio militare attivo e ai rapporti di cameratismo, questi uomini avevano formato unità di combattimento che potevano affrontare senza difficoltà le masse urbane o anche quelle formazioni di cavalieri e servi che i senatori avevano impiegato per eliminare i Gracchi.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Mentre Saturnino si serviva spudoratamente dello strumento non suo dei veterani di Mario, questi dovette presto riconoscere che l’impiego continuato di quella violenza illegale sviliva la sua stessa autorità di console, macchiava la sua fama di «terzo fondatore di Roma» e allontanava da lui quella posizione di princeps, e quindi di garante dell’ordine pubblico, alla quale tanto aspirava. Questi furono verosimilmente i motivi del suo dietro-front, per cui si disse contrario al giuramento. Saturnino, sentendosi tradito, organizzò allora una protesta dei veterani contro il loro stesso comandante: Mario, alla fine, dovette cedere e giurare. Ai senatori, sorpresi, suggerì di fare altrettanto, ma con la clausola, «purché sia davvero una legge». Tutti i senatori lo seguirono, tranne Quinto Cecilio Metello, pronto ad affrontare l’esilio pur di restare saldo ai propri principi.

Soldati in uniforme (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

Saturnino sfruttò l’effetto deterrente dei soldati, che ora sembravano più obbedire più a lui che al loro generale, per essere rieletto ancora una volta tribuno della plebe per l’anno 99, senza che il Senato potesse opporsi. Con tanto maggiore audacia e spregiudicatezza Saturnino e Glaucia procedettero allora a un ulteriore rafforzamento della propria posizione: Glaucia si candidò al consolato. Probabilmente Mario, che allora ricopriva la massima carica e, in quanto tale, era responsabile dell’indizione delle nuove elezioni, non accolse la candidatura dell’aspirante, in quanto Glaucia era pretore in carica e perché mancava l’intervallo richiesto dalla legge. Allora, per turbare il corso delle elezioni, Saturnino e il compare fecero assassinare il concorrente Gaio Memmio. Come l’anno precedente, quando avevano fatto uccidere Nonio, pensavano di organizzare, dopo il solito tumulto per le strade, un’assemblea sul Campidoglio che avrebbe eletto Glaucia console.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Nel frattempo, però, a loro insaputa, il Senato aveva approvato il senatus consultum ultimum, che ordinava ai consoli di procedere contro i ribelli. Mario risolse il proprio dubbio intervenendo contro i suoi vecchi alleati: li assediò sul Campidoglio insieme a una folla di cittadini e di soldati a lui fedelissimi, e fece loro interrompere i rifornimenti idrici e alimentari. Quelli, infine, capitolarono, perché il generale promise loro un regolare processo. Li fece arrestare e portare, per loro sicurezza, in Senato, ma durante la tradotta la plebaglia si vendicò lapidando Saturnino e Glaucia con tegole staccate dal tetto della curia. Quello stesso giorno, anche i loro accoliti furono linciati.

L. Apuleio Saturnino. Denario, Roma 104 a.C. AR. 3,88 gr. Rovescio: L(ucius) Saturn(inus). Saturno sulla quadriga.

Gli storiografi tardi, esponenti dell’aristocrazia senatoria, condannanopol Saturnino e Glaucia come demagòghi, avventurieri e delinquenti della peggior specie, privi di scrupoli. Il loro odio è ben comprensibile: se infatti i due fossero riusciti a occupare le posizioni-chiave anche nel 99, e a impiegare durevolmente molti veterani come una «milizia di partito», il centro decisionale della Repubblica si sarebbe spostato dal Senato all’assemblea popolare, da loro pilotata grazie ai picchiatori, e il loro potere sarebbe stato così confermato e perpetuato.

Due personaggi togati (forse magistrati). Applique, bronzo, I sec. d.C. Malibu, J.P. Getty Villa Museum.

Mario, dal canto suo, aveva fallito, perseguendo la politica popolare. Il ruolo decisivo, nella crisi dell’anno 100, era stato svolto evidentemente dai suoi veterani, che, dopo l’approvazione della legge agraria in loro favore, ora erano interessati alla pace e all’ordine, quindi alla conservazione del sistema politico vigente.

L’ascesa di Gaio Mario nelle guerre contro Giugurta e contro i Cimbri e i Teutoni (dal 108 al 101 a.C.)

di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino, Einaudi, 2016, pp. 145-149.

Il primo colpo alle strutture ormai irrigidite fu dato dalla politica estera, o meglio da una serie di brutte sconfitte subite dai generali romani, che fecero un’impressione tanto maggiore in quanto, dopo la vittoria sui Numantini del 133, Roma nell’area mediterranea non aveva più affrontato avversari degni di questo nome. Già la dura sconfitta subita nel 130 contro Aristonico era stata addebitata soltanto all’imperizia del proconsole, Publio Licinio Crasso Muciano. Nel penultimo decennio del II secolo poi si accumularono altre sconfitte, alcune pesanti, altre catastrofiche, come quella del pretore del 119, Sesto Pompeo, e più tardi quella del console del 114, Gaio Porcio Catone, sempre contro gli Scordisci in Macedonia, e quelle dei consoli del 113 e del 109, Gneo Papirio Carbone e Marco Giunio Silano, rispettivamente nel Norico e nella valle della Loira, contro la popolazione germanica dei Cimbri. Questi ultimi dovettero presentarsi entrambi davanti al tribunale del popolo, anche se verosimilmente furono assolti.

Soldati romani durante la guerra giugurtina, 110-105 a.C. c. Illustrazione di A. McBride.

