ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
vd. AE 1950, 199 = CIMRM I 423; cfr. SCARPI P., ROSSIGNOLI B. (a cura di), Le religioni dei Misteri, vol. II., Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Milano 2002, pp. 376-377; 396-397; 557-558; 564.
Numerose iscrizioni documentano la costruzione o la ricostruzione di spelaea: CIMRM I 706, dall’Italia, attesta infatti la ricostruzione, per opera del pater patratus Publio Acilio Pisoniano, di uno spelaeum distrutto da un incendio. Si vd. anche CIMRM I 652, sempre dall’Italia. Dalla dedica di una grotta con statue e ornamenti parla un’iscrizione africana (CIMRM I 129), di una con statue e con un altare un’iscrizione dall’Italia (CIMRM I 6609. Di una grotta espressamente destinata al culto parla un’iscrizione dalla Mesia Inferiore (CIMRM II 2296). La grotta è il luogo ideale per un ladro di buoi come Mitra[1], ma era per i seguaci del dio anche un’immagine del mondo entro il quale si svolgeva la vita umana[2]. All’interno di queste grotte aveva luogo il sacrificio del toro (CIMRM II, figg. 614, 620-621, 630, 632, 643, 645), si svolgevano le azioni rituali e si celebravano le iniziazioni[3]. La grotta non è forse lo spazio selvaggio e inabitato, ma certamente è uno spazio “altro” rispetto al quotidiano in cui scorre la vita umana.
Hic locus est felix sanctus piusque benignus.
quem monuit Mithras mentemque dedit
Proficentio patris sacrorum.
utque sibi spelaeum faceret dedicaretque
5 et celeri instansque operi reddit munera grata
quem bono auspicio suscepit anxia mente
ut possint syndexi hilares celebrare uota per aeuom.
hos uersiculos generauit proficentius
pater dignissimus Mithrae.
*
Questo luogo è propizio, santo e pio (e) fausto,
Mitra lo ispirò e lo suggerì
a Proficenzio, padre dei sacri riti,
perché facesse edificare e consacrare in suo onore una caverna,
5 e, affrettando il compimento dei lavori, egli offrì doni gradevoli,
e gli fornì auspici favorevoli per sostenerne l’animo inquieto
perché felici gli iniziati uniti nella stretta di mano[4] possano
[celebrare i loro voti in eterno.
Compose questi brevi versi Proficenzio,
padre degnissimo di Mitra.
*
This spot is blessed, holy, observant and bounteous:
Mithras marked it, and made known to
Proficentius, Father of the mysteries,
That he should build and dedicate a Cave to him;
5 And he has accomplished swiftly, tirelessly, this dear task
That under such protection he began, desirous
That the Hand-shaken might make their vows joyfully forever.
[3] Cfr. TERT. cor. 15, 3; SFAMENI GASPARRO G., Il mitraismo: una struttura religiosa tra “tradizione” e “invenzione”, in BIANCHI U. (a cura di), Mysteria Mithrae. Atti del seminario internazionale (Roma-Ostia 28-31 marzo 1978), Leiden-Roma 1979, pp. 354-355.
[4]syndexi: è frequente nell’iconografia mitraica la rappresentazione di due figure maschili unite da una stretta di mano; stringendo la mano che il pater, che occupava il grado più alto nella gerarchia iniziatica, gli offriva, l’iniziando instaurava uno stretto rapporto personale con quello e ne diveniva, per così dire, aiutante (MERKELBACH 1988, p. 130). Attraverso di essa si sigillava l’impegno solenne dell’iniziato con la divinità e con gli altri iniziati (LE GLAY M., La δεξίωσις dans les mystères de Mithra, Acta Iranica XVII 1978, pp. 300-301).
di F. Cerato, Afrodite. Manifestazione di una potenza inaudita, diss., Roè Volciano (BS), 30 settembre 2015 – La Forza dell’amore FESTIVAL promosso dal Sistema Bibliotecario Nord-Est Bresciano, su ClassiCult.it. (15 febbraio 2019).
Nella Greciaantica l’amore era essenzialmente ἔρος, un’entità universale tale da pervadere tutta la realtà e manifestarsi con violenza devastante e irresistibile. Percepito come una forza implacabile, capace di dominare gli uomini, l’amore era una potenza in grado di sottomettere persino le divinità e le altre figure cosmiche, che popolavano l’immaginario dell’età arcaica.
Il poeta Esiodo pone ἔρος tra le forze divine protagoniste dell’origine dell’universo, facendolo comparire subito dopo il Caos, insieme a Gea (la Terra), e attribuendogli le qualità di un dio (cioè personificandolo), ὃς κάλλιστος ἐν ἀθανάτοισι θεοῖσι («il più bello fra gli dèi immortali»), «che rompe le membra, di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio»[1]. Questa forza, a differenza delle altre due entità primordiali, è sì principio generatore, ma è ingenerato e non genera. L’intervento di ἔρος nel mondo coincide con i suoi stessi inizi, e senza di esso non ci sarebbe stata né unione, né generazione[2].
Nell’epica ἔρος designa il «desiderio ardente», sia esso un di gloria, di potere, o, nella maggioranza dei casi, sessuale. Si badi bene che nella mentalità dell’uomo arcaico non esistevano astrazioni e, pertanto, anche ἔρος era concepito come un’entità concreta, reale, esperibile attraverso i sensi, percepibile nei suoi effetti. I poemi epici, appunto, specchio di questa mentalità, consentono di delineare una vera e propria fisiologia dell’amore. Ἔρος (o ἵμερος) è descritto come una forza esterna che afferra colui che prova desiderio, agendo sull’organo deputato a sede dei sentimenti: attraverso il petto (στῆθος), o il diaframma (φρήν), inonda il θυμός («cuore») per soggiogarlo, provocando nella persona colpita uno stato che trova espressione nel verbo ἔραμαι («desiderare; amare»). Tale stato di desiderio è collegato a un’altra persona, cioè quella che l’ha suscitato: usando la terminologia corrente, si potrebbe dire che la persona amata è al tempo stesso origine e meta del desiderio in colui che ama e lo fa tendere verso di essa. In questo gioco di sollecitazioni dell’amante ad opera della persona amata, lo sguardo assume un ruolo centrale: è il veicolo della potenza dell’ἔρος, emanazione materiale dell’oggetto amato[3].
La Roccia di Afrodite presso di Pafo a Cipro: qui secondo la tradizione emerse l’Afrodite “Cipride”, foto di Anna Anichkova, CC BY-SA 3.0
Esiodo, ancora, dopo averlo indicato fra le entità cosmogoniche, pone ἔρος accanto a ἵμερος nel corteggio della dea dell’amore, Afrodite, nata dalla spuma del mare (ἀφρός), generata, a sua volta, dal membro e dai testicoli recisi di Urano, il Cielo. Costei, mentre nell’epica omerica è detta “figlia di Zeus e di Dione”, in realtà, è la più antica di tutti gli dèi olimpici. Ella personifica l’unione sessuale, il godimento e i piaceri che l’accompagnano, in cui ἔρος stesso riveste un ruolo indispensabile e complementare: è lui che insieme ad altre entità divine, quali πειθώ («persuasione»), gioca d’astuzia con gli amanti per ispirare loro il desiderio e spingerli nella rete di Afrodite. La dea, infatti, regna su qualsiasi forma di rapporto sessuale, sia che intercorra tra gli uomini, tra gli dèi o tra gli animali, sia che venga consumato nell’ambito del matrimonio o in quello omoerotico; un’Afrodite il cui potere sul piacere propriamente amoroso è sovrano. Ma chi è davvero questa dea?
Una risposta può essere offerta dal un frammento d’incerta sede attribuito al tragediografo Sofocle, che recita così:
Ragazze, Cipride non è soltanto Cipride,
ma è eponima di tutti i nomi.
È Ade, è forza imperitura,
è folle frenesia, è desiderio
5 intemperato, è gemito. In lei ogni
zelo, gentilezza, impulso alla violenza.
Penetra infatti, aderendo ai polmoni, in coloro in cui c’è
respiro vitale: chi non è vorace di questa dea?
Entra nella stirpe natante dei pesci,
10 sta nella generazione quadrupede della terra,
muove negli uccelli †…† l’ala.
…
nelle bestie, nei mortali, negli dèi lassù.
Chi tra gli dèi combattendo ella non atterra per tre volte?
15 Se mi è lecito – ed è lecito dire la verità – ,
All’inizio di questo breve componimento vien detto che Κύπρις οὐ Κύπρις μόνον, ἀλλ’ ἐστὶ πολλῶν ὀνομάτων ἐπώνυμος («Cipride non è soltanto Cipride, ma è eponima di tutti i nomi»): in altre parole, ogni cosa si concentra in lei, i contrasti si conciliano ed ella appare come principio generativo del cosmo. La dea «penetra» (ἐντήκεται) nel corpo di ogni essere vivente, «aderendo ai polmoni» (anche i πνεύμονα, infatti, erano considerati gli organi sui quali ἔρος agiva); il poeta utilizza non a caso il verbo ἐντήκειν, per istituire una metafora fra il potere divino e la colatura della cera, che viene versata nello stampino dal bronzista per realizzare le statue.
L’amore nell’epica
Menelao. Dettaglio dal Gruppo di Pasquino, Piazza della Signoria a Firenze. Marmo che rappresenterebbe Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, copia romana di età flavia da un originale ellenistico del III sec. a.C., con restauri moderni, foto di sonofgroucho, CC BY 2.0
Per la poesia epica l’«aurea Afrodite» è da sempre l’amabile dea dell’amore. Una delle prime scene in cui la si vede in azione è contenuta nel III libro dell’Iliade, allorché interviene nel duello mortale fra Menelao e Paride, sottraendo quest’ultimo dalle mani dell’avversario, e, dopo averlo avvolto in una «fitta nebbia», lo trasporta «nel suo talamo profumato e odoroso». La dea si reca da Elena, che intanto stava su una delle torri di cinta ad osservare il combattimento insieme con le altre donne troiane; Afrodite l’avvicina sotto mentite spoglie, assumendo l’aspetto di una delle anziane ancelle che l’avevano seguita da Sparta fin lì. Ella la invita a rientrare in casa, dove Paride l’aspetta nel talamo, ma la ragazza, turbata e un po’ disorientata, riconosce la dea, «il collo bellissimo, il seno spirante desiderio (ἱμερόεντα), gli occhi lucenti». Sospettando un inganno da parte della dea, Elena dopo averle opposto resistenza, alla fine cede al suo volere: anche Afrodite, infatti, sa essere una dea tremenda!
Così si reca, in compagnia della divinità, alle stanze di Paride, ove Afrodite le pone uno scranno davanti al letto del giovane e la invita a sedere. Elena, arrabbiata e piena di vergogna per l’amante, gli rivolge le seguenti parole:
«Sei tornato dalla battaglia: vorrei che tu fossi morto là,
sconfitto da quel valoroso che fu il mio primo marito!
430 E sì che ti vantavi in passato, nei confronti di Menelao caro ad Ares,
di essere superiore a lui in forza, mani e lancia;
e allora va’, ora, sfida Menelao caro ad Ares
a battervi di nuovo faccia a faccia! Ma io ti esorto
di lasciar perdere invece, di non fare col biondo Menelao
435 un duello frontale, di non combattere con lui stolidamente,
ché tu non sia presto abbattuto da lui con la lancia!»[5].
Come replicare dunque ad un rimprovero simile, nel quale Elena rimarca la cocente sconfitta al suo amante? Paride propone alla compagna di dimenticare le sofferenze della guerra in un letto che vuol dividere con lei nel piacere (τέρπειν):
«Ma suvvia, piuttosto mettiamoci a letto e godiamo l’amore:
mai prima d’ora con tanta violenza il desiderio m’ha ottenebrata la mente»[6].
La condivisione è sottolineata qui sia dalla forma del duale dell’invito a giacere insieme (εὐνηθέντε), sia dall’uso del termine φιλότης, che designa la relazione amorosa che vi si intreccia; si tratta di soddisfare un desiderio (ἔρος) che, come può fare il sonno, ha letteralmente avviluppato il diaframma dell’eroe, facendogli evocare la prima unione (μίγνυμι) del giovane pastore con la donna sottratta a Menelao, su un letto (εὐνή) sul quale si è stabilita la loro relazione di φιλότης. Soggetto del desiderio ispirato da Elena, Paride è l’unico oggetto della dolce passione che lo coglie; ma quando, seguito dalla ragazza, si dirige verso il letto, «loro due (τώ) se ne stettero a giacere nel letto intarsiato». L’appagamento del desiderio amoroso suscitato, con ogni probabilità, dalla dea, sfocia in una relazione reciproca, mediante una φιλότης, il piacere erotico goduto da due persone, che si compie nella doppia metafora sessuale del contatto intimo su un morbido letto: è qui che si concretizzando tutte le «opere dell’aura Afrodite» o i «doni di Afrodite». Come si può notare l’atto sessuale è descritto soltanto in maniera mediata, ricorrendo all’uso di espressioni metaforiche o a semplici allusioni.
Efesto, il dio cornuto
Andrea Mantegna, Efesto in un dettaglio dal cosiddetto Parnaso, tempera su tela (1497), oggi conservata al Louvre di Parigi. Da The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202, Pubblico dominio
Nell’VIII libro dell’Odissea, alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, Odisseo viene accolto nella maniera più ospitale: il re offre un lauto banchetto in suo onore e ad allietarlo c’è l’aedoDemodoco, che canta l’adulterio tra Ares e Afrodite ai danni dello sposo legittimo Efesto. La relazione fra i due amanti è anche qui definita φιλότης, il che indica reciprocità nel rapporto. Le due divinità decisero di unirsi (μίγνυμι), violando il letto di Efesto, il quale, venuto a conoscenza della tresca, volle vendicarsi di loro fabbricando delle catene infrangibili da adattare come ragnatele al talamo:
L’aedo cominciava a cantare con arte alla cetra
l’amore (φιλότητος) di Ares e di Afrodite dalla bella corona,
come per la prima volta si unirono (μίγησαν) nella casa di Efesto
di nascosto: molti doni le diede e il letto violò
270 di Efesto signore: ma da lui si recò, come nunzio,
il Sole che li vide unirsi in amore (μιγαζομένους φιλότητι).
Efesto, appena apprese il doloroso racconto,
s’avviò alla fucina, covando mali pensieri nell’animo,
pose sul ceppo una grossa incudine e forgiava catene
275 infrangibili, salde, perché intrappolati vi restassero.
Quando ebbe costruita la trappola, adirato con Ares,
si avviò verso il talamo, dov’era il suo caro letto:
attorno ai sostegni avvolgeva le catene,
molte poi ne sospese anche sopra, alle travi del soffitto,
280 sottili, come ragnatele: non le avrebbe scorte nessuno,
neppure uno degli dèi beati: dacché, infatti, erano forgiate con inganno.
Poi che intorno al letto tutto l’inganno ebbe avviluppato,
simulò di partire per Lemno, la città ben costruita,
che fra tutte le terre gli era la più cara.
285 Ares dalle redini d’oro non fu cieco di vedetta,
quando vide partire l’illustre artefice Efesto:
s’avviò alla dimora di Efesto, famoso artigiano,
bramando l’amore (ἰσχανόων φιλότητος) di Citerea dalla bella corona.
Seduta era la dea, tornata da poco dalla casa
290 del padre, il Cronide possente: egli entrò nella sala,
le strinse la mano, le rivolse la parola e disse:
«Vieni, cara: stendiamoci a letto e facciamo l’amore (λέκτρονδε τραπείομεν εὐνηθέντες).
Infatti, Efesto non c’è; è già partito per Lemno,
fra i Sinti dall’accento selvatico».
295 Così disse; e a lei parve cosa allettante giacere.
E, andati a letto, si addormentarono: ma intorno si sparsero,
all’improvviso, le catene forgiate da Efesto, abile fabbro,
e non potevano alzare né muovere le membra.
E allora capirono, quando ormai non c’era più scampo.
300 Andò verso casa l’illustre Ambidestro,
tornando prima di giungere nella terra di Lemno:
Elio, infatti, li aveva spiati e gli raccontò la vicenda.
Andò verso casa, col cuore in tumulto;
si fermò sotto il portico; lo pervase un’ira violenta:
305 proruppe in altissime grida, sicché tutti gli dèi lo sentissero:
«Padre Zeus e voi altri beati dèi sempiterni,
venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile,
come me che son zoppo Afrodite, figlia di Zeus,
sempre mi oltraggia, e ama invece il funesto Ares,
310 intrepido e bello e veloce, mentre io
sono storpio: ma colpa di ciò non hanno altri,
che coloro che mi generarono: non dovevano mettermi al mondo!
Ma guardate dove si sono uniti in amore quei due,
saliti sul mio letto: io mi tormento a vederli.
315 Starsene distesi così ancora per molto io non credo
che vorranno, anche se tanto si amano: presto non vorranno più
starsene a letto. Però la trappola e il vincolo li tratterrà,
fino a quando suo padre mi ridarà tutti i doni nuziali,
che gli feci per questa sposa faccia di cagna:
320 perché è certo bella sua figlia, ma è incontinente!».
Gridò così, e gli dèi s’assieparono nella casa dalla soglia di bronzo:
arrivò Posidone che cinge la terra, arrivò il corridore
Ermes, arrivò Apollo, il signore che colpisce da lontano.
Soltanto le dee trattenne ciascuna in casa il pudore.
325 Se ne stavano nel portico gli dèi datori di beni:
Ares desidera ardentemente, brama la φιλότης di Cipride, e la dea di rimando ama (φιλέει) il dio ed entrambi salgono sul letto di Efesto per unirsi in φιλότητι e consacrare l’amore reciproco[8].
Come argutamente ha osservato l’Hainsworth, questa vicenda è un «poema nel poema», un racconto d’intrattenimento che, essendo probabilmente un tema tradizionale dell’epica rapsodica, poteva essere cantato anche in maniera del tutto autonoma rispetto all’Odissea[9].
L’elemento comico affiora già nelle parole di Efesto, quando chiama in adunanza gli dèi perché vengano ad osservare l’ἔργα γελαστὰ καὶ οὐκ ἐπιεικτὰ («l’azione ridicola e intollerabile»). Il dio riconosce che la sua deformità (v. 308, ἐμὲ χωλὸν ἐόντα) è la causa principale del tradimento della sposa e che il confronto con il rivale Ares lo designa come perdente: quest’ultimo, infatti, è καλός τε καὶ ἀρτίπος («bello e veloce»). Tuttavia, Efesto appare tutt’altro che sconfitto, in quanto è riuscito a vendicarsi: le catene che lui stesso ha forgiato appositamente, si rivelano un’opera che nessuno può allentare. A suscitare il riso degli dèi non è più la deformità del dio, ma sono le sue τέχναι, che hanno creato una situazione inverosimile: Ares, l’amante avvenente e rapido, è stato catturato da un dio lento e zoppo, ma astuto. La risata divina quindi è ambivalente: di derisione degli amanti (ingannatori ed ingannati) e di stupore di fronte all’abile artificio di Efesto.
L’immagine di Efesto che ne deriva è in parte diversa da quella dell’Iliade, soprattutto per quanto concerne le notizie biografiche del dio: nell’Odissea, infatti, non si fa riferimento alla sua nascita e alle sue gesta, mentre invece si raccontano il suo allontanamento dall’Olimpo e la pacificazione finale con gli altri dèi. Qui è presentato come legittimo sposo di Afrodite, mentre nel poema iliadico è sposato con Charis[10].
Non è da escludere che il canto di Demodoco si rifaccia a leggende tradizionali: è assai probabile che l’autore dell’Odissea abbia rielaborato e, per così dire, “incastonato” in questo punto un racconto mitico sugli amori illeciti fra Afrodite e Ares. Secondo altri, il contenuto lascivo del componimento, che tanto scandalizzò Senofane (fr. 2 D.-K.) e Platone (Rep. 390 c), sia in qualche modo “ritagliato” sullo stile di vita dei Feaci, descritti nel poema come dediti ai piaceri più raffinati e lascivi in ambito erotico, e pertanto propensi a dilettarsi con carmi dal contenuto audace.
