di G.B. CONTE, Da Costantino al sacco di Roma (306-410), in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 525-528.
I grammatici: Carisio, Diomede, Dositeo
La continuità con il passato fu […] assai forte nel mondo della scuola, che proseguì lungo le linee di crescita quantitativa e qualitativa già notate nel secolo precedente. Per la scuola passavano i figli dei senatori e i futuri burocrati, nella scuola si ponevano le basi dei futuri assetti ideologici dello Stato: di qui una grande attenzione verso di essa da parte dei Cristiani, ma anche del potere, con una copiosa legislazione in proposito, che divenne particolarmente precisa sotto Giuliano l’Apostata (imperatore dal 361 al 363), che tentò di restaurare la religione tradizionale: questi proibì ai maestri cristiani l’insegnamento nelle scuole e impose la lettura e lo studio dei soli autori pagani. Quanto ai programmi di insegnamento e alla produzione dei manuali, la tendenza è verso la creazione di grosse raccolte e repertori enciclopedici, che mettano insieme tutta la cultura classica per tramandarla ai posteri.
Tra le opere in questo senso più significative si possono ricordare la grammatica di Flavio Sosipatro Carisio, che, intorno alla metà del secolo, insegnò a Roma e a Costantinopoli e compose un’Ars grammatica in cinque libri, dedicati al figlio, con aggiunte di osservazioni di stilistica e di metrica; l’Ars grammatica di Diomede, in tre libri, su morfologia, stilistica e metrica; e l’Ars grammatica di Dositeo, interessante perché è una grammatica latina preparata per studenti di lingua greca. Tutte queste opere – ma, in particolare, quella di Carisio – conservano parecchi frammenti di opere latine altrimenti perdute.

Nonio Marcello
Sempre in campo grammaticale, di gran lunga più importante è l’opera enciclopedica di Nonio Marcello, un africano di età costantiniana, il quale scrisse un trattato dal titolo De compendiosa doctrina, in venti libri di lunghezza assai diseguale (si va da una pagina sola dell’ultimo libro alle oltre trecento del quarto). L’opera, dedicata al figlio, si lascia facilmente dividere in due parti: la prima, comprendente i libri I-XII – quella senza paragone più interessante per i moderni – è di contenuto più propriamente linguistico e grammaticale, mentre la seconda (libri XIII-XX), assai più breve (occupa appena un ventesimo del totale del De compendiosa doctrina), è dedicata a singoli argomenti di carattere per lo più antiquario (le navi, gli utensili domestici, l’abbigliamento, l’alimentazione, ecc.) e il suo interesse è legato alla descrizione di usi e costumi romani.
Nonio ha nella storia della letteratura latina un’importanza del tutto particolare, di carattere, per così dire, riflesso. La prima parte del De compendiosa doctrina è, infatti, organizzata secondo una successione di lemmi, dei quali Nonio spiega il significato o l’uso o particolari attenzioni, ecc., illustrando ogni volta la sua spiegazione con citazioni da autori antichi, molti dei quali non sono giunti per tradizione diretta. Le tragedie di Livio Andronico, Nevio, Ennio, soprattutto quelle di Pacuvio e di Accio; le commedie palliate di Turpilio e le togate di Titinio e Afranio; le atellane di Pomponio e Novio; i mimi di Laberio; le satire di Lucilio e quelle (le Menippeae) di Varrone; le opere storiche di Quadrigario e di Sisenna, il De vita populi Romani di Varrone, le Historiae di Sallustio: di questa produzione tutto, o almeno una parte notevole, sarebbe per noi perduto senza le citazioni di Nonio.
È, dunque, una fortuna per i moderni che gli interessi di Nonio andassero prevalentemente in direzione degli autori di età repubblicana – anche molto antica (e questa predilezione, che ha fatto vedere in Nonio uno degli ultimi esponenti della corrente degli arcaisti, è confermata anche dalle citazioni degli altri autori, quelli che ci sono arrivati anche per tradizione diretta: oltre ai nomi scontati di Virgilio e Cicerone, quelli che ricorrono più frequentemente nel De compendiosa doctrina sono Plauto, Terenzio e Lucrezio).
Si capisce come, nonostante lo si sia a ragione accusato di disordine, di confusioni, di fare citazioni errate nella forma e nella sostanza, Nonio sia stato sempre oggetto di attenti studi (i quali si sono intensificati in tempi più recenti). Gli studiosi hanno cercato di approfondire la conoscenza della preziosa biblioteca che Nonio doveva avere a disposizione e di ricostruire i criteri con i quali il grammatico ordinò i suoi lemmi (essi non sono infatti disposti in ordine alfabetico, con la parziale eccezione dei libri II-IV, dove l’ordine, secondo l’uso romano, è rispettato solo per la prima lettera della parola: e anche in questo caso si pensa che l’ordine alfabetico non sia dovuto a Nonio, ma a grammatici successivi). Si è persino riusciti a individuare corrispondenze fra l’ordine progressivo nel quale le citazioni di una data opera compaiono nel testo di Nonio e quello nel quale i passi citati si trovavano all’interno dell’opera andata perduta. In conclusione, di autori (come, per esempio, Lucilio) che, se non si possedessero le citazioni di Nonio, sarebbero poco più che semplici nomi per il lettore moderno, grazie al De compendiosa doctrina e agli studi compiuti su di esso, si hanno ora molti frammenti e addirittura, per alcuni libri, la possibilità di una verosimile ricostruzione complessiva: insomma, ogni studioso di frammenti di età latina arcaica dev’essere anche, nello stesso tempo, uno studioso di Nonio Marcello.