Ma doveva accadere di peggio. Infatti, per sette anni i generali romani non riuscirono a normalizzare la situazione in Numidia né a catturare il principe Giugurta, che si era ribellato a Roma. Costui aveva ignorato i moniti degli ambasciatori inviati dal Senato a partire dal 116 affinché si ritirasse nella contesa per il trono con i figli di re Micipsa, morto nel 118. Giugurta rovinò gli eccellenti rapporti che aveva intrecciato con alcuni nobiles romani fin da quando, nel 134/3, aveva collaborato all’assedio di Numanzia, facendo uccidere, nel 112, a Cirta, la capitale della Numidia, l’unico erede al trono rimasto, Aderbale, e alcuni mercanti italici che lo appoggiavano. Probabilmente soltanto per le forti pressioni dell’opinione pubblica, influenzata dal tribuno della plebe Gaio Memmio, il Senato dichiarò guerra a Giugurta. Già all’inizio delle ostilità, però, il console del 111, Lucio Calpurnio Bestia, insieme al suo consigliere, il princeps senatus Marco Emilio Scauro, riuscì a respingere Giugurta a una formale deditio e a cedere trenta elefanti, altro bestiame e cavalli, e una modesta quantità di argento, garantendogli il mantenimento della libertà e del suo esercito. L’indignazione dei Romani per questa finta deditio non lasciò altra possibilità al Senato che ricusare il trattato. Il tribuno Gaio Memmio convinse il monarca numida a presentarsi a Roma, assicurandogli una scorta. Quando però il re stava per deporre davanti all’assemblea popolare sui suoi rapporti con i nobiles romani, un altro tribuno della plebe oppose il proprio veto, facendo crescere nella cittadinanza il sospetto che un buon numero di nobiles più in vista fosse coinvolto nelle macchinazioni del sovrano.

Il console del 110, Spurio Postumio Albino, fu allora inviato in Numidia per riprendere le ostilità. Quando suo fratello Aulo, che Spurio in propria assenza aveva messo a capo delle operazioni, cadde in una trappola tesagli da Giugurta presso la città di Suthul, poté evitare l’annientamento delle proprie truppe soltanto capitolando, passando insieme a esse sotto il giogo e, infine, abbandonando la Numidia entro i dieci giorni successivi. Il Senato, com’era da aspettarsi, ricusò questa capitolazione.

Regno di Numidia, Cirta 148-118 a.C. Æ 15,8 g. Recto: testa laureata e barbata di re Micipsa.

L’indignazione a Roma crebbe al punto che il tribuno della plebe del 109, Gaio Mamilio Limetano, riuscì a ottenere un decreto popolare che istituiva una commissione d’inchiesta (quaestio) incaricata di indagare per scoprire quali senatori, in qualità di legati o di comandanti, avessero ricevuto delle tangenti da Giugurta. Questa corte condannò infine all’esilio, per alto tradimento, l’avversario di Gaio Gracco, Lucio Opimio, che nel 116, in qualità di legatus del Senato aveva intrapreso la spartizione della Numidia tra Aderbale e Giugurta; subirono la stessa condanna anche tre consulares Lucio Calpurnio Bestia, Spurio Postumio Albino e Gaio Porcio Catone, insieme all’ex pretore e augure Gaio Sulpicio Galba. Ciò che importava non era tanto che gli imputati si fossero davvero fatti corrompere dal sovrano numida, quanto che, comunque, non fossero venuti incontro alle aspettative dell’opinione pubblica romana: infatti, nessuno di loro era riuscito a condurre a Roma in catene un re le cui mani erano ancora sporche del sangue di un amicus populi Romani e dei mercanti italici di Cirta, né gli era stata ancora inflitta la “giusta” pena. Le condanne seguite alla quaestio Mamilia del 109 tolsero ai cittadini di Roma la certezza che i nobiles, se non più nella politica interna, almeno nelle guerre esterne si dedicassero anima e corpo al bene della res publica.

Ciononostante, l’acclarata fama di incorruttibilità del console del 109, Quinto Cecilio Metello, faceva sperare in una rapida conclusione della guerra giugurtina. Anche la strategia di Metello, però, di togliergli gli approvvigionamenti devastando le campagne, diede risultati così scarsi che, infine, il comandante pensò di rivolgersi alla diplomazia segreta, e perfino di tentare un complotto insieme a un uomo di fiducia del re, Bomilcare. Così, quando si ebbe sentore di questi intrighi, l’opinione pubblica a Roma fu costretta a ricordare le vili trame intessute nel corso della guerra di Spagna, soprattutto quelle contro Viriato, e i loschi comportamenti dei predecessori di Metello in Numidia.

C. Mario. Testa, calcare compatto, metà I sec. a.C. Ravenna, Museo Nazionale.

Alla fine del 108 Gaio Mario, legato di Metello, cercò di approfittare del diffuso malcontento nei confronti non soltanto del proprio comandante, ma della nobilitas in generale. Mario, un arrampicatore sociale, nato nel 158 nella città volsca di Arpino, apparteneva all’ordine equestre. Si era presto fatto valere come soldato, e aveva partecipato all’assedio di Numanzia nel 134/3. Quando era stato tribuno della plebe, nel 119, aveva presentato una legge (lex Maria de suffragiis) che restringeva ulteriormente i pontes impiegati nelle votazioni, rendendo più difficile la loro sorveglianza da parte dei nobiles. Nel 115, quand’era pretore urbano, e fu il suo il primo caso, gli era stata affidata l’amministrazione di una provincia, la Hispania Ulterior.