L’Inno ad Afrodite
L’Afrodite di “Cnido”, copia romana in marmo di un Prassitele (IV secolo a.C.), oggi al Museo nazionale di Roma, foto di Marie-Lan Nguyen, Pubblico dominio
All’interno della raccolta di trentatré componimenti trasmessa sotto il titolo di Inni omerici, il cosiddetto Inno ad Afrodite appare, a livello tematico, il più «omerico»[11]: su uno sfondo fiabesco e trasognato con la foresta montana, gli animali selvaggi e la casa rupestre del pastore, l’Inno narra la voluttuosa seduzione di Anchise da parte della dea e il concepimento di Enea, uno dei protagonisti dell’Iliade. L’intero carme appare costruito in maniera raffinata e lineare (solo in apparenza), con una serie di rimandi lessicali e strutture tipiche della poesia epica, come la Ringkomposition (costruzione anulare) e la ripetizione, che scandiscono i momenti successivi del canto, attraverso addensamenti concettuali raggruppati attorno a parole-chiave: le «competenze» di Afrodite, il «desiderio» della dea per Anchise, l’opposizione fra «immortalità» e «mortalità».
Il componimento si apre, dunque, con una lunga ἐπίκλησις («invocazione»), secondo lo schema tipologico dell’inno: al verso iniziale, con una ripresa consapevole dell’incipit dell’Odissea, si fa riferimento alle ἔργα πολυχρύσου Ἀφροδίτης («opere dell’aurea Afrodite»)[12]; il nesso si configura come un eufemismo per dire «amplesso»[13]. Seguendo forse il modello esiodeo della Teogonia, nel cui proemio si celebrano le «competenze» delle Muse, il poeta dell’Inno fa altrettanto per le τιμαί di Afrodite, anche se, in maniera del tutto originale, egli sceglie di esaltarla, menzionando le tre dee vergini che al suo potere sono insensibili:
Tre sono i cuori che essa non sa piegare né ingannare:
una è la figlia di Zeus egioco, Atena dagli occhi splendenti.
A lei infatti non piacciono le opere dell’aurea Afrodite:
10 le sono care le guerre e le opere di Ares,
mischia e battaglie, e ama promuovere splendide imprese[14].
[…]
E neppure Artemide dalle frecce d’oro, la dea cacciatrice,
si lascia domare da Afrodite, amica del sorriso[15].
[…]
Le opere di Afrodite non piacciono neppure a Estia,
la casta fanciulla, che l’accorto Crono generò per prima
e poi per ultima – per volere dell’egioco Zeus –
l’augusta dea ambita da Poseidone e da Apollo.
25 Essa però non volle, anzi oppose un netto rifiuto,
e toccando la testa di Zeus, il padre egioco,
fece un solenne giuramento, che si compì pienamente:
di restare per sempre vergine, venerabile fra le dee[16].
La dea viene ulteriormente celebrata per la sua forza invincibile, cui nemmeno Zeus può resistere. Il dio però decide di vendicarsi, ripagandola con la stessa moneta:
Sconvolge anche la mente di Zeus, signore del fulmine,
che è il più grande ed ha avuto il potere più grande:
facilmente inganna il suo animo scaltro, ogni volta
che vuole, e lo fa unire a donne mortali;
40 gli fa dimenticare Era, sua moglie e sorella,
che per bellezza spicca fra le dee immortali
ed è la più gloriosa figlia dell’accorto Crono
e di Rea: ed è lei che Zeus dalla mente infallibile
scelse come nobile sposa, vedendone i pregi.
45 Ma anche ad Afrodite Zeus insinuò nel cuore il dolce
desiderio di unirsi ad un uomo, perché al più presto
facesse anche lei esperienza di un letto mortale
e perché la dea amica del sorriso non potesse più vantarsi
Zeus, vittima abituale della dea, le ritorce contro l’ἵμερος che da lei stessa promana. In questo rovesciamento di parti si cela un aspetto del primordiale conflitto fra elemento maschile ed elemento femminile, fra patriarcato e matriarcato, piuttosto ricorrente in tutta la tradizione mitica. Ma vi è pure contenuto, in forma embrionale, il principio della «giustizia di Eros», che è tema ampiamente diffuso nella lirica arcaica e in generale nella poesia erotica greca: in base a esso, chi si mostra troppo altero in amore va incontro a punizione certa, divenendo a sua volta vittima di una passione terribile ed irrefrenabile. Il Bergren ha interpretato l’intero Inno come un’opposizione fra il κόσμος («ordine») di Zeus, caratterizzato da una verticalità gerarchica, e quello di Afrodite, regolato dal principio dell’unione e del mescolamento, e quindi intimamente antigerarchico: l’ordine finale cui si perviene vede il maschio divino (Zeus) «domatore» della femmina divina (Afrodite), a sua volta «domatrice» del maschio umano (Anchise)[18].
Si tratta di un inno del tutto peculiare: infatti non vi è alcun legame con il culto di Afrodite e, anzi, non ricorre nemmeno un accenno a un particolare rito. La stessa esaltazione della dea non soddisfa le aspettative tipiche della prassi innografica: la sua potenza è descritta certamente con deferenza quasi timorosa, ma gran parte del poema verte su una vicenda che, alla fine, si rivela imbarazzante, finanche dolorosa per dea: si assiste, insomma, alla punizione della dea, sconfitta e umiliata attraverso la medesima prerogativa che le è propria. Il suo stesso potere, che esercita con facilità su ogni essere vivente, le si ripercuote contro con violenza, lasciandole un retaggio di dolore[19].
Proprio per questo carattere particolare, l’inno si configura come un carme encomiastico, composto ed eseguito nell’isola di Lesbo (verosimilmente nella seconda metà del VII secolo a.C.), in occasione di una celebrazione in onore di Afrodite, offerta da una nobile famiglia locale che vantava di discendere dal sangue degli Eneadi. Tuttavia, ciò non sembra trovare conferma nelle testimonianze storiche e letterarie, da cui non emergono prove dell’esistenza di tale dinastia e, pertanto, si è indagata una nuova chiave di lettura all’interno dell’Inno stesso. Charles Segal e Peter Smith, ad esempio, sostengono, pur con argomenti diversi, che al centro del componimento vi è il contrasto tra mortale e immortale, ossia l’insuperabile dicotomia tra la divinità e l’uomo[20]. Per Hugh Parry, l’amplesso fra Afrodite e Anchise rappresenta il compenetrarsi dell’elemento mortale e quello immortale, che dura un tempo limitato e poi restituisce l’uomo al suo doloroso destino, in cui l’unica possibilità di non cedere alla morte è perpetuare la specie[21]. Altri studiosi, invece, continuano a credere che lo scopo del carme sia un omaggio cortigiano nei confronti degli Eneadi[22].
Il carattere di «omericità» dell’Inno ad Afrodite non risiede, peraltro, solo nell’identità dei personaggi che vi intervengono, ma è «omerico» anche per il tono e le forme della narrazione, con tutta una serie di reminiscenze epiche. È infatti un chiaro esempio di ὀαρισμός, ossia di colloquio d’amore (tant’è che lo si potrebbe definire, anacronisticamente, un «contrasto»[23]), come ce ne sono tanti altri nell’epica maggiore. Il precedente più vicino a cui si fa riferimento è l’episodio iliadico della Διός ἀπάτη, ossia l’incontro amoroso fra Zeus ed Era, predisposto dalla dea nell’intento di distrarre lo sposo dalla contemplazione della battaglia troiana:
Era invece raggiunse in un baleno la cima del Gargaro
sulla cima dell’Ida: e Zeus, adunatori di nembi, la vide.
Appena la vide, subito il desiderio gli avviluppò la mente,
295 come quando la prima volta si unirono in amore,
infilandosi nel letto, di nascosto ai loro genitori.
Le si fece incontro, articolò la voce e disse:
«Era, diretta in qual luogo arrivi qua dall’Olimpo?
Eppur non ci sono cavalli né carro, su cui tu possa viaggiare».
300 Ricorrendo all’inganno, gli rispose Era sovrana:
«Sto andando ai confini della fertile terra, a far visita
a Oceano, padre degli dèi, e alla madre Tethys,
che con affetto in casa loro mi nutrirono e allevarono;
vado ora a trovarli, per metter fine tra loro ad un lungo litigio:
305 già da un bel pezzo stanno lontani l’uno dall’altra astenendosi
dal letto e dall’amore, dacché nell’animo è entrato il rancore.
Aspettano alle falde dell’Ida ricca d’acque sorgive
i cavalli che mi porteranno per terra e per mare.
Ma ora proprio per te dall’Olimpo sono venuta fin qui,
310 perché tu poi non t’arrabbi con me, se senza dir niente
me ne vado a casa di Oceano dai gorghi profondi».
A lei di rimando diceva Zeus adunatori di nembi:
«Era, anche più tardi tu puoi recarti laggiù,
ma ora su, noi due mettiamoci a letto e godiamo l’amore.
315 Mai tanto il desiderio né di una dea né di una donna mortale
mi ha prostrato l’animo diffondendosi nel petto…[24]
La scena dell’amplesso è ambientata sul monte Ida – lo stesso sul quale dimora il pastore Anchise – luogo solitario e alpestre, dove la natura non fa solo da passivo fondamentale, ma è partecipe della vicenda; infatti, canta l’aedo: «… e prese tra le braccia la sposa il figlio di Crono, sotto di loro la terra divina produsse erba novella, loto rugiadoso e croco e giacinto soffice e folto, che riparava da terra a mo’ di tappeto. Vi si stesero sopra, si coprirono con una nuvola bella dorata: ne stillavano gocce splendenti di rugiada»[25].
Similmente nell’Inno, l’unione di Afrodite e Anchise è anticipata e quasi mimata dagli animali selvaggi che la dea incontra durante l’ascesa sul monte e ai quali infonde il desiderio di accoppiarsi:
Arrivò sull’Ida ricca di acque, madre di fiere,
e attraversò il monte in direzione della stalla; docili
70 l’accompagnavano lupi grigi e leoni feroci,
orsi e veloci pantere, avide di caprioli.
Vedendoli, la dea si rallegrava in cuor suo e insinuava
loro nel petto il desiderio (ἵμερον): e tutti,
a coppie, si acquattavano negli anfratti ombrosi[26].
Evidentemente Afrodite non è soltanto la dea che ispira negli uomini il desiderio amoroso, e che presiede alla loro unione; nella sua figura complessa rientrano anche aspetti della Grande Dea mediterranea della vita, che assicura fertilità alla terra e fecondità agli animali. Qui c’è nello sfondo la dea frigia Cibele, la Madre della Montagna, una delle forme assunte dalla Grande Dea anatolica. Non è perciò affatto strano che la dea compaia qui con un corteggio di fiere selvatiche, miracolosamente mansuete, nelle quali essa suscita l’ἵμερος: ella è la «Signora degli animali selvatici» (πότνια θηρῶν); si tratta tuttavia né di una divinità né di una figura mitologica specifica, bensì uno schema iconografico largamente diffuso in tutto il Mediterraneo a partire, almeno, dall’Età del Bronzo, nato nel Vicino Oriente ed entrato nel mondo greco attraverso Cipro: dietro Afrodite, insomma, si palesa la dea dell’amore semitica Ištar-Astarte. L’iconografia della πότνια θηρῶν prevedeva la rappresentazione di una figura femminile alata, affiancata da bestie selvatiche, spesso afferrate per il collo, nel gesto che esprime il controllo che la divinità esercitava sulla natura selvaggia. Anche in questo caso, il poeta dell’Inno ad Afrodite non si sottrae alla suggestione omerica: una simile icona richiama, infatti, il dominio che la maga Circe esercita sulle fiere che popolano il suo giardino, ammansite da droghe e filtri che ella somministra a chiunque metta piede nel suo regno[27]: questo tipo d’incanto perturbante prodotto da Circe sembra emanare da un altro modello orientale, quello della «Dea nuda», rappresentato da una serie di figurine femminili che esibiscono il proprio corpo svestito, talvolta accompagnate da animali, attestate a partire dal ii millennio a.C.[28]. Va da sé che quando la figura della πότνια gradualmente scomparve, le sue prerogative di «Signora degli animali» si sarebbero distribuite fra le varie divinità femminili: tra queste, Afrodite, la dea dal potentissimo charme, assunse un potere di soggiogamento senza pari, al quale tutte le creature divengono «docili» (σαίνοντες)[29].
Da un confronto fra l’episodio iliadico dell’amore fra Zeus ed Era e l’Inno si può constatare come, a dire il vero, non manchino elementi spaianti: da una parte i due protagonisti sono entrambi divini, mentre dall’altra Anchise è un fortunato mortale che ha ottenuto il privilegio di dividere il proprio letto con una dea (e non con una qualunque, si badi bene!); inoltre, il seduttore è nel poema la figura maschile, mentre nell’Inno il pastore troiano appare come il paredro di una femmina divina vogliosa di amplesso. In realtà, tuttavia, anche qui la differenza non è così netta, e anzi trapassa nella corrispondenza, in quanto che Zeus è vittima del piano di Era, la quale agisce «ricorrendo all’inganno» (δολοφρονέουσα) e alla quale spetta l’intera costruzione dell’incontro. Nel narrare gli istanti precedenti all’incontro tra la dea e il partner, il poeta con estrema ricchezza di particolari e grande minuzia descrive la prima toeletta femminile della letteratura occidentale:
170 Per prima cosa lavò con linfa divina
il suo corpo attraente, e lo unse tutto d’un olio
profumato eterno, da lei distillato:
al solo agitarlo si spandeva l’odore per la casa di Zeus
dalla soglia di bronzo, lontano, fino alla terra e al cielo.
175 Cosparso di questo il bel corpo e pettinati
i capelli, di sua mano compose le splendide trecce,
belle, divine, giù dalla testa immortale.
Addosso si mise una veste meravigliosa, che Atena per lei
aveva tessuto con arte, inserendovi molti ricami;
180 e se la fermava sul petto con fibbie d’oro.
Passò intorno ai fianchi una cinta adorna di cento pendagli,
ai lobi delle orecchie ben forati applicò gli orecchini, a tre pietre
ciascuno, grossi come more: ne riluceva una grazia incantevole.
Poi la dea fra le dee si pose in testa un velo,
185 bello, tutto nuovo era splendente come il sole;
calzò infine ai floridi piedi i sandali belli[30].
Insomma, la dea si prepara e si veste con estrema cura, facendo ricorso ad ogni elemento per sedurre l’amato sposo, e per essere certa di non fallire i suoi propositi convoca a sé Afrodite, alla quale chiede di conferirle amore (φιλότης) e brama (ἵμερος), con cui è solita vincere tutti, immortali e uomini mortali. La dea che ama il sorriso le consegna «un reggiseno ricamato multicolore, nel quale aveva raccolto tutti gli incanti», ossia «l’amore, e il desiderio, e il colloquio segreto, la persuasione, che ruba il cervello a chi pure ha saldo pensiero»[31].
Anche nell’Inno l’aedo riprende il tópos della toeletta: la bellissima dea, caduta in preda della medesima brama passionale (ἵμερος è il termine guida di tutto il canto) che lei è solita ispirare a tutte le creature, si ritira nel suo tempio di Pafo, dove si prepara in un’atmosfera voluttuosa e conturbante: assistita dalle Cariti, fa il bagno, si cosparge di unguento profumato, si veste e si adorna con la cura tipica di una pratica rituale:
qui le Cariti la lavarono e la unsero con un olio
straordinario, usato per la pelle degli dèi eterni,
un olio divino e soave che la profumò tutta.
Afrodite amica del sorriso indossò allora tutte
65 le sue belle vesti eleganti e s’adornò d’oro…[32]
Entrambi i contesti, dunque, ritraggono agguati amorosi tesi da dee e gestiti con astuzia e cuore femminili.
Si osservi che nell’iconografia greca arcaica, Afrodite, benché fosse la dea della passione amorosa e del sesso non venisse mai raffigurata senza veli (lo sarà più avanti nel tempo, in età ellenistica): la dea non usa la nudità come arma di seduzione, bensì si vale di vesti, cinture e gioielli d’oro, dei quali il suo corpo è riccamente adorno: oggi si direbbe che la seduzione passasse attraverso gli accessori! Le collane e i bracciali che Afrodite indossa sono un’altra forma del suo «cinto» (κεστός) e ne condividono la capacità magica di suscitare desiderio. Il gioco della seduzione tramite gli ornamenti fa luce anche su uno degli aspetti sorprendenti della logica dell’inganno che determina la leggenda esiodea di Pandora: anche lei è abbellita (κόσμησε) da Atena con le stesse vesti che indossa Afrodite, dalle collane donatele dalle Cariti e da Peithò[33]. In tutti i casi di seduzione, è il monile, l’ornamento che circonda il corpo femminile ad essere prefigurazione magica del «laccio» in cui sarà avvinto l’uomo da sedurre. Eccezion fatta ovviamente per le scene di donne al bagno, in cui è il contesto narrativo ad imporre la nudità, gli unici personaggi femminili che in età arcaica venivano talvolta rappresentati svestiti erano le prostitute – la cui attività prevedeva un’esibizione pubblica del corpo e delle sue parti sessuali – e, in qualche caso, le bambine o le giovani ragazze (παρθένοι), la cui corporeità non subiva la tabuizzazione cui era destinata invece la nudità della donna sposata.
Afrodite, dopo essersi inerpicata per il monte, trova il giovane pastore tutto solo nella sua capanna, «bello come un dio» (v. 77, θεῶν ἄπο κάλλος ἔχοντα), intento a suonare la cetra: chiaramente l’aedo riprende la scena iliadica in cui Achille viene raggiunto alla sua tenda dai messi di Agamennone, che dovranno persuaderlo a ritornare a combattere; in quel mentre, il cantore dice che «lo trovarono intento a godere la cetra armoniosa, bella, ben lavorata, … rallegrava con questa il suo cuore e cantava gesta d’eroi»[34]. La dea per avvicinarlo prende le sembianze di una «vergine indomita» (v. 82, παρθένῳ ἀδμήτῃ), e al vederla Anchise se ne innamora subito; il poeta, naturalmente, pone di nuovo l’accento sull’aspetto esteriore, sulle vesti e i gioielli con i quali la dea fa colpo sul pastore:
Anchise la scorse e prese a osservarla, ammirandone
85 l’aspetto e la figura e le vesti splendenti.
Indossava un peplo più fulgido della vampa del fuoco,
portava bracciali ritorti e orecchini lucenti,
e al collo delicato erano appese collane bellissime,
d’oro intarsiato: illuminavano il suo morbido petto
90 quasi d’un bagliore lunare, e l’effetto era meraviglioso.
Anchise fu preso d’amore…
Il giovane temendo si tratti di una divinità – la bellezza di quella ragazza non doveva certo aver per lui uguali! – si rivolge a lei come se stesse formulando una vera e propria preghiera: qui l’aedo sembra costruire un inno dentro l’inno, rifacendosi chiaramente al saluto che Odisseo rivolge a Nausicaa, in cui l’eroe si chiede se la fanciulla sia una mortale o una dea e la paragona, in quel caso, ad Artemide. Ecco, invece, quel che dice Anchise:
Ti saluto, o Signora che vieni in questa casa, chiunque
tu sia fra le dee, o Artemide, o Leto, o l’aura Afrodite,
o la nobile Temi, o Atena dagli occhi splendenti;
95 o forse tu che vieni qui sei una delle Cariti,
che accompagnano tutti gli dèi e sono dette immortali,
o una delle Ninfe che popolano i bei boschi,
oppure una di quelle che abitano questa montagna
e le sorgenti dei fiumi e i pascoli erbosi.
100 Io costruirò per te un altare su una vetta, in un luogo
ben visibile da lontano, e ti consacrerò belle offerte,
in ogni stagione; ma tu siimi propizia
e concedimi d’essere un uomo illustre fra i Troiani,
e in futuro dammi una discendenza fiorente, e consenti
105 ch’io viva a lungo felice e veda la luce del sole, ricco
in mezzo alla gente, e che possa toccare la soglia della vecchiaia[35].