I commentatori: Donato e Servio
Spesso i grammatici non si limitavano a comporre manuali, ma stendevano anche commenti ai classici. Si tratta di opere per i moderni assai preziose, sia perché documentano la complessa dottrina grammaticale di alcuni fra i più prestigiosi uomini di scuola, sia soprattutto perché attraverso essi è possibile capire in che modo fossero letti e interpretati i grandi scrittori dei secoli precedenti. Così Elio Donato, che fu forse il maggiore tra i grammatici del IV secolo e che ebbe fra i suoi allievi a Roma, intorno alla metà del secolo, pure San Girolamo, preparò due trattati di grammatica (un’Ars minor, più elementare, sulle otto parti del discorso; e un’Ars maior, per gli studi più avanzati di stilistica e di metrica) che erano destinati a divenire il libro di testo su cui, per secoli, fino al Medioevo e oltre, i giovani avrebbero imparato il latino. Accanto a questi fortunatissimi manuali egli predispose anche un commento a Virgilio, che è, purtroppo, quasi completamente perduto, e uno a Terenzio. Del primo è rimasta soltanto una Vita Virgilii – peraltro utilissima, perché impiega una fonte attendibile come Svetonio – un’introduzione alle Bucoliche e una dedica a Lucio Munazio; il secondo è pervenuto quasi per intero, giacché manca soltanto la parte relativa all’Heautontimorùmenos, con notazioni stilistiche ed erudite che non si limitano solo al testo terenziano, ma riguardano anche vari aspetti del teatro antico.
Tiberio Claudio Donato, confuso fino al XIX secolo con Elio Donato, visse probabilmente tra la fine del IV e l’inizio del V. Fu autore di Interpretationes Vergilianae (un commento a Virgilio), divise in dodici libri, ciascuno dei quali illustra un libro dell’Eneide: quest’opera è giunta per intero.

Molto ricco e complesso è il commento a Virgilio di Servio, che fu probabilmente discepolo di Elio Donato e tenne poi scuola a Roma. La sua fama è confermata dalla scelta di Macrobio, che, nei Saturnalia, affida proprio a Servio la trattazione di delicati problemi di esegesi virgiliana. Il commento risale più o meno ai primi decenni del V secolo.
Se ne possiedono, oggi, due redazioni diverse: una più breve, tramandata esplicitamente sotto il nome di Servio, ed una più ampia, rinvenuta nel Seicento dall’umanista francese Pierre Daniel e per questo denominata Servius Danielinus (o Servius auctus). A lungo si è creduto che il testo più ampio fosse quello più vicino al commento originale che, nel processo di trasmissione attraverso i secoli, avrebbe subito successive riduzioni. Solo alla fine dell’Ottocento l’intensificarsi degli studi su Servio ha portato a notare l’unitarietà del testo breve – per cui perde credito l’ipotesi che esso sia il frutto di una drastica opera di riduzione – e a rilevare, per converso, il carattere spesso aggiuntivo delle note “danieline”. Si tende, perciò, oggi a credere che il cosiddetto Servius auctus sia opera di un compilatore (collocabile tra il VII e l’VIII secolo), che avrebbe unito il commento di Servio ad altro prezioso e antico materiale, in primo luogo al commento di Elio Donato, cui lo stesso Servio avrebbe, peraltro, ampiamente attinto.
Sia Servio che le note “danieline” forniscono notizie relative alla composizione, interessanti osservazioni stilistiche e soprattutto grammaticali. Grande spazio è riservato all’esegesi: spessissimo sono presentate diverse interpretazioni del testo, che quasi sempre vengono discusse e giudicate. Molto di questo materiale è tratto più o meno esplicitamente da grammatici e commentatori virgiliani più antichi. Oltre a ciò, molti sono gli scholia che conservano preziose notizie di antiquaria, sulla religione e sul culto, oppure osservazioni linguistiche e prosodiche, o interpretazioni allegoriche delle opere virgiliane.
Nel suo insieme tutto il commento riveste interesse anche ai fini dell’esatta ricostruzione del testo virgiliano: oltre alla lezione del lemma sono spesso riportate anche altre lezioni rinvenute in manoscritti diversi. Servio, però, (e Servio Danielino, ovviamente), non è importante soltanto per lo studio di Virgilio, ma anche perché costituisce una preziosissima testimonianza sul modo in cui veniva affrontato nell’antichità lo studio delle opere letterarie. Non si deve, inoltre, trascurare il ruolo importantissimo che questo materiale scoliastico ha avuto nella conservazione – anche solo frammentaria – di testi che sarebbero altrimenti perduti. Viene così arricchita, per tradizione indiretta, la conoscenza dei moderni su autori la cui opera non è stata tramandata per intero, ma che devono a grammatici e a commentatori la loro parziale sopravvivenza.
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