E noi, come le foglie… (Mimn. fr. 2 W² = 2 D.)

Il tema della caducità della vita umana, della giovinezza fuggevole su cui incombe l’incubo della detestata vecchiaia (tema assai caro anche a Leopardi), costituisce anche il principale motivo di ispirazione e di riflessione del fr. 2 W² di Mimnermo di Colofone (VII-VI sec. a.C.). Il componimento rivela un indubbio debito formale nei confronti dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠 omerico, perché nei versi iniziali il poeta fonde insieme ben tre similitudini epiche (𝐼𝑙. VI, 146-149; XXI, 264-466; 𝑂𝑑. IX, 51-52); perciò, questi versi, oltre alla loro intrinseca bellezza, offrono un esempio del modo in cui testi di larghissima fama e notorietà potevano essere riadattati alle esigenze simposiali, ben diverse da quelle dell’ambiente per cui erano stati creati. Al tempo di Mimnermo, la similitudine uomini-foglie era probabilmente già divenuta un luogo comune per esprimere il carattere effimero della vita umana, evidente non solo nelle singole persone ma anche nell’avvicendarsi delle generazioni; perciò, il poeta, usandola, si esponeva consapevolmente al pericolo di apparire solo un banale imitatore; ciononostante, egli seppe evitare questo rischio, sia dal punto di vista contenutistico-concettuale sia da quello formale.

Scena simposiale, Affresco, 480-470 a.C. ca. da Paestum, Tomba del Tuffatore (Parete settentrionale).

ἡμεῖς δ’, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη

ἦρος, ὅτ’ αἶψ’ αὐγῇς αὔξεται ἠελίου,

τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης

τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν

οὔτ’ ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,

ἡ μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,

ἡ δ’ ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης

καρπός, ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.

αὐτὰρ ἐπὴν δὴ τοῦτο τέλος παραμείψεται ὥρης,

αὐτίκα τεθνάμεναι βέλτιον ἢ βίοτος·

πολλὰ γὰρ ἐν θυμῶι κακὰ γίνεται· ἄλλοτε οἶκος

τρυχοῦται, πενίης δ’ ἔργ’ ὀδυνηρὰ πέλει·

ἄλλος δ’ αὖ παίδων ἐπιδεύεται, ὧν τε μάλιστα

ἱμείρων κατὰ γῆς ἔρχεται εἰς Ἀΐδην·

ἄλλος νοῦσον ἔχει θυμοφθόρον· οὐδέ τίς ἐστιν

ἀνθρώπων ᾧ Ζεὺς μὴ κακὰ πολλὰ διδοῖ.

E noi – come le foglie che produce la primavera ricca di germogli,

quando ai raggi del Sole crescono tutt’a un tratto –,

simili a quelle, in un cubito di tempo, dei fiori della gioventù

godiamo, senza che dagli dèi ci giunga la nozione del male

né del bene: le Chere ci stanno ormai addosso, nere,

e l’una regge il termine della penosa vecchiaia,

l’altra quello della morte; per un istante appena vive il frutto

della gioventù, per quanto si spande sulla Terra il Sole.

Ma se il termine di questa breve stagione viene oltrepassato,

allora, essere morti è meglio della vita:

nel cuore si addensano in massa le sofferenze: a volte il patrimonio

si erode e la miseria ha effetti dolorosi;

altre volte, poi, si sente la mancanza di figli, ed è il rimpianto

più triste per chi va sotterra, nella casa di Ade;

altre ancora, invece, si ha una malattia che strazia il cuore: non vi è un solo

uomo cui Zeus non dia una gran massa di sofferenze.

Mimnermo è fedele all’originale tanto nella struttura quanto nei contenuti. A questo riguardo, in particolare, il poeta ha sviluppato il paragone fra la vicenda dell’uomo e il ciclo della natura con l’opportuna aggiunta di termini-chiave (stagione, Sole, giovinezza); ma soprattutto, inserendo il personalissimo  e coinvolgente ἡμεῖς («noi»), in luogo del generico «uomini» o «mortali», Mimnermo, in perfetta coerenza con le proprie scelte poetiche, è riuscito a trasformare una semplice constatazione in una riflessione approfondita e partecipe sul destino umano. Perciò, se per aspetto formale il frammento rappresenta un’ulteriore testimonianza della cultura del poeta, il suo contenuto propone una valutazione dell’esistenza ormai lontana sia da quella tipica dell’uomo dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠 sia dalla mentalità del cittadino-soldato, protagonista dei carmi di Callino e di Tirteo. Tutti costoro, pur amando la vita, avevano cercato sempre qualcosa di più alto e di più duraturo da anteporle: il guerriero omerico era pronto a sacrificarla in nome di un ricordo imperituro, l’oplita spartano per la libertà e la salvezza della propria città. Indebolito l’antico codice d’onore, cancellato il concetto di eroismo tragico come fondamento e scopo dell’esistenza, Mimnermo pone dinanzi a un’umanità che non aspira più al τὸ καλόν (l’«onore») sancito dalle leggi della πόλις, ma che reclama piuttosto il proprio diritto al τὸ ἡδύ, la gioiosa libertà della vita, attratta dallo splendore della giovinezza, dalla vitale sensualità dell’amore, tanto più ardentemente bramati, quanto più si è consapevoli della loro brevità. Scomparsi i grandi ideali individuali o collettivi, la vita non sembra conoscere altre gioie che quelle che può ricavare da se stessa, sufficienti a darle intensità e pienezza, ma soggette inesorabilmente alla legge del tempo, contro il quale l’uomo non ha più armi.