In Numidia, Mario si era reso subito popolare presso i soldati semplici con il suo modo di fare cameratesco. Al contrario, in un’operazione elettorale per ottenere il consolato nel 107, tramandata, almeno nel suo senso generale, da Sallustio, egli ostentò il proprio disprezzo verso i nobiles, considerandoli inetti alle armi. La sua oratoria aggressiva fece molta presa, soprattutto sugli equites, senza il cui appoggio non era possibile essere eletti, di fronte all’opposizione dei patrizi. Pur essendo un homo novus, Mario non solo fu eletto console, ma ebbe anche direttamente, tramite un plebiscito, la lex Manilia, l’imperium in Numidia, senza neppure passare attraverso il previsto sorteggio tra i due consoli. Come già con Scipione Emiliano nel 148 e, poi, nel 135, il popolo romano conferì a Mario un imperium extraordinarium. Inoltre, in tal modo, egli sconfessò il Senato, che prima delle elezioni a console aveva già prorogato al proconsole Metello l’imperium per proseguire le operazioni contro Giugurta, esautorandolo nelle competenze che gli erano più proprie: la politica estera e il coordinamento delle campagne militari.

Anche se Mario non riuscì a mantenere la promessa di una rapida vittoria, assediando le città di Giugurta lo mise talmente alle strette che il suocero, Bocco, re di Mauretania, lo consegnò al legato di Mario, Lucio Cornelio Silla. Il 1 gennaio 104, Mario poté condurre nel suo corteo trionfale attraverso Roma il re numida, fatto prigioniero.

Giugurta di fronte a Gaio Mario. Illustrazione di J. Shumate.

Questa vittoria lo indicava come l’uomo idoneo per un compito anche più grave, nel quale erano miseramente falliti, come si è visto, alcuni generali romani: la lotta contro i Cimbri, i Teutoni e gli Ambroni. Queste popolazioni germaniche dalla loro terra d’origine, lo Jutland, si erano spinte in gruppi numerosi fino alla Boemia. Nel 113, presso Noreia (nella Carinzia), avevano annientato l’esercito del console Gneo Papirio Carbone. Dal Norico, l’orda si era poi trasferita in Gallia, attraversando il Reno, e nel territorio della Gallia transalpina avevano sterminato le truppe del console del 109, Marco Giunio Silano. Nel 107, i Tigurini, celti, costrinsero un esercito romano alla capitolazione nei pressi di Tolosa, dopo aver ucciso il console che lo guidava, Lucio Cassio Longino. Sebbene i Romani per respingere i Germani nella Gallia transalpina avessero affiancato all’esercito del proconsole Quinto Servilio Cepione un altro esercito, al comando del console del 105, Gneo Mallio, il patrizio Cepione si rifiutò di lasciare che le proprie truppe fossero affidate al comando di un homo novus come Mallio. Aspirando al trionfo, Cepione affrontò quindi da solo con le proprie forze la battaglia nei pressi di Arausio (l’attuale Orange), sul Rodano, ma il suo esercito venne distrutto, proprio come toccò il giorno dopo a quello di Mallio. Sembra che in questa catastrofe morissero, tra il 5 e il 6 ottobre, ottantamila soldati romani, più di quanti ne erano caduti a Canne nel 216. Quando si diffuse la notizia, a Roma si scatenò il panico. I Germani, però, non si spinsero oltre le Alpi, in direzione dell’Italia, ma si ritrassero invece verso l’interno della Gallia.

Guerrieri germanici. Illustrazione di G. Embleton.

Il console del 104, Mario, al quale nuovamente l’imperium contro i Germani era stato affidato senza sorteggio, approfittò di questa pausa per riorganizzare l’esercito. Le battaglie contro le fitte schiere barbariche, per lo più avvenute in pianura, rendevano necessaria la trasformazione delle unità tattiche dai piccoli manipoli di centoventi uomini in coorti, di quattrocentottanta. Ogni legione da allora fu formata da dieci coorti, esclusivamente di fanteria, alle quali erano affiancate le unità di cavalieri e di truppe leggere, fornite dagli alleati. Dopo che il console del 105, Publio Rutilio Rufo, aveva introdotto l’uso dell’addestramento dei legionari per mezzo dei gladiatori, essi dovettero anche portarsi da sé le armi e l’equipaggiamento, cosa che li rese indipendenti dalla lentezza delle salmerie.

Sin dai tempi della guerra giugurtina Mario aveva reclutato per la prima volta i capite censi, cioè i cittadini che non potevano dichiarare al censimento proprietà degne di nota, e perciò venivano solo “per capo”, cioè per la loro persona, non per i loro averi. Poiché, però, anche prima, nel corso del II secolo, il census minimo per il servizio nella legione era stato ridotto gradatamente a millecinquecento assi, questo provvedimento non fu determinante. Reclutando, invece, semplici volontari, Mario ottenne da una parte il favore dei suoi concittadini nullatenente, che al servizio militare si ripromettevano di trarre guadagni e bottino, dall’altra quello dei proprietari terrieri obbligati alla leva, che potevano sperare di essere richiamati molto meno spesso di prima. Questo non significò, comunque, il passaggio dal sistema tradizionale della militia a un esercito di professionisti: la leva coatta dei legionari è ampiamente documentata fino all’età imperiale. E però il legame al loro imperator da allora fu molto più forte nei volontari nullatenenti, perché si attendevano da lui anche qualche provvigione dopo l’esenzione dal servizio, piuttosto che nei possidenti che erano stati costretti a prestare il servizio militare. Il progressivo distacco dei legionari, che solo raramente erano legati alla vita civile da rapporti clientelari, e anche dei loro generali, dalla direzione politica da parte del Senato ebbe evidentemente inizio a partire dalle riforme di Mario.

La battaglia di Vercellae. Illustrazione di I. Dzis.
La battaglia di Vercellae. Illustrazione di I. Dzis.

Dopo che, contro il divieto dell’iterazione del consolato, Mario era stato rieletto console, nel 104 e nel 103, per affrontare il pericolo germanico, nel 102 riuscì ad annientare, presso Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), le schiere dei Teutoni e degli Ambroni, che, staccatisi dai Cimbri, si preparavano a invadere l’Italia. L’anno seguente, Mario aiutò il suo collega Quinto Lutazio Catulo a sconfiggere i Cimbri presso Vercellae.

181 a.C.-2019 d.C. Aquileia

di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.

