ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.
Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.
Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.
Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.
Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.
Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.
La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.
La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.
“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.
Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.
da I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 43-45.
Muovendo dal Polo Nord, l’elemento sul quale si chiudeva la sezione proemiale, Arato introduce la descrizione delle costellazioni note come Orse, che infatti ruotano intorno a esso; le due costellazioni sono tra loro rovesciate, perciò ciascuna guarda con la testa la coda dell’altra, e si muovono all’indietro. Il poeta si sofferma a spiegarne l’origine mitica, collegata al racconto dell’infanzia di Zeus: le Orse occupano una posizione significativa in cielo, perché tengono fissa la volta celeste, visibile nell’emisfero settentrionale.
New York, The Morgan Library and Museum. Ms M. 389 (1469, Napoli), Phaenomena Arati Solensis, f. 11v. Le due Orse.
[…] Le due Orse, circoscrivendo [il polo dalla parte di Borea],
insieme gli ruotano intorno; e per questo si chiamano Carri.
Esse, dunque, hanno il capo sempre rivolto ciascuna verso le reni
dell’altra, e sempre si muovono in giro sul dorso,
volte indietro verso le spalle. Se è vero ciò che si racconta,
esse, da Creta, per volontà del grande Zeus,
ascesero al cielo, poiché un tempo, sul Dicte odoroso,
presso il monte Ida, lo posero, ancora neonato,
in una caverna e lo nutrirono per un anno intero,
mentre i Cureti del Dicte ingannavano Crono.
E l’una la chiamano con l’appellativo di Cinosura,
l’altra di Elice. E di Elice gli uomini Achei si servono come punto
di riferimento sul mare, quando bisogna guidare le navi;
invece, i Fenici attraversano il mare confidando nell’altra.
Ma Elice è splendente e facile a riconoscersi,
brillando intensamente fin dal principio dell’imbrunire;
l’altra, invece, è piccola, ma più preziosa per i naviganti:
essa infatti compie tutto il percorso con un giro più stretto,
e con lei anche quelli di Sidone navigano con rotta precisa.
Lyon, Bibliothèque municipale. Ms 172 (XV sec., Germania-Svizzera), Miscellanea astronomica, f. 41r. Le due Orse e il Draco.
Come l’epicureo Lucrezio rappresenta nell’alma Venus la voluptas, il principio fondamentale del suo sistema filosofico, così lo Zeus di Arato è ben lontano dal rispecchiare i caratteri tradizionali del sovrano del pantheon olimpico. In lui si identifica piuttosto l’ideale stoico della divinità, onnipotente, razionale e provvidenziale che, proprio per queste sue qualità, coincide con l’ordine perfetto, saldo e immutabile dell’universo; un principio divino e fisico al tempo stesso, che trova la sua evidente dimostrazione nell’eterno equilibrio della volta celeste, ruotando intorno al proprio asse, teso fra due poli. Di questo ordine universale, come già aveva affermato Esiodo, fanno parte anche gli esseri umani; per il loro benessere, il padre, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ (v. 15), fornisce, attraverso i segni celesti, le indicazioni necessarie per le varie attività produttive nel corso dell’anno, così che seguire ogni indizio che provenga da lui non significa soltanto disporre di una guida sicura, ma anche attribuire un profondo senso religioso a ogni atto della propria vita. La convinzione che osservare i φαινόμενα (le “manifestazioni”) del cielo sia per l’uomo una necessità morale, oltre che una norma infallibile, offre ad Arato il modo di passare, senza soluzione di continuità, dal proemio all’argomento; e la contemplazione del cielo notturno lo induce a soffermarsi sulle costellazioni dell’Orsa, familiari per diretta esperienza al popolo greco, abituato ai viaggi e alla vita di mare. A questo proposito, ecco apparire l’aspetto erudito della poesia aratea: memore delle esigenze del pubblico a cui intende rivolgersi, il poeta doctus attinge al vasto repertorio della sua cultura mitologica e spiega l’origine delle due costellazioni, facendo ricorso all’espediente del καταστερισμός («trasformazione in stella»), usato anche da Callimaco nella sua Chioma di Berenice. Una ben nota versione della saga sull’infanzia di Zeus narra che la madre Rea, per evitare che il bimbo fosse inghiottito da Crono, come tutti gli altri figli venuti alla luce prima di lui, lo affidò a due Ninfe del monte Ida (o del monte Dicte), figlie di Atlante, Elice e Cinosura, che si occuparono di allevarlo, mentre i Cureti (o Coribanti) ne coprivano i vagiti, battendo le lance contro gli scudi di bronzo, durante le loro danze orgiastiche. Ma Crono scoprì ugualmente l’accaduto, e si mise in cerca delle due Ninfe per punirle; allora Zeus le trasformò nelle due costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, che, con caratteristiche diverse, ma ugualmente utili, costituiscono un infallibile punto di riferimento per la rotta delle navi greche e fenicie.
da F. FERRARI, Epica storica e didascalica, in ID., R. ROSSI, L. LANZI (eds.), Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Con espansione online. Vol. 3: L’ellenismo e l’età imperiale, Bologna 2012.
L’attacco del poema contiene un Inno a Zeus, unico e sommo. Dato che il dio svolge una funzione propulsiva riguardo al lavoro dei campi, si ricalca qui il modello esiodeo. Zeus infatti dà agli uomini segni propizi, rivela quando la zolla è buona per la semina, ha disposto in cielo le costellazioni dalle quali si possono trarre i segni delle stagioni e i tempi del ciclo lavorativo, sì che ogni cosa cresca sicura.
Ma questo Zeus, nella sua bontà provvidenziale e nella sostanziale unicità, è identificabile anche con il dio supremo della dottrina stoica. Come nell’Inno a Zeus del filosofo Cleante, anche nel proemio dei Phaenomena il signore degli dèi della religione tradizionale personifica la mente divina reggitrice dell’universo.
Anche il dio di cui Arato elogia la grandezza e l’onnipotenza è onnipresente («di Zeus sono piene tutte le vie e tutte le piazze, e pieno ne sono il mare e i porti»); egli è padre amorevole degli uomini e loro benefattore, è il principio immanente che compenetra di sé tutto l’essere, spargendo ovunque i semi generatori delle cose e dal quale la materia informe riceve l’impronta e prende vita; è la provvidenza (πρόνοια) che lega gli eventi nella serie inviolabile delle cause.
Cominciamo da Zeus, che noi uomini non cessiamo mai
d’invocare; tutte le strade sono piene di Zeus,
tutte le piazze delle città: ne è pieno il mare,
e i porti: sempre abbiamo bisogno di Zeus!
Stirpe siamo sua, e benignamente indica agli uomini
i segni favorevoli, e li manda al lavoro,
ricordando loro i mezzi di vita, quando la terra
è migliore per i buoi e la zappa, e quando è il momento giusto
di potare gli alberi e seminare tutte le specie.
Lui stesso infatti ha fissato i segni nel cielo,
distribuendo gli astri nel corso dell’anno,
perché indicassero agli uomini i tempi meglio disposti
e le coltivazioni crescessero salde.
Per questo gli uomini se lo propiziano sempre, per primo e per ultimo.