Pittore di Berlino. Guerriero siceliota con una 𝑝ℎ𝑖𝑎́𝑙𝑒̄ in atto di libare. Da una 𝑙𝑒̄́𝑘𝑦𝑡ℎ𝑜𝑠 attica a figure rosse, 480-460 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

«Ogni uomo è come erba e ogni sua gioia è come fiore del campo», diceva il profeta Isaia (40, 6). «Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo così egli fiorisce; lo sfiora il vento ed egli scompare, il suo posto più non si trova», faceva coro l’umile salmista (103, 15-16). C’è un’antica e topica immagine biblica, o meglio un altro tassello di una 𝑘𝑜𝑖𝑛𝑒́ sapienziale vicinorientale, sullo sfondo della celebre similitudine evocata dal licio Glauco, a colloquio con il venerato nemico Diomede nel VI canto dell’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 (vv. 146-149), per effigiare l’incessante succedersi delle stirpi umane (da cui dipende forse 𝑆𝑖𝑟𝑎𝑐𝑖𝑑𝑒 14, 18), e qui riportata da Mimnermo sulla falsariga del 𝑡𝑜́𝑝𝑜𝑠, a fungere da “correlativo oggettivo” per la caducità dell’esistenza individuale.

οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν.

φύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη

τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη

ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν φύει ἣ δ’ ἀπολήγει.

Tal e quale la stirpe delle foglie è quella degli uomini.

Le foglie il vento ne sparge molte a terra, ma la selva

rigogliosa altre ne gemina, e torna il tempo della primavera;

così pure le generazioni degli uomini: una sboccia, l’altra sfiorisce.

Pittore Hasselmann. Lo scambio di doni tra Diomede e Glauco. Pittura vascolare da una 𝑝𝑒𝑙𝑖́𝑘𝑒 attica a figure rosse, 420 a.C. ca. Gela, Museo Archeologico Regionale.

La fortuna del motivo, da Bacchilide (V 65-67) a Orazio (𝐴𝑟𝑠 60-61), da Virgilio (𝐴𝑒𝑛. VI 309-310) a Dante (𝐼𝑛𝑓. III, 112-114), a D’Annunzio (𝑉𝑖𝑙𝑙𝑎 𝐶ℎ𝑖𝑔𝑖 100-101), sino ai 𝑆𝑜𝑙𝑑𝑎𝑡𝑖 di Ungaretti, attesta altresì l’efficacia espressiva di Mimnermo, abile nel prodursi in brillanti variazioni sul tema, senza essere ripetitivo pur nel ripetersi di idee (il rigoglio della gioventù, le brutture fisico-psichiche della vecchiaia), strutture (come nel fr. 1 W² e nel fr. 5 W², la parte della gioia si arresta come il primo emistichio del v. 5, dove il 𝑝𝑙𝑎𝑧𝑒𝑟 diviene 𝑒𝑛𝑢𝑒𝑔, cupo regesto di tutte le “noie”) e stilemi (i «raggi splendenti del Sole» al v. 2 come nel fr. 1, 8 W²; il «fiore di giovinezza» al v. 3 come nel fr. 1, 4 W²; ecc.). Anche in questo caso non è chiaro se i versi – citati da Giovanni Stobeo nella sezione 𝑑𝑒 𝑏𝑟𝑒𝑣𝑖𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑎𝑒 (IV 34, 12) – costituissero un’intera elegia o soltanto una sua parte.

Immagine di splendore e di fragilità a un tempo, quella – topica – delle foglie è qui associata a un rilevantissimo pronome personale incipitario, un ἡμεῖς («noi») inclusivo di tutta l’umanità: le riflessioni sapienziali di Mimnermo non scaturiscono dalla mente fredda di un ordinato raccoglitore di massime, ma comportano il coinvolgimento del poeta nelle dure leggi dell’esistenza che egli scopre sulla propria pelle. Per tutto il primo distico, foglie, germogli primaverili e raggi splendenti (αὐγαί) del Sole concorrono a comunicare un’idea di crescita (espressa dai verbi: φύει, «produce», e αὔξεται, «cresce»): è la fase ascensionale, luminosa e verdeggiante, dell’esistenza. Ma già nel secondo distico, ai consueti «fiori di gioventù» è associato un tempo breve quanto un «cubito», un avambraccio fino al gomito (Alceo, nel fr. 346, 1 V., definirà un «dito» il «giorno»), e il piacere e la gioia connessi al τέρψις (v. 4, τερπόμεθα) sono accoppiati a un’effimera ignoranza del male e del bene inviati dagli dèi (vv. 4-5, εἰδότες οὔτε κακὸν / οὔτ’ ἀγαθόν), che l’esperienza della vita si incaricherà di dissipare, dolorosamente. L’inesperienza del male e l’ignoranza del bene (ciò che consente di non ricercarlo affannosamente e di non disperarsi avvertendone l’assenza), infatti, sono le caduche condizioni della fanciullezza dell’uomo, la serena ma breve libertà delle foglie e dei germogli sotto i raggi del Sole, l’ignara 𝑡𝑟𝑎𝑛𝑞𝑢𝑖𝑙𝑙𝑖𝑡𝑎𝑠 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑖 dei «gigli dei campi» e degli «uccelli del cielo». Ma quando la crescita raggiunge la fine del «cubito», la felice ignoranza cede il passo a un’atroce consapevolezza, la τέρψις agli affanni e alle sofferenze (vv. 5-16).