 

Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.

 

Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.

L’area del Foro romano, Aquileia.

 

A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviri Publio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.

L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.

 

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).

Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia — l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.

Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).

 

Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.

Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia  gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.

 

Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.

 

Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.

Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.

Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).

 

Tiberio Sempronio Gracco

di W. Blösel, I Gracchi e la disgregazione della nobilitas fino alla dittatura di Silla (dal 133 al 78), in Id., Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. Colla), Torino, Einaudi, 2016, pp. 133-138.

 

I due fratelli che dovevano dare un forte impulso alla storia degli anni dal 133 al 121 appartenevano all’alta nobilitas, e in certo modo vi erano quindi predestinati. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162, e suo fratello Gaio, più giovane di nove anni, avevano per padre un uomo che era stato due volte console (nel 177 e nel 163) e aveva celebrato un trionfo, e per madre Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano. Inoltre la loro sorella Sempronia aveva sposato Scipione Emilano. All’età di soli quindici anni, Tiberio Gracco, al comando di suo cognato, aveva ottenuto la corona muralis, perché per primo era salito sulle mura di Cartagine. Aveva poi sposato la figlia di Appio Claudio Pulcro, il censore del 136, appartenente anch’egli alla più elevata nobilitas. Ma la vergogna di aver concordato e redatto nel 137, quand’era questore, gli articoli del trattato della capitolazione di Mancino di fronte ai Numantini parve aver posto termine alla sua carriera prima ancora che fosse cominciata. Perciò, Tiberio Gracco cercò di riacquistare popolarità come tribuno della plebe.

Al massimo dall’inizio del III secolo, però, il tribunato della plebe non era più, fatte salve poche eccezioni, come quello di Gaio Flaminio nel 232, un mezzo per imporre le richieste dei semplici cittadini, ma piuttosto un metodo impiegato dall’aristocrazia senatoria per soffocare sul nascere, grazie al veto tribunizio, le iniziative di legge dei sommi magistrati che fossero ad essa sgradite, e per produrre consenso all’interno del ceto dirigente.

 

Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.

 

Contro le iniziative di legge di Gracco l’opposizione di molti tra i senatori era garantita: infatti, egli mirava a limitare fortemente l’utilizzazione dell’ager publicus da parte dei Romani ricchi, che fino a quel momento l’avevano occupato quasi completamente. Ognuno di essi avrebbe dovuto occuparne infatti soltanto cinquecento iugera (= centoventicinque ettari), e in aggiunta altri duecentocinquanta iugera (= sessantadue ettari e mezzo) per ogni figlio. Agli attuali proprietari doveva quindi rimanere ancora una parte considerevole dell’agro pubblico, e inoltre in pieno diritto di proprietà. L’agro pubblico così recuperato doveva essere distribuito agli agricoltori poveri: ognuno doveva riceverne da venti a trenta iugeri (= da cinque a sette ettari e mezzo), sufficienti al mantenimento di una famiglia. I nuovi possessori dovevano inoltre versare un piccolo vectigal allo Stato, anche a indicare che non erano proprietari del lotto di terreno, che doveva restare inalienabile. In generale, la proposta di legge agraria avanzata da Gracco può essere considerata di ispirazione moderata, tanto più che il limite legale di cinquecento iugeri di agro pubblico sussisteva già almeno dal 167, anche se evidentemente non era mai stato rispettato con rigore. Dietro alla sua iniziativa c’erano comunque anche il suocero, Appio Claudio Pulcro, poi Publio Mucio Scevola, il noto giurista, oltre che console per il 133, e suo fratello Publio Licinio Crasso Divite Muciano, il futuro console del 131: tutti pesi massimi, nella scena politica romana. Probabilmente, l’idea fu di Pulcro, un uomo estremamente sicuro di sé, che intendeva in tal modo toccare problemi che angustiavano una molteplicità di cittadini e acquistarsi così una popolarità legata a contenuti concreti. Già nel 145, però, o forse nel 140, una proposta simile di distribuzione delle terre, presentata da Gaio Lelio, era fallita per l’opposizione dei senatori. Per questo motivo Gracco presentò la propria proposta direttamente al popolo per il voto, senza consultare precedentemente il senato, in modo che un parere negativo di quest’ultimo non potesse incidere sulle sue possibilità di fronte ai comizi.

 

Gruppo dell’Aratore. Statuetta, bronzo, 430-400 a.C. ca. da Arezzo. Roma, Museo di Villa Giulia.

 

Nell’adottare questa insolita procedura, Tiberio Gracco approfittò di una recente innovazione. Infatti, la Lex Gabinia tabellaria, del 139, e la Lex Cassia, del 137, avevano prescritto la votazione per mezzo di tabellae (schede), quindi segreta, nell’elezione dei magistrati e nel tribunale popolare. Per i voti sulle proposte di legge, questo avvenne certamente soltanto nel 131, grazie alla Lex Papiria. Prima, i cittadini romani avevano sempre espresso a voce il loro voto di fronte allo scrutatore. Gli stretti passaggi sui quali votavano, i pontes, erano però abbastanza ampi da permettere il controllo da parte dei loro patroni. L’introduzione delle schede indica già quindi un precedente allentamento delle relazioni clientelari tra ceti elevati e semplici cittadini, mentre per la massa dei Romani che si erano riversati nella metropoli nel corso del II secolo certamente ci si possono attendere soltanto deboli legami con i patroni. E però, proprio la votazione segreta verosimilmente puntellò il sistema clientelare, in quanto in questo modo un cittadino legato a più patroni poteva evitare di mettere in pubblico questa sua situazione conflittuale. E le parecchie migliaia di sostenitori che accompagnavano Tiberio Gracco nelle sue apparizioni pubbliche stanno a dimostrare che era riuscito a legare politicamente a sé moltissimi cittadini.