Salve a te, o padre! Meraviglia e benessere grande degli uomini!
A te e alla tua prima generazione! E salve anche a voi, o Muse soavi,
tutte quante! Guidatemi per tutto il canto,
perché chiedo di celebrare secondo il rito le stelle!
Calamide (o bottega di Calamide), Cronide di Capo Artemisio (dettaglio). Statua, bronzo, c. 480-470 a.C. dai fondali euboici. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Riaffiorano qui moduli ed elementi dell’antica tradizione innodica. In particolare, l’uso di specificare che si intende iniziare il canto ricordando la divinità celebrata è presupposto già in Odissea VIII 499 (θεοῦ ἤρχετο, «cominciava dal dio») per il racconto sul Cavallo di Troia intonato da Demodoco e compare, a principio di alcuni inni omerici; più in particolare, l’avvio da Zeus appariva in Alcmane (fr. 29 Davies ἐγὼν δ᾽ ἀείσομαι/ ἐκ Διὸς ἀρχομένα, «ed io canterò cominciando da Zeus»), veniva ricordato come caratteristica dei rapsodi da Pindaro (Nemea II 1 s.) e in età ellenistica è recuperato anche da Teocrito nel suo Encomio di Tolomeo (Id. XVII 1, Ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα καὶ ἐς Δία λήγετε Μοῖσαι, «Cominciamo da Zeus e terminate con Zeus, o Muse»); per la sua topicità, vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, nr. 805. E sulla stessa linea del formulario tradizionale (cfr. Esiodo, Teogonia 34, Teognide 3 ecc.) è la specificazione, al v. 14, che gli uomini invocano Zeus «per primo e per ultimo».
Anche la sottolineatura della funzione del dio come propulsiva al lavoro agricolo, pur non rientrando nella dizione innica, si richiama pur sempre al modello esiodeo (cfr. soprattutto v. 6, λαοὺς δ᾽ ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta le genti al lavoro», con Esiodo, Erga 20, dove della buona Contesa si dice che καὶ ἀπάλαμνόν περ ὁμῶς ἐπὶ ἔργον ἐγείρει, «desta al lavoro anche l’indolente»). Ma le antiche memorie letterarie e cultuali (anche il dire che di Zeus sono piene le piazze e i porti presuppone gli epiteti ἀγοραῖος e λιμένιος) vengono caricate di un senso nuovo grazie a una visione del dio supremo che nella sua bontà provvidenziale e nella sua sostanziale unicità ha come punto di riferimento la dottrina stoica e probabilmente, se (come pare) è anteriore, l’inno a Zeus dello stoico Cleante (in tal caso τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν al v. 5 rappresenterebbe una vera e propria “citazione” di ἐκ σοῦ γὰρ γενόμεσθα v. 4 dell’inno di Cleante); e la collocazione della preghiera alle Muse alla chiusa anziché al principio di un proemio epico coincide con quella delle Argonautiche di Apollonio Rodio.
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Bibliografia:
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J. RYAN, Zeus in the Phaenomena, in J.J. CLAUSS, M. CUYPERS, A. KAHANE (eds.), The Gods of Greek Hexameter Poetry, From the Archaic Age to Late Antiquity and Beyond, Stuttgart 2016, 152-163 [academia.edu].
K. VOLK, Letters in the Sky: Reading the Signs in Aratus’ Phaenomena, AJPh 133 (2012), 209-240 [academia.edu].
K. VOLK, Aratus, in J. CLAUSS, M. CUYPERS (eds.), A Companion to Hellenistic Literature, Malden MA 2010, 197-210 [academia.edu].
«[…] Polluce; [non sarò i]o a includere Liceso tra i battuti […] Enar]sforo e il piè veloce Sebro […] e il violento […] il corazzato ed Eutiche e il sire Areio […] e […] che tra i semidei risalta; […] il cacciatore […] grande ed Eurito […] tumulto […] e […] i migliori […] ometteremo […]. Destino [(e Via)] di tutti […] i più anziani [… sc]alzo vigore. Non vi sia uomo che voli nel cielo né che si provi a sposare Afrodite […] sig[n]ora o qualcuna […] o una figlia di Porco […]. Le Grazie, poi, la c[a]sa di Zeus, […] loro che hanno lo sguardo che accende il desiderio; […]issimi […] divinità […] ai cari […] doni […] (?) la giovinezza […]; l’uno per una freccia […] con macina marmorea […] Ade […]; pena insopportabile patirono per aver tramato il male.
Esiste una vendetta degli dèi; beato chi sereno [i]ntesse il proprio giorno senza pianto.
Ma io canto la luce d’Agidò: la vedo come il Sole, che Agidò per noi invoca a testimone, perché risplenda. Ma a me, no, non permette – quest’inclita corega – di elogiare costei né di biasimarla, in alcun modo: perché è lei che appare essere preminente, così come se si ponesse dentro alla mandria un cavallo solido, vincitore di gare, piè-sonante, di sogni d’oltreroccia. Come, non vedi? Il corsiero è enetico; e la chioma di questa mia cugina, Agesicora, è in fiore [c]ome oro ancora intatto; e il suo viso d’argento…, che cosa ancora dirti apertamente? Agesicora è questa. Dietro, Agidò, seconda per bellezza, correrà quale cavallo colassio con l’ibeno. Perché contro di noi, che un manto portiamo alla Mattutina nella notte d’ambrosia, nel far levare l’astro di Sirio, le Colombe combattono. Non c’è, infatti, di porpora quantità sufficiente per compensarci né il variegato serpente tutto d’oro o la mitra lidia delle giovani dallo sgua[r]do di viola adornamento, né i capelli di Nannò né, invero, Areta simile alle dee, né Silacide insieme a Cleesisera, né, giunta da Enesimbr[o]ta, potrai dire: “Astafide sia mia e mi adocchi Fililla e Demar[e]ta e l’amabile Iantemide”. È Agesicora, invece, che mi logora.
Infatti, lei, che ha le caviglie b[e]lle, Agesic[o]r[a], non è qui presente, rimane [accanto] ad Agidò [e] fa l’elogio del nostro banche[tto]. Ma delle […] dèi, ricevete: ché degli [d]èi è la fine e il fine. Capo[co]ro, vorrei dire, [i]o sono solo una fanciulla, invano emetto grida, civetta dalla trave. I[o], tuttavia, soprattutto ad Aotide desidero piacere: dei nostri affanni, infatti, è sempre guaritrice; ma in virtù [di] Agesicora le giovani mettono piede sulla pace amabile. Ché [a]l cavallo di volata [co]sì e […] occorre [a]l timoniere, anche su una nave […]; e lei delle Siren[i]di più canora […], perché sono dee, ma come undici fanciulle, […]; risuona, infatti, [… sull]e (?) correnti dello Xanto un cigno; lei, con la desiderabile, piccola chioma bionda […]».