Ritardato in 𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑏𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 all’inizio del v. 5, il «bene» serve altresì a produrre il contrasto con il secondo emistichio, con cui comincia la parte 𝑛𝑜𝑖𝑟𝑒 dell’elegia. Nera come i mortiferi destini, le «Chere» (destini di «nera morte» sin dall’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 II 834 = XI 332), che stanno già addosso (παρεστήκασι), quando ancora non se ne ha nozione. La fiorente giovinezza, in effetti, ha due uscite, entrambe «nere»: la prima, e la più «penosa», è la «vecchiaia» (γῆρας), l’altra è la morte (vv. 6-7). La scelta tra le due Chere, una morte precoce dopo una giovinezza gloriosa ovvero un’oscura vecchiaia, è presentata da Teti al figlio Achille in 𝐼𝑙. IX 410-416. In ogni caso, un attimo soltanto dura il frutto della gioventù, quanto lo spandersi del Sole sulla Terra, quasi un lampo tra due ombre. I vv. 7-8 ribadiscono e ampliano il concetto già espresso al v. 3, corredandolo dell’unica conclusione possibile, una volta che questa breve stagione giunga al termine e segni definitivamente il passo (v. 9, παραμείψεται): la desiderabilità della morte rispetto all’esistenza (βίοτος, v. 10).

Due distici e mezzo (vv. 11-15) forniscono con dovizia di esempi la prova che «muore giovane colui che è caro agli dèi», come avrebbe detto tre secoli dopo Menandro (𝐷𝑖𝑠 𝑒𝑥. fr. 4 K.-A. ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνήισκει νέος): le sofferenze – psicofisiche, come sempre in Mimnermo – si affollano in gran numero nel cuore (v. 11), e ora sono preoccupazioni materiali, come la progressiva consunzione del patrimonio (οἶκος) e la conseguente comparsa degli effetti nefasti (ὀδυνηρὰ, «dolorosi», con un epiteto caro a Mimnermo: cfr. fr. 1, 5 W²) della povertà (vv. 11-12), ora la pungente assenza dei figli (una privazione affettiva ed economico-sociale al tempo stesso, se proprio i figli erano garanzia di una vecchiaia serena), il cui peculiare rimpianto (v. 14, ἱμείρων) accompagna sin nell’Ade (vv. 13-14), ora una malattia «che strazia il cuore» (v. 15, θυμοφθόρον) non meno che il corpo (v. 15, con la consueta associazione di fisiologia e psicologia). Una condizione che il poeta non sente come eccezionale: non vi è nessuno tra gli uomini -conclude il v. 16 – cui Zeus (non più il generico «dio» del fr. 1, 10 W²) non dia «una gran massa di sofferenze» (κακὰ πολλὰ).

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L. Anneo Seneca

da G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 343-355, con inserzioni da F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 84-96.

L. Anneo Seneca nacque a Corduba (od. Cordova), in Hispania Tarraconensis, intorno al 5 a.C. Era di famiglia ricchissima d’estrazione equestre. Il padre era M. Anneo Seneca il Retore e la madre, Elvia, era una donna di profonda cultura.

Anonimo, Seneca. Busto, marmo, XVII sec. Madrid, Museo del Prado.

Giunto a Roma, Seneca ricevette un’ottima educazione sia oratoria sia filosofica, in vista della carriera politica: seguì le lezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e del retore Papirio Fabiano, aderente alla setta dei Sestii, che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vita pubblica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito, intorno al 26 d.C., Seneca si recò in Aegyptus al seguito di uno zio prefetto, e vi soggiornò a lungo forse anche per sfuggire alle persecuzioni ordinate già da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci di pratiche ascetiche e straniere. Ritornato nell’Urbe, nel 31 d.C. iniziò l’attività forense e compì il cursus honorum, ottenendo un successo cospicuo. Il giovane provinciale entrò presto nell’ordine senatorio e ricoprì anche la quaestura. Ma un suo discorso in Senato offese Caligola (37-41 d.C.), che, geloso della sua fama oratoria, l’avrebbe messo a morte, se non fosse stato per l’intercessione di un’amante del princeps.

Non scampò, tuttavia, dalla relegatio che, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola: in realtà, con quest’atto, si voleva colpire l’opposizione politica coagulata attorno alla famiglia di Germanico e discriminare Giulia Livilla, rivale di Messalina a corte. Quanto a Seneca, egli fu dunque allontanato in Corsica, dove rimase per otto lunghi anni, praticando i precetti stoici secondo i quali il bene del sapiens non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore. Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperiale per consolarlo della scomparsa del fratello, ma soprattutto per ottenere con adulazioni smaccate la revoca della pena.

Caduta in disgrazia Messalina, nel 49 d.C. la nuova Augusta Agrippina riuscì a ottenere dall’imperatore il rientro a Roma di Seneca e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, Nerone. Nel ruolo di educatore, affiancato dal praefectus praetorio S. Afranio Burro, Seneca scorse l’occasione per realizzare il sogno platonico di uno Stato perfetto, illuminato dalla sapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza, guidando l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone. Morto Claudio nel 54 d.C., effettivamente Seneca, di comune accordo con Burro, per cinque anni governò in luogo del princeps.

Secondo il programma senecano l’imperatore avrebbe dovuto apparire un modello di virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i suoi cives, in una ritornata età dell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità, prospettandogli la gloria derivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristocrazia senatoria e ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione dei poteri. Anche se – come si legge nel De clementia, dedicato proprio a Nerone e «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamento costituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del princeps.