Aspettandosi violente orazioni a lui contrarie da parte dei senatori nelle tre contiones che precedevano il voto, la strategia oratoria di Gracco fu aggressiva fin dall’inizio. Secondo Plutarco[1], che riporta almeno nel suo indirizzo generale l’orazione di Gracco, nota ancora alle generazioni successive, egli compianse il dolore dei soldati-agricoltori romani, che venivano chiamati da generali ipocriti a difendere sepolcri e santuari ma che non erano più nemmeno padroni di se stessi, che erano celebrati come signori del mondo ma non potevano dire propria neppure una zolla di terra. Erano costretti, infatti, a combattere soltanto a beneficio di altri.

 

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

 

La sua forte polemica contro la nobilitas spiega la dura opposizione da parte dei senatori, per i quali la restituzione di parte dell’agro pubblico già utilizzato avrebbe significato la perdita degli investimenti fatti per le coltivazioni di ulivi e altri alberi da frutto. Verosimilmente, nella legge agraria gli agricoltori più poveri fiutarono invece la possibilità di disporre di mezzi e terreno sufficienti per vivere, e anche quella di essere reclutati come legionari. La legge offriva infatti la possibilità di allargare notevolmente la base del reclutamento per l’esercito, sempre più stretta. Oltre alla sostanziale fondatezza degli argomenti di Gracco, forse i cittadini gli si avvicinarono nella prospettiva di non essere più solo un mero serbatoio di voti, utile al ceto superiore, ma di poter acquisire un proprio peso politico come forza d’opposizione, diventando quindi una sorta di «ago della bilancia». Comunque, l’aristocrazia senatoria tracciò una linea di sbarramento, inducendo un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, a opporre il veto alla lettura della proposta. Gracco annunciò allora la sospensione generale di tutte le attività amministrative (iustitium). Di fronte alla plebs urbana schierata con Gracco, non ebbe effetto il rituale squalor dei senatori, che si vestirono a lutto. In seguito alle preghiere rivoltegli da due consolari, Gracco accettò di trattare ancora con i senatori. Ma il loro contegno duramente ostile rese impossibile il compromesso, e Gracco rifiutò ulteriori incontri. Per quanto la cultura politica di Roma repubblicana richiedesse, in caso di forti conflitti d’opinione, di fare concessioni reciproche per salvare la faccia e giungere a un accordo, Gracco non poté accondiscendere alle richieste eccessive dei senatori e ritirare la legge agraria, tanto più che la plebe ne aveva riconosciuto l’assoluta fondatezza. Quando Ottavio pose duramente il proprio voto, Gracco fece votare dall’assemblea popolare la sua destituzione dalla carica, poiché Ottavio, per quanto fosse tribuno della plebe, non agiva nell’interesse del popolo. Nel pensiero di Gracco, l’idea astratta della volontà popolare era al di sopra di tute le funzioni di controllo e di creazione del consenso che il tribunato della plebe aveva esercitato nei due secoli precedenti. Dopo che già diciassette delle trentacinque tribù ebbero votato per la destituzione di Ottavio, prima della lettura del voto decisivo, quello della diciottesima, Gracco chiese ancora una volta a Ottavio di ritirare il proprio veto. Come la cittadinanza riunita in assemblea giudicasse la destituzione, del tutto priva di precedenti e molto dubbia dal punto di vista costituzionale, di un regolare tribuno della plebe, si comprese facilmente a destituzione avvenuta, perché subito dopo cercò, pur vanamente, di linciarlo.

 

Giannino Castiglioni, Mensor romano intento all’utilizzo della groma per tracciare allineamenti ortogonali. Scultura, fusione di bronzo a cera persa, 1936-1937. Reggio Emilia, Museo della Civiltà Romana.

 

Nella commissione preposta all’applicazione della legge agraria, Gracco fece eleggere se stesso, suo fratello Gaio, allora impegnato come soldato nell’assedio di Numanzia, e suo suocero, Appio Claudio Pulcro. Il senato, però, negò alla commissione i fondi necessari. Più ancora, il suo lavoro fu impedito dalla mancanza di esatti rilievi catastali dei territori dell’Italia meridionale. Inoltre, spesso venivano spostate le pietre di confine, terreni sottoposti a diverso regime giuridico venivano confusi insieme, o ancora una porzione di agro pubblico era stata venduta, contro la legge, e i nuovi possessori non volevano restituirla. La commissione agraria fu subissata perciò di denunce. Vista la situazione, Gracco con una legge le affidò quindi anche l’arbitrato nei conflitti, e il ceto superiore perse così ogni voce in capitolo contro questa magistratura, che riuniva in sé la fase istruttoria e quella giurisdizionale.

Cippo gromatico graccano. Illustrazione dal CIL I, 2933a (p. 923) = AE 1973, 222 = AE 1980, 354a, da Celenza Valfortore (FG).

Alla mancanza di fondi della commissione agraria venne poi in soccorso una circostanza favorevole e insperata: Attalo III, re di Pergamo, nel suo testamento lasciò in eredità il proprio regno ai Romani. Infatti, dopo la guerra di Perseo del 168, le continue vessazioni di Roma contro il regno di Pergamo avevano indotto Attalo ad affidarne la responsabilità direttamente ai Romani, dopo la sua morte (che avvenne poi nel 133). Gracco, proponendo per legge di utilizzare gli introiti provenienti dall’eredità di Pergamo per coprire le spese della legge agraria, sorpassò il senato nel suo ambito precipuo, la politica estera e finanziaria. Il senato rischiava perciò di essere messo ai margini dall’assemblea popolare. In seguito a questo attacco frontale, Gracco doveva aspettarsi, al termine della carica, di essere accusato davanti a un tribunale composto esclusivamente da senatori. Il suo rientro nei ranghi della nobilitas non pareva più possibile. Per evitare la fine della propria vicenda, non gli rimaneva che cercare di proseguire nella carica, restando in tal modo giuridicamente inattaccabile.