Afrodite nega di essere una dea ed elabora una complicata menzogna: finge di essere una principessa frigia, figlia di re Otreo, destinata a sposare proprio lui, Anchise, rapita da Ermes dalle danze di Artemide e portata lì sull’Ida per concedersi al futuro sposo. La dea si immedesima nella giovane donna «vergine e inesperta dell’amore» al punto da supplicare Anchise di rispettarla, di condurla dalla sua famiglia a Troia e di disporre i preparativi per un banchetto di nozze «gradito agli uomini e agli dèi immortali», prima di unirsi carnalmente a lei. Anchise, se da un lato si convince e si rasserena, dall’altro si infiamma di desiderio perché con il suo discorso «la dea gli ispirò dolce desiderio nel cuore (θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ)», e afferma che, se veramente quella è la sua promessa sposa, «nessuno degli dèi e degli uomini mortali» gli impedirà di possederla subito: «Pur di salire sul tuo letto – le dice – donna simile alle dee, sono pronto poi a sprofondare nella casa di Ade». Evidentemente, come per gli animali che si accoppiano al passaggio della dea, così anche per l’uomo l’amore è un impulso istintivo e viscerale, che si realizza e si esaurisce nel sesso, senza una dimensione spirituale e senza complicazioni sentimentali. A un primo sguardo, infatti, l’accoppiamento delle fiere non appare diverso dall’amplesso fra la dea e Anchise, che si colloca su un piano più elevato soltanto per il più ricco e vario sviluppo gestuale. La scena d’amore è dunque abilmente introdotta e suggerita dall’attitudine degli amanti, nei preliminari del γάμος («unione»): il renitente consenso della fanciulla, con l’atto ritroso e pudico di voltare la testa e abbassare «i begli occhi»; il giovane che la prende per mano e ritualmente la conduce «sul letto ben fatto, ricoperto di soffici manti»; il fatto che le tolga «di dosso gli splendidi ornamenti, le fibbie, i bracciali ritorti, gli orecchini e le collane… la cintura e… le vesti lucenti», che depone «su un seggio dalle borchie d’argento» e finalmente la possiede. Naturalmente, la fortissima sanzione inibitoria dell’epica arcaica impone all’aedo una aposiopesi (ossia una reticenza): la formula ἀθανάτῃ παρέλεκτο θεᾷ (v. 166, «si coricò accanto alla dea immortale»), lascia la rappresentazione dell’atto d’amore all’immaginazione del pubblico, mentre il poeta – avvalendosi di una tecnica che è omologa di quella cinematografica della dissolvenza – riprende il racconto dal momento in cui Afrodite, dopo l’unione, si riappropria del ruolo divino. A identica prudenza è ispirato il racconto dell’abbraccio fra Zeus ed Era nel canto xiv dell’Iliade, come si è visto: il dio «afferra» la sposa e si corica con lei sull’erba, dentro una nube, e subito dopo il canto lo rappresenta già assopito, per le fatiche d’amore e per l’intervento di Hypnos. Il sonno postcoitale di Zeus è l’evidente modello del poeta dell’Inno: entrambi i testi mostrano interesse per la rappresentazione realistica dell’esperienza sessuale[36].
Dopo l’amplesso, Anchise è destato dal sonno da Afrodite, che si riappropria della sua forma divina in un’epifania caratterizzata dalla consueta luminescenza soprannaturale, si rivolge a lui e gli svela la propria identità:
La splendida dea si rivestì con cura, poi
s’alzò dentro la capanna: la testa toccava il tetto
ben costruito e una bellezza divina si irradiava
175 dal viso, come sempre avviene per Citerea dalla bella corona.
Svegliò Anchise dal sonno e gli parlò così:
«Alzati, figlio di Dardano! Perché questo sonno profondo?
Dimmi se ti sembra che assomiglio a quella ragazza
che prima credevi di vedere con i tuoi occhi»[37].
Il giovane eroe «quando vide il collo e i begli occhi di Afrodite, si turbò, e distolse lo sguardo; poi si coprì con il mantello il bel viso e la supplicò», di non fargli del male[38]:
«Ora ti supplico, in nome di Zeus egioco,
non permettere che io viva in mezzo alla gente
come un invalido (ἀμενηνὸν); abbi pietà, perché non ha una vita felice
Il timore di Anchise è certamente legato al rimorso, al senso del superamento di un limite, all’impressione istintiva di aver commesso un atto di ὕβρις («tracotanza»). La chiave interpretativa dell’intera vicenda si deve cercare probabilmente nella ῥῆσις di Afrodite, che occupa circa un terzo dell’intero componimento, costituendone il momento culminante e conclusivo (vv. 192-290). Questa sezione è molto importante non solo perché fornisce l’elemento di attualizzazione del canto, ma anche perché ne è il centro ideologico. L’Inno ad Afrodite appare dunque come un componimento genealogico, il cui scopo è di narrare la nascita divina di un eroe capostipite; ma è anche un brano di poesia arcaica, dunque coerente con i valori della cultura aristocratica, che proprio nelle parole della dea vengono ribaditi. La supplica rivolta da Anchise, infatti, si può meglio comprendere alla luce dell’avvertimento che Afrodite gli lancia nella seconda parte del suo discorso, allorché lo ammonisce a non vantarsi di quell’avventura amorosa:
e se qualcuno degli uomini mortali ti chiederà
quale madre ti ha concepito quel figlio,
ti comando di rispondergli così, non te ne dimenticare:
di’ che è il figlio di una tenera ninfa,
285 di quelle che abitano questo monte rivestito di boschi.
Se invece, indulgendo ad una folle vanteria, racconterai
di esserti unito in amore con Afrodite dalla bella corona,
Zeus furibondo ti colpirà con il fulmine fumante![40]
Le fonti concordemente tramandano che il pastore dimenticò questo divieto e fu punito dagli dèi con la cecità, ossia una sorta di paralisi. Pertanto, la preoccupazione del giovane è giustificata dall’esito stesso della sua vicenda, che l’aedo dell’Inno certamente conosce. L’unione carnale fra la dea e il giovane mortale, necessaria per la procreazione di un nuovo eroe, sulle prime, sembra attenuare la distanza fra il piano umano e quello divino, tant’è che Afrodite è colta da un acuto «desiderio» (ἵμερος) per Anchise, il cui amore è indispensabile per il ristabilimento del suo equilibrio emotivo, ma la ῥῆσις di Cipride chiarisce che così non è, e ristabilisce le giuste prospettive: il giovane troiano è solo lo strumento di un disegno più alto. Le parole di minaccia della dea non contengono soltanto una serie di disposizioni cui il suo paredro dovrà rigorosamente attenersi, se non vorrà incorrere nella «vendetta divina» (φθόνος θεῶν), ma sono pure il manifesto della subordinazione umana al capriccio divino. Il tema narrativo dell’eroe sottoposto alle avances di una dea costituiva un motivo diffuso nell’epica arcaica, così come quello della punizione, o sanzione divina, che colpiva l’uomo che aveva goduto l’amore della dea stessa: infatti, nel canto v dell’Odissea, Calipso, ferita al cuore dall’ordine impartitole da Zeus, che le impone lasciar partire l’amato Odisseo, ricorda i casi famosi di Orione e di Iasione:
Così quando Aurora dalle rosee dita Orione si prese,
voi che lieti vivete la invidiaste, voi placidi,
finché in Ortigia la vergine Artemide dall’aureo seggio
lo uccise, colpendolo con i suoi blandi dardi.
125 Così quando a Iasione Demetra dalla bella chioma,
seguendo il suo cuore, si unì in amore sull’erba
del campo arato tre volte: ciò nascosto non rimase
a Zeus, che quello uccise scagliando la fulgida folgore[41].
E ancora, sempre nell’Odissea, Ermes dopo aver consegnato ad Odisseo l’erba μῶλυ, un potente antidoto contro il φάρμακον di Circe, lo avverte sull’incontro che sta per avere con lei. Grazie all’antidoto, egli non muta la sua forma umana dopo aver bevuto il ciceone, né perde le sue facoltà d’azione e di reazione: quando Circe lo colpisce con la sua bacchetta per ordinargli di andare a sdraiarsi nel porcile insieme agli altri compagni, l’eroe, anziché obbedire, sguaina la spada aguzza e balza sulla fanciulla per ucciderla. Lei, atterrita, lancia un urlo e si getta ai suoi piedi; scoppia a piangere. La giovane osserva: «a te nel petto sta un pensiero inflessibile» (σοὶ δέ τις ἐν στήθεσσιν ἀκήλητος νόος ἐστίν)[42], e riconosce che lui è l’uomo πολύτροπος («dalle molte risorse») di cui parlava la profezia di Ermes. È solo a questo punto che Circe gli propone il proprio letto:
saliamo noi due sul mio letto, così che sul letto
insieme congiunti in amore possiamo
335 scambiare fra noi la fiducia nell’animo.
Odisseo segue, anche su questo punto, le istruzioni di Ermes, che gli aveva intimato di non rifiutare le profferte della dea: se vuole salvare i suoi compagni rinchiusi nel recinto, dovrà andare a letto con Circe. È una prova cui egli non può sottrarsi. Prima di accettare, però, egli deve ottenere da lei un giuramento solenne, poiché egli sa che la dea ha intenzioni pericolose (δολοφρονέουσα), e che, una volta nel suo letto, potrebbe renderlo κακὸν καὶ ἀνήνορα («vile e impotente»). Ottenuto l’impegno della dea, l’unione può aver luogo.
Tornando all’Inno ad Afrodite, si diceva che, in generale, l’unione sessuale di un mortale con una dea fosse considerato un evento pernicioso. La paura di Anchise, infatti, era quella che l’amplesso, ormai consumato con la dea, lo potesse ridurre a una larva, una specie di fantasma di se stesso, un vivo con la debole consistenza di uno spettro. Bettini fa notare che nell’omerico κακὸν καὶ ἀνήνορα dev’esserci qualcosa di più specifico di una semplice idea di spossatezza e perdita di energie vitali derivanti dall’amplesso con una femmina divina: c’è l’idea che le reali intenzioni di Afrodite possano essere quelle di ridurlo a persona di nessun valore (κακός) privandolo della sua virilità, cioè facendo di lui un «non uomo»[43].
Dopo aver rassicurato Anchise, Afrodite gli profetizza la nascita di Enea e il suo destino glorioso, ma anche la perpetua continuità della stirpe:
«Ti nascerà un figlio, che regnerà sui Troiani,
e poi dai figli nasceranno altri figli, in serie continua»[44].
Questa profezia è stata posta in relazione con quella di Poseidone in Il. xx 306-308 («ormai il Cronide ha in odio la stirpe di Priamo, mentre d’ora innanzi sui Troiani regneranno Enea e i figli dei suoi figli, che nasceranno») e sancisce il dominio degli Eneadi sulla Troade. Tuttavia, questa coincidenza non sorprende e non implica necessariamente una relazione di dipendenza diretta: il poeta dell’Inno si limita a encomiare la nobile casata lesbia sua committente[45].
Anche per Afrodite l’unione con Anchise è motivo di dolore e di vergogna: infatti, dice che «un eneo dolore» l’ha presa quando è entrata nel letto del mortale; il nesso αἰνὸν … ἄχος serve al poeta per spiegare con una fantasiosa etimologia il nome Αἰνείας, con il quale il padre dovrà chiamare il nascituro. È curioso come nella mentalità arcaica il compito di stabilire il nome per un bambino spettasse di solito al padre o al personaggio maschile più autorevole del γένος, mentre qui è la dea Afrodite a farlo: ciò dà prova di un’autorità straordinaria. Afrodite soffre per la vergogna conseguente all’unione indegna, percepita come una degradazione, un’offesa alla sua maestà divina:
D’ora in avanti però, giorno dopo giorno, io avrà sempre
un grande biasimo a causa tua fra gli dèi immortali,
che prima temevano le dolci parole e le astuzie con cui
250 ho unito tutti gli immortali, prima o poi, con le donne
mortali: tutti infatti erano soggiogati al mio volere.
Ma ora la mia bocca non potrà più parlare di queste vicende
fra gli immortali, perché ho commesso una grave colpa,
indegna e inenarrabile: ho perduto il senno,
255 e ho concepito un figlio unendomi a un mortale[46].
Nel suo discorso Afrodite parla soprattutto di immortalità, citando due paradigmi mitici, ossia le vicende del «biondo Ganimede» e di «Titonoo, simile agli immortali», entrambi di stirpe dardanica (l’uno ridotto alla condizione artificiale di balocco di un dio, l’altro condannato a decadere nell’obbrobrio e nell’orrore di un’eterna vecchiaia). Per comprendere questa argomentazione, occorre inquadrare le parole della dea nel sostrato culturale ed etico che l’épos rispecchiava: certamente gli exempla mitici, cui la tradizione fa spesso ricorso, suggeriscono una valutazione negativa della condizione umana, che va al di là del pessimismo omerico. L’Iliade, infatti, non sembra conoscere l’estensione dell’immortalità al di là della natura divina: gli uomini sono definiti spesso come δειλοῖσι βροτοῖσι («infelici mortali»)[47], mentre gli dèi sono sempre μάκαρες («beati»)[48]; l’impiego degli exempla permette al poeta dell’Inno di affrontare il tema del rapporto fra divinità e uomini e di mostrare l’incolmabile distanza che li separa. L’impiego di vicende esemplari è tipico del canto epico, e tale si è visto nell’episodio odissiaco di Calipso, la quale menziona le storie di Orione e Iasione: le parole della ninfa rispecchiano la dicotomia tra mortali e dèi, la vana aspirazione a superarla e la frustrazione che ne deriva. Il punto più importante del discorso di Calipso è il momento in cui ella ricorda la promessa dell’immortalità: «e pensavo di renderlo immortale e tenerlo lontano per sempre dalla vecchiaia» (ἠδὲ ἔφασκον θήσειν ἀθάνατον καὶ ἀγήραον ἤματα πάντα)[49]; e la ribadisce poco dopo rivolgendosi direttamente a Odisseo: «e saresti immortale» (ἀθάνατός τ᾽ εἴης)[50]. Calipso, dunque, avrebbe potuto e voluto renderlo immortale, ma è lui che paradossalmente rifiuta, dal momento che desidera con tutto il cuore tornare nel proprio mondo, la dimensione della temporalità e della mortalità. Quella di Odisseo non è una scelta, ma una necessità immanente e intrinseca nella natura umana: egli è incapace di vivere al di fuori del proprio mondo.
Nell’Inno Afrodite non pronuncia un giudizio esplicito riguardo la sorte dei mortali «prescelti», ma nondimeno il primo exemplum è illuminato dal secondo, ed entrambi convergono sul seguente punto: «Io non vorrei che tu vivessi in questa condizione fra gli dèi e che a questo prezzo avessi la vita eterna»[51].
Infatti, quanti, mortali, sono stati resi immortali per amore degli dèi non ne hanno tratto un grande vantaggio, ma al contrario la loro sorte si è rivelata alquanto misera. Tuttavia Afrodite dischiude ad Anchise un’altra possibilità di divenire immortale, che non contempla la sopravvivenza di lui in quanto individuo, bensì la capacità di perpetuarsi della sua stessa stirpe, cosa che reca gloria e felicità, malgrado passi per una presa di coscienza dolorosa, ossia la consapevolezza di non poter sfuggire alla «vecchiaia crudele, spietata, che poi non abbandona più gli uomini: anche gli dèi la odiano, poiché è rovinosa e sfibrante»[52].
Anchise, dunque, sarà anch’egli immortale, ma non con il proprio corpo, destinato ad un inesorabile deterioramento, bensì attraverso Enea e i figli dei suoi figli διαμπερὲς («in serie continua»). Tale immoralità deriva dalla procreazione attraverso l’unione sessuale, ossia una delle τιμαί di Afrodite, che anche così manifesta tutta la sua potenza. Ecco che il tema s’inquadra perfettamente nello schema compositivo del carme, soddisfacendo le finalità encomiastiche e didascaliche. Proprio su quest’ultimo motivo, emerge un insegnamento (γνώμη) fondante: l’uomo non può superare i propri limiti di creatura mortale, entro i quali è comunque messo in grado di attingere l’infinito, sia pur in maniera diversa rispetto alla divinità, ossia attraverso la generazione[53].
Il potere della dea fatto materia: la Coppa di Nestore
A conclusione di questa dissertazione, non spiace ricordare il chiaro riferimento alle ἔργα πολυχρύσου Ἀφροδίτης («opere dell’aurea Afrodite»), che compare sulla cosiddetta Coppa di Nestore.
Si tratta di una κοτύλη («tazza») di fabbricazione rodia, con decorazione tardo-geometrica in perfetto stile orientalizzante, proveniente dalla necropoli di San Montano (loc. Lacco Ameno, Ischia) e risalente al 720-710 a.C. La coppa fu rinvenuta nel 1955 in una serie di frammenti poi ricomposti: doveva appartenere, insieme con altri ventisei esemplari dello stesso tipo, al corredo funebre di un ragazzino di età compresa fra i 10 e i 14 anni. Su un lato, il reperto reca inciso in alfabeto euboico un epigramma di tre versi:
Il primo verso è un metro giambico (la lacuna a destra della prima parola non è integrabile con sicurezza), mentre gli altri due sono buoni esametri dattilici; probabilmente il primo verso potrebbe essere una introduzione in prosa del seguente distico. Ad ogni modo, il testo inciso è stato ipotizzato come una possibile allusione all’epica omerica, in particolare alla descrizione di Nestore, re di Pilo, figlio di Neleo e di Cloride, e della sua leggendaria coppa:
ed una coppa bellissima, che il vecchio si portò da casa,
tempestata di borchie d’oro; i manici della coppa
erano quattro, e intorno a ciascuno saltabeccavano
635 due colombe d’oro, e sotto c’era un duplice sostegno.
La spostavano a fatica dalla tavola gli altri,
quand’era piena, ma Nestore, il vecchio, senza sforzo l’alzava[55].
[54] Buchner G., Russo C.F., La coppa di Nestore e un’iscrizione metrica da Pitecusa dell’VIII secolo av. Cr., «Rendiconti Accademia Lincei» VIII s. x (1955), pp. 215-234: «Di Nestore io son la coppa bella: chi berrà da questa coppa subito desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Aloni A., Tradizioni arcaiche della Troade e composizione dell’Iliade, Milano 1986.
Andersen Ø., Dickie M.W. (a cura di), Homer’s Word. Fiction, Tradition, Reality, The Norvegian Institute at Athens, Bergen 1995.
Bergren A.L.T., The Homeric Hymn to Aphrodite: tradition and rhetoric, praise and blame, «ClAnt» 8 (1991), pp. 1-41.
Bettini M., Franco C., Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2010.
Buchner G., Russo C.F., La coppa di Nestore e un’iscrizione metrica da Pitecusa dell’VIII secolo av. Cr., «Rendiconti Accademia Lincei» VIII s. X (1955), pp. 215-234.
Calame C. (a cura di), L’amore in Grecia, Roma-Bari 1983.
Calame C., I Greci e l’eros. Simboli, pratiche e luoghi, Roma-Bari 1992.
Edwards M.W., The Iliad. A Commentary. Volume V: Books 17-20, Cambridge 1991.
Faulkner A., The Legacy of Aphrodite: Anchises’ Offspring in the Homeric Hymn to Aphrodite, «AJPh» 129 (2008), pp. 1-18.
Hainsworth J.B. (a cura di), Odissea, vol. II, Milano 1982.
Janko R., Homer, Hesiod and the Hymns: Diachronic Development in Epic Diction, Cambridge 1982, pp. 151 ss.
Marinatos N., The Goddess and the Warrior: the Naked Goddess and Mistress of Animals in Early Greek Religion, London-New York 2000.
Parry H., The Homeric Hymn to Aphrodite: Erotic Ananke, «Phoenix» 40 (1986), pp. 253-264.
Scafoglio G., La via per l’immortalità: un’interpretazione dell’Inno omerico ad Afrodite, «RevPhil» 83 (2009), pp. 87-98.
Segal C., The Homeric Hymn to Aphrodite. A. Structuralist Approach, «CW» 67 (1974), pp. 205-212.
Id., Tithonus and the Homeric Hymn to Aphrodite: a Comment, «Arethusa» 19 (1986), pp. 37-47.
Smith P., Nursling of Mortality. A Study of the Homeric Hymn to Aphrodite, Bern 1981.
Id., Aineidai as Patrons of Iliad XX and the Homeric Hymn to Aphrodite, «HSCPh» 85 (1981), pp. 17-58.
West M.L., Homeric Hymns, Homeric Apocrypha, Lives of Homer, Cambridge 2003.
Un puntuale confronto tra i Fasti di Ovidio e i calendari epigrafici sia precedenti (p. es., i FAM) sia contemporanei (p. es., i Fasti Praenestini: e in tal caso il confronto appare tanto più importante poiché i Fasti Praenestinifurono redatti da Verrio Flacco fra il 6 e il 9 d.C. dunque contemporaneamente a Ovidio che interruppe la redazione dei suoi nel 8 d.C.) documenta l’estrema precisione dei Fasti dello stesso Ovidio per quanto riguarda i giorni delle singole ricorrenze anniversarie. È una precisione del resto che non deve assolutamente stupire appena si pensi ad alcune esplicite dichiarazioni del poeta che si avrebbe torto a non prendere alla lettera: «quod tamen ex ipsis licuit mihi discere fastis…» (I 289), a proposito del dies natalis alle calende di gennaio del tempio di Esculapio e di Vediovisin insula; «ter quater evolvi signantes tempora fastos…» (I 657), a proposito delle Sementivae feriae, in quanto mobili evidentemente assenti dai calendari (I 659-660: «Cum mihi (sensit enim) ‘lux haec indicitut’, inquit / Musa, ‘quid a fastis non stata sacra petis?’»). Si tratta di una vera e propria acribia che induce talvolta Ovidio a consultare anche calendari di altre città («Quod si forte vacas, peregrinos inspice fastos»: III 87, quanto a marzo primo mese dell’anno a Roma prima della riforma di Numa, con persistenze invece – come dobbiamo intendere – in altri centri del Lazio); a proposito di giugno consacrato a Giunone non solo a Roma, ma anche ad Aricia, presso i Laurentes e a Lanuvium(VI 59-60: «Inspice quos habeat nemoralis Aricia fastos / et populus Laurens Lanuviumque meum»)[1].