Tuttavia, il sogno di trasformare il giovane imperatore nel sovrano-filosofo auspicato da Platone non urtava solo contro il corso degli eventi e contro la natura di Nerone, che di lì a poco avrebbe rivelato il suo volto illiberale, paranoico e dispotico, attuando una politica anti-senatoriale, repressiva e autocratica. Collideva anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coerentemente con i precetti enunciati. E questa debolezza lo rendeva poco credibile agli occhi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e finanche l’usura. Inoltre, la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinastici imponeva che Seneca stesso prendesse parte in delitti che non potevano non ripugnare alla sua coscienza morale e filosofica. Così il maestro lasciò che Nerone si sbarazzasse del fratellastro Britannico (55 d.C.) e togliesse di mezzo finanche la madre Agrippina (59 d.C.).

Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quegli anni di reggenza non doveva risultare positivo per Seneca. Alla morte nel 62 dell’amico Burro, egli non fu più disposto ad avallare la politica assolutistica di Nerone, ormai sedotto e controllato da Poppea, avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regime, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Fu questo il periodo in cui attese alla composizione delle sue opere.

Ben presto, però, la politica lo raggiunse anche nel dorato isolamento: inviso ormai e sospetto a Nerone e al suo nuovo praefectus praetorio Tigellino, Seneca fu coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65), di cui egli era forse solo al corrente, senza esserne davvero partecipe. Il princeps, condannatolo a morte per lesa maestà, gli ingiunse di tagliarsi le vene: con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente preparato nella riflessione di un’intera vita.

Noël Sylvestre, La morte di Seneca. Olio su tela, 1875. Béziers, Musée des Beaux-Arts.

Le opere e le fonti biografiche

Della vasta produzione senecana, anche fra le opere superstiti quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore: alcune di queste furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in dodici libri di Dialogi (titolo già noto a Quintiliano, e che, pur ricalcando il greco διατριβαί ovvero διαλέξεις, non implica generalmente una forma dialogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a Platone); in queste opere sono trattate questioni di carattere etico e psicologico: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapientis; 3-5. Ad Novatum de ira libri III; 6. Ad Marciam de consolatione; 7. Ad Gallionem de vita beata; 8. Ad Serenum de otio; 9. Ad Serenum de tranquillitate animi; 10. Ad Paulinum de brevitate vitae; 11. Ad Polybium de consolatione; 12. Ad Helviam matrem de consolatione.

Le altre opere filosofiche, tramandate autonomamente, sono i sette libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone (in tre libri, di cui restano il primo e l’inizio del secondo), e i venti libri comprendenti le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più propriamente scientifico sono le Naturales quaestiones, in sette libri (in origine, forse, otto), dedicate a Lucilio. Eccone gli argomenti: I. i fuochi celesti; II. i tuoni, i fulmini, i lampi; III. le acque terrestri; IV. la piena de Nilo e le nubi; V. i venti; VI. il terremoto; VII. le comete.

Sono pervenute di Seneca anche nove tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, tramandate dal manoscritto Etruscus della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in quest’ordine: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento romano: una praetexta probabilmente opera di un imitatore.

A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludus de morte Claudii, o Apokolokyntosis (cioè «inzuccatura» o «apoteosi di uno zuccone»), una satira menippea, dai toni feroci, sul singolare processo di beatificazione del defunto imperatore. Fu scritta nel 54, subito dopo la scomparsa di Claudio, e inscenata a corte con il consenso di Agrippina.

Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Diverse sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, svariati trattati di carattere fisico, geografico, etnografico e molti altri testi filosofici (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte l’autore). Parecchie anche le opere di incerta paternità o sicuramente spurie: fra queste ultime il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e l’apostolo Paolo di Tarso, frutto di una leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.

Molte sono le notizie autobiografiche fornite dall’autore in persona (specialmente nelle Epistulae e nella Consolatio ad Helviam matrem); fra le altre fonti, le più importanti sono i libri XIII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico Cassio Dione e le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.

Flora. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Dialogi e la saggezza stoica

Ben poche, fra le opere senecane rimaste, sono databili con sicurezza o buona approssimazione, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del pensiero dell’autore o collegarle alle sue vicende biografiche. Fra queste dovrebbe essere la Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40) e indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio. Il genere della consolatio, già coltivato nella tradizione filosofica ellenica, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), intorno a quali, a loro volta, ruota gran parte della riflessione di Seneca: a tale repertorio tematico egli torna a far riferimento anche nelle altre due consolationes pervenute. Tutte e due, tra l’altro, sono ascritte agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem, forse del 42, cerca di tranquillizzare la madre sulla propria condizione di esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra, probabilmente del 43, rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente il princeps per ottenere il ritorno a Roma – si tratta, infatti, dell’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo.

I singoli testi della raccolta Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o di problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive: uno Stoicismo, beninteso, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche.

I tre libri del De ira, ad esempio, scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle; all’ira, più precisamente, è dedicato il III libro. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca avrebbe inviato qualche anno dopo, quando Novato avrebbe assunto il cognomen Gallione (dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione) anche il De vita beata (forse del 58): quest’ultimo affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il tema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse, che gli venivano mosse (Tacito, Ann. XIII 42), di incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato, grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato (anche mediante la pratica dell’usura).

François-Léon Benouville, L’ira di Achille. Olio su tela, 1847. Montpellier, Musée Fabre.

Posto che l’essenza della felicità è nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’Epicureismo, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza, se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnauit, «nessuno ha condannato la saggezza alla povertà», 23). Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia, che resta un ideale mai pienamente conseguibile, dovrà saper «sopportare» gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare, secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere beni e ricchezze, ma non farsi possedere da essi.