Quando, nell’estate del 133, si presentò per essere rieletto, molti dei suoi sostenitori, provenienti dalla campagna, non poterono essere presenti, perché era il pieno periodo della mietitura. Il pontifex maximus Publio Cornelio Scipione Nasica riunì allora un folto gruppo di senatori per cercare insieme la svolta decisiva. Diffusero quindi ad arte la voce per cui Gracco avrebbe in realtà mirato al regno, e si sarebbe già addirittura procurato il diadema regale di Attalo. Poi, infuriati, sempre con il sommo sacerdote in testa, assaltarono con i loro accoliti il Campidoglio, dove si svolgevano i comizi elettorali, e il popolino alla vista di tutti quei senatori armati di pietre e randelli arretrò. Due tribuni della plebe colpirono allora Gracco con una gamba di seggio; in totale persero la vita circa duecento Romani. Il cadavere di Gracco fu gettato poi nel Tevere, per impedire che si potesse identificare un luogo preciso dove ricordare e venerare la sua figura di martire politico. Nei mesi seguenti, molti dei suoi sostenitori vennero condannati a morte, senza possibilità di difesa.

 

L’uccisione di Tiberio Gracco. Illustrazione di Denis Gordeev.

 

Un assassinio nel cuore per definizione pacificato della repubblica, anzi addirittura nel centro religioso di Roma, rappresentava un salto di qualità, nella lotta politica. La particolare forma in cui si era manifestata la violenza dei senatori, che non avevano scelto la spada, come sarebbe stato nella consuetudine aristocratica, ma si erano presentati al popolo con armi come pietre e randelli, come se fossero stati essi stessi popolo, doveva far pensare a un tirannicidio.

Tiberio Gracco aveva mirato a sottrarsi al consueto controllo da parte degli appartenenti al suo ordine destituendo il suo collega, facendosi rieleggere e stabilendo l’inoppugnabilità delle decisioni della commissione agraria. Lo sfruttamento delle competenze proprie del tribunato della plebe aveva liberato l’enorme potenziale di questa magistratura, nato nella fase rivoluzionaria della sua fondazione, e aveva creato un precedente che apriva nuove, allettanti prospettive ai giovani aristocratici, in un’epoca di aspra concorrenza e di diminuite risorse.

Questa esplosione di violenza mostra chiaramente il pericolo a cui era esposto il sistema politico di Roma quando le complesse trattative all’interno del suo ceto dirigente venivano bloccate: entrambe le parti erano diventate rappresentative di grandi gruppi, e questo rendeva impossibile qualsiasi concessione, anche parziale. Il consolidamento degli interessi particolari divise la cittadinanza romana, e condusse infine a una sua duratura lacerazione. A tutta questa situazione, si aggiunse l’ambizione personale di Tiberio Gracco, che con la sua proposta clamorosa voleva compensare la perdita d’immagine seguita alle trattative per la capitolazione di Mancino. Soccombere allo strapotere dei nobiles avrebbe significato la fine della sua carriera politica. Secondo il giudizio di uno storico del mondo antico, Bernhard Linke, egli «finì in fuorigioco per la dinamica propria della sua disponibilità al rischio».

 

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Note:

[1] Plutarco, Tiberius Gracchus, 9.

 

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Bibliografia ragionata (tratta da Blösel, pp. 248-250):

BRUNT P.A., The Fall of the Roman Republic and Related Essays, Oxford 1988 (trad. it., La caduta della Repubblica romana, Roma-Bari 1988).

STOCKTON D., The Gracchi, Oxford 1979.

THOMMEN L., Das Volkstribunat der späten römischen Republik, Stuttgart 1989.

 

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Altri studi:

BAUMAN R.A., The Gracchan Agrarian Commission. Four Questions, Historia 28 (1979), pp. 385-408.

BRENDAN NAGLE D., The Etruscan Journey of Tiberius Gracchus, Historia 25 (1976), pp. 487-489.

DART C.J., The Impact of the Gracchan Land Commission and the dandis Power of the Triumvirs, Hermes 139 (2011), pp. 337-357.

GARNSEY P., RATHBONE D., The Background to the Grain Law of Gaius Gracchus, JRS 74 (1985), pp. 20-25.

GEER R.M., Notes on the Land Law of Tiberius Gracchus, TAPhA 70 (1939), pp. 30-36.

KATZ S., The Gracchi. An Essay in Interpretation, CJ 38 (1942), pp. 65-82.

LINDERSKI J., The Pontiff and the Tribune. The Death of Tiberius Gracchus, RQ II (2007), with addenda.

MORGAN M.G., WALSH J.A., Ti. Gracchus (TR. PL. 133 B.C.), The Numantine Affair, and the Deposition of M. Octavius, CPh 73 (1978), pp. 200-210.

ROSELAAR S.T., References to Gracchan Activity in the Liber Coloniarum, Historia 58, 2 (2009), pp. 198-214.

STANLEY SPAETH B., The Goddess Ceres and the Death of Tiberius Gracchus, Historia 39 (1990), pp. 182-195.

TANNEN HINRICHS F., Der römische Straßenbau zur Zeit der Gracchen, Historia 16 (1967), pp. 162-176.

TAYLOR L.R., Forerunners of the Gracchi, JRS 52 (1962), pp. 19-27.

TILLEY A., The Ages of the Gracchi, CR 2 (1888), pp. 37-38.

VON STERN E., Zur Beurteilung der Politischen Wirksamkeit des Tiberius und Gaius Gracchus, Hermes 56, 3 (1921), pp. 229-301.

 

 

 

 

I Marsi «apud finem Gallicum»

da A. La Regina, I sanniti, in AA.VV., Italia, omnium terrarum parens. La civiltà degli Enotri, Choni, Ausoni, Sanniti, Lucani, Brettii, Sicani, Siculi, Elimi, Milano 1989, pp. 399-401.