Per quanto riguarda la più generale esattezza della registrazione dei giorni nell’ambito dei Fasti, va soprattutto messo in rilievo come Ovidio non solo dia conto di giorni che la maggior parte dei calendari epigrafici in qualche modo trascurano, ma come sempre Ovidio riporti giorni che gli altri calendari semplicemente omettono. Nel primo caso ciò avviene al 13 giugno, giorno dei Matralia (VI 475 s.), a proposito del dies natalis del tempio di Fortuna al Foro Boario (VI 569 s.: «lux eadem, Fortuna, tua est auctorque locusque…»), dove il dies natalis di Fortuna segue nella registrazione calendariale quello del tempio di Mater Matuta, confrontandosi da questo punto di vista solo con i FAM e confermando – nella misura in cui il dies natalis di Fortuna segue quello di Mater Matuta – la priorità del tempio di Mater Matuta rispetto a quello di Fortuna[2].
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312). Marmo, ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
2.
Le registrazioni completamente assenti dagli altri calendari sono relativamente numerose. Mi limito ad elencarle, con l’avvertenza che esse sembrano addensarsi nel mese di giugno:
1-9 giugno (VI 461-466): corrispondenza tra il giorno della vittoria di D. Iunius Brutus Callaicus (cos. 138 a.C.: MRR I, p. 487) sui Callaici nel 137 a.C. e giorno della sconfitta di Crasso a Carrhae[3]:
Tum sibi Callaico Brutus cognomen ab hoste
fecit et Hispaniam sanguine tinxit humum.
Scilicet interdum miscentur tristia laetis
nec populum toto pectore festa iuuant:
Crassus ad Euphratem aquilani natumque suosque
perdidit et leto est ultimus ipse datus.
2-18 giugno (VI 721-724): giorno del trionfo del dittatore A. Postumius Tubertus (MRR I, p. 63) su Equi e Volsci nel 431 a.C. (cfr. Liv. IV 29, 4 e I.It. XIII 1, p. 95 con p. 393):
Sicilicet hic olim Volscos Aequosque fugatos
viderat in campis, Algida terra, tuis;
Unde suburbano clarus, Tuberte, triumpho
vertus es in niveis, Postume, victor equis.
3-21 giugno (VI 763-766) : giorno della sconfitta al Trasimeno del console C. Flaminius nel 217 a.C. (MRR I, p. 242)[4]:
Non ego te, quamvis properabis vincere, Caesar,
si vetet auspicium, signa movere velim.
Sint tibi Flaminius Trasimenaque litora testes,
per volucres aequos multa monere deos.
4-22 giugno (VI 769): giorno della sconfìtta di Siface ad opera di P. Cornelius Scipio (MRR I, p. 312 per la promagistratura) e di Massinissa nel 203 a.C.:
Postera lux melior: superat Massinissa Siphacem.
Cn. Cornelio Blasio. Denarius, Roma 112-111 a.C. Ar. Recto: [Cn(aeus)] Blasio Cn(aei) f(ilius). Testa elmata di Scipione Africano, voltata a destra.
5-22 giugno (VI 770): sconfìtta e morte di Asdrubale al Metauro nel 207 a.C. (cfr. Liv. XVII 49):
et cecidit telis Hasdrubal ipse suis.
6-27 giugno (VI 792-794): dies natalis del tempio di Giove Statore votato da Romolo. A proposito di quest’ultimo, si osservi che Ovidio non è necessariamente in contrasto con l’indicazione dei FAM (I.It. XIII 2, p. 18), dove il dies natalis di uno dei templi di Giove Statore era posto al 5 settembre. Ovidio in effetti accenna solo alla fondazione romulea e sembra ignorare, ο almeno non accenna né alla costruzione vera e propria da parte di M. Atilius Regulus (cos. 294 a.C.: MRR I, p. 179) del tempio di Giove Statore nel Foro né a quella del tempio omonimo in circo Flaminio da parte di M. Caecilius Metellus Macedonicus (MRR I, p. 461) dopo il suo trionfo. In simili condizioni è molto probabile che il giorno 27 giugno indichi nei Fasti appunto il giorno della fondazione romulea, e non il dies natalis di uno dei due templi di epoca storica, dies natalis che doveva cadere appunto al 25 settembre, come indicano i FAM[5]:
Tempus idem Stator aedis habet, quam Romulus olim
ante Palatini condidit ora iugi.
Tot restant de mense dies quot nomina Parcis,
cum data sunt trabeae templa, Quirine, tuae.
7-30 giugno (VI 800-810): dies natalis del tempio di Hercules Musarum, dedicato da M. Fulvius Nobilior dopo la presa di Ambracia e il suo trionfo nel 187 a.C. (MRR I, p. 187), restaurato quindi da L. Marcius Philippus (cos. 56 a.C.: MRR II, p. 207) nel 29 a.C. Poiché Ovidio si diffonde a lungo sulla casta Marcia, matertera Caesaris, e poiché Marcia, figlia di L. Marcius Philippus e di Atia Minore, aveva sposato Paullus Fabius Maximus, amico e protettore del poeta, dal momento che il 30 giugno non compare in nessun altro calendario in rapporto al tempio di Hercules Musarum, ne dedurremo che quel giorno deve intendersi come il dies in cui L. Marcius Philippus aveva provveduto a una nuova dedica del tempio dopo la ricostruzione da lui intrapresa, con l’avvertenza che (se ce ne fosse stato bisogno) l’indicazione del giorno poteva essere fornita a Ovidio dalla stessa Marcia ο da suoi gentiles[6]:
Sic ego, sic Clio: «Clara monimenta Philippi
aspicis, unde trahit Marcia casta genus:
Marcia, sacrifico deduetum nomen ab Anco,
in qua par facies nobilitate sua est;
par animo quoque forma suo respondet in illa
et genus et facies ingeniumque simul;
nec quod laudamus formant, tu turpe putaris:
Laudamus magnas hac quoque parte deas.
Nupta fuit quondam matertera Cesaris illi:
ο decus, ο sacra f emina digna domo!».
Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Verso: Hercules Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.
3.
È evidentemente impossibile precisare come Ovidio potesse giungere al 27 giugno come dies natalis della fondazione del tempio di Giove Statore. Da parte nostra basti mettere in rilievo che la registrazione del giorno poteva essere contenuta all’interno di tradizioni da ricondursi ad ambito genericamente pontificale. La puntuale registrazione di altri giorni poteva invece essere tramandata all’interno di singole tradizioni gentilizie: quelle dei Cornelii, dei Iunii, dei Postumii, relativamente ai loro esponenti P. Cornelius Scipio, D. Iunius Brutus Callaicus, A. Postumius Tubertus. Trattandosi di giorni di vittoria e in un caso di trionfo, evidentemente non stupisce che i rispettivi gentiles li avessero registrati puntigliosamente e continuassero a con servarne memoria. Molto diverso è il caso del disgraziatissimo 21 giugno, relativo alla sconfitta del Trasimeno. A questo proposito infatti la tradizione annalistica non si era premurata di registrare con esattezza il giorno, limitandosi ad annoverare quella disfatta inter paucas memoratas populi Romani clades (Liv. XXI 7, 1-5). Ovidio invece la registra con uno scopo – come egli stesso dichiara – eminentemente pratico: dissuadere Cesare (evidentemente, Cesare figlio) da signa movere in quel giorno si vetat auspicium: infatti proprio in quel giorno, poiché il console aveva trascurato gli auspicia che gli dei avevano inviato («per volucres aequos multa movere deos»), l’esercito condotto da C. Flaminius era stato distrutto (Fasti VI 763-766). Dedurremo dunque da questa notazione che Ovidio comprendeva almeno di fatto anche il dies del Trasimeno nel novero dei dies da cui bisognava in qualche modo guardarsi, benché esso non venisse esplicitamente registrato come tale nella parallela e documentata tradizione «antiquaria» pervenuta attraverso Verrio Flacco, Gellio e Macrobio in rapporto anche alla categoria dei dies proeliares[7].
Torneremo subito sulla categoria dei dies religiosi (per quanto riguarda naturalmente soprattutto l’Alliensis e il Cremerensis). Va però sottolineato in questo contesto come sempre Ovidio sia il solo a fornire il giorno esatto della morte (11 giugno) nel 90 a.C. del console P. Rutilius Lupus mentre combatteva contro i Marsi al fiume Tolenus. Pertanto, accanto all’uso di notizie tramandate da gentes quali quelle degli Scipiones, dei Iunii e dei Postumii, aggiungeremo nel caso specifico anche quelle attive presso i Rutilii. Con un’avvertenza ulteriore: nel caso dei primi si trattava di giorni tramandati a gloria delle famiglie di appartenenza; nel caso dei Rutilii Lupi a scopo non solo di esaltazione della stirpe (un cui membro era morto per la patria), ma anche per la celebrazione ogni anno – appunto l’11 giugno – di una parentatio in suo onore: quelle parentationes «private» che rientravano a pieno titolo nell’ambito dei gentilicia sacra e alle quali faceva cenno significativamente il pontefice Q. Fabius Maximus Servilianus (cos. 142 a.C.: MRR I, p. 474), negando che si potesse «atro die parentare, quia turn quoque Ianum Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet»[8].
L’uso documentato di parentationes annuali nell’ambito della nobilitas romana presuppone evidentemente l’esistenza di elenchi a uso interno del le gentes dove venivano registrati i giorni che comportavano, nell’ambito dei gentilicia sacra, parentationes in onore dei gentiles defunti[9]. Evidentemente solo così si spiega come la notizia dell’11 giugno quale giorno della morte di P. Rutilius Lupus, assente dalla tradizione annalistica, potesse giungere comunque fino a Ovidio, in modo analogo del resto alla precisazione del giorno della battaglia del Trasimeno, giorno anche della morte del console C. Flaminius. Pertanto – ed è un punto che è necessario sottolineare – tra le fonti di Ovidio – veri e propri calendari, le opere di carattere più propriamente storico (nel caso specifico soprattutto Livio) ο di natura che potremmo definire «antiquaria» (nel caso specifico soprattutto Varrone)[10] – debbono essere annoverate anche le tradizioni gentilizie, cui Ovidio poteva avere accesso sia direttamente per via orale (come, per quanto riguardava i Fabii e i Marcii Philippi, grazie a Paullus Fabius Maximus e a Marcia) sia anche ricorrendo (p. es., nel caso dei Rutilii Lupi) ad archivi di famiglia ο piuttosto, per evitare equivoci all’evenienza modernizzanti, a «carte di famiglia», fossero esse più ο meno ordinate e strutturate in veri e propri archivi[11].
Cavaliere romano. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. Particolare dalla tomba del prefetto Tib. Flavio Micalo. Istanbul, Museo Archeologico.
4.
A questo punto limitiamoci a una semplice constatazione. In presenza di tanta esattezza e di tanta puntualità nella registrazione dei giorni, la collocazione al 13 febbraio del dies Cremerensis risulterebbe non solo l’unico errore nell’indicazione di un giorno nell’ambito dei Fasti, ma anche un errore, come vedremo, assai singolare[12]. Di fatto per spiegare questo presunto «errore» sono state avanzate le ipotesi più diverse, a partire da quelle di Barthold Georg Niebuhr e di Theodor Mommsen, i quali pensarono che Ovidio avesse confuso la data della clades (18 luglio) con il giorno della partenza dei Fabii da Roma (13 febbraio), fino a quella, più recente, di Eckard Lefèvre, che da parte sua ritiene quello di Ovidio un errore dettato dalla necessità di rinvenire a tutti i costi, lontano da Roma, a Tomi, «con il coraggio della disperazione» («mit der Mute der Verzweiflung») il giorno della strage del Cremera, non potendo più ricorrere, mentre componeva in esilio questo settore dei Fasti, alla competenza «gentilizia» di Paullus Fabius Maximus, ma volendo comunque rendere omaggio al suo patrono potentissimo[13].
In simili condizioni, e nell’ambito di una discussione evidentemente ancora aperta, appare più proficuo riprendere in esame suggestioni già avanzate a proposito di tradizioni gentilizie fabie nella scelta ovidiana del giorno[14], benché sviluppandole qui in senso diverso.
È merito di Santo Mazzarino aver dimostrato la connessione indissolubile tra dies Cremerensis e dies Alliensis: tra quel disgraziatissimo 18 luglio 478 a.C. che aveva visto il sacrificio dei Fabiiper Roma al fiume Cremera e il 18 luglio 390 a.C. giorno addirittura più disgraziato, poiché quanto avvenne appunto in quel giorno non aveva coinvolto una sola gens, ma la città nel suo complesso. Fu il giorno in cui – conseguentemente al comportamento dei legati Fabii che a Chiusi avevano violato il ius fetiale – la sconfitta al fiume Allia aprì ai Galli un 18 di luglio la strada per Roma. In tal modo, all’accusa di un loro rovinoso filo-etruschismo, i Fabii avrebbero contrapposto in seguito lo sterminio (quasi totale) della propria gens sempre un 18 di luglio per difendere in passato, appunto contro gli Etruschi, la ripa Veientana (non solo evidentemente a protezione della città, ma anche dei territori della propria tribù, quelli che si estendevano in corrispondenza appunto della tribù che recava il loro gentilizio)[15].
A rafforzare queste considerazioni possono eventualmente aggiungersi elementi ulteriori. P. es., che nel racconto dell’episodio ritenuto da Dionisio d’Alicarnasso il più credibile (ó δ’ έτερος, öv άληθέστερον είναι νομίζω περί τε της απώλειας των ανδρών…) lo scontro finale contro i Veienti non si svolgesse in un solo giorno, ma in due. In tal caso il dies Cremerensis dovrebbe essere quello – il secondo – che vide la sortita dei Fabii dal phrourion a soccorso dei compagni e poi lo sterminio finale dei Fabii asserragliatisi nuovamente nel phrourion e usciti di nuovo incontro ai nemici. Va comunque messo in rilievo come in entrambi i racconti di Dionisio (anche nel primo confrontabile evidentemente più da vicino con quello riportato da Livio e ritenuto sempre da Dionisio quello meno degno di fede), si faccia cenno a un fiume solo all’inizio: fiume da cui avrebbe avuto nome il «fortilizio» chiamato esso stesso Cremera[16]. In effetti, nella misura in cui Dionisio dichiarava di privilegiare il racconto a suo avviso più veritiero, evidentemente non poteva non ritenere più verosimile la tradizione che voleva i Fabii attestati su un’altura, piuttosto che lungo un fiume e di conseguenza in un luogo pianeggiante. Diversamente, la tradizione liviana faceva sempre esclusivo riferimento al fiume: è dal loro accampamento presso il fiume che i Fabii muoverebbero per compiere scorrerie nei tenitori circostanti, raccogliendosi su un’altura solo per lo scontro finale, quello in cui furono sterminati[17].
Quanto al giorno dello sterminio e alle sue eventuali, anche se leggere, oscillazioni, si noti del resto che anche chi, come l’annalista Cn. Gellius e Cassio Emina, stabiliva una corrispondenza tra dies Cremerensis e dies Alliensis poteva comunque collocare questa stessa corrispondenza non al 18 (a.d. XV kal. Sextiles) ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles). Il giorno 16 luglio è un giorno peraltro da considerarsi evidentemente molto accreditato se esso poté essere indicato in senato dall’aruspice L. Aquinius non solo come quello della ricorrenza delle sconfitte dell’Allia e del Cremera, ma anche come esempio di combattimenti avvenuti in passato con esito nefasto «in molti altri tempi e luoghi» dopo sacrifici celebrati appunto in un giorno successivo alle idi[18].
Poiché l’unico calendario (dipinto) di epoca repubblicana a noi pervenuto è quello di Anzio e poiché questo calendario è relativamente tardo datandosi tra l’88 e il 55 a.C., non è escluso, ma anzi è estremamente probabile che calendari precedenti (anch’essi dipinti e appunto per questo irrimediabilmente perduti) registrassero il dies Alliensis non al 18 ma al 16 luglio (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles); che in altri termini alcuni calendari potessero dunque collocare il giorno dell’Allia e quello del Cremera nel giorno che era stato accolto in ambito annalistico da Cn. Gellius e Cassio Emina[19], diversamente dalla tradizione confluita più tardi in Livio e ben presto egemone in epoca augustea. Basti pensare al cenotafio di Pisa in onore di Gaio Cesare, il nipote e filius di Augusto morto nel 4 a.C. dove si proclamava come il giorno della scomparsa del giovane principe dovesse essere «tramandato a lugubre memoria» come appunto quello d’Allia, registrato al 18 luglio non solo – come abbiamo visto – nei FAM, ma più tardi anche nel calendario di Amiterno, databile poco dopo il 20 d.C.[20]
Guerriero etrusco. Bronzo, statua, V sec. a.C. dal Monte Falterona. London, British Museum.
5.
A partire dalla lieve oscillazione relativa al dies Alliensis (postridie idus Quintiles e non a.d. XV kal. Sextiles), il presunto «errore» ο la presunta «svista» di Ovidio (dies Cremerensis al 13 febbraio), collocando in quel giorno la strage dei Fabii, induce a riprendere in esame le stesse nutazioni calendariali relative al dies dell’Allia. Se quest’ultimo compare con una simile dicitura nel calendario dipinto di Anzio e in quello di Amiterno (redatto dopo il 20 d.C.) nel calendario marmoreo di Anzio – approntato nell’ambito della familia Caesaris attiva ad Anzio negli ultimi anni di Tiberio e nel primo anno di Caligola – poteva leggersi la singolare notazione dies Alliae et Fab(iorum). Con un’avvertenza, dal nostro punto di vista, rilevante: il calendario marmoreo di Anzio è un calendario molto preciso non solo a proposito delle feriae introdotte a partire da Augusto in onore del principe e della sua famiglia, ma anche per quanto riguarda le registrazioni delle antiche ricorrenze anniversarie della città repubblicana[21]. Ne dedurremo per tanto che il calendario marmoreo di Anzio da un lato faceva coincidere dies Alliensis e dies Cremerensis; d’altro lato che, definendo quel giorno «giorno dei Fabii», enfatizzava all’interno di un calendario, in uso presso la familia Caesaris di Anzio, una tradizione propria di una gens che – ne dedurremo – ancora in quel periodo aveva interesse a diffonderla e il cui esponente più importante in epoca augustea era stato il marito di Atia, matertera Caesaris: ancora una volta Paullus Fabius Maximus, morto – com’è ben noto – nel 14 d.C.[22]
Se evidentemente è molto difficile datare i diversi «strati» di redazione dei Fasti (prima e dopo l’esilio) con la nuova dedica a Germanico e gli inevitabili ritocchi che ne sono conseguiti, tuttavia ritenere l’episodio del Cremera composto lontano da Roma, e dunque per questo registrato con data inesatta, non è tanto segno della «disperazione» di Ovidio alla ricerca comunque di una data quanto piuttosto della «disperazione» di alcuni esegeti moderni alla ricerca comunque di una spiegazione (anche la meno verosimile). Benché sia molto probabile che Ovidio avesse composto almeno in stesura provvisoria i dodici libri dei Fasti prima di partire per l’esilio e che dunque avesse già trattato del dies Cremerensis all’interno del mese di febbraio prima di essere costretto a lasciare Roma nell’8 d.C.[23], per quanto riguarda nel caso specifico il giorno dell’Allia – che in epoca augustea veniva fatto corrispondere a quello del Cremera – possiamo ritenere sicuro che la sua ricorrenza anniversaria era ricordata con esattezza anche a Tomi, così da eliminare ogni ipotesi su una sua eventuale dimenticanza.
La circostanza, finora mai osservata in un simile contesto, si ricava da in Ibim 217-220 (un poemetto scritto quando il poeta era ormai lontano da Roma):
Lux quoque natalis, ne quid nisi trite videres,
turpis et inductis nubibus atra fuit:
haec est in fastis cui dot gravis Allia nomen:
quaeque dies Ibin, publica damna tulit.