Del resto, Seneca non pretende di essere un saggio, ma uno che cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. L’accusa di incoerenza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri pensatori del passato:

[18, 1] «Aliter» inquis «loqueris, aliter uiuis». Hoc, malignissima capita […], Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi uiuerent, sed quemadmodum esset et ipsis uiuendum. De uirtute, non de me loquor, et cum uitiis conuicium facio, in primis meis facio: potuero, uiuam quomodo oportet.

Parli in un modo – tu mi dici – e vivi in un altro. Queste accuse […] furono rivolte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavano non come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno anzitutto i miei. Quando ne sarò capace, vivrò secondo virtù. (trad. G. Garbarino)

Tryphe a banchetto. Mosaico, III sec. d.C. da Antakya. Antakya, Museo Archeologico.

Il superiore distacco del sapiens dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della trilogia dedicata all’amico Sereno, che aveva inteso abbandonare le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi.

Il primo dei tre dialoghi, pubblicato dopo il 41, esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità: proprio perché possiede la virtus, il sapiens non può ricevere offesa da parte degli uomini.

Il De tranquillitate animi, scritto all’epoca della collaborazione con Nerone e l’unico parzialmente in forma dialogica, affronta un problema fondamentale nella riflessione senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere di una vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca propone una mediazione, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche vigenti: l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi del tumulto cittadino, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche per ciò si tende a collocare il dialogo poco prima del 62), la scelta totale di una vita appartata è, invece, dichiarata nel De otio: un’opzione forzata, resa necessaria da una situazione politica ormai compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi.

Più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52, sembra risalire il De brevitate vitae, dedicato al suocero Paolino, praefectus annonae. L’opera affronta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che tale può sembrare perché non se ne sa afferrare l’essenza, ma la si disperde in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. La vita è lunga per chi sa impiegarla (vita, si uti scias, longa est, 2, 1), mentre appare brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) per chi sciupa il proprio tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi, rappresentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parrucchiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giorno canzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati senza costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile, ripetendo con «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente il saggio agli occupati.

Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta dei Dialogi, cioè il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae: il testo dibatte l’apparente contraddizione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra punire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, afferma Seneca, Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventure, le avversità che colpiscono chi non se le meriterebbe, non contraddicono tale disegno “provvidenziale”, ma sono, effettivamente, un segno della Providentia divina, che sa distinguere i saggi e, creando ostacoli, consente loro di perfezionarsi: così, il sapiens stoico realizza la propria natura razionale nel riconoscere il posto che, nell’ordine cosmico governato dal λόγος, è stato a lui assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Filosofia e potere

Dedicati a Lucilio e successivi al ritiro dalla vita pubblica, sono anche i Naturalium quaestionum libri VII, l’unica opera senecana di carattere scientifico pervenuta. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti, alle comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio) e sembra costituire il supporto “fisico” all’impianto filosofico di Seneca. Ma, in realtà, non c’è integrazione né organicità fra indagine e ricerca morale.

Più o meno allo stesso periodo, intorno al 64, come attesta lo stesso autore in Epistulae ad Lucilium, 81, 3, risale un’altra opera filosofica tramandata autonomamente dai Dialogi, cioè i sette libri De beneficiis, dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiario, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati – si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti. L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una “monarchia illuminata”. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di quel progetto.

L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la propria concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione (Stupazzini lo ha definito il «manifesto della teoria politica» senecana). L’autore non mette in discussione la legittimità costituzionale del principatus, né le forme apertamente monarchiche che esso aveva ormai assunto: il potere unico era più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal λόγος, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formavano l’Impero; senza considerare, infine, che proprio il principato si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana, che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione senatoria. Il problema, piuttosto, era quello di avere un buon princeps: e, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarebbe stata la sua stessa coscienza, che lo avrebbe dovuto trattenere dal governare in modo dispotico. La clementia, che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di «filantropica benevolenza», era la virtù che avrebbe dovuto informare i suoi rapporti con gli altri, cives o peregrini: con essa, e non incutendo timore, l’imperatore avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione, che, da sempre, sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato.

È evidente, in questa concezione di un Principato “illuminato” e paternalistico, che affida alla coscienza del governante, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione con il princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltivò un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, come si è accennato, alla filosofia spettava un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale dell’imperatore e dell’élite politica, ma la rapida degenerazione del regime neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana dovette ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pose, dunque, al servizio dell’umanità.

Seneca-Socrate. Erma bifronte, I sec.-metà III sec. d.C. c. Berlin, Antikensammlung, Staatliche Museen.

La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae morales ad Lucilium

Se è vero, infatti, che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica dell’autore, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, rimase effettivamente forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione di Seneca successiva al suo ritiro egli si mosse soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale.

L’opera principale della sua produzione tarda, la maggiore e la più celebre in assoluto, sono le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di venti libri di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate appunto all’amico Lucilio, un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative; di buona cultura, era poeta e scrittore egli stesso.

Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare – varie lettere, infatti, richiamano quelle di Lucilio in risposta –, ipotesi, peraltro, non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera, come si è detto, è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62/3 d.C.); essa costituisce, in ogni caso, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.

Le lettere fondano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incline a trattare separatamente singoli temi etici. Un antecedente latino erano state le Epistulae di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chi sente l’esigenza della filosofia intensa come ricerca morale, come quotidiana pratica di saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune il fatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il legame stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impanca a maestro, ma parla sottovoce (umilissima uerba, 38, 1), considerando se stesso bisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale, il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.