P. Oxy. 24 2387 (I sec. a.C.-I sec. d.C. c.). Alcmane, Partheneion con marginalia.
Nel 1855, accanto alla seconda piramide di Saqqara (località egiziana non lontana dall’antica Menfi), lo studioso francese A. Mariette scoprì il frammento di un rotolo papiraceo del I-II secolo, oggi conservato al Louvre (𝑃. 𝐿𝑜𝑢𝑣𝑟𝑒 E 3320) e pubblicato nel 1863, le cui quattro colonne di scrittura – mutile la prima e soprattutto l’ultima, ben conservate quelle centrali – contengono un centinaio di versi, corredati da brevi commenti marginali (𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑖𝑎), di un partenio di Alcmane. Il componimento, indirizzato a una misteriosa dea dell’aurora (v. 62 Ὀρθρίαι, v. 87 Ἀώτι: forse Elena, che Pᴀᴜs. III 14-15 dice venerata nel bosco del Πλατανιστᾶς, oppure Afrodite) e ad altre divinità (vv. 82-83), e composto di almeno otto strofe (sempre sintatticamente collegate) di quattordici versi ciascuna, era destinato a un coro di ragazze, in occasione di una festa notturna estiva (παννυχίς, vv. 63-64), forse per un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. È verosimile che la sezione mitica, di cui la prima colonna del papiro conserva la parte finale (vv. 1-35), fosse preceduta da un proemio alle Muse (come in 𝑃𝑀𝐺𝐹 3), verosimilmente contenuto, con l’inizio del racconto mitico, nell’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 perduto (almeno sette versi, più facilmente 14+7). Incentrata sull’arroganza punita di Ippocoonte (il fratello illegittimo di Tindaro e Icario, che aveva scacciato i fratellastri da Sparta: cfr. Sᴛʀᴀʙ. X 2, 24, Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. III 123-125) e dei suoi figli (dodici secondo lo Pseudo-Apollodoro, venti secondo Dɪᴏᴅ. IV 33, 6), uccisi da Eracle e dai Tindaridi Castore e Polluce per aver negato loro ospitalità[1] (i sacrari funebri di sei di loro, secondo Pᴀᴜs. III 15, 1, sorgevano a nord-est della città, forse non lontano dal luogo della cerimonia), la saga era seguita da uno snodo sentenzioso (vv. 36-39) e quindi dalla celebrazione dei gesti rituali e della bellezza delle undici coreute (i cui nomi sono menzionati, con quello dell’“esterna” Enesimbrota, ai vv. 70-76), tra cui spiccano la splendida corega (v. 44 χοραγός), dal nome parlante di Agesicora (“Colei che guida il coro”), che canta con voce di cigno (v. 100), e Agidò, la più bella ed elegante del gruppo, fonte e oggetto di gelosia e desiderio, vero polo di attrazione di tutta la parte di “attualità” dell’inno. Sotto la loro 𝑙𝑒𝑎𝑑𝑒𝑟𝑠ℎ𝑖𝑝, probabilmente, il coro eseguiva un’offerta votiva (vv. 60-64) per la dea, e proprio Agidò, forse, affrontava il rito di passaggio previsto nella festa. Il carme è strutturato in tre momenti, ovvero il mito, la 𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒 e l’attualità (μῦθος, γνώμη, καιρός), codificati come gli elementi cardine della poesia corale successiva; a essi si aggiungono, in questo componimento, anche l’afflato religioso e l’(auto)celebrazione del canto (tutti elementi strutturali degli epinici di Pindaro e di Bacchilide). Il carme è una celebrazione per una dea, cui è dedicata la festa, e per un gruppo di ragazze, in una fase cruciale della loro crescita (il che spiega perché già gli antichi ritenessero i parteni componimenti per gli dèi e per gli uomini). Un segno sul margine della quarta colonna, di cui non resta altro, indica quasi certamente che l’inno si concludeva quattro righe dopo la fine della terza colonna (e, dunque, quattro versi dopo l’attuale v. 101).
La prima colonna del papiro parigino conserva, assai frammentaria, la conclusione della sezione mitica: vi è nominato Polluce (v. 1), il figlio di Tindaro, che nella peculiare versione del mito adottata da Alcmane (cfr. Eᴜᴘʜᴏʀ. fr. 29 Pow., Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 36, 2) partecipò, a quanto pare, con Eracle e il fratello Castore all’uccisione degli usurpatori Ippocoontidi e alla consegna dello scettro spartano al padre Tindaro (figlio di Ebalo come Ippocoonte), come racconta Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. II 7, 3. Dopo la menzione-preterizione di Liceso, un figlio di Derite e imparentato alla lontana con gli Ippocoontidi (Derite ed Ebalo erano entrambi nipoti di Amicle) e qui non incluso tra di loro, «i battuti» (v. 2), seguiva l’elenco dei dodici figli dell’usurpatore, di cui il papiro ha conservato cinque nomi, Enarsforo e Sebro (v. 3), Eutiche e Areio (v. 6) ed Eurito (v. 9), là dove la notazione sui «migliori» (v. 11 τὼς ἀρίστως), seguita da un altro verbo di preterizione (v. 12 παρήσομες), suggerisce che Alcmane non si soffermasse troppo neppure sui vincitori. Al vano tentativo di combattere contro Eracle fa probabilmente riferimento «lo scalzo vigore» (v. 15 ἀπ]έδιλος ἀλκὰ) e al tragico destino degli Ippocoontidi la menzione di Αἶσα (v. 13), cui – garantisce lo scolio – era associata quella di Πόρος (la «Via», intesa anche come «Espediente»), entrambi forse qualificati dall’epiteto γεραιτάτοι, «i più anziani» (v. 14) «di tutti» (v. 13: presumibilmente «gli dèi»). Ai vv. 16-25, con una tecnica che diverrà fissa nella poesia corale, la narrazione si interrompeva (i verbi ai vv. 16-17 rendono improbabile che il soggetto fosse ancora ἀλκὰ, da cui dipenderebbe il genitivo ἀνθ]ρώπων) per far posto a una riflessione morale (𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒), già topica all’altezza di Alcmane (cfr. per es. 𝑂𝑑. XV 329, XVII 565): non si deve presumere di volare sino al cielo né tentare di sposare Afrodite o un’altra dea o donna di conclamata beltà (vv. 16-21); tra le altre, erano nominate le Cariti «dallo sguardo che accende il desiderio» (ἐρογλεφάροι) e forse una figlia di Porco/Nereo, probabilmente l’oceanina Teti (vv. 19-21). L’ultima parte della prima colonna, alquanto danneggiata, conteneva forse una rassegna di morti più o meno eroiche (vv. 22-33), suggellata da una nuova γνώμη: il fatto che chi ha progettato il male (v. 35 κακὰ μησαμένοι) abbia ricevuto una pena a un tempo «insopportabile» e «indimenticabile» (vv. 34-35 ἄλαστα δὲ / ϝέργα πάσον; cfr. 𝐼𝑙. XXIV 105, 𝑂𝑑. IV 108, Hᴇs. 𝑇ℎ. 467) è garanzia che «esiste una vendetta degli dèi» (v. 36: nel concetto di τίσις è qui implicito anche quello di «giustizia» e la massima è sottolineata dalla struttura paromofonica e allitterante del verso), e che chi nel sereno e pio equilibrio della mente e del cuore (v. 37 εὔφρων) «intesse il proprio giorno» (v. 38 ἁμέραν [δ]ιαπλέκει) «senza lacrime» (v. 39 ἄκλαυτος; cfr. per es. 𝑂𝑑. IV 494) può dirsi a buon diritto «beato» (v. 37 ὄλβιος).