Dunque, il giorno della nascita del nemico di Ovidio fu un giorno turpis e «nero» (ater) di nubi: significativamente era lo stesso giorno (dies religiosus, ma definibile all’evenienza anche ater) cui dava nome nei calendari (in fastis) il gravis Allia[24]. Ovidio naturalmente allude qui al 18 luglio, di cui aveva scritto nel settore perduto dei Fasti (nel caso specifico nel libro settimo), e come poteva avergli ricordato (se mai ce ne fosse stato bisogno) anche Paullus Fabius Maximus. Era un giorno peraltro che, vedendo la nascita di Ibis, aveva recato publica damna (danni all’intera città), appunto come aveva fatto il lugubre dies Alliensis, quando dopo la sconfitta i Galli si erano abbattuti su Roma. Se, come abbiamo visto, non può essere messa in discussione la specifica competenza di Ovidio in ambito calendariale, tanto meno questa competenza può essere messa in discussione in un caso come questo, relativo a un avvenimento di storia urbana non solo epocale, ma anche eminentemente infelice, di cui lo stesso Ovidio aveva già trattato.
Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates, un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.
6.
A questo punto ci limiteremo da parte nostra a una semplice constatazione: Ovidio poneva il dies Cremerensis e il dies Alliensis in due giorni diversi e distinti: rispettivamente al 13 febbraio e al 18 luglio. Poiché non ci è pervenuta la parte dei Fasti relativa al dies Alliensis, è impossibile specificare le linee, anche generalissime, di quello che doveva esserne il racconto. È tuttavia molto probabile (o forse quasi sicuro) che fosse tenuto presente il racconto di quella sconfitta dato da Livio, in modo analogo del resto a quanto avviene – questa volta sicuramente – per l’episodio dei Fabii al Cremera[25]. La sostanziale dipendenza di Ovidio da Livio a proposito dello svolgimento del dies Cremerensis ripropone con forza il problema della differenza del giorno, che Livio collocava notoriamente al 18 luglio, mentre su questo punto specifico Ovidio – ponendolo al 13 febbraio – se ne allontanava: ed è un allontanamento tanto più da sottolineare poiché il giorno 18 luglio – successivo di due a quello indicato da Cn. Gellius e Cassio Emina – in epoca augustea era ormai evidentemente invalso.
Tra le molte spiegazioni che sono state avanzate nel tentativo di chiarire perché Ovidio «anticipasse» non di qualche giorno ma di circa cinque mesi l’episodio del Cremera, non poteva non essere evocato con forza il ruolo svolto da Paullus Fabius Maximus e dunque l’esistenza di una tradizione fabia che, muovendo da Paullus Fabius Maximus, sarebbe pervenuta a Ovidio: tradizione in cui il dies Cremerensis veniva collocato appunto in quel giorno. Sebbene mai discussa in dettaglio, così come è stata formulata, questa ipotesi non ha avuto molta fortuna per una semplice obiezione: l’obiezione che i Fabii – sia quelli dei decenni successivi alla catastrofe dell’Allia sia per tradizione gentilizia i Fabii dei secoli seguenti (compreso Paullus Fabius Maximus) – avrebbero avuto ogni interesse a non mettere in discussione, ma anzi a mantenere (e, se possibile, a rafforzare) quella corrispondenza, tanto più se si trattava – come ha riaffermato di recente anche Jean-Claude Richard – di una corrispondenza fittizia, stabilita in origine per riscattare i Fabii da una «colpa»[26].
Si osservi però che il 13 febbraio in riferimento alla strage del Cremera, per giungere comunque fino a Ovidio e superare all’evenienza il filtro di Paullus Fabius Maximus, doveva essere una ricorrenza accreditata presso gli stessi Fabii. Poiché, in caso contrario, Paullus Fabius Maximus non avrebbe mai permesso che Ovidio commettesse quell’«errore» ο in ogni caso avrebbe indotto il suo protetto a correggerlo. All’inizio, a proposito dei giorni riportati solo da Ovidio e assenti negli altri calendari in relazione a vittorie, a un trionfo, in una circostanza alla morte di esponenti della nobilitas, abbiamo fatto riferimento a tradizioni gentilizie dove quei giorni dovevano essere accuratamente registrati. Nel caso di P. Rutilius Lupus la registrazione del giorno (11 giugno) era tradita nell’ambito della sua gens non solo come motivo di orgoglio (in quanto, ripetiamo, P. Rutilius Lupus nel 90 a.C. era morto pro patria), ma anche poiché quella registrazione era necessaria allo scopo di compiere annualmente le doverose parentationes ai suoi Mani. Era doveroso e obbligatorio infatti da parte dei gentiles compiere parentationes annuali per i Manes dei propri defunti. E poiché queste parentationes rientravano a pieno titolo nel novero dei gentilicia sacra[27], possiamo ritenere sicuro che i Rutilii avessero registrato e quindi trasmesso con lo scrupolo più grande il giorno della morte del loro antenato. Di fatto, solo così si spiega come la notizia di questo giorno potesse giungere (ignoriamo per quali vie) fino a Ovidio. È opportuno comunque sottolineare che spesso poteva trattarsi di tradizioni orali relative alle varie famiglie romane, come quelle acquisite da Pomponio Attico in seguito alle indagini svolte grazie a Servilia a proposito dei Iunii e appunto dei Servili[28]. Quanto ai Fabii e al patrimonio di tradizioni attivo all’interno della loro gens, Paullus Fabius Maximus appare inevitabilmente l’informatore privilegiato di Ovidio: un informatore che certo non avrebbe mai permesso allo stesso Ovidio di sostituire invano un famosissimo 18 luglio con un «qualunque» 13 febbraio.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
7.
A Roma, però, il 13 febbraio non era un giorno qualunque, dal momento che esso vedeva da un lato l’apertura dei Parentalia(la novena in onore dei divi Parentes), d’altro lato la corsa scatenata dei Luperci. A partire dall’ora sesta, quando virgo Vestal(is) parentat (ed essa evidentemente non può che compiere parentationes a nome di tutta la città)[29], mentre le singole famiglie onorano i propri morti, la religiosa civitas, la città dei magistrati e dei sacerdoti appare in qualche modo ritrarsi, adottando apparati e dispositivi simbolici caratteristici per un periodo di nove giorni durante i quali i magistrati abbandonano le loro insegne di statuto, non si celebrano sacrifici e i templi degli dei sono chiusi[30]. In un simile contesto e in rapporto al problema da cui si sono prese le mosse, è necessario riportare l’annotazione di Polemio Silvio relativa a questo giorno: parentatio tumulorum inc[ipit], quo die Roma liberata est de obsidione Gallorum. Dunque, per Polemio Silvio che su questo punto specifico può confrontarsi con Plutarco[31], le idi di febbraio – che in Ovidio avevano visto la strage dei Fabii al Cremera – molti decenni dopo videro anche i Galli allontanarsi da Roma: una Roma che era stata occupata in seguito alla disfatta dell’Allia ma che aveva anche assistito al sacrificio gentilizio compiuto sul Quirinale a rischio della vita da C. Fabius Dorsuo. C. Fabius Dorsuo, un iuvenis, cinto secondo il rito gabino e con i sacra in mano, era disceso allora dal Campidoglio, dove si era asserragliato insieme ad altri iuvenes, aveva raggiunto il Quirinale attraversando gli avamposti nemici e sul Quirinale – come era necessario – aveva compiuto il sacrificium… statum… Fabiaegentis[32].
Destino dunque che sembra consueto all’interno della gens Fabia: compiere sacrifici gentilizi a evidente vantaggio di tutta la città. Infatti, secondo la tradizione non ritenuta credibile da Dionisio di Alicarnasso, il motivo che aveva spinto i trecento Fabii a muovere nel 478 a.C. dal loro avamposto presso Veio per recarsi a Roma, era stato appunto l’esecuzione di un sacrificio tradizionale (θυσίας… πατρίου) che la loro gens era incaricata di compiere (ην έδει το Φαβίων έπιτελέσαι γένος)[33]. Così nel 478 a.C. gli stessi Fabii si sarebbero sobbarcati al rischio di un viaggio di ritorno attraverso il territorio nemico per compiere quei riti a beneficio di tutta la città come più tardi nel 390 a.C. avrebbe fatto il loro gentilis C. Fabius Dorsuo per eseguire il suo sacrificio sul Quirinale: anch’esso, com’è chiaro, un sacrificio che doveva essere necessariamente compiuto da un membro dei Fabii.
Torniamo infine a Ovidio e al suo 13 febbraio come giorno della strage del Cremera. Contro ogni tentativo «normalizzatore» volto a ritenere semplicemente erroneo lo spostamento del giorno, è preferibile attenersi agli elementi in nostro possesso, costatando la circostanza che Ovidio poneva il dies Cremerensis al 13 febbraio e il dies Alliensis al 18 luglio. Poiché Ovidio è precisissimo – come abbiamo visto – nella registrazione dei giorni e poiché il vigile patronato di Paullus Fabius Maximus doveva impedirgli ogni eventuale inesattezza a proposito di episodi – soprattutto di episodi celebri – che avevano coinvolto la gens Fabia, dalla combinazione di questi elementi è necessario dedurre una conseguenza, anche se potrebbe apparire a prima vista abbastanza paradossale: la conseguenza che entrambi i giorni ricorrevano come giorni del dies Cremerensis all’interno della stessa gens Fabia.
Il primo era naturalmente il 18 luglio (almeno in ambito annalistico a partire da Fabio Pittore): giorno che, coincidendo con quello dell’Allia, era volto a sminuire la «colpa» dei Fabii nella conquista di Roma da parte dei Galli. Per il 13 febbraio, sebbene con ogni cautela, proporrei da parte mia un tentativo di spiegazione che non mortifichi le competenze di Ovidio: né in ambito di ricorrenze anniversarie né in ambito di tradizioni fabie.
Se il 18 luglio per la strage del Cremerà era un giorno esito di un’elaborazione posteriore così da farlo coincidere con la disfatta dell’Allia, il 13 febbraio poteva essere quello in cui i gentiles Fabii dei secoli successivi compivano parentationes per i Mani dei trecento Fabii sterminati dai Veienti nel 478 a.C. così come l’11 giugno i Rutilii compivano parentationes per i Mani di P. Rutilius Lupus morto al fiume Tolenus nel 90 a.C. Accanto a un giorno fatto corrispondere artificiosamente (il famoso ο addirittura famigerato 18 luglio), si sarebbe dunque conservata all’interno della gens Fabia, nel contesto delle cadenze annuali imposte dai gentilicia sacra, la memoria di un giorno diverso per le pratiche rituali che in esso dovevano compiersi. Così il 13 febbraio, quando la virgo Vestal(is) compiva parentationes per tutta la città, i Fabii a loro volta avrebbero compiuto quello stesso giorno parentationes peculiari alla loro stirpe. Nell’intreccio sottile che caratterizza i compiti cultuali (e non solo cultuali) dei Fabii, sempre in qualche modo in bilico tra pubblico e privato (quanto ai compiti cultuali basti pensare sempre il 13 febbraio nei riti al Lupercal alla presenza dei luperciFabiani)[34], evidentemente non sorprende che gli stessi Fabii potessero compiere quel giorno parentationes per i loro trecento gentiles: di queste parentationes Paullus Fabius Maximus doveva essere sicuramente a conoscenza e anzi partecipe, così che la notizia potesse agevolmente giungere fino a Ovidio.
Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
[3] Vd., p. es., Β.A. Marshall, Crassus. A Political Biography, Amsterdam, 1977, p. 157 s. con p. 168 n. 86, con ulteriore bibl.
[4] Cfr. Liv. XXII 7,1-5, con la notazione inter paucas memorata populi Romani clades; quanto a C. Flaminius consul… inauspicatus e dunque implicitamente colpevole di quella disfatta Liv. XXI 63,7; Val. Max. I 6,6. Sul giorno della sconfìtta del Trasimeno vd. anche sotto, p. 742 con n. 9.
[6] Su Paullus Fabius Maximus (cos. 11 a.C.: PIR III, p. 103-105 n. 47) soprattutto R. Syme, History in Ovid, Oxford, 1978, p. 135 s. anche per i frequenti richiami a Marcia sia nei Fasti sia nelle opere dell’esilio); inoltre Id., The Augustan Aristocracy, Oxford, 1986, p. 403 s. (trad, it., L’aristocrazia augustea, Milano, 1993, p. 598 s.). Sulle fasi del tempio ultimamente F. Coarelli, in E.M. Steinby (a cura di), LTUR, III, Roma, 1996, p. 17 s.
[7] Sui dies proeliares ved. Paolo-Festo, p. 253: «proeliares dies appellabantur, quibus fas est hostem bello lacessere. Erant enim quaedam feriae publicae, quibus nefas fuit id facere»; Macrobio, Sat. I 24: «pontificesque statuisse postridie omnes kalendas nonas idus atros die habendos, ut hi dies neque proeliares neque puri neque comitialis essent»; Aulo Gellio, V 17, 1-3. Il tentativo di negare fede alla testimonianza di Ovidio da parte di P. Desy, Il grano dell’Apulia e la data della battaglia del Trasimeno, in PdP, 44, 1989, p. 102 s., è vanificato dal fatto che, trattandosi di date civili pregiuliane, esse possono non coincidere evidentemente con i normali cicli delle stagioni; ved. In effetti P. Brind’Amour, Le calendrier romain. Recherches chronologiques, Ottawa 1983, passim.
[8] Vd. Q. Fabius Maximus Servilianus, fr. 4 HRF Peter.
[9] Vd. a questo proposito F. Bömer, Ahnenkult und Ahnenglaube im alten Rom, Lipsia-Berlino, 1943, passim; quindi soprattutto J. Scheid, «Contraria facere»: renversements et déplacements dans les rites funéraires, in AION (Arch), 6, 1984, p. 132 s.
[10] Per il sapere «antiquario» e calendariale confluito nei Fasti di Ovidio basti il rinvio ai «Varronianae Verrianaeque doctrinae fragmenta» raccolti da G. B. Pighi nella sua ed. di P. Ovidii Naasonis Fastorum libri, «Annotationes» II, Torino, 1973. p. 79 s.; cfr. ultimamente M. Salvatore, La storia riscritta, in Res publica litterarum, 16, 1993 (Studies in Classical Tradition. Studies in Memory of Sesto Prete), p. 23 s. Per Livio basti ancora il rinvio soprattutto a E. Sofer, Livius als Quelle von Ovids Fasten, Vienna, 1906.
[11] La presenza di archivi gentilizi nel mondo etrusco è stata rivelata per Tarquinia dagli «archivi degli Spurinnae», su cui M. Torelli, «Elogia Tarquiniensia», Firenze 1975, in particolare p. 93 s. a proposito degli archivi gentilizi delle famiglie della nobilitas romana; vd. in precedenza E. Gabba, Un documento censorio in Dionigi d’Alicarnasso 1.74.5, in «Synteleia» Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, p. 486 s. Cfr. anche ultimamente La mémoire perdue. À la recherche des archives oubliées, publiques et privées, de la Rome ancienne, Parigi, 1994.
[12] Vd. in questo senso p. es. D. Porte, L’étiologie religieuse dans les Fastes d’Ovide, Parigi, 1985, p. 375, che pensa – con ipotesi tanto ingegnosa quanto improbabile appena si considerino le competenze calendariali di Ovidio – a una confusioneda parte dello stesso Ovidio tra dies atri e dies religiosi, a partire da Verrio Flacco (cit. sopra, n. 24) che invece considerava il dies Alliensis non compreso tra i dies atri.
[15] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II-1, Bari, 1968, p. 246 s.; quindi soprattutto J.-C. Richard, L’affaire du Crémère: recherches sur l’évolution de la tradition, in Latomus, 48, 1989, p. 312 s. Cfr. anche A. Fraschetti, Annalistica, mitologia e studi storico-religiosi, in DdA, 9-10, 1976-77, p. 602-630, in discussione con E. Montanari, Nomen Fabium, Roma, 1973.
[16] Sull’importanza di questo «fortilizio» ha richiamato l’attenzione J.-C. Richard, Trois remarques sur l’épisode du Crémère, in Gerión, 7, 1989, p. 67-68. Sui «fortilizi» romani in Etruria vd. anche A. Fraschetti, I Ceriti e il «castello ceretano» in Diodoro (XIV 117,7 e XX 44,9), in AION (Arch), 2, 1980, p. 147 s.
[17]Livio II 50, 10: «duxit via in editum leniter collem. Inde primo resistere; mox, ut respirandi superior locus spatium dedit recipiendique a pavore tanto animum, pepulere etiam subeuntes, vincebatque auxilio loci paucitas, ni iugo circummissus Veiens in verticem collis evasisset…».
[18] Macrobio, Sat. 1 16,22-23: «et ex praecepto patrum L. Aquinium haruspicem in senatum venire iussum religionum requirendam causant dixisset: Q. Sulpicium tribunum militum ad Alliam adversum Gallos pugnatum rem divinam dimicandi gratia fecisse postridie idus Quintiles; item apud Cremeram multisque aliis temporibus et locis post sacrifìcium die postero celebratum male cessisse conflictum».
[19] Vd. Gn. Gellio, fr. 25 HRF Peter; Cassio Emina, fr. 20 HRF Peter = 24 Santini (= C. Santini, I frammenti di Cassio Emina. Introduzione, testo, traduzione e commento, Pisa, 1995). Sul caso di Licinio Macro più in particolare J.-C. Richard, Licinius Macer (Hist. 7) et l’épisode du Crémère, in RPh, 63, 1989, p. 75 s.
[21]I.It. XIII 2, p. 209. Sulla datazione del calendario marmoreo di Anzio, vd. M.A. Cavallaro, Spese e spettacoli. Aspetti economici-strutturali degli spettacoli nella Roma giulio-claudia, Bonn, 1984, p. 220 s. Sulla registrazione delle nuove feste, che talvolta possono anche «cancellare» le antiche, mi sia lecito il rinvio ad A. Fraschetti, Roma e il principe, Roma-Bari, 1990, p. 17 s.
[22] Sulla morte di Paullus Fabius Maximus, che veniva messa in rapporto alla visita di Augusto ad Agrippa Postumo accompagnato appunto da Paullus Fabius Maximus (Tacito, Ann. I 5), ultimamente p. es. R. Syme, The Augustan Aristocracycit., p. 414 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit., p. 611).
[24] Vd. soprattutto la formulazione di Festo, p. 348 Lindsay: «Reliogiosus est non modico deorum sanctitatem magni aestimans, sed etiam officiosus adversus homines. Dies autem religiosi, quibus nisi quod necesse est, nefas habetur facere: quales sunt sex et triginta atri qui appellantur, et Alliensis, atque hi, quibus mundus patet». A supplemento dei materiali raccolti da A. Degrassi, in Ut. XIII 2, p. 360-362, è ora necessario anche il rinvio per ulteriore documentazione alla tesi discussa da C. Grosso, Contributi alla storia dei «Fasti Praenestini»: il mese di gennaio, in Fac. lettere. Univ. Roma «La Sapienza», ann. acc. 1995/96, p. 60 s. Vd., in precedenza, naturalmente A.K. Michels, The Calendar of Roman Republic, Princeton, 1967, p. 62 s.
[25] Cfr. ultimamente Ovide,Les Fastes, ed. R. Schilling, cit., I, p. 123, per la «précision presque littéralement conforme à la version de Tite-Live» a proposito della porta Carmentalis; ved. già A. Elter, Cremera und Porta Carmentalis, in Programm zu Feier des Geburtstags Seiner Majestät des Kaisers und Königs am 27. Januar 1910, Bonn, 1910; in seguito p. es F. Boemer, Interpretationen zu den Fasti cit., p. 112 s. con Id., P. Ovidius Naso, Die Fasten II, Heidelberg, 1958, p. 96.
[26] Vd. J. Richard, L’affaire du Crémère cit., p. 312 s.; cfr. più in generale Id., L’expédition des Fabii à la Crémère : grandeur et décadence de l’organisation gentilice, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique, Roma, 1990, p. 248 s.
[27] Vd. da ultimo J. Scheid, Die Parentalien für die verstorbenen Caesaren als Modell für den römischen Totenkult, in Klio, 75, 1993, p. 188 s. (con letteratura ivi cit.).
[28] Sulle ricerche di Pomponio Attico vd. soprattutto F. Münzer, Atticus als Geschichtschreiber, in Hermes, 40, 1905, p. 93 s.; cfr. da ultimo R. Syme, The Augustan Aristocracy cit., p. 199 (trad, it., L’aristocrazia augustea cit. p. 598).
[29] Per il calendario di Filocalo I.It. XIII 2, p. 241; cfr. anche le annotazioni del menologium Collotianum e del menologium Vallense (ibid., rispettivamente p. 287 e p. 293).