 

Alla guerra combattuta in Umbria e in Etruria negli anni 295 e 294 a.C. è da ricondurre il contenuto di un importante documento epigrafico proveniente dalla Marsica, dai pressi del grande santuario di Lucus Angitiae, ove esso era stato collocato in antico. Si tratta della dedica votiva di Caso Cantovios (CIL I2 5, vd. anche fasc. IV [1986], p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961) incisa su una sottile lamina bronzea. Dell’iscrizione, ora non più reperibile presso la collezione Torlonia, sono noti due apografi: uno del Barnabei, pubblicato in NSA (1877), tav. xiii, e l’altro di Jordan, ripreso in CIL I2. La documentazione raccolta dal Barnabei è conservata, e consiste in due apografi quasi uguali, dipinti ad acquerello, che riproducono l’oggetto a grandezza naturale, e tre fotografie, più piccole, di cui due della parte anteriore della lamina, e una della parte opposta su cui le lettere appaiono rovesciate e a rilievo. È inoltre conservato un appunto del Barnabei, scritto a matita, con annotazioni prese durante l’autopsia dell’oggetto, da cui trascrivo alcuni passi:

«L’altezza si può segnare con precisione essendo intatti i due lati superiore e inferiore… 0, 11. Vi è un buco a metà di ciascun lato. I due laterali sono intatti, l’inferiore e il superiore restano per metà. Superiormente ed inferiormente sono praticati nella lamina di bronzo tanti forellini con congegno assai adatto, sicché ogni forellino risultava di esatta rotondità senza lasciare smussature sulla faccia sottoposta. Non così è avvenuto pei fori grandi che sembrano fatti dopo la scrittura e con congegno ordinario, sicché essi presentano di sotto l’aspetto stesso di un foro di grattugia. È anche da notare che i forellini sono stati fatti dalla faccia stessa della scritta. Non saprei per altro affermare con certezza se ai due lati mancassero assolutamente i fori. L’ossido della lamina vi si diffonde egualmente, e farebbe supporre che non ve ne fossero, tuttavia sul lato sinistro di chi guarda al rigo 8 accanto al P è un foro fatto col sistema stesso dei forellini, ma un poco più grande, il quale potrebbe aver trovato simmetria in altri lati o nelle parti mancanti. Nel lato superiore si contano 53 forellini, altri aperti, altri chiusi dall’ossido, ed altri frammentati».

Il testo è scritto in latino e, benché da molto sia stato considerato più antico per la direzione della scrittura imperfettamente bustrofedica, esso deve essere datato agli inizi del III secolo a.C., come è stato già osservato dal Peruzzi sulla base dei segni alfabetici. Un altro elemento di datazione, finora non rilevato, ma ben evidente dalla descrizione del Barnabei, è costituito dalla lamina bronzea, in cui dobbiamo riconoscere senza alcun dubbio un frammento di cinturone, del tipo a fascia rettangolare molto alta, delimitata lungo i bordi da forellini fittamente accostati tra loro, che servivano per la cucitura sul supporto di cuoio, databile tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. (Papi 1988, pp. 152 ss.). Dalla descrizione del Bernabei si ricava che l’iscrizione è stata incisa sulla faccia interna del cinturone, poi fissata con quattro chiodi all’oggetto a cui si riferiva la dedica.

Nel suo complesso l’interpretazione del testo è ormai acquisita. Esso si riferisce a un oggetto che portarono, atolero, come dono votivo ad Angitia, Actia, a nome delle legioni marse i socii di Caso Cantouios Aprufclano, il quale si era impossessato dell’oggetto stesso, ceip(ed)= cepit, preda bellica, apur finem e/ṣalicom en ur/bid Casontoni/a/. Questa è la trascrizione comunemente accolta. Il Peruzzi, per primo, ha messo in dubbio la lettura e/ṣalicom, perché della s resta in effetti solo un breve tratto obliquo in alto, che non escluderebbe la possibilità di leggere e/talicom. Le operazioni di Caso Cantovios avrebbero avuto luogo, secondo il Peruzzi, in Lucania ove sarebbe da collocare il confine dell’Italia in quell’epoca. I Marsi avrebbero quindi partecipato, come alleati, alle imprese di Scipione Barbato. È però quanto mai improbabile che agli inizi del III secolo a.C. in ambiente latino si utilizzasse, per definire il confine italico, la nozione dell’Italia che avevano i Greci nel V secolo a.C.. Il testo può essere però interpretato diversamente, anche sulla base delle fotografie.

Dalla parola comunemente trascritta e/salicom la prima lettera si trova alla fine della terza riga ed è seguita da uno spazio non utilizzato per la scrittura. Per di più la riga seguente non mantiene la direzione bustrofedica, rispettata normalmente nel testo. La lettera e, infine, non appare ben marcata come le altre ma, nel disegno del Barnabei, risulta alquanto confusa e incompleta in basso; sulle tre fotografie essa non compare affatto ed è anzi possibile rilevare da esse che lo spazio dopo finem è occupato da una ribattitura eseguita proprio per cancellare una lettera. Questa operazione può per altro ben spiegare l’interruzione della progressione bustrofedica. Per cancellare un segno inciso su una lamina metallica così sottile è infatti necessario ribattere anche sulla superficie opposta. Se la lettera cancellata era effettivamente una e, di cui il Barnabei e Jordan hanno visto qualche traccia, l’incisore aveva omesso per errore la parola che doveva essere scritta dopo finem e aveva cominciato a scrivere la parola successiva en. Della lettera all’inizio della quarta riga resta solo l’estremità superiore obliqua, seguita da alicom. Essa non può essere una t, come ha pensato il Peruzzi, perché in tal caso il tratto superiore risulterebbe eccessivamente inclinato, e quindi anomalo rispetto a tutte le altre t che compaiono nella stessa iscrizione. D’altra parte la sua ricostruzione come s sembra essere stata suggerita più dal bordo della frattura che da altri elementi. Dalle fotografie risulta infatti che il tratto residuo della sommità della lettera è meno rettilineo di quanto compare sul disegno. Il suo andamento suggerisce piuttosto la ricostruzione di una c un po’ inclinata in avanti, come è incisa altre tre volte nella stessa iscrizione. Abbiamo dunque non e/salicom o e/talicom, bensì [[e]]/calicom = Gallicum.