Tale gnomica teodicea inaugura la seconda e la quarta tra le strofe conservate, dove ha luogo il passaggio, proprio attraverso la γνώμη, dalla narrazione mitica alla celebrazione dell’attualità: «ma io» – si dice con movenza tipicamente lirica (cfr. per es. Sᴀᴘᴘʜ. fr. 168b, 4 V.) – «canto la luce d’Agidò» (vv. 39-40). La più bella tra le coreute, forse la persona per la cui maturità il rito era celebrato, è paragonata al Sole (𝑂𝑑. XIX 234; anche Telemaco emana luce in 𝑂𝑑. XVII 41), di cui anzi ella stessa attesta e invoca per le compagne lo splendore (vv. 40-42). Ma la comparazione si tronca subito, perché l’«inclita corega» (v. 44 ἁ κλεννὰ χοραγὸς) non permette che si faccia elogio né biasimo (vv. 43-44 ἐπαινὲν /… μωμέσθαι: per l’espressione, che nella sua polarità designa globalmente il «parlare», si vd. Sᴇᴍ. fr. 7, 112-113 W.²) di Agidò, piuttosto che della propria «preminente» (v. 46 ἐκπρεπὴς) bellezza; un nuovo paragone con un cavallo Enetico (verosimilmente della Paflagonia, tra la Bitinia e il Mar Nero, regione famosa per i suoi muli selvatici: cfr. 𝐼𝑙. II 852-853), robusto vincitore dal piede risuonante (v. 48), suscitatore di sogni che, come quelli transoceanici dell’𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 (XXIV 11-14), vivono dietro le rocce (v. 48 ὑποπετριδίων ὀνείρων), e la correlata menzione di una «chioma» (v. 51 χαίτα: capigliatura umana, come per es. in 𝐼𝑙. XXIII 141, e criniera equina, come per es. in 𝐼𝑙. VI 509; le χαῖται sono spesso citate nei riti di passaggio femminili) in fiore come «oro puro» (v. 54 χρυσὸς… ἀκήρατος: la similitudine è riusata per l’Astimeloisa di 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 68; cfr. anche Aʀᴄʜɪʟ. fr. 93a, 6 W.²) introducono, ritardandolo, l’ominoso (come del resto gli altri, che definiscono ruoli prima che persone) nome della corega, Agesicora (vv. 53 e 57), che la strutturale solidarietà del gruppo femminile arriva a definire affettuosamente «cugina» (ἀνεψιᾶ, v. 52) e il cui «argenteo viso» (v. 55 ἀργύριον πρόσωπον) non ha bisogno di esplicite celebrazioni (l’ennesima preterizione, διαφάδαν τί τοι λέγω; «che cosa ancora dirti apertamente?», ha luogo al v. 56).
Kleitias. Scena di danza (dettaglio). Pittura vascolare a figure nere dal «Cratere François», 570-565 a.C., da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
La debita esecuzione dell’elogio di Agesicora permette di tornare ad Agidò, motore del canto e delle omoerotiche passioni delle ragazze: la sua bellezza (v. 58 ϝεῖδος), seconda solo a quella della corega, la segue tuttavia da vicino (vv. 58-59 πεδ’… / δραμείται), come un cavallo colassio quello ibeno (sui rapporti qualitativi tra queste due razze, rispettivamente scita e lidia, informa lo scolio B 1). L’immagine dei cavalli e l’accenno alla corsa (in cui il tempo futuro, δραμείται, «correrà», può non essere una mera 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑡𝑖𝑜 del presente) veicolano un’idea di velocità, funzionale forse a sottolineare che il rito offertoriale deve ormai essere concluso: è infatti, l’alba, perché le Colombe, cioè le Pleiadi (v. 60 Πελειάδες: le sette figlie di Atlante e di Pleione, tramutate prima in colombe e poi in stelle da Zeus per salvarle da Orione, cfr. 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Hᴇs. 𝑂𝑝. 382, 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Aʀᴀᴛ. 254-255), «nel far levare l’astro di Sirio» (vv. 62-63 ἅτε Σίριον / ἄστρον ἀϝειρομέναι: Sirio era il cane di Orione, lanciato all’inseguimento delle Pleiadi, come in Hᴇs. 𝑂𝑝. 619-620 e nel prologo dell’euripidea 𝐼𝑓𝑖𝑔𝑒𝑛𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝐴𝑢𝑙𝑖𝑑𝑒, vv. 6-8), “affrettano” il sorgere del Sole e, dunque, «combattono contro di noi» (vv. 60-63 ἇμιν… / …μάχονται), impegnate, «nella notte di ambrosia» (v. 62 νύκτα δι’ ἀμβροσίαν: si tratta di una formula epica, cfr. 𝐼𝑙. X 41, 142, XXIV 363, 𝑂𝑑. IX 404, XV 8), a offrire il rituale «manto» (φᾶρος), oppure un «aratro» (φάρος, forse più appropriato a un rituale con valenza agricola che calzerebbe a pennello nel periodo più caldo dell’anno, quando le Pleiadi sorgono prima del Sole, che si leva contemporaneamente a Sirio), alla dea «Mattutina» (v. 61 Ὀρθρίαι). Questa “sfida contro le stelle”, d’altra parte, finisce per suggellare in un’implicita, ma topica, similitudine astrale (cfr. per es. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 67, ancora per Astimeloisa, Sᴀᴘᴘʜ. fr. 34 V., Sɪᴍᴏɴ. 𝑃𝑀𝐺 555; quanto a Sirio, in 𝐼𝑙. XI 62-66 designa lo splendore di Ettore) i due elogi, quello della corega e quello della coreuta principale, e dunque la loro eroica aristia femminile, al termine di una faticosa nottata di riti e al culmine della celebrazione, di cui Agesicora, che sembra mantenere una funzione di guida, e Agidò sono indiscusse protagoniste. Questo, malgrado la problematicità dei versi e le divergenti interpretazioni degli studiosi, pare essere il significato della quinta strofe.