[30] Sui Parentalia F. Boemer, Ahnenkult und Ahnenglaube cit., p. 29 s.; H.H. Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, Londra, 1981, p. 74 s.
[32] Vd. Liv., V 46, 2: «sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabio Dorsuo gabino cinctus sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per médias hostium stationes egressus nihil ad vocem cuisquam terroremve motus in Quirinalem collem pervertit; ibique omnibus sollemniter peractis, eadem revertens similiter constanti voltu graduque, satis sperans propitios esse deos quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset, in Capitolium ad suos rediit…». La documentazione parallela è ora raccolta da C. Santini, I frammenti di Cassio Emina cit., p. 171 s. Naturalmente la circostanza che forse già Cassio Emina (fr. 19 Peter = 23 Santini) e sicuramente Floro I 7,16, possano attribuire a C. Fabius Dorsuo la caratteristica di pontifex non oscura la caratteristica gentilizia del suo sacrificio sottolineata da Livio e ripresa negli stessi termini da Valerio Massimo, I 1,11.
[34] Sulle due «confraternite» di Luperci Fabiani e Quintilii vd. in particolare M. Corsaro, «Sodalité» et gentilité dans l’ensemble lupercal, in RHR, 91, 1977, p. 137 s. (con letteratura ivi cit.).
Il rapporto dei Romani con la natura è una dimensione misconosciuta nell’immaginario comune, dove appaiono come voraci costruttori a scapito di popoli liberi e selvaggi. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero: ciò che lega il Romano al mondo silvano è qualcosa di fondativo, che si genera dai tempi più remoti[1] e lo guiderà per sempre.
Ricostruzione della palude del Foro Romano (VIII sec. a.C.). Studio Inklink.
Per risalire all’origine di questo sentimento, basta accantonare l’immagine della Roma sfavillante di marmi e di bronzi e immaginarla com’era alle sue origini, ricoperta interamente di boschi e di grotte. E proprio dagli alberi prendono il nome i luoghi di Roma: dalle querce (quercus) discendeva infatti l’originario nome del Celio, Querquetulanus[2], così come dal salice (Salix viminalis) derivava il Viminale, o dal faggio (fagus) il Fagutal, una delle tre vette dell’Esquilino, che a sua volta originava da un’altra tipologia di quercia, l’ischio o farnia (aesculus). Lo stesso albero conferiva probabilmente il nome all’Aesculetum, un bosco di farnetti da ricercarsi forse nel Campo Marzio, a nord dell’attuale Ponte Garibaldi. Immediatamente a nord del Foro, tra questo e il Tempio della Pace si trovava la Corneta, una zona popolata da alberi di corniolo (cornis). Lo spazio (in buona parte occupato dal Circo Massimo), che si estendeva tra il boscoso Palatino e l’Aventino, era la Vallis Myrtea, così chiamata per le sue vaste distese di mirto. Lo stesso Aventino era celebre per i suoi bellissimi lauri, tanto che una parte di esso era denominata Loretum o Lauretum[3] (il toponimo si trova in iscrizioni e cataloghi imperiali come CIL VI 30957); il resto del colle era invece fitto di lecci, numinoso[4]. Ma ad esser impressionante è la descrizione del Campidoglio, dove la presenza divina era avvertita in modo così prodigioso da atterrire gli abitanti del luogo[5].
Non è certo un caso che Virgilio descriva i primi abitanti dei Colli come nati dai duri tronchi di quercia[6]. E così nel resto del Lazio, da cui lo stesso re eponimo, Latino, figlio di Fauno, avrebbe regnato da Laurentum, anche le dinastie regali di Alba Longa, i Silvii (da silva, “foresta”), e quella di Praenestetestimoniano il legame con il mondo selvaggio preponderante[7]. Numerose le località testimoniate dalle fonti archeologiche o dalla tradizione locale, come le città di Pometia (dai meli), Ficulea e Ficana (dai fichi, o dai vasai, figules) e Crustumerium(da una particolare varietà di pera, la crustumia)[8]. Proprio i boschi, o meglio le radure all’interno di essi, costituivano i luoghi deputati alle più importanti deliberazioni di carattere militare o sociale: è il caso, ad esempio, delLucus Ferentinum e soprattutto del Lucus Nemorensis[9]. A ciò concorse sia il fatto che nel mondo arcaico lo spiazzo aperto era l’eccezione, laddove la selva costituiva la regola (e dunque la radura rappresenta il luogo più funzionale al raduno di numerose persone) sia per le valenze politico-sacrali conferite alle divinità boschive (si pensi a Diana e a Feronia). Le tracce di questa realtà primeva vanno ben oltre il ricordo del mito o della toponomastica: sebbene notevolmente ridotti nelle loro estensioni, la Roma dei tempi pienamente storici vantava ancora decine di boschi sacri, extramuranei e muranei, onorati sia singolarmente, nell’anniversario di consacrazione del bosco ad una determinata divinità, sia collettivamente nelle Lucaria.
Ricostruzione del Campidoglio, con la quercia sacra, il templum e la capanna di Giove Feretrio. Studio Inklink.
Queste festività, attestate anche nei Fasti Amiternini[10], venivano celebrate tra il 19 e il 21 Luglio in un bosco sacro situato tra il Tevere e la Via Salaria[11]; esse si riferirebbero alla genericità delle divinità boschive. In linea di massima ogni templum, inteso come spazio sacro ritualmente consacrato (non necessariamente finalizzato ad una permanenza di culto, ma anche per la divinazione), era demarcato nei suoi limiti interni ed esterni da alberi[12], usati come termini visivi spaziali. Il successivo edificio preposto al culto si trovava così abbracciato dagli alberi, ridotti col tempo a pochi esemplari e via via reintegrati in base a norme rituali che si possono in parte desumere dagli Acta fratrum Arvalium e da alcune prescrizioni di Catone (vi torneremo in seguito). Vale la pena aggiungere che colonne e capitelli erano concepiti come immagini pietrificate delle forme naturali. Ciò è confermato da Vitruvio: l’ordine corinzio sarebbe stato ideato da un tale Callimaco, ispirato dalla vista di un cesto votivo lasciato sulla tomba di una ragazza, contenente i suoi effetti più cari; una tegola quadra vi era stata posizionata sopra, per proteggervi il contenuto, ma una pianta di acanto era cresciuta attraverso l’intreccio del cesto, dando così all’artista l’idea del motivo[13].
La forma corinzia si diffuse poi nel mondo italico, dando luogo a varianti locali. Altrove, nell’opera di Vitruvio, emerge come l’architettura più che concepire il nuovo sia invece tesa a reinventare la Natura: un esercizio non solo stilistico e dell’utile, ma l’affermazione di un sentire ancora vibrante durante l’Impero. I veterani di Cesare si rifiuteranno di abbattere le asce su un cupo bosco nei pressi di Marsiglia[14], il loro cuore vacillerà di fronte alle sterminate estensioni della Selva Ercinia[15], così come accadrà quattro secoli dopo agli uomini al seguito di Flavio Giuliano[16]; lo stesso imperatore, sconcertato, dichiarerà che nulla di simile esisteva all’interno dei confini di Roma[17]. Diversi autori scriveranno di questa foresta primordiale con meraviglia, descrivendone le enormi volte costituite dalle radici delle sue immani querce e soprattutto la sua antichità, pari a quella del mondo stesso[18]. Ma ai tempi delle guerre sannitiche il cuore dell’Etruria, così come le altre parti d’Italia[19], non aveva nulla da invidiare alle foreste dell’estremo nord: la Silva Cimina era considerata invalicabile, al punto che il Senato arrivò a diffidare il console Quinto Fabio Rulliano dall’inoltrarvisi, cosa che fece comunque gettando il popolo romano nella costernazione e i nemici dell’esultanza, tanto il pericolo era percepito reale; la vittoria militare conseguita sembrò trascurabile, rispetto all’eccezionalità dell’impresa[20].
Tuttavia, gli uomini, perlopiù, avrebbero perso gradualmente la facoltà di udire i saturni versi di Pico, Fauno, Lucina, Canente e degli altri dèi silvani levarsi dal folto della vegetazione, che non sarebbe stato più temuto tanto per i suoi numi selvaggi quanto per la presenza di briganti e fuoriusciti: famosa a questo proposito la Silva Gallinaria vicino Cuma, dove era stanziata la Classis Misenensis (la principale flotta imperiale)[21]. Lo stesso legname servito ad allestire le navi dimostra un rimarchevole mutamento culturale: la montagna, percepita un tempo come luogo altro rispetto all’umano[22], dove normalmente si muovono solo divinità o fiere selvagge, rientrerà anch’essa nella categoria dell’utile; l’ancestrale, reverenziale, timore farà spazio a problematiche logistico-gestionali di un territorio integrato come qualunque altro. Una risorsa produttiva, da sfruttare tramite attività estrattiva o per reperire legna.
Eppure, la tenace persistenza del sentimento religioso continuerà a dar sfoggio di sé: Plinio il Vecchio, nel XXXIII libro della sua opera, ci lascia infatti una testimonianza che è quanto di più significativo la letteratura classica possa proporre di carattere ecologico[23]. A tutela dell’integrità dei paesaggi, egli mescola considerazioni di tipo naturalistico, moralistico e religioso, esortando ad un’assunzione di responsabilità e a una presa di coscienza del danno causato, non solo a noi stessi ma all’equilibrio naturale nella sua totalità. Teso a scagionare la Natura da accuse che potrebbero esserle rivolte in quanto “matrigna”, egli addossa ogni responsabilità all’empietà degli uomini: smottamenti e inondazioni, ad esempio, non sono i capricci di una divinità, ma il risultato di un dissesto idrogeologico, derivato da diboscamento e da scellerate attività estrattive. Non solo: Plinio il Giovane sottolinea come tutto ciò comporti l’esaurimento di risorse indispensabili all’equilibrio fisico del mondo, risorse non facilmente rinnovabili; duemila anni fa i Romani prefiguravano il tema della sostenibilità ambientale. È questa la voce più illustre a testimoniare il permanere dell’antico spirito, ma non certo l’unica: se la montagna resterà luogo di evasione e raccoglimento[24], che invita ad una più esatta coscienza dei propri limiti, migliaia di dediche votive alle divinità silvane costituiscono altrettante voci. Lo dimostra anche il gran numero di culti, con magistrature e strutture annesse. Non mancano sacerdozi specificamente dedicati ai boschi, quali ad esempio il Flamen Lucularis e il Sacerdos trium lucorum[25], e una generale devozione continuerà a riferirsi anche verso singoli alberi; una parte della dottrina pontificale si estenderà alle diverse tipologie vegetali[26]. Se il Romano, prima di mettere mano all’accetta, deve stornare l’ira del dio sconosciuto a cui il bosco appartiene, offrendo sacrifici espiatori [27], col tempo la realtà boschiva andrà a differenziarsi. Scrive, infatti, Servio: «C’è differenza tra bosco (nemus), foresta (silva) e bosco sacro (lucus). Infatti, lucus definisce uno spazio boschivo cultuale; con il termine nemus si caratterizza uno spazio boschivo regolato, la silva è connotata dal suo essere vegetazione arbustiva estesa e non coltivata»[28]; il bosco espressamente sacro sarebbe dunque solo il lucus.
L’intercambiabilità di questi termini e la confusione che sembrano dimostrare gli autori antichi dimostra però come questa distinzione si ridimensionasse nel concreto. Tuttavia, il lucus è certamente un luogo speciale: la divinità vi si è manifestata con prodigi, per cui è soggetto a molteplici vincoli; ogni attività profana, salvo particolari disposizioni, è negata. Tali vincoli son fissati nelle Leges Lucorum, normative atte a stabilire ciò che è lecito fare e ciò che non lo è, le sanzioni (pecuniarie e religiose, a mezzo di piacolari) previste per le trasgressioni e l’organismo competente a riscuoterle. Queste legislazioni, ravvisabili in diversi documenti nel mondo latino e italico tra il III e il II secolo a.e.v, risalirebbero ancora più indietro nel tempo[29].
Ecco allora che gli elementi fin qui menzionati, lungi dall’essere esaustivi, possono sgombrare il campo dall’assurdità a cui ci si riferiva nella premessa dell’articolo. Del resto, già i Romani stessi, deprecando il lusso[30], si esprimevano con nostalgia in riferimento all’alta castitas dei tempi rustici; eppure, essi appartengono alla medesima matrice indoeuropea dei tanto celebrati Celti, Germani e Greci. Figli delle Primavere Sacre alla stregua degli altri Italici, rinati sotto l’egida di Marte e del lupo sua teofania, perpetueranno il ricordo delle selve ove furono forgiati nei serti di quercia della corona civica[31], anteposti all’oro, nel rituale (presieduto dalla dea Unxia) delle novelle spose, consistente nell’ungere gli stipiti delle nuove dimore col grasso del lupo[32].
Svetterà nei signa alla testa delle sue legioni vittoriose in forma di lupo, aquila o cinghiale e sul capo ferino dei velites, la prima linea dello schieramento romano. Risuonerà negli schiocchi di februa dei Luperci, che ancora ai tempi dell’infame papa Gelasio propagheranno dall’antro della Lupa e dai luoghi fatidici di Roma. Si rifletterà nel cuore di ogni persona che, rifiutando il dio galileo, sempre si affiderà a Marte Silvano per la protezione dei propri confini. Nostrum munus patri Marti.
Lex Luci Spoletina (CIL XI 4766=ILS 4911=ILLRP 505). Iscrizione su cippo di pietra, 250-175 a.C. ca. Spoleto, Museo Archeologico Statale. “Honce loucom / nequs violatod / neque exvehito neque / exferto quod louci / siet neque cedito / nesei quo die res deina / anua fiat eod die / quod rei dinai causa / [f]iat sine dolo cedre / [l]icetod seiquis // violasit Iove bovid / piaclum datod / seiquis scies / violasit dolo malo / Iovei bovid piaclum / datod et a(sses) CCC / moltai suntod / eius piacli / moltaique dicator[e] / exactio est[od]”.
[1]Vitr. II 1, 1: «Anticamente, come animali selvatici, gli uomini nascevano nelle selve, nelle spelonche e nei boschi e trascorrevano la vita cibandosi di frutti raccolti nei campi».
[2]Tac. Ann. IV 65: «Forse non è inopportuno raccontare che quel colle [il Celio] in antico si chiamava Querquetulano, poiché era folto e fecondo di quella specie d’alberi».
[3]Plin. Nat. Hist. XVI 37: «Quel che è sicuro è che si distinguevano le zone con l’indicazione del tipo di bosco: lo dimostrano il tempio di Giove Fagutale, che esiste ancor oggi e sorge dove c’era un bosco di faggi, la porta Quercetulana, il nome del colle su cui si andava a raccogliere vimini e i nomi di tanto boschi sacri, in certi casi due per medesimo luogo Il dittatore Quinto Ortensio, quando la plebe si ritirò sul Gianicolo, presentò nell’Esculeto una legge in base alla quale tutti i Quiriti erano vincolati alle decisione di quella». Varr. L.L. V 8, 49-51: «Alla seconda circoscrizione appartiene l’Esquilino (Esquiliae). Alcuni hanno scritto che questo nome derivi dalle excubiae (posto di guardia) del re, altri dal fatto che la zona era coltivata ad aesculi (querce) dal re Tullio. Con questa etimologia concordano molto meglio le località vicine, perché lì si trovano il lucus Facutalis (il bosco Fagutale), il tempietto dei Lares Querquetulani (i Lari dei querceti) e il bosco consacrato alla dea Mefite e a Giunone Lucina, le cui dimensioni sono ridottissime. Nessuna meraviglia: già da tempo, infatti, da per tutto domina sovrana assoluta l’avidità […] Nel Libro dei Sacrifici degli Argei così si legge scritto: “Colle Oppio: primo sacrario sull’Esquilino, oltre il bosco Fagutale, nella via a sinistra lungo il muro”. “Colle Oppio: terzo sacrario al di qua del bosco Esquilino, nella via a destra, in una baracca”. “Colle Oppio: quarto sacrario, al di qua del bosco Esquilino, nella via a destra, nel mezzo delle botteghe dei vasai”. “Colle Cespio: quinto sacrario, al di qua del bosco Petelio; si trova sull’Esquilino”. “Colle Cespio: sesto sacrario, presso il tempio di Giunone Lucina, adiacente all’abituale dimora del sacrestano”. Alla terza circoscrizione appartengono cinque colli, che prendono il nome dai templi degli dèi che in essi si trovano: due di questi sono famosi. Il colle Viminale è così chiamato da Giove Viminio, perché qui era la sua ara»; ibid. 152; 154: «Lauretum (Loreto) è così chiamato dal fatto che lì fu sepolto il re Tazio, ucciso dai Laurentini, o anche da silva laurea (bosco di allori) perché questo bosco fu tagliato, lì, e vi fu costruito un quartiere; come tra la Via Sacra e l’altura del Macello sorge la zona chiamata Corneta, da cornis (cornioli), che, tagliati, lasciarono il loro nome al luogo; come Esculetum (Querceto), chiamato così da esculus (quercia) e Fagutal, che prende il nome da fagus (faggio), donde anche l’appellativo di “Giove fagutale”, perché nella zona c’è un santuario del dio. […] Il centro del circo si chiama Ad Murciae, secondo quanto afferma Procilio, denominazione che viene da urcei (orci) perché questa era la zona dei vasai. Altri dicono che venga da murtetum (bosco di mirti), perché una volta ve ne sarebbe stato lì uno. Ne rimane ancora qualche traccia, perché lì v’è ancora un santuario dedicato a Venere Murtea». Dion. III 43: «È questo [l’Aventino] un colle non troppo alto, con un perimetro di circa diciotto stadi: l’occupavano allora piante di ogni genere, soprattutto bellissimi lauri, tanto che una parte di esso è chiamata Laureto dai Romani […]».
[4]Ov. Fasti III 295-296: «Ai piedi dell’Aventino c’era un bosco buio, fitto di lecci; solo a vederlo avresti detto: “Qui dimorano delle divinità”».
[5]Verg. Aen. VIII 342-353: «Poi il bosco immenso che Romolo, acuto, ad Asilo ridusse, e sotto la gelida rupe mostra il Lupercale, secondo il costume parrasio dedicato a Pan Liceo. E ancora mostra, sacro, il bosco di Argileto, chiama a testimone il luogo e l’episodio letale spiega del suo ospite Argo. Di qui al sito tarpeo e al Campidoglio lo conduce, tutto oro adesso, un tempo ispido di selvatici cespugli. Già allora di religiosa paura erano atterriti gli abitanti dei campi, orrenda in quel luogo, già allora per la selva e per la rupe tremavano. “Questo bosco – disse – questo vertice frondoso di un colle abita un dio (ma quale dio, è incerto): gli Arcadi riconoscono in lui Giove […]”».
[6]Ibid. VIII 314-318: «Questi boschi erano abitati da Fauni indigeni e Ninfe e da una stirpe di uomini nata dai tronchi di dura quercia, i quali non avevano leggi né religione, non sapevano radunare i raccolti o risparmiare ciò che avevano prodotto, ma gli alberi e la dura caccia li nutrivano».
[7] Su Ceculo, fondatore di Praeneste, ibid. VII 678-684: «nato da Vulcano e re fra il bestiame dei campi, trovato in un focolare, come credettero tutte le età: Ceculo. Lo accompagna per lungo tratto una legione di campagnoli, i guerrieri che l’alta Praeneste e gli arabili campi sacri a Giunone Gabina e il gelido Aniene e le irrorate di torrenti, le rupi erniche popolano». Sui Silvii, ibid. VI 756-759; 763-766: «Orsù dunque, la discendenza dardania e quale gloria l’attenda, quali nipoti ti aspettano dalla stirpe italica, illustri anime destinate a entrare nella nostra eredità, ti svelerò con le mie parole e t’insegnerò i tuoi destini […] Silvio, nome albano, tua ultima figliolanza, che a te annoso, tardi, Lavinia tua sposa partorirà nelle foreste, re e progenitore di re, per cui la nostra stirpe dominerà in Alba Longa». Liv. I 3: «Quindi regna Silvio, figlio di Ascanio, nato nei boschi per un qualche caso fortuito. Egli genera Enea Silvio che a sua volta mette al mondo Latino Silvio. Da quest’ultimo vennero fondate alcune colonie che furono chiamate dei Latini Prischi. In seguito, il nome Silvio rimase a tutti coloro che regnarono ad Alba Longa». Vedi anche Dion. I 70 e Fest. 460 7 L.
[8] Isid. Etymol. XVII, VII 15: «Pero è il nome dell’albero, pera del frutto. Ne esistono numerose specie, tra cui la crustumia, di colore in parte rosso, il cui nome deriva da quello della città di Crustumio».