Ma il modello delle Epistulae morales ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva con i discepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Seneca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigli utili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loro novità rispetto alla produzione epistolare precedente:

[15, 1] Mos antiquis fuit, usque ad meam servuatus aetatem, primis epistulae uerbis adicere: «Si uales bene est, ego ualeo». Recte nos dicimus: «Si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus.

Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in uso, di aggiungere alle prime parole della lettera: «Se stai bene, sono contento; io sto bene». Meglio, noi diciamo: «Se ti dedichi alla filosofia, sono contento; io sto bene». Stare bene, infatti, in definitiva, consiste in questo. Senza ciò l’animo soffre.

In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale, era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’attualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondare l’interiorità:

[118, 1-2] […] nec faciam quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam «si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit scribat». […] Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et uidere quam multarum rerum candidatus sit, et non suffragari.

[…] Non farò quel che Cicerone, uomo eloquentissimo, esige da Attico, cioè scrivergli «anche se non avrà nulla che gli sia venuto a fior di bocca». […] È preferibile affrontare le proprie debolezze che quelle altrui, analizzare se stessi e vedere a quante cose ci si candida e non dare alcun voto favorevole.

Naturalmente, non che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento alla sfera privata. anzi, ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anni remoti; c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono le espressioni di tenerezza per la giovane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o il resoconto dei fatti del giorno. Ma da questi eventi, di per sé irrilevanti, l’autore trae sempre spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che lo ha colpito lo spinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare di lusso lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù dell’uomo.

Dunque, più degli altri generi della letteratura filosofica, l’epistula, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico-discepolo (sul modello delle scuole di filosofia), la lettera ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. Tra l’altro, allo stesso intento concorre l’uso di concludere ogni epistula, almeno nei primi tre libri, con una sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza su cui meditare.

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Seneca.

Rifacendosi a uno schema di procedimento in uso nel Giardino epicureo, che graduava i vari momenti del cammino verso la sapientia, Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui fa seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi alla forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla tendenza delle singole lettere, man mano che ci si addentra nell’epistolario, ad assimilarsi al trattato filosofico.

Non meno importante dell’aspetto teorico – più volte, anzi, Seneca polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici – è nella lettera quello parenetico: l’epistula tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare, al bene.

Oltre però a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline piuttosto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti – si è detto – per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui il saggio informa la propria vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti.

Col tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo, ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.

La convinzione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi i servi, per i quali l’autore trova parole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati con una passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazione della componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una “carità cristiana”. Ma le analogie con il Cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del carattere fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fastidio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacoli circensi.

Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.

Un motivo costantemente presente nella sua riflessione è quello della morte, vista non come oggetto di paura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema affermazione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Seneca raccomanda: «Medita la morte: chi ti dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere servo».

Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via della perfezione interiore, Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comunicare i risultati della propria speculazione agli altri, perché possano trarne giovamento. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore funge anche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo e centripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra “predicazione” e “interiorità”. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina, che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirittura inscindibili: «Bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te stesso» (15, 3). E anche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il bene dell’umanità, posteri inclusi:

[8, 1-2] In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. […] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo.

Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato e ho chiuso le porte di casa: per poter essere utile a un maggior numero di persone […]. Mi sono isolato non tanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle mie: ora agisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.

Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistulae, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium quale valore supremo: un otium che, beninteso, non è inerzia, ma alacre ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati anche loro nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistulae stesse possano esercitare il proprio benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore – resasi necessaria la rinuncia alla rivendicazioni sul terreno politico – è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile “drammatico”

Se fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent uerba nostra sed prosint (75, 5): queste si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma, ad esempio, di sententiae o di citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo di chi legge un precetto o una norma morale.

In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodare ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un succedersi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto, ma destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca assai ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nell’insegnamento dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica “puntillistica”, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa, fino a cristallizzarla nell’espressione epigrammatica. Di questo stile aguzzo e penetrante, che nella sua continua tensione non sa evitare una certa “teatralità”, Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico», secondo un’efficace definizione), che alterna i toni sommessi della meditazione interiore a quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa tra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.

Pseudo-Seneca. Busto, marmo, II sec. d.C. ca. Zürich, Archäologische Sammlung der Universität.

Le tragedie

Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie, delle quali nove sono generalmente ritenute autentiche (benché qualche dubbio sussista per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco (cothurnatae). Di queste tragedie, le sole, di tutta a letteratura latina, pervenute in forma non frammentaria, si sa molto poco circa le circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tantomeno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Sicché, nell’impossibilità di delineare una cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine in cui la tradizione manoscritta più autorevole le ha trasmesse.

L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia dell’eroe, che, provocata da Giunone, lo induce a uccidere moglie e figli; una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca, infine, ad Atene a purificarsi. Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono sofocleo sono improntate le Phoenissae, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Naturalmente ancora a Euripide (ma forse anche a un’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio) si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e, perciò, assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. Anche la Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell’Ippolito (quello superstite, ma anche quello, anteriore, perduto), nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus, che narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e, quindi, sposo della madre Giocasta: alla scoperta della tremenda verità, egli reagisce accecandosi. All’omonimo dramma di Eschilo si ispira, assai liberamente, l’Agamemnon, che rappresenta l’assassinio del re, dal ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Il Thyestes mette in scena, invece, il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in testi perduti di Sofocle e di Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente): animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Nell’Hercules Oetaeus (cioè “sull’Eta”, il monte su cui si svolge l’evento culminante del dramma dell’eroe), modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e, in realtà, dotato di potere mortale: tra dolori atroci l’eroe si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito l’assunzione fra gli dèi.