La sesta strofe – che, come le altre, è dotata di autonomia semantica ma resta sintatticamente collegata alla precedente dal solito γάρ, che compare nel verso iniziale di tutte le ultime tre strofe – introduce, in una sorta di falsa 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 con struttura anaforica e scandita da incipitarie negazioni, tutti gli elementi che celebrano e magnificano la bellezza delle coreute e che sono tuttavia insufficienti (κόρος, al v. 65, indica la «sazietà» sin da 𝐼𝑙. XIII 636) a «compensarle» (v. 65 ἀμύναι, secondo un’interpretazione che risale, a quanto pare, ad Ar. Byz. fr. 33 Slater) e quindi a «distoglierle» dal 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠 (emotivo, erotico e cultuale) del loro rito. Né la «porpora» (πορφύρα, v. 64) delle vesti né un «variegato» monile serpentiforme tutto d’oro massiccio (vv. 66-67 ποικίλος δράκων / παγχρύσιος; l’espressione ritorna anche in Pɪɴᴅ. 𝑃. 8, 46), né una mitra lidia (come quella che Saffo avrebbe voluto per la figlia Cleide nel fr. 98 V.), di cui si adornano le giovani «dallo sguardo di viola» (v. 69 ἰανογ[λ]εφάρων: si tratta di un termine presente solo qui), né le differenti doti delle altre otto fanciulle, i cui nomi sono sigillati ai vv. 70-76: Nannò dai bei capelli (v. 70), Areta «simile alle dee» (v. 71), Silacide e Cleesisera (v. 72), Astafide (v. 74), che ispira la passione erotica dell’io parlante (μοι γένοιτο; cfr. Aʀᴄʜɪʟ. fr. 118 W.², Hɪᴘᴘᴏɴ. fr. 120 Dg.²), Fililla (v. 75), da cui ella vorrebbe essere adocchiata (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 62), Damareta e l’«amabile» Iantemide (v. 76); misteriosa resta invece la menzione di Enesimbrota (v. 73), forse una confidente di almeno alcune tra le coreute, ma difficilmente parte del gruppo se occorre andare sino a casa sua per parlarle e se il coro, come pare (cfr. v. 99), era composto da dieci membri, corega compresa. È infatti Agesicora il 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠, è Agesicora che «logora» (v. 77 τείρει; per l’accezione erotica, cfr. Hᴇs. fr. 298 M.-W. = 235a Most e Tᴇʟᴇsᴛ. 𝑃𝑀𝐺 805, 5), e nel suo nome si conclude la strofe.
Quel sentimento, sempre più incontrollabile, di passione e di gelosia, che si accresce nel cuore dell’io parlante magnificando con la sua stessa presenza le due protagoniste della festa, raggiunge l’apice al culmine della cerimonia, quando Agesicora «dalle belle caviglie» (v. 78 κα̣λλίσφυρος: l’epiteto occorre 5 volte nei poemi omerici, 4 negli 𝐼𝑛𝑛𝑖, 11 in Esiodo, e poi 4 in Simonide, dove è sempre riferito alla madre di Eracle, Alcmena) e Agidò sono ormai distanziate dal coro (vv. 78-80). L’elogio-approvazione del sacro banchetto (v. 81 θωστήρι̣ά̣), sanzionato dalla corega (ἐπαινεῖ), e l’offerta finale agli dèi (vv. 82-83, con il formulare δέξασθε: cfr. per es. 𝐼𝑙. II 420 e poi Pɪɴᴅ. fr. 52e, 45 M.), cui appartengono la «fine» (v. 83 ἄνα, cioè ἄνυσις, «compimento»: cfr. per es. Aᴇsᴄʜ. 𝑇ℎ. 713) e il «fine» (v. 84 τέλος, con rilevato 𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑏𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡, a sottolineare la continuità e l’effettività del supremo potere divino, per cui a ogni esito segue uno scopo: cfr. Hᴇs. 𝑂𝑝. 669, Sᴇᴍ. fr. 1, 1-2 W.²) di ogni cosa, concludono infine il rito: l’allocuzione diretta alla corega (v. 84 [χο]ρο̣στάτις: ma la lettura è incerta) – con il riconoscimento della propria fanciullesca (v. 86 παρσένος) e vana (μάταν) loquacità (λέλακα), degna di una civetta (v. 87 γλαύξ) appollaiata, e con l’accorta professione di fede in Aotide, la stessa dea dell’aurora (cfr. v. 61), cui «soprattutto» (μάλιστα) occorre voler piacere (v. 88) e dalla quale è possibile avere infine cura (essa è ἰάτωρ, «medico») contro gli «affanni» (πόνοι, v. 88), fisici e psicologici, della lunga nottata – propizia infine il desiderato approdo (v. 91 ἐπέβαν, ma il verbo, usato metaforicamente in questo senso anche da Pɪɴᴅ. 𝑁. 3, 20, può indicare altresì la salita su un carro [cfr. per es. 𝐼𝑙. V 221, VIII 44], su una nave [cfr. per es. 𝐼𝑙. VIII 512], e soprattutto su un talamo nuziale [cfr. per es. 𝐼𝑙. XIX 176]) delle «giovani» (v. 90 νεάνιδες), guidate da Agesicora, alla «pace amabile» (v. 91 ἰρ]ή̣νας ἐρατᾶ̣ς), ἄνη e τέλος del loro rito notturno.
Agesicora «cavallo di volata» (σειραφόρος, v. 92) di un carro e «timoniere» (κυβερνήτης, v. 94) di una nave, quasi a recuperare le implicazioni metaforiche dell’ἐπέβαν del v. 91, apre l’ultima strofe: è lei che occorre «ascoltare» (se al v. 95 si può leggere ἀκούην, con un’accezione di obbediente discepolato già attestata, per es., in 𝐼𝑙. XIX 256, 𝑂𝑑. VII 11), sebbene non sia «più canora» (v. 97 ἀοιδοτέρα) delle Sirenidi (forse le Muse, equiparate alle Sirene anche in 𝑃𝑀𝐺𝐹 30), perché sono dee (v. 98 σιαὶ γάρ). Che cosa venisse detto nel seguito di questo verso e in quello successivo è soltanto desumibile dalle incerte indicazioni dello scolio A 21: la corega canterebbe (se al v. 99 si deve leggere ἀ̣ε̣ί̣δ̣ει o ἀ̣ε̣ί̣σ̣ει) come dieci fanciulle in luogo di undici, ovvero farebbe sì che la decade corale di cui è corega canti per undici (un modo come un altro per dire che la sua voce vale per due, cioè che parrebbe più probabile), o ancora (se si ipotizza un errore dello scriba o dello scoliasta, che avrebbe scritto «undici» in luogo di «nove») la sua decade canterebbe al pari delle «nove fanciulle», cioè delle Muse stesse. Ciò che è certo è che Agesicora veniva paragonata ancora a un «cigno» (v. 101 κύκνος) – l’uccello sacro al dio della poesia, Apollo (cfr. per es. Aʟᴄ. fr. 307c V., Sᴀᴘᴘʜ. fr. 208 V.) – che emette i propri gorgheggi (v. 100 φθέγγεται) sulle «correnti» dello Xanto (v. 100, cfr. 𝐼𝑙. VI 4), il fiume «biondo», come «bionda» (v. 101 ξανθᾶι; per le chiome bionde, cfr. pure 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 9, 5, 2 c. 1 18, 59b, 3) è la «piccola chioma» (κομίσκα: il diminutivo ha valore affettivo) «che ispira desiderio» (ἐπ̣ιμέρος, v. 101) della corega. L’immagine del cigno, 𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑦𝑚𝑏𝑜𝑙 di canto supremo, ricorda quella della civetta, vanamente garrula, del v. 86 e completa così un implicito confronto ornitologico tra uccelli diversamente canori: uno “schema” che avrà lunga fortuna nelle tenzoni poetiche della tradizione greca, da Pindaro (𝑁. 3, 80-82) a Teocrito (7, 47-48) sino ad Antipatro di Sidone (𝐴𝑃 VII 713, 7-8). A un cigno sarà, infine, paragonato lo stesso Alcmane, nell’elogio tributatogli dall’epigrammista ellenistico Leonida di Taranto (𝐴𝑃 VII 19, 1-2).
Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse su calyx-krater, c. 460 a.C. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.
[1] Pᴀᴜs. III 15, 3-5: «Si dice che l’ostilità tra Eracle e la casa di Ippocoonte trasse origine dal rifiuto degli Ippocoontidi di purificarlo, quando egli giunse a Sparta per espiare l’uccisione di Ifito. Ma anche quest’altro incidente contribuì all’inizio del conflitto: Eono, un giovinetto, cugino di Eracle, venne a Sparta insieme a lui; mentre girava per vedere la città, quando giunse alla casa di Ippocoonte, un cane da guardia gli si avventò contro. Eono lanciò una pietra e abbatté la belva; allora corsero fuori i figli di Ippocoonte e uccisero Eono a colpi di bastone. Questo fece inferocire Eracle contro Ippocoonte e i suoi figli, e, irato com’era, corse subito ad affrontarli. Allora egli fu ferito e, nascostosi, batté in ritirata; ma in seguito, fatta una spedizione contro Sparta, gli riuscì di vendicarsi di Ippocoonte e di punirne anche i figli per l’assassinio di Eono».
di G. Gᴀʀʙᴀʀɪɴᴏ, M. Mᴀɴᴄᴀ, L. Pᴀsǫᴜᴀʀɪᴇʟʟᴏ, De te fabula narratur. 3. Dalla prima età imperiale ai regni romano-barbarici, Milano-Torino 2020, 78-79; 147-149; cfr. A. Bᴀʟᴇsᴛʀᴀ et al., In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, 4-5.
Nella produzione senecana occupa un posto a sé un prosimetro, cioè un’opera mista di prosa e versi appartenente al genere della satira menippea, importante anche perché è l’unico esemplare di questa forma letteraria che si possa leggere per intero (l’altro grande prosimetro di età neroniana, il Satyricon di Petronio, si è conservato in modo estremamente lacunoso).
La satira menippea, chiamata così dall’iniziatore del genere, Menippo di Gadara (III sec. a.C.), era caratterizzata a livello formale dalla mescolanza di versi e di prosa, e a livello contenutistico dalla commistione di serio e di scherzoso (in greco σπουδαιογέλοιον). Era stata introdotta a Roma da Varrone Reatino, che l’aveva usata (a quanto risulta dai frammenti) per svolgere temi diatribici, di argomento morale.
L’operetta senecana è invece un ironico pamphlet senza alcuna implicazione filosofica, scritto in occasione della morte di Claudio: in esso Seneca (che aveva dovuto scrivere) l’elogio funebre ufficiale dell’imperatore defunto, pronunciato da Nerone durante i funerali) dà libero sfogo al suo odio e al suo disprezzo per colui che lo aveva perseguitato e condannato all’esilio.
Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.
Il titolo latino che compare in alcuni codici è Ludus de morte Claudii, dove ludus ha il significato di “gioco” o “scherzo” letterario. Il titolo greco Ἀποκολοκύντωσις (riportato da un’altra fonte antica, lo storico Cassio Dione) è di interpretazione incerta e discussa. Poiché κολοκύνθη in greco significa “zucca”, il termine è stato inteso da alcuni studiosi come “zucchificazione”, nel senso di “trasformazione in zucca”, con implicito riferimento e contrapposizione al concetto di ἀποθέωσις, “divinizzazione”. Tuttavia, nell’opera Claudio non subisce alcuna trasformazione; perciò, altri hanno supposto che il senso sia piuttosto “deificazione di una zucca”, “divinizzazione di quello zuccone di Claudio”. Altri ancora hanno pensato a un’espressione idiomatica (altrimenti non attestata) corrispondente alla nostra “infinocchiatura”, nel senso di “fregatura”, e non sono mancate altre ipotesi, tutte indimostrabili.
L’autore promette all’inizio che riferirà fedelmente gli avvenimenti che seguirono alla morte dell’imperatore e comincia il racconto dal momento in cui le Parche recidono finalmente il filo della sua vita, e Apollo intona un canto di gioia per l’inizio del felice principato di Nerone.
È il III Idus Octobris (13 ottobre) del 54 : mentre sulla Terra tutti esultano, in cielo è in corso un animato quanto confuso dibattimento tra gli dèi, riuniti in concilio per ratificare gli onori divini che il Senato ha conferito a Claudio dopo la sua morte; il riconoscimento della divinizzazione di questo princeps giulio-claudio sta sollevando tra i celesti perplessità e riserve, ma Claudio, un monstrum claudicante che si è presentato al cospetto di Giove a perorare la propria divinizzazione, non viene riconosciuto perché parla in modo incomprensibile (il defunto, in effetti, era affetto da balbuzie!); la somma divinità affida dunque a Ercole l’incarico di interpretarne le parole e capire chi sia e il dio, inorridito dall’aspetto mostruoso di quel grottesco personaggio, si prepara alla sua tredicesima fatica: guidare con febbrili maneggi l’assemblea verso l’approvazione della richiesta.
[4, 2] Expirauit autem dum comoedos audit, ut scias me non sine causa illos timere. [3] ultima uox eius haec inter homines audita est, cum maiorem sonitum emisisset illa parte, qua facilius loquebatur: ‘uae me, puto, concacaui me.’ quod an fecerit, nescio; omnia certe concacauit.
[5, 1] quae in terris postea sint acta superuacuum est referre. scitis enim optime, nec periculum est ne excidant quae memoriae gaudium publicum impresserunt: nemo felicitatis suae obliuiscitur. in caelo quae acta sint audite: fides penes auctorem erit. [2] nuntiatur Ioui uenisse quendam bonae staturae, bene canum; nescio quid illum minari, assidue enim caput mouere; pedem dextrum trahere. quaesisse se cuius nationis esset: respondisse nescio quid perturbato sono et uoce confusa; non intellegere se linguam eius: nec Graecum esse nec Romanum nec ullius gentis notae. [3] tum Iuppiter Herculem, qui totum orbem terrarum pererrauerat et nosse uidebatur omnes nationes, iubet ire et explorare quorum hominum esset. tum Hercules primo aspectu sane perturbatus est, ut qui etiam non omnia monstra timuerit. ut uidit noui generis faciem, insolitum incessum, uocem nullius terrestris animalis sed qualis esse marinis beluis solet, raucam et implicatam, putauit sibi tertium decimum laborem uenisse. [4] diligentius intuenti uisus est quasi homo. accessit itaque et quod facillimum fuit Graeculo, ait:
τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν, ποίη πόλις ἠδὲ τοκῆες;
Claudius gaudet esse illic philologos homines: sperat futurum aliquem historiis suis locum. itaque et ipse Homerico uersu Caesarem se esse significans ait:
Ἰλιόθεν με φέρων ἄνεμος Κικόνεσσι πέλασσεν
(erat autem sequens uersus uerior, aeque Homericus:
ἔνθα δ’ ἐγὼ πόλιν ἔπραθον, ὤλεσα δ’ αὐτούς).