[9] Questo aspetto verrà sviluppato in due successivi articoli, uno dedicato ai boschi e alle foreste del mondo italico e l’altro alle valenze dei singoli alberi.
[11] Fest. p. 106 [LUCARIA]: «Feste celebrate dai Romani in un grande bosco che si estendeva tra la Via Salaria e il fiume Tevere, in ricordo del fatto che dopo la loro sconfitta da parte dei Galli, in seguito alla loro fuga dal campo di battaglia, avrebbero trovato rifugio in questo bosco».
[12]Varr. L.L. VII 8: «Sulla terra, si chiama templum il luogo delimitato con determinate formule al fine di trarvi i presagi o prendervi gli auspici. Le parole della formula non sono da per tutto le stesse. Quella usata sulla Rocca è la seguente: “Templi e luoghi augurali per me siano quelli dentro i confini che io con la mia lingua indicherò nel modo rituale. Per l’appunto quell’albero lì, di qualunque genere sia, che io intendo da me indicato a sinistra sia per me tempio e luogo augurale. Per l’appunto quell’albero lì, di qualunque genere sia, che io intendo da me indicato a destra sia per me tempio e luogo augurale. Lo spazio racchiuso fra questi punti ho inteso realmente indicare nel modo rituale per direzione, visione e intuizione della mente”. Nella delimitazione di questo tempio appare chiaro che gli alberi sono costituiti come suoi confini e che dentro i limiti da loro segnati sono chiusi gli spazi in cui gli occhi possono scrutare, vale a dire in cui tueamur (guardiamo), da cui deriva il sostantivo templum e il verbo contemplare».
[13] Vitr. IV 1, 8-10: «A quanto si ricorda tale tipo di capitello ha avuto questa origine: una giovane di Corinto si ammalò quand’era già in età da marito e morì. Dopo le esequie la sua nutrice raccolse e mise dentro un cestello gli oggetti che in vita la fanciulla aveva avuti più sacri e portatili sulla tomba li dispose là in cima proteggendoli con una tegola perché potesse durare più a lungo all’aperto. Casualmente questo cesto era stato deposto sopra una radice di acanto che premuta al centro dal peso del cestello fece sbocciare in primavera foglie e teneri steli; questi crescendo ai lati del canestro furono costretti a ripiegarsi in varie volute, una volta raggiunta la sommità, perché gli angoli sporgenti del tetto ne impedivano la crescita. Allora Callimaco […], passando davanti a quella tomba, notò il canestro e le tenere foglie che sbocciavano tutt’intorno. Piacevolmente colpito da quella nuova forma architettonica la riprese nella realizzazione dei capitelli delle colonne a Corinto e ne fissò l’insieme delle proporzioni, stabilendo i canoni per la realizzazione delle opere in stile corinzio».
[14] Lucan. III 426 sgg: «Cesare proprio questo bosco ordina di abbattere a colpi di scure: indenne da guerre precedenti, sorgeva fittissimo vicino alle fortificazioni, tra monti spogli. Ma le mani dei più forti soldati esitarono, intimoriti dalla orrida maestà del luogo, temevano che le scuri sarebbero rimbalzate indietro se avessero profanato i sacri alberi».
[15] Caes. B.G. VI 24–25: «La selva Ercinia, della quale mi risulta abbia sentito parlare Eratostene […]. La selva Ercinia, di cui prima abbiamo parlato, si estende in larghezza per nove giorni di marcia, viaggiando senza le salmerie; non è possibile determinarne l’ampiezza in altro modo, perché i Germani non conoscono le misure per le distanze. Inizia dai territori degli Elvezi, dei Nemeti e dei Rauraci e, seguendo la direzione del fiume Danubio, raggiunge il paese dei Daci e degli Anarti. Di qua volge a sinistra, in regioni lontane dal fiume, toccando per la sua vastità le terre di molti popoli. Non c’è nessuno di questa parte della Germania che affermi di essere giunto agli estremi limiti di questa selva, pur avanzando per sessanta giorni di cammino, o che sappia da dove essa abbia inizio. Si sa che vi nascono molte specie di animali, che non compaiono in altri luoghi.
[16] Amm. Marc. XVII 8–9: «Dopo aver avanzato per circa dieci miglia, giunti ad una selva spaventosa per l’aspetto orrido e tenebroso, il comandante s’arrestò ed a lungo indugiò […]. Tuttavia, tutti i nostri osarono avvicinarsi con grande coraggio, ma trovarono i sentieri bloccati da elci e frassini abbattuti e da grossi tronchi di abeti».
[17] Julian. Frag.: «Ci affrettammo verso la Foresta Ercinia e mi trovai di fronte ad un qualcosa di strano e portentoso. In ogni caso, non esito ad affermare che nulla del genere sia mai stato visto nell’impero romano, almeno per quanto ne sappiamo. Ma se qualcuno ritiene che la Selva Tessalica o le Termopili o il grande e remoto Tauro siano invalicabili, lasciate che gli dica che per difficoltà di approccio son davvero banali rispetto alla Foresta Ercinia».
[18] Plin. Nat. Hist. XVI 6: «Sempre nelle regioni settentrionali la selva Ercinia con le sue querce di enormi dimensioni – lasciate intatte dal trascorrere del tempo e originate insieme col mondo – è di gran lunga, per questa sua condizione quasi immortale, il fenomeno più stupefacente. Per non stare a menzionare altri fatti che non suonerebbero credibili, risulta effettivamente che le radici, arrivando a far forza l’una contro l’altra e spingendosi indietro, sollevano delle colline; oppure se il terreno non le segue spostandosi, si incurvano fino all’altezza dei rami e formano degli archi a contrasto come portali spalancati, tanto da lasciare il passaggio a degli squadroni di cavalleria». Strabo VII 1, 5: «La foresta Ercinia non è solo molto intricata, ma ha anche enormi alberi e comprende un vasto all’interno di regioni fortificate dalla natura».
[19] Flor. V 8: «Allora Fiesole era ciò che, or non è molto era Carre, il bosco di Aricia ciò che è la selva Ercinia, Fregelle Gesoriaco, il Tevere l’Eufrate».
[20] Liv. IX 36–38: «In quel tempo la selva Ciminia era più impervia e spaventosa di quanto non siano di recente sembrate le foreste della Germania, e fino ad allora non l’aveva mai attraversata nessuno, nemmeno dei mercanti. E quasi nessuno, fatta eccezione per il comandante in persona, aveva il coraggio di addentrarvisi […] erano arrivati casualmente cinque delegati e due tribuni della plebe per comunicare a Fabio l’ordine del senato di non attraversare la selva Ciminia […] Alcuni autori sostengono che questa battaglia tanto gloriosa fu combattuta al di là della selva Ciminia nei pressi di Perugia, e che a Roma si stette in grande ansia, a notizia che Quinto Fabio si era addentrato nella selva Ciminia, così come aveva tenuto Roma in apprensione, allo stesso modo era stata motivo di tripudio per i Sanniti, per i quali era come se l’esercito romano, tagliato fuori dalla patria, si trovasse in stato d’assedio». Flor. XII 17: «La foresta Ciminia in mezzo tra noi e loro, in quel tempo impraticabile quasi come la selva Caledonia o Ercinia, allora incuteva tanto terrore che il senato aveva ordinato al console di non osar affrontare un sì grande pericolo».
[21] Strabo V 4, 4: «All’interno di questo golfo si trova una foresta di arbusti, estesa molti stadi, priva di acqua e sabbiosa, chiamata Selva Gallinaria. Qui si unirono ai pirati gli ammiragli di Sesto Pompeo, quando questi sollevò la Sicilia contro Roma». Iuv. III 306: «Tutte le volte, infatti, che la palude Pontina e la pineta Gallinaria sono presidiate da guardie armate, i briganti si riversano a Roma, come se fosse una riserva». Cic. Ad fam. IX 23: «Ieri giunsi nel Cumano, domani forse giungerò da te; ma, come certamente saprai, ti informerò tra un po’. Del resto, Marco Cepario, poiché mi venne incontro nella selva Gallinaria […]».
[22] Verg. Buc. X 42: «Tu, lontano dalla patria – come vorrei non credere a tanto! – sulle Alpi, ahimè, le nevi e il rigido gelo del Reno senza di me, sola, contempli. Ah, che il gelo non ti nuoccia! Ah, che a te le lame del ghiaccio le tenere piante dei piedi non fendano!». Hymn. ad Pan: «[…] le cime delle impervie rupi, accessibili solo alle capre, invocando Pan, il dio dei pascoli […] che regna su tutte le alture nevose e sulle vette dei monti, e sugli aspri sentieri […] fra rupi inaccessibili […]. Montagna, madre di bestie selvagge».
[23] Plin. Nat. Hist. XXXIII: «[…] per soddisfare una cieca stoltezza, si procurano il ferro, che è anche più apprezzato dell’oro in tempi di guerre e di stragi. Tentiamo di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice. Penetriamo nelle sue viscere e cerchiamo ricchezze nella sede dei Mani, quasi che fosse poco generosa e feconda là dove la calchiamo sotto i piedi. E fra tutti gli oggetti della nostra ricerca pochissimi sono destinati a produrre rimedi medicinali: quanti sono infatti quelli che scavano avendo come scopo la medicina? Anche questa tuttavia la terra ci fornisce sulla superficie, come ci fornisce i cereali, essa che è generosa e benevola in tutto ciò che ci è di giovamento. Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento: per cui la nostra mente, proiettandosi nel vuoto, considera quando mai si finirà, nel corso dei secoli tutti, di esaurirla, fin dove potrà penetrare la nostra avidità. Quanto innocente, quanto felice, anzi persino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre, solo – in breve – a ciò che le sta accanto!».
[24] Plin. Jr. Panegyr. 81: «Quale altro tipo di distensione tu infatti ti concedi se non battere scoscendimenti boscosi, stanare gli animali selvatici dai loro covili, sorpassare smisurate creste di monti, scalare picchi coperti di ghiaccio senza la collaborazione di una guida che ti porta la mano e ti tracci la via, e nel frattempo andare in devoto pellegrinaggio ai boschi sacri e venerarvi con zelo le divinità?».
[26] Cat. Agr. 139-140: «Bisogna diradare un bosco sacro, secondo il costume romano, in questo modo: offrirai in espiazione un maiale, e pronuncerai queste parole: “Dio o dea che tu sia, a te cui è sacro questo bosco, poiché è tuo diritto ricevere in espiazione un maiale, perché si fa violenza a questo luogo sacro e per tutte queste cose, sia che io, sia che un altro, su mio comando, compia il sacrificio, perché questo sia giustamente compiuto, per questo motivo, nel presentare a te come offerta espiatoria questo maiale, io ti invoco con giuste invocazioni, perché sia benevolo e propizio a me, alla mia casa, alla mia servitù e ai miei figli: per questo ti sia gradito questo maiale immolato come offerta espiatoria”. Se volessi adibire a coltura il bosco, lo farai con un altro rito espiatorio, allo stesso modo indicato, aggiungendo in più “per poterlo mettere a coltura”. Ciò purché lo lavorerai tutti i giorni, almeno una parte; se lo avrai tralasciato per un giorno o saranno intervenuti giorni festivi pubblici o privati, farai un altro rito espiatorio».
[29] Cic. Leg. II 8, 18 sgg: «Vi sono determinate espressioni legali, Quinto, non così antiquate come nelle vecchie XII tavole e nelle leggi sacrate, e pur tuttavia un po’ più arcaicizzanti di questa nostra conversazione, tali da assumere una maggiore autorità […] vi siano boschi sacri nelle campagne e sedi dei Lari».
[30] Liv. III 57: «[…] All’epoca non v’erano grandi ricchezze ed i riti venivano celebrati più con la devozione che non lo sfarzo». Plin. Nat. Hist. II 14: «Pertanto, dal mio punto di vista, è frutto di debolezza umana cercare l’immagine e la forma divina»; XXXIII 4 sgg: «Non era abbastanza, in effetti, aver trovato una sola malattia letale per la vita umana, se non avessero il loro valore anche gli umori purulenti dell’oro. L’avidità umana cercava l’argento; fu soddisfatta di aver scoperto, intanto, il minio, ed escogitò un uso di questa terra rossa. Ahimè, fertilità dei nostri ingegni, in quanti modi abbiamo accresciuto il prezzo delle cose! Vi si è aggiunta l’arte della pittura, e cesellandoli abbiamo reso più cari l’oro e l’argento. L’uomo ha imparato a sfidare la Natura. Gli stimoli dei vizi hanno alimentato anche l’arte». August. Civ. Dei IV 31: «[Varrone] Afferma anche che gli antichi Romani per più di centosettanta anni onorarono gli dèi senza gli idoli. E soggiunge: Se questa usanza fosse rimasta, gli dèi sarebbero considerati in senso più spirituale. A conferma del suo pensiero adduce, fra altre motivazioni, anche il popolo ebreo e non dubita di chiudere il passo in parola col dire che i primi i quali introdussero le statue degli dèi abolirono il timore nella loro città e accrebbero l’errore. Saggiamente pensa che data l’assurdità degli idoli gli dèi si possano facilmente disprezzare». Tac. Germ. 9, 2: «Per il resto reputano non conveniente alla grandezza degli dèi costringerli fra le pareti di un tempio o raffigurarli con fattezze umane: dunque consacrano loro boschi e foreste e chiamano con il nome di dèi quella entità misteriosa che solo la devozione religiosa rende percepibile».
[31] Plin. Nat. Hist. XVI 7: «Con le foglie di queste piante [querce] sono fatte le corone civiche, l’emblema più fulgido del valore militare […] Sono più importanti, queste, delle corone murali e vallari e di quelle d’oro, che pure hanno maggior valore venale; sono superiori anche alle corone rostrate». Verg. Aen. VI 771: «Quale gioventù! Quanta forza ostentano, osserva! Ma già portano sulle tempie ombreggiate la civica quercia». La corona civica era il riconoscimento per aver salvato la vita di un concittadino, mentre la muralis e la vallaris erano rispettivamente destinate al centurione che fosse arrivato per primo sulle mura di una città assediata e a quello che avesse superato le fortificazioni nemiche. La corona aurea fu istituita in età imperiale, mentre quella rostrata costituiva la decorazione per una vittoria navale.
[32] Plin. Nat. Hist. XXVIII 142: «Masurio ha riportato che gli antichi davano il massimo valore al grasso del lupo: e di conseguenza le spose novelle avevano l’usanza di ungere con esso gli stipiti delle porte per impedire l’ingresso a ogni mezzo di maleficio». Arnob. Adv. nat. III 25-26: «Alle unzioni presiede Unxia, allo scioglimento delle cinture Cinxia […] o straordinaria e singolare spiegazione della potenza degli dèi: se le soglie delle dimore maritali non fossero spalmate con grasso dalle spose, se i mariti non sciogliessero le cinture verginali, eccitati e incalzanti». Donat. in Terentii Hecyram I 2, 60: «Il vocabolo uxor deriva dall’ungere le soglie e dall’appendere la lana, perciò deriva dal fatto che le fanciulle quando si sposavano ungevano le soglie della casa del marito ed appendevano la lana». Isid. Orig. IX 7, 12: «Le uxores, ossia le mogli, sono così chiamate quasi a dire unxiores: anticamente, infatti, era costume che le giovani destinate al matrimonio, arrivate alla soglia della casa del futuro marito, prima di entrare, ornassero gli stipiti con bende di lana e li ungessero con olio. Da qui il nome uxores». Serv. in Aen. IV 458: «Apparteneva all’usanza che le fanciulle che si sposavano, non appena erano giunte davanti alla soglia della casa dello sposo, prima di oltrepassarla, come auspicio di castità, le ornavano con fasce di lana, per questo si dice “con bende di lana”, e le ungevano con olio, per questo scopo sono dette uxores, quasi “untrici”. Tuttavia, si dice che coloro che hanno scritto riguardo alle nozze tramandano che, quando una sposa novella è condotta nella casa del marito, è solita spalmare la soglia con grasso di lupo, poiché il grasso di questa fiera e le sue membra sono un rimedio per molte cose». La dea Unxia da esponente degli dii coniugales passò ad essere un semplice indigitamentum di Giunone. Cfr. Mart. Cap. Philol. et Mercur. II 149: «Le fanciulle nel giorno delle nozze devono invocarti [Iuno] come Iterduca e Domiduca, Unxia e Cinxia, perché tu protegga il loro viaggio e le conduca nelle dimore desiderate e, quando ungono gli stipiti, tu vi apponga un presagio favorevole e non le abbandoni quando depongono la cintura nel talamo». Anche il grasso di porco era utilizzato in questo modo, evidentemente con altri intenti; se quello di lupo serve a tenere lontano influenze negative, questo grasso, mutuato dalla grande prolificità del maiale, serve come augurio di fertilità. Cfr. Plin. Nat. Hist. XXVIII 135: «Veramente anche oggi, le spose novelle, al momento di entrare in casa, rispettano l’usanza di toccare con esso gli stipiti delle porte».
Χαῖρε καὶ πίει τήνδε, χαῖρε καὶ πίει τήνδε: Salute e bevi questa, Salute e bevi questa, cioè la coppa piena di vino dove il contenitore sta metonimicamente per il liquido contenuto.
Sono dipinte queste parole su entrambi i lati di una kylix attica a vernice nera lucente, a basso piede, trovata in contrada San Donato, tra Talsano e Leporano (Taranto) (fig. 1); si tratta di un documento secondo me molto interessante per questa assise e di stretta attinenza alla tematica del convegno ed al territorio di Leporano in cui oggi, al Castello Muscettola, ci troviamo[1].
Il vaso da simposio, appartenente ad una collezione privata tarantina, è datato, sulla base delle analisi epigrafiche e stilistiche alla fine del VI secolo a.C. (530-510 a.C.).
Fig. 1. Kylix attica a vernice nera con iscrizione potoria da San Donato (Taranto). 530-510 a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.
La coppa parlante, attribuita alla maniera di Douris, reca un’iscrizione che mi pare elemento importante di un brindisi di rito; potrebbe – chiedo a Murray – essere un documento di vita simposiale nella chora tarantina nella fine del VI secolo a.C.?
In un’altra kylix della stessa collezione, sul fondo, è dipinto un simbolo fallico trasportato da una figura femminile; proviene da Faggiano, al confine con Leporano, e reca dipinta sul fondo la parola καλός, bello.
Segnalo soprattutto la prima coppa come attestazione di quella gioia catartica di cui parlava stamane la Kerényi, legata alla pratica del consumo del vino, quella felicità dionisiaca cui ha fatto riferimento la relatrice ricordando, tra l’altro, il celebre vaso di Pronomos: uno stato di piacere e gaudio legati proprio al simposio, la charis, uno dei valori fondamentali per la stabilità del gruppo sociale, insieme a koinonìa e philìa, espressi nei simposi del mondo greco-romano[2] da Oriente ad Occidente, fino al primo Cristianesimo: “quell’aspettativa di gioia nell’ambiente dionisiaco che l’uomo moderno è pronto a demitizzare”[3].
In mancanza dei dati del contesto non possiamo dire se la kylix parlante da San Donato[4] sia di provenienza tombale, ma la formula potoria, scandita due volte, ha secondo me un ritmo poetico che richiama ai simposi ed al godere della gioia del vino per cercare una gioia che vada oltre gli affanni terreni.
Le parole χαίρειν e πίνειν ricorrono spesso nella lirica simposiaca greca, in particolare di Alceo, che scrive: Πίνομεν τί τὰ λυχνία μένομεν; δάκτυλος ἁμέρα: Beviamo, perché attendiamo le fiaccole? Misura un dito la vita; è un topos dell’esortazione al vino che continua con l’invito a tirare giù le kylichnai dagli stipi perché il figlio di Semele e di Zeus ha dato il vino agli uomini come oblìo dei mali: οἶνον λαθικάδεα[5]; all’invito al bere si associa qui il pensiero della morte come destino dell’uomo.
Nella drinking formula si fa esplicito riferimento al χαίρειν, parola che ha la stessa radice di χάρις, la gioia auspicata dalla libagione: una gioia terrena o piuttosto ultramondana per un defunto?
Ricordo a tale proposito un’altra kylix attica, databile al 540 a.C., parte di un intero servizio da simposio, deposto sul pavimento di una camera funeraria secondo un rituale funebre, di derivazione orientale, che appare non solo come ostentazione dello status sociale del defunto ma anche adesione nell’Occidente all’ideologia religiosa salvifica alla base del cerimoniale funebre del simposio rappresentato con l’ostentazione dei beni necessari al banchetto ed al bere collettivo; la coppa è dipinta all’interno con la significativa figura di un gallo ed all’esterno reca l’iscrizione potoria “salute e bevi”; l’elegante kylix fu rinvenuta proprio in mano al defunto adulto deposto sulla kline di una tomba[6]; l’esempio documenta l’usanza antica di accompagnare il defunto nella sua sepoltura con una kylix tra le mani, iscritta per di più con le stesse parole Χαῖρε καὶ πίει che troviamo a San Donato di Talsano a Taranto.