Francisco de Zurbarán, La morte di Ercole. Olio su tela, 1634. Madrid, Museo del Prado.

I drammi scritti da Seneca, oltre a costituire una preziosa testimonianza di un intero genere letterario, sono importanti anche come documento della ripresa del teatro tragico latino, dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea aveva fatto per promuovere una rinascita dell’attività teatrale: in questo progetto, tra le altre, si inseriva la produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., in cui la polemica anti-tirannica connessa al soggetto forse aveva avuto come bersaglio M. Antonio. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l’élite intellettuale senatoria sembrò, in effetti, ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime dispotico di certi principes. Tra l’altro, nella tragedia latina, che riprendeva ed esaltava un aspetto già fondamentale in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide.

I tragediografi di età giulio-claudia e flavia di cui si ha notizie furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana del I secolo d.C. Si apprende dagli Annales di Tacito che, sotto il principato di Tiberio, Mamerco Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a togliersi la vita perché in un suo dramma, l’Atreus, erano state ravvisate allusioni all’imperatore. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche il consolato: di lui avrebbe scritto una biografia l’amico Plinio il Vecchio. Pomponio Secondo, oltre a tragedie cothurnatae, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. Si può ricordare, infine, all’epoca di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figurò come interlocutore nel Dialogus de oratoribus di Tacito; delle sue tragedie si conoscono vari titoli, fra cui quelli di due praetextae, il Cato e il Domitius.

La scarsità di notizie sulle tragedie senecane non consente, però, di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che si conosce, anzi, sulla destinazione della letteratura tragica in età già anteriore a Seneca – e cioè che si continuava, sì, a rappresentare normalmente in scena i drammi, ma che ci si poteva anche limitare a leggerli nelle sale di recitazione (odea) – ha indotto gli studiosi a credere (anche sulla base di certe loro peculiarità stilistiche) che quelle di Seneca fossero tragedie destinate prevalentemente alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per talune di esse, la rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, la più diffusa, anche se non tutti gli argomenti di questa tesi sono ugualmente probanti: per esempio, la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano incompatibili con i canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero presupporre, piuttosto che smentire, una messinscena, laddove una semplice lettura avrebbe limitato, se non del tutto annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico.

Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come opposizione fra mens bona e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche – come, per esempio, nella vicenda di Ercole, il tema dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà – rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro di Seneca non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica.

Genève, Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 190, 1 (1410 c.), f. 20r, illustrazione dal De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, raffigurante Atreo che imbandisce a Tieste le membra dei figli.

L’analogia, però, non va troppo accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria (che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato, messinscene paradigmatiche di conflitti interiori), sia perché, nell’universo tragico, il λόγος, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni atroci e orrorosi, e su questo scenario terrificante si scatena la lotta delle forze del male: battaglia che non investe soltanto la psiche dell’uomo, che viene scagliata fin nei suoi angoli più reconditi, spesso attraverso lunghi ed elaborati monologhi, ma il mondo intero, concepito – stoicamente – come unità fisica e morale, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un particolare rilievo, fra le forme in cui più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito politico sul tema del potere, che, come si è visto, occupa un posto centrale nella riflessione e nella biografia senecane.

Di quasi tutte le tragedie dell’autore, come si è detto, si dispone dei corrispettivi precedenti greci, nei confronti dei quali si possono valutare l’atteggiamento che Seneca ha tenuto. Atteggiamento che, rispetto a quello dei drammaturghi latini arcaici, denota, da un lato, una maggiore autonomia (dopo la grande stagione augustea, infatti, la letteratura latina non si limitò più a “tradurre”, ma si misurò alla pari con quella ellenica, in libera emulazione) e, al tempo stesso, però, presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impianto drammatico.

Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il linguaggio poetico delle tragedie senecane ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali, nonché il particolare tipo di senario, già adottato nel teatro tragico augusteo e vicino piuttosto, nel suo rigido schema, al trimetro giambico greco e oraziano che non al più libero senario arcaico.

Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulus espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle sententiae, si sa, è alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stichiche (cioè un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da sempre, infatti, sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (per esempio, nei cataloghi geografici e mitologici), in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.

Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ἐκφράσεις), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica, che alterano i tempi dello sviluppo scenico inserendosi così nella tendenza, propria del teatro senecano, a isolare singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” dovessero essere letti nelle sale di recitazione).

Uno stile, insomma, che con i suoi tratti più peculiari, si inquadra agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i più rappresentativi.

Claudia Ottavia. Busto, marmo, età giulio-claudia, ante 62 d.C. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragedia d’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Seneca stesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissuadere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun autore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre, la morte del princeps è descritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi, non può essere stata scritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C., tre anni prima dell’imperatore.

Nella vicenda Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze con Poppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione del pupillo, ma è consigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fattori dell’ex moglie, il princeps mette in atto il suo delitto: la donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di forza e coraggio stoici. In chiusura della tragedia, appare l’ombra di Agrippina, madre di Nerone e anche lei sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino i delitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631). Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui l’amato Nerone, tremante, affonda nella propria gola il pugnale crudele.

L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli ambienti dell’opposizione senatoria. Si è ipotizzato che l’autore possa essere stato il tragediografo L. Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annaea, il cui praenomen avrebbe facilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere stata composta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisione di particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, sia perché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbe stata possibile se egli fosse stato ancora in vita. Inoltre, l’Octavia è stata conservata da un ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggiormente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia è stata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente o, quantomeno, vicino agli ambienti senatori, che conoscevano assai bene i comportamenti etici, il pensiero e la produzione letteraria di Seneca: alcuni passi, infatti, sono la trasposizione in versi dei Dialogi del filosofo.