[6, 1] et imposuerat Herculi minime uafro, nisi fuisset illic Febris, quae fano suo relicto sola cum illo uenerat: ceteros omnes deos Romae reliquerat. ‘iste’ inquit ‘mera mendacia narrat. ego tibi dico, quae cum illo tot annis uixi: Luguduni natus est, Munati municipem uides. quod tibi narro, ad sextum decimum lapidem natus est a Vienna, Gallus germanus. itaque quod Gallum facere oportebat, Romam cepit’. […] [2] excandescit hoc loco Claudius et quanto potest murmure irascitur. quid diceret nemo intellegebat. ille autem Febrim duci iubebat. illo gestu solutae manus, et ad hoc unum satis firmae, quo decollare homines solebat, iusserat illi collum praecidi. putares omnes illius esse libertos: adeo illum nemo curabat.
[7, 1] tum Hercules ‘audi me’ inquit ‘tu desine fatuari. uenisti huc, ubi mures ferrum rodunt. citius mihi uerum, ne tibi alogias excutiam.’ et quo terribilior esset, tragicus fit et ait:
[2] ‘exprome propere sede qua genitus cluas,
hoc ne peremptus stipite ad terram accidas:
haec claua reges saepe mactauit feros.
quid nunc profatu uocis incerto sonas?
quae patria, quae gens mobile eduxit caput? […]
[4, 2] Ed egli cacciò l’anima, e da quel momento cessò di parer vivo. Spirò mentre ascoltava dei commedianti[1]; per cui capirai che io li evito non senza un buon motivo! [3] L’ultima sua voce a essere udita fra i mortali, dopo aver lasciato andare un gran rumore da quella parte del corpo con cui parlava più facilmente, fu questa: «Oh me! Mi sono smerdato, mi sono!». Che l’abbia fatto davvero non so: certo, ha smerdato ogni cosa[2].
[5, 1] Quel che successe poi in terra è superfluo da riferire. Lo sapete benissimo, né c’è pericolo che si dimentichi quello che l’esultanza generale impresse nella memoria: nessuno si scorda della propria felicità. Udite invece quello che successe in cielo: la responsabilità è di chi me lo ha raccontato[3]. [2] Annunciarono a Giove l’arrivo di un tale, di buona statura e tutto canuto: minacciava chi sa che cosa, perché muoveva di continuo la testa; e strascicava il piede destro. Gli aveva domandato di che paese fosse: aveva risposto non so che cosa con suoni indistinti e voce confusa; non capiva la sua parlata, non doveva essere greco né romano, né di alcun altro popolo conosciuto. [3] Allora Giove chiamò Ercole, il quale aveva girato tutta la Terra e aveva l’aria di conoscere tutte le genti, e gli comandò di andare e di vedere che razza d’uomo fosse. A prima vista, Ercole si prese un bello spavento, come se non avesse mai affrontato ogni specie di mostri. Come vide quella faccia di nuovo genere, quella strana andatura, quella voce non propria a nessun animale terrestre, ma roca e ingarbugliata quale sogliono avere i mostri marini, s’immaginò che fosse giunta la sua tredicesima fatica. [4] Ma, guardando meglio, si rese conto che si trattasse di qualcosa come di un uomo. Allora gli si avvicinò e – cosa che per un greco come lui è facilissima – gli domandò: «Chi sei tu e da dove vieni? Quale la tua città e i tuoi genitori?»[4]. Claudio gioì a sentire che lassù vi fossero degli eruditi: sperava in un posticino per le sue opere storiche[5]. Così pure egli con un verso omerico, per significare la sua qualità di Cesare, disse: «Da Ilio il vento portandomi mi avvicinò ai Ciconi»[6]. Ma più rispondente al vero sarebbe stato il verso seguente, altrettanto omerico: «Là io distrussi la città e sterminai gli abitanti»[7].
[6, 1] E l’avrebbe data a bere a Ercole, che è pochissimo furbo, se non ci fosse stata lì Febbre[8], la quale, abbandonato il suo tempio, se n’era venuta sola con lui, lasciando tutti gli altri dèi a Roma. «Costui – disse – racconta tutte frottole. Te lo dico io, che sono vissuta con lui tanti anni: è di Lugdunum, hai davanti un compaesano di Munazio[9]! È come ti dico, nato a sedici miglia da Vienna, un Gallo purosangue[10]; e perciò ha fatto tutto quello che un Gallo avrebbe dovuto fare: ha preso Roma[11]». […] [2] A questo punto Claudio divenne di fuoco e grugnì di rabbia a più non posso. Che cosa dicesse, nessuno lo capì: certo, comandava che Febbre fosse giustiziata, con quel suo gesto della mano malferma – ma a questo unico scopo abbastanza decisa! – col quale soleva far decapitare la gente. Aveva comandato che le tagliassero il collo: avresti pensato che lì fossero tutti suoi liberti, tanto nessuno gli dava retta!
[7, 1] Allora Ercole: «Stammi a sentire tu, e smettila di vaneggiare! Sei venuto in un posto in cui i topi rodono perfino il ferro[12]. Presto, fuori la verità, se vuoi che non ti scrolli di dosso il ruzzo!». E per apparire più terribile, si atteggiò ad attore tragico e declamò:
[2] «Dichiara subito dove ti vanti nato,
che tu non cada a terra sotto il colpo di questo tronco:
fieri re spesso immolò questa clava.
Cosa vai balbettando con incerta pronuncia?
Qual patria, qual gente mise al mondo codesta mobile testa? […]».
Tib. Claudio Germanico Augusto in trono. Statua, marmo, I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Alla morte dell’imperatore, sei anni dopo la revoca dall’esilio nel 49, in Seneca non è affatto diminuito il rancore nei confronti del princeps, di cui, in qualità di consigliere imperiale, ha dovuto perfino comporne l’elogio funebre. Nel passo letto sono narrati due momenti essenziali della vicenda immaginata dall’autore: il decesso e l’ascesa in cielo di Claudio. Il racconto della morte del princeps è basato sulla dissacrazione del luogo comune epico e storico dei novissima verba (“le ultime parole” di un personaggio importante). Anziché nobili accenti che suggellano una vita eroica, Claudio chiude i suoi giorni con un’osservazione volgare. Il secondo momento ha i connotati di una commedia: il defunto è trasformato in una figura grottesca con l’accentuazione dei suoi difetti fisici (confermati dalle fonti storiche): il tremore del capo, l’andatura incerta e zoppicante, la voce sgradevole, la balbuzie e la dizione confusa. Tali difetti sono ingigantiti per fare del personaggio un ridicolo e insieme mostruoso fantoccio. Di fronte a lui si pongono delle figure divine: Giove, Ercole e Febbre. In particolare, Ercole presenta i tratti caricaturali (tutto muscoli e poco cervello) che gli attribuiva la tradizione comica: la sua ingenua spacconeria assume alla fine del brano i toni della parodia tragica, con l’inserzione di versi (senari giambici) scritti in uno stile volutamente enfatico.