 

Dedica votiva di Caso Cantovios, capo marso, alla dea Angitia. Bronzo, III sec. a.C. ca., dal Lucus Angitiae (Marsica); CIL I2, 4, p. 859 = ILLRP 5 = Peruzzi 1961.

Il testo può essere dunque così trascritto:

 

Caso Cantouio/s Aprufclano cei/p(ed) apur finem [[e]]/

C̣alicom en ur/bid Casontoni//socieque dono/m

atolero Ac̣tia/pro l[ecio]nibus Mar/tses.

 

Nella prima parte dell’iscrizione si può riconoscere la formula di consueto adottata nelle dediche consolari, o comunque di comandanti militari, per oggetti predati nel corso delle operazioni belliche e portati in patria per essere deposti in santuari o in luoghi pubblici (CIL I2 608, 615, 622, specialmente 613: L. Quinctius L. f. Leucado cepit eidemque consol dedit). Caso Cantovios era dunque un comandante marso. Il suo cognome etnico ne rivela l’origine da una località con il nome sabellico di Aproficulum, si veda il pagus Ficulanus dei Vestini (CIL IX 3578) e il pagus Capriculanus a Nola (CIL X 1279), da ricercare certamente nel territorio dei Marsi. Egli doveva aver partecipato a operazioni militari che lo avevano condotto apud finem Gallicum alla testa delle sue legioni marse. Il bottino prelevato in urbe Casontonia dimostra che egli espugnò la città.

Questa non è identificata, e si è anche dubitato della forma esatta del nome, perché il segno usato per la s è irregolare (Peruzzi, p. 185 s.), ma la lettera è semplicemente mal scritta, vedi CIE 4203 casuntinial e 3688 casntinial, ambedue da Perugia. L’urbs Casontonia può essere riconosciuta in quello che poi sarà il municipium Casuentinorum, menzionato in un’iscrizione del 240 d.C. (CIL XI 4209, Terni), il cui etnico compare in Plinio, Nat. Hist. III 113 nella forma Casuentillani. Il nome sopravvive ancora oggi nel “Casentino”, la regione che si estende nell’alta valle dell’Arno, a nord di Arezzo, abitata in antico da popolazioni umbre (Nissen I 304; Beloch RG 573; Thomsen IR 116). L’etnico Casuentini presuppone il nome di città Casuentum (Casentium, nel Lib. Col. 255 L). In urbe Casuentina è dunque reso nel latino dialettale della Marsica en urbid Casontonia, ove la forma aggettivale è interpretata come sostantivo del tipo “Milonia”, “Aquilonia”, ecc.

Tutti questi elementi conducono facilmente alla individuazione del contesto storico in cui si inseriscono le vicende di Caso Cantovios. Nell’anno 295 a.C. fu inviato da Roma sul fronte settentrionale, ove dovevano essere affrontate le forze congiunte di Galli, Etruschi, Umbri e Sanniti, un esercito costituito non solo dalle quattro legioni romane e dalla cavalleria, ma anche da mille cavalieri campani e da altri contingenti formati da socii e da Latini, superiori in numero alle forze romane (Liv. X 26, 14). Dopo la battaglia di Sentino, la guerra continuò in Etruria contro Perusia e Clusium, nello stesso anno (Liv. X 30, 2; 31, 3), e contro Rusellae, Volsinii, Perusia e Arretium nell’anno seguente (Liv. X 37, 3-4).

Caso Cantovios, con le sue legioni marse, deve dunque aver partecipato a queste operazioni; prima a Sentinum, ove furono impiegate tutte le forze disponibili, e poi nell’anno successivo nei territori umbri ed etruschi al seguito di Q. Fabio, spingendosi fino a Casuentum. Come ha giustamente arguito il Peruzzi, Caso Cantovios deve essere morto in guerra, e le persone al suo seguito devono aver sciolto per lui, a nome delle sue legioni, il voto fatto ad Angitia, portando nel santuario l’oggetto su cui era affissa la lamina bronzea iscritta, ricavata dal cinturone di un’armatura italica, e forse dal cinturone dello stesso Caso Cantovios. Casuentum, sopravvissuta come municipio fino alla tarda antichità, si doveva trovare nell’area che nel Medioevo portava il nome di “Casentino”, più ristretta di quella che tuttora lo mantiene.

Testa di guerriero con elmo, da Pagliaroli di Cortino. Museo archeologico di Teramo.

Gli studi dello Schneider (1914, pp. 75; 94 = 1975, pp. 82, 100) hanno dimostrato che, finché durò l’istituzione dei comitati, nessuna località a sud del confine aretino, ossia a partire dalle pievi di Buiano, Bibbiena, Pàrtina e Sòcana, è mai stata definita in Casentino. Il municipium Casuentinorum occupava la parte estrema settentrionale della valle superiore dell’Arno, delimitata a nord dal Monte Falterona. Questo aveva costituito il confine naturale tra le popolazioni umbre insediate sul versante meridionale e i Galli che occupavano i territori pedemontani immediatamente a nord. Un sepolcreto gallico, datato tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. ne documenta infatti la presenza a Rocca San Casciano (Prati 1979, pp. 133-136). Il territorio dei Casuentini poteva dunque a buon diritto dirsi, agli inizi del III secolo a.C., «apud finem Gallicum».