A fronte di una documentazione letteraria che attraverso le fonti delinea la città di Taranto antica come amante del vino, ebbra alle feste di Dionysos, capace di allestire più feste dei giorni dell’anno innaffiati dal buon vino, la città non ha dato altrettanti abbondanti documenti di vasi potori iscritti, ad eccezione dei sette skyphoi della metà del IV secolo a.C. con dediche a Dionysos dai pressi del Borgo di Taranto e due da contrada Montedoro. Perciò mi sembra molto rara la kylix da San Donato, cioè dall’antica chora ad Oriente della polis.
Non mancano invece in Occidente, riguardo al simposio, documenti arcaici dal centro Italia, kylikes attiche con drinking formulae: due tazze di metà VI secolo a.C. con iscrizione Χαῖρε καὶ πίει furono segnalate proprio qui a Taranto in un Convegno di Studi Sulla Magna Grecia, tra la ceramica importata dalla Magna Grecia nel Lazio arcaico (Lanuvio), come un elemento di prova documentaria dei rapporti tra Magna Grecia e Roma nel costume simposiaco[7].
Le parole χαίρειν e πίνειν nei vasi legati al simposio greco[8] sono presenti in area magnogreca, etrusca, nel Lazio arcaico; un altro esempio di contatti tra Roma e l’area culturale magnogreca nel VI secolo a.C. è una coppa attica che, nella zona compresa fra le anse, inquadrata da palmette, mostra la medesima formula Χαῖρε καὶ πίει εὖ; l’iscrizione traducibile letteralmente con gioisci e bevi bene, caratteristica espressione augurale simposiaca, proviene dalla ceramica greca dall’Area Sacra di S. Omobono[9].
Si stanno dunque conoscendo e dibattendo sempre meglio le iscrizioni formulari potorie del tipo Χαῖρε καὶ πίει εὖ scritte su entrambi i lati soprattutto nelle coppe attiche dei Piccoli Maestri prodotte tra il 550 e il 530 a.C.; la coppa dal territorio tarantino di San Donato rientra nella lista delle kylikes parlanti da simposio; l’iscrizione augurale si presenta come formula simposiale rituale che invita alla gioia del bere con parole molto probabilmente poetiche, strutturate in verso che si ripete due volte sui lati A-B della kylix, seguendo un ritmo; ciò ci induce, questa è un’interpretazione che si può discutere, ad ipotizzare un passaggio di mano in mano della coppa stessa tra i convitati di un simposio, sotto l’egida di un simposiarca. Si documenta, con la prima coppa parlante da me qui proposta, proveniente dalla chora di Taranto, un bisogno particolare di comunicazione in un contesto da approfondire ed analizzare o discutere nel filone a mio avviso molto probabilmente della libagione simposiaca, rituale, escatologica in una comunità di tradizione laconica che venerava anche l’aspetto funerario del dio del grappolo che a Taranto era venerato come Dionysos Zagreus figlio di Persefone, la dea dell’Oltretomba, fino a giungere, in particolare nel IV secolo a.C., con Archita, a sentire fortemente la sacralità escatologica del vino particolarmente all’interno di gruppi di iniziati che col sostegno di religiosità mistica (orfica) con cui il dionisismo si era innestato proprio qui a Taranto, cercavano una speranza mistica di salvezza attraverso la bevuta condivisa.
Il termine sympòsion deriva da sympìnein, bere insieme e l’iscrizione fa appunto riferimento ad un augurio o invito indirizzato da un emittente, con l’imperativo singolare, ad un ricevente: bevi tu questa coppa; pare proprio l’indicazione di un turno di consumazione della bevanda, concomitante ad un saluto gioioso secondo la modalità del bere nel contesto simposiaco greco, quando al primo brindisi, dedicato alla salute, facendo girare la coppa verso destra, seguiva un brindisi particolare accompagnato dalle parole chaire, chaire kai su: salute, salute anche a te oppure: chaìre, chaìre kaì pìe èu: salute, salute e bevi bene, facendo il giro[10].
Tali “formule di saluto o di esortazione al bere”, chiamate oggi modernamente dagli studiosi drinking formulae, dipinte sui vasi per simposio, furono in uso dall’età arcaica fino alla ellenistica e romana; rimanendo nello stretto ambito semantico dei due verbi, essi segnano chiaramente un momento ben distinto dal deipnon, in virtù dell’esplicito incoraggiamento al pinein che si fa strumento e garanzia di quanto sotteso nel primo invito: il godimento, il piacere, quasi un anticipo di grazia liberatoria dagli affanni del mondo indotta dalla consumazione del vino.
Le relazioni sinora ascoltate ci aiutano a mio avviso a capire ancora più a fondo la natura di questo chaire: se si tratti di una formula meramente conviviale tra vivi phìloi, omòioi, membri di un thiasos, di una cerchia, o se travalichi, sempre all’interno di un gruppo di pari, la sfera mondana; chaire, chairete sono infatti anche formule di saluto, corrispondenti al latino salve, salvete, da intendersi non solo come augurio di salute e benessere ma anche di benvenuto per l’arrivo di un ospite o di buona fortuna e di felicità per una partenza, un addio, come mi sembra più probabile nel caso della coppa con formula potoria tra le mani di un defunto.
In quest’ultimo caso o quando il vaso fosse rinvenuto all’interno di una sepoltura, si tratterebbe di una libagione funeraria, una pratica escatologica attestata nella Magna Grecia ionica dove rituali simposiaci legati al culto dei defunti sono ben documentati[11].
Nella necropoli tarantina della polis è documentato per l’età arcaica il rituale funerario del simposio in riferimento a tombe maschili come mostra, tra gli altri reperti, la sontuosa tomba a camera arcaica di via Crispi, dove i sarcofagi sono accostati alle pareti come fossero delle klinai; l’ambiente funerario è strutturato come un vero e proprio andròn, spazio simposiaco, post mortem, corredato da contenitori da vino: crateri a volute con scene dionisiache di banchetto, sono stati rinvenuti tra i sarcofagi e ridotti in frammenti, sparsi per terra dentro la stanza; oinochoai e ben 27 kylikes, trovate sia dentro che fuori i sarcofagi, dimostrano che i defunti, maschi adulti, componenti di una élite, erano stati deposti nelle tombe come se dovessero “partecipare ad un banchetto”, forse più pubblico che privato, dopo la loro morte, o “condividere un simposio con i vivi”; il simposio appare qui svolgere una doppia funzione: sociale ed escatologica, nell’ideale eroico ed aristocratico dei defunti, atleti eroizzati, per i quali si immaginava una vita beata nell’aldilà[12].
La funzione funeraria escatologica del consumo del vino nel contesto del potos è ben documentata a Taranto come mostrano ad esempio i vasi potori attici per simposio dalla tomba 12 del primo venticinquennio V secolo a.C. dall’area attuale Ospedale SS. Annunziata; anche le età tardoclassica ed ellenistica ci restituiscono, sempre dalla necropoli tarantina, vasi connessi al simposio con vino nei corredi funerari delle tombe a camera e semi-camera di IV secolo a.C. in cui il defunto era deposto su letto funebre a kline con kylikes attiche ed oinochoai apule raffigurate con scene dionisiache; inoltre i riti di libagione presso naiskoi e semata, collocati sopra le tombe ipogee, sono documentati nelle scene raffigurate sulla ceramica apula.
La seconda kylix da me segnalata in questo illustre convegno documenta un rituale di Phalloforiai processioni sacre a Dionysos che prevedevano il trasporto di phalloi scolpiti in legno di fico, pianta sacra al dio; sono ricordati dalle fonti le pompai per Dionysos con inni di accompagnamento ai simboli per eccellenza della generazione e della vita[13] (fig. 2), impazzimento collettivo e grandi bevute.
Fig. 2. Kylix attica a figure rosse da Faggiano (Taranto) con phallagoghia dionisiaca. Secondo venticinquennio V sec. a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.
Nelle Phalloforiai, propiziatorie del raccolto la cui origine fu attribuita agli Egizi[14] e che si diffusero successivamente nel mondo agricolo dell’antica Grecia e poi in Italia e nei territori dominati dai Romani, il trasporto del phallos attraverso la città rientrava nel cerimoniale agrario collettivo per la fecondità dei campi[15]. La scena sul fondo della kylix da Faggiano potrebbe far riferimento ad un culto rurale di Dionysos per la fertilità della terra nella chora a Levante di Taranto? Un aspetto specifico delle Dionisie tarantine? Le processioni delle feste Phalloforiai o Phallagoghiai prevedevano oltre al trasporto dell’idolo anche la consumazione di vino.
Le Dionisie Rurali celebrate nel mese di Poseidone (dicembre-gennaio) avevano soprattutto il carattere di feste della fecondità dei campi di antichissima tradizione agraria e proprio la phallagoghia era la parte essenziale della rustica festa che prevedeva komos e canti senza troppi freni inibitori; il corteo era inoltre animato dalle canefore, che recavano festoni di edera (il vegetale che orna il fondo della coppa e sacro a Dionysos) e canestri di fiori o di frumento, focacce di varie forme, grani di sale, frutta, uva ed altri simboli sacri; le phallofore, in buona parte sacerdotesse di Afrodite, recavano devotamente il simulacro insieme alle Baccanti incaricate di cerimonie particolari.
Plutarco ci descrive una di queste processioni in campagna, retaggio di più antichi riti agrari greci: in testa venivano portati un’anfora piena di vino, misto a miele, e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano un fallo per propiziare la fecondità della terra con pioggia di acqua mista a miele e succo d’uva.
In questa coppa da Faggiano decorata nel fondo con ramo di edera, è interessante che sia una fanciulla, Menade Baccante o più probabilmente sacerdotessa di Afrodite, dai capelli racchiusi nella cuffia a sakkos, protagonista del rituale di accompagnamento dell’idolo, divinità generatrice, su cui è dipinta la parola καλός.
È nota dalle fonti la passione per il vino nell’antica Taranto che alle Dionisie si ritrovava “tutta ebbra” intendendo secondo me l’intero popolo tarantino dalla città alla campagna. Una terra feconda, produttrice dell’apprezzato Aulone, ricordato dalle fonti antiche, che attestano quindi la produzione vitivinicola in questo settore della chora ad Est della polis tarantina dove non poteva mancare una organizzazione produttiva dei terreni nel rispetto delle proprietà sacre allo stesso dio del vino, sacri terreni di cui abbiamo eco solo da fonti locali che richiamano un Santuario nella “Contrada Nisio”.
Com’è noto i riti dionisiaci a Taranto furono osteggiati dai Romani fino alla emanazione del Senatus Consultus de Baccanalibus che infierì sui pastori che abitavano nella chora i quali, perseguitati in quanto seguaci di Dionysos, si erano riuniti in bande e rendevano insicuri i publica pasqua, i pascoli pubblici di Roma; ma gli stessi Romani apprezzarono il vino di queste parti!
Purtroppo, come ha detto oggi pomeriggio il Brun, si sono un po’ trascurati gli studi sulla campagna antica e quest’osservazione vale per il territorio rurale magnogreco ad oriente di Taranto che oggi corrisponde a Talsano, Lama, San Vito, San Donato, Faggiano, Leporano, Pulsano. Riguardo a questo settore della chora tarantina orientale il territorio, prevalentemente ancora oggi rurale, offre purtroppo penuria di dati archeologici spesso reperiti sporadicamente da collezioni private come i due esempi da me proposti.
Per di più la ricerca archeologica sull’antica chora tarantina viene ostacolata dalla rapida urbanizzazione della campagna; perciò mi sembra ci sia molto da riflettere su quanto ci ha detto Brun sulla trascuratezza degli studi relativi alle terre rurali del mondo antico, tra cui inserirei anche le terre tarantine.
Chissà che da questo convegno non parta una maggiore volontà di studio e di ricerca focalizzata sulla campagna!
I documenti ceramici che vi ho segnalato, dal territorio di Faggiano e San Donato, mi sembrano importanti anche per richiamare l’attenzione soprattutto sull’agro di Talsano (Taranto) che ha dato già documenti archeologici credo interessanti per questo convegno; basti pensare al rinvenimento nel cosiddetto praedium di Luciniano, su un lieve rialzo collinare dominante l’orlo sudorientale della Salina Grande, di una fattoria dell’epoca di Archita. Il toponimo prediale, uno dei numerosi in anum presenti nel territorio agrario di Taranto, ci riporta ad una fase di latifondismo romano non coeva ai rinvenimenti ma successiva e testimonia la continuità abitativa nell’ambito dell’economia agraria legata alla viticoltura la cui organizzazione potrebbe ricevere nuova luce anche dalle relazioni odierne.
Si tratta di una contrada tarantina ancora a forte impatto agricolo con monocoltura prevalente a vino; secondo me è un territorio questo molto interessante e poco valorizzato in cui esistono ancora, purtroppo malridotte, masserie degne di valorizzazione, insistenti su siti archeologici e quindi da tutelare e valorizzare; nella contrada Luciniano un’omonima masseria rispetto alla quale ad appena 650 metri in direzione nordoccidentale furono rinvenuti, durante l’impianto di un vigneto nel 1982[16], resti archeologici della fattoria e della necropoli vicina tra cui orli di pithoi per conservare le derrate, ceramica a vernice nera, un sarcofago; lo scasso per piantare la vite ha rivoltato e portato in superficie le tegole crollate dell’antica struttura abitativa rurale; la ceramica permette la datazione V-III secolo a.C.
Un altro sito rurale nei pressi del primo, sempre a Luciniano, riporta come il primo alla chora agraria tarantina dal V al III secolo a.C.; il successivo intervento della Soprintendenza, a causa della presenza dei vigneti, non ha però consentito, come leggiamo nelle notizie ufficiali sullo scavo, la lettura complessiva dell’area, mentre l’espianto di un vigneto vecchio che aveva sconvolto tombe e portato in superficie lastroni tombali, ha permesso di trovare numerose sepolture ad inumazione maschili e femminili, tra cui alcune imponenti di V secolo a.C., altre di IV-III a.C., e molte già manomesse dai clandestini[17].
Quello che ci interessa ai fini del presente dibattito in relazione a Brun è la conclusione cui è giunta la Soprintendenza: che già nel V secolo a.C. la chora era frequentata dagli insediamenti con una diffusione delle fattorie ancora più fitta da metà IV secolo a.C. secolo che corrisponde all’economia agraria voluta da Archita. Resti di pithoi segnalabili anche in località Sanarica in un’area insediativa frequentata sin dall’età arcaica.
Ho fatto questi esempi per richiamare nuovamente la vostra attenzione sulla chora tarantina a Est di Taranto continuamente saccheggiata dai tombaroli. Ma dopo la relazione di Brun aumenta lo sconforto per la campagna tarantina che sparisce anche nelle sue più antiche testimonianze al sopravanzare urbano: vediamo oggi palazzi moderni al posto di masserie (di per sé monumenti da tutelare) che sono andate distrutte (Masseria Gagliardo), anche se ricche di storia, in particolare della produzione vinaria nel territorio di Talsano.
Secondo me questa terra necessita di progetti e di programmazione ad hoc per l’emersione o la valorizzazione almeno dei dati archeologici già emersi.
Auspico che in futuro qualcuno colga questo stimolo di ricerca ed un appello per questa terra ancora ricca di vigneti ma sempre più povera di dati archeologici, lasciati a scavi di emergenza: lo merita veramente.
Chiedo alla professoressa Lin Foxall se non ritenga utile applicare alle antiche fattorie magnogreche di Leporano e della chora tarantina quel modello di ricerca ed interpretativo quale il suo qui egregiamente illustrato per le fattorie greche di età classica. Alla prof.ssa Isler-Kerényi mi permetto di aggiungere alla sua ricca documentazione le sculture raffiguranti Dionysos giovane prassitelico del museo di Taranto e, riguardo al cratere di Derveni, le chiedo se la spiegazione erotico iniziatica in senso escatologico, preminente nella ceramica illustrata dalla relatrice, non la possa applicare anche a questo vaso in metallo con scena di matrimonio di Dioniso e Arianna o se altro è il messaggio. Cari amici, chaire kai piei tende.
***
Abbreviazioni bibliografiche
Fedele et Alii, Antichità della Collezione Guarini, Galatina 1984.
Bonivento Pupino, Collezione Guarini: opportunità per l’istituzione di un museo civico a Pulsano, in Atti Convegno Marina di Pulsano, Pulsano 1990.
Burkhardt, I riti funerari degli Italici e dei Greci sulla costa ionica tra VIII e VI sec. a.C. Influenze reciproche e sviluppi indipendenti, in AIACNews 1-2 (2008), con bibl. prec.
Castagnoli, in ACT 8, Napoli 1968, pp. 93-99.
Cerri, Iscrizioni metriche in lingua greca su vasi arcaici trovati nel Lazio, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Urbino 1974.
Ciacci, Piccola guida al riconoscimento delle forme di alcuni vasi attici ed etruschi, in Introduzione allo studio della ceramica in archeologia, Siena 2007.
Costamagna, Taranto-Talsano: insediamenti rurali, in Taras II, 1-2 (1982), pp. 199-206.
Dell‘Aglio, TARANTO, Lucignano di Talsano, in Taras XVII, 1 (1997), pp. 89-92.
Giangrande, Sympotic literature and epigram, L‘Epigramme Grecque, in Entret. Fond. Hardt, XIV, Genève I967, pp. 93-174.
R. Immerwahr, Attic Script. A Survay, Oxford 1990.
Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft: Soziologie und Liturgie
frühchristlicher Mahlfeiern, Bodenheim 1996.
Kretschmer, Die griechischen Vaseninschriften, ihrer Sprache nach untersucht, Gütersloh 1894.
Langlotz, La scultura, in ACT 10,Napoli 1971, pp. 217-247.
Lippolis et Alii, Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo a.C., Milano 2007.
Lombardo et Alii, Nuovi documenti epigrafici greci dall’area del Golfo di Taranto: Metaponto e Saturo. Vino e pratiche simposiali in un’iscrizione vascolare metapontina, in StAnt X (1997), pp. 313-336.
H. Penney, Indo-European Perspectives, Studies in Honour of Anna Morpurgo Davies, Oxford 2004.
Valanes, Χαῖρε καὶ πίει ἀγγεῖα τοῦ πότου, in Ktēma Chatzēmichale, N. Kephisia 1996.
Valavanis – D. Kourkoumelis, Χαῖρε καὶ πίει, bere navi, Atene 1995.
M. Voigt, Sappho et Alcaeus Fragmenta, Amsterdam 1971.
Wachter, Drinking Inscriptions on Attic Little-Master Cups: A Catalogue (AVI 3), in Kadmos XLII , 1-2, Berlin 2004, pp. 141-89.
***
Note:
[1] Per la formula chaire kai piei eu sulla ceramica attica nell’Orizzonte della Magna Grecia ionica cfr. Lombardo et Alii 1997, pp. 313 ss., n. 33 con rinvio, tra gli altri, a Immerwahr 1990; per le due kylikes da contrada San Donato, tra Leporano e Talsano (Taranto) (con formula potoria) e da Faggiano (con formula acclamatoria) qui da me segnalate cfr. Fedele et Alii 1984, p. 45, tav. XLII, f. 12; p. 48, tav. XLVIII, f. 3 e Bonivento Pupino 1990.
[6] Tomba 20, necropoli chiusina La Pedata, Museo Civico Archeologico Chianciano.
[7] Castagnoli 1968, p. 97 ripreso da Cerri 1974, pp. 59-61, con annotazione molto interessante sulla struttura metrica della formula potoria nel metro lirico ferecrateo.
[10] Ciacci 2007, p. 189: raffigurazione di una coppa attica a figure rosse del pittore Oltos (510 a.C. circa), in cui compare l’iscrizione bevi anche tu.
[11] Considerazioni interessanti si sono fatte sui riti di libagione iterati per il defunto nei diversi cicli annuali nelle aree sepolcrali metapontine (cfr. contrada Ricotta, necropoli con attestazione nel III sec. a.C. della formula chaire incisa su stele come saluto o commiato al defunto o defunta).
[12] Per stanze funerarie arredate come sale maschili per simposi, con sarcofagi lungo le pareti ed utensili per simposio cfr. Lippolis et Alii 2007 e recentemente Burkhardt 2008.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.