Dopo una lacuna nel testo, si mostra la scena in cui gli dèi sono seduti a concilio e discutono la proposta di divinizzare Claudio. Si susseguono alcuni discorsi pro e contro, finché, giunto il momento del suo intervento, prende la parola il divo Augusto, fondatore del Principato e capostipite della dinastia su cui Claudio ha legittimato il proprio potere; Augusto stesso è stato accolto dopo la sua dipartita tra gli dèi ed è quindi oggetto di culto presso i Romani per le straordinarie doti e i suoi altissimi meriti. Ma il discorso che pronuncia si rivela ben presto una violenta requisitoria contro il nipote: egli dichiara l’impossibilità di tacere tutto il dolore e la vergogna per le sorti di Roma e del Principato, che egli aveva istituito allo scopo di garantire la pace universale e di comporre i conflitti intestini. La riprovazione radicale per ciò che questa forma di governo si è diventata, in conseguenza dell’indegnità morale con cui Claudio l’ha esercitata, fa giustizia dell’impostura con cui si sta cercando di perorare la propria istanza. Il capostipite della gens giulio-claudia taglia il cordone dinastico con cui Claudio si è legato a lui, sbugiardandolo per l’uso strumentale che ha fatto del proprio potere, e lo denuda nella sua meschinità davanti all’assemblea divina.
[10, 1] tunc diuus Augustus surrexit sententiae suae loco dicendae et summa facundia disseruit: ‘ego’ inquit ‘p.c., uos testes habeo, ex quo deus factus sum, nullum me uerbum fecisse: semper meum negotium ago. et non possum amplius dissimulare et dolorem, quem grauiorem pudor facit, continere. [2] in hoc terra marique pacem peperi? ideo ciuilia bella compescui? ideo legibus urbem fundaui, operibus ornaui, ut—? quid dicam, p.c., non inuenio: omnia infra indignationem uerba sunt. […] [3] hic, p.c., qui uobis non posse uidetur muscam excitare, tam facile homines occidebat quam canis adsidit. […] [4] dic mihi, diue Claudi: quare quemquam ex his, quos quasque occidisti, antequam de causa cognosceres, antequam audires, damnasti? hoc ubi fieri solet? in caelo non fit’ […].
[10, 1] Allora, giunto il suo turno, si alzò a dire la sua il divo Augusto e parlò con suprema eloquenza: “Padri coscritti” – disse – “voi siete testimoni del fatto che, da quando sono diventato un dio, non ho mai preso la parola: mi faccio sempre i fatti miei. Ma non posso dissimulare oltre e contenere un dolore che la vergogna rende insopportabile. [2] Per questo ho portato la pace per terra e per mare? Per questo ho messo un freno alle guerre civili? Per questo ho rifondato Roma sulle leggi, l’ho resa bella con le opere, affinché…? Padri coscritti, non so cosa dire: qualsiasi parola non è all’altezza della mia indignazione. […] [3] Costui, padri coscritti, che vi sembra incapace di scacciare una mosca, ammazzava le persone con la stessa facilità con cui un cane si mette a sedere per pisciare. […] [4] Dimmi, divo Claudio, perché ognuno di quelli e di quelle che tu hai messo a morte l’hai condannato prima di fargli un processo, prima di sentire le sue ragioni? Dove accade di solito questo? In cielo, no di certo” […].
Claudio era stato in precedenza canzonato per aver distribuito a destra e a manca la cittadinanza romana, ma il tradimento decisivo di cui lo accusa Augusto è la mancanza di clementia con cui ha governato: la pratica gratuita e disinvolta dell’assassinio di tanti e così validi uomini lo denuncia irrimediabilmente come un tiranno. Ma la tragedia pubblica è anche il riflesso di un dramma familiare: il Divo elenca, uno a uno, i nomi dei membri della familia del princeps che hanno subito una persecuzione impietosa da parte di Claudio a tutela del suo potere. L’ultimo atto di accusa di Augusto segna la distanza tra la iustitia divina che l’imperatore avrebbe dovuto incarnare, e che ne avrebbe potuto giustificare l’apoteosi, e la perversa condotta del nipote.
La conseguenza immediata dell’orazione di Augusto è la condanna senza appello di Claudio agli Inferi: così, passando per la via Sacra, egli assiste al proprio funerale e soltanto allora si rende conto di essere defunto davvero; inoltre, mentre i mortali sono ignari delle divine decisioni, Roma gli appare in festa per la sua consacrazione; infine, Claudio ascolta un ironico canto funebre in suo onore. Una volta nell’oltretomba, gli si fa incontro la folta schiera delle sue vittime; sottoposto a un processo sommario come quelli che egli era solito fare in vita, è condannato a giocare eternamente ai dadi con un bussolotto forato. Compare poi Caligola, che lo reclama come suo schiavo; infine, però, viene assegnato al liberto Menandro perché gli faccia da assistente. Insomma, agli Inferi Claudio realizza l’unica consacrazione che merita: l’eternizzazione della sua stupidità, confermata non solo dalla pena infamante a cui viene condannato, ma anche dalla degradazione delle mansioni servili cui è adibito.
L’operetta è geniale sia per la verve vivacemente satirica e mordace, sia per la perfetta padronanza con cui l’autore si muove tra livelli linguistici e stilistici diversi, dal colloquiale “basso” alla parodia dello stile “alto” e solenne dell’epica, dal tono leggero, ironicamente scanzonato e umoristico, al sarcasmo più feroce.
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[1] Suet. Claud. 45 e Tac. Ann. XII 68 raccontano che la notizia della morte di Claudio fu tenuta segreta finché non furono prese le misure necessarie per garantire la successione di Nerone; Svetonio aggiunge che, per far credere che egli fosse ancora in vita, fu introdotta a palazzo una compagnia di attori comici e si finse che egli stesso ne avesse richiesto la presenza.
[2] Intende, naturalmente, durante il suo principato.
[3] Riecheggia parodisticamente una formula usata dagli storici.
[4]Od. I 170, ma il verso ricorre più volte nel poema. Svetonio attesta l’abitudine di Claudio di citare molto spesso versi omerici.
[5] Claudio aveva scritto varie opere storiografiche, sia in greco sia in latino.
[6]Od. IX 39: è la presentazione che Odisseo fa di sé al re Alcinoo. In quanto discendente della gens Iulia, Claudio può dire di provenire da Troia.
[7]Od. IX 40. Odisseo si riferisce ai Ciconi, popolo barbaro che qui simboleggia i Romani.
[8] Febbre era oggetto di culto a Roma. Un suo tempio si trovava sul Palatino, non lontano dalla residenza imperiale.
[9] Allusione di cui non è possibile ricostruire con sicurezza il significato.
[10] Claudio era appunto nato a Lugdunum (od. Lione) nel 10 a.C., mentre suo padre Druso conduceva una spedizione militare contro i Germani. Vienna (od. Vienne) era una colonia romana non lontana dalla capitale gallica.
[11] Allude all’orda di Senoni che incendiò l’Urbe nel 390 a.C.
[12] Proverbio che indicava probabilmente un luogo in cui l’esistenza fosse dura: Ercole vuole così spaventare il nuovo arrivato.
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