L’ambiente culturale che ha espresso quest’opera, dunque, è certamente senatorio. Lo dimostra – come si accennava sopra – la considerazione dell’imperatore come di un tiranno assassino e il fatto che non compaia mai il Senato, ormai ridotto all’ombra di se stesso, ma solo il popolo anonimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i fruitori del testo, certamente destinata alla sola lettura, come si apprende a proposito delle tragedie di Curiazio Materno dal Dialogus tacitiano, che si immagina iniziato «il giorno dopo a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura (recitauerat) del Catone» (una tragedia che, avendo per protagonista il personaggio simbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi circa il contenuto di opposizione al regime imperiale: e Tacito, infatti, aggiunge che la recitatio «urtò la suscettibilità dei potenti»). In questo clima culturale assai teso, nel quale la tragedia assurse a genere della “resistenza” senatoria alla tirannide imperiale, s’inseriva l’Octavia.

Ormai il genere tragico non aveva più un avvenire: infatti, non sarebbe sopravvissuto alle epurazioni neroniane e alla politica di ricambio dei Flavii, che sostituirono alla vecchia nobilitas una nuova classe di funzionari italici e provinciali.

Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Apokolokyntosis

Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo intitolano due dei manoscritti principali che lo hanno trasmesso) o Divi Claudii Apokolokyntosis (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo); il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokyntosis, fornito dallo storico Cassio Dione (LX 35). Questa parola implicherebbe un riferimento a («zucca»), forse come emblema di stupidità, e secondo Dione si tratterebbe di una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal Senato post mortem. Il fatto che nel testo senecano non ci sia accenno a una zucca, e che l’apoteosi, di fatto, non abbia luogo, ha fatto sorgere dubbi sull’identificazione dell’opera menzionata da Dione con il Ludus, dubbi che oggi giustamente sono quasi del tutto dissolti: il curioso termine, dunque, andrà inteso non come «trasformazione in zucca», ma piuttosto come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio aveva goduto. Altri dubbi e perplessità sono stati suscitati dal fatto che, a quanto si sa da Tacito (Ann. XIII 3), lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore defunto (pronunciata da Nerone), ed è parso a molti insostenibile un così radicale contrasto di comportamento.

La difficoltà ad ammettere che, subito dopo gli elogi ufficiali, Seneca potesse dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio ha anche indotto diversi studiosi a posticipare, a torto, la data di composizione (attorno al 60) di un pamphlet che si giustificava solo se reso pubblico (magari in forma anonima) sull’onda di un evento, come la divinizzazione di Claudio, che, dietro il fragile velo dell’ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica – la composizione dell’opera va, quindi, collocata nello stesso 54.

Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.

Il princeps, verso il quale il filosofo nutriva personali motivi di risentimento, appena morto (il 13 ottobre del 54, forse avvelenato da Agrippina Minore) ascende all’Olimpo per essere accolto fra gli dèi, in base alla decretata apoteosi. Ma questi, riuniti in un’assemblea a mezza via tra i concilia deorum omerici e le sedute del Senato, dopo un duro intervento di Augusto, che affonda la proposta di divinizzazione, lo spediscono nell’Ade. Passando per Roma, il dio mancato s’imbatte nel proprio sontuoso funerale seguito da gente contenta (omnes laeti, hilares) e solo allora realizza d’essere veramente morto (ubi uidit funus suum intellexit se mortuum esse, 12, 3). Quindi, scene agli inferi, dove prima diviene schiavo di Caligola, poi del liberto Menandro, al cui servizio continuerà a fare quello che aveva fatto in vita, istruire processi e dare ascolto ai liberti: una condanna di contrappasso, per così dire. Allo scherno dell’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’operetta, parole di elogio per il successore, preconizzando l’avvento di un’età di splendore e di rinnovamento.

La descrizione di Claudio è feroce: di lui sono messi in luce impietosamente i difetti fisici e morali. L’imperatore è zoppo, balbuziente, brutto al punto da potersi ascrivere a stento alla specie umana (quasi homo). Il ritratto morale è conforme all’immagine che ne davano i contemporanei. Egli era, anche da vivo, pubblicamente considerato – certamente a torto – inetto, debole, spietato, succube dei suoi potenti liberti. Quando Nerone, leggendo la laudatio funebris, ne elogiò l’avvedutezza e il senno, «nessuno – scrive Tacito (Ann. XIII 3, 1) – seppe trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, sfoggiasse grande eloquenza». Claudio era, insomma, oggetto di scherno negli ambienti di corte anche prima che fosse scritta questa feroce menippea dell’«apoteosi negata».

Pur possedendo i caratteri formali della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l’iniziatore di questa forma letteraria), ovvero il prosimetrum, lo spudaigelaion (“serio-faceto”), l’aggressività espressiva, l’indignatio polemica, e tutti i topoi propri del genere (quali, ad esempio, l’ascesa in cielo e la discesa agli inferi), il Ludus de morte Claudii sembra discostarsi dal modello del filosofo gadarense almeno per l’assenza di un tratto: la demistificazione. La feroce caricatura, infatti, non disvela nulla che non appartenesse all’immagine pubblica del personaggio messo alla berlina, abitualmente deriso e fatto oggetto di strali ironici, critiche, battute pesanti (come ricorda Tacito). Della letteratura satirica mancano l’intento tradizionale, la censura dei costumi. Non sono tipici della menippea originaria, ma nemmeno di quella varroniana, l’attacco ad personam e la tempestività dell’invettiva, che, in questo caso, è composta subito post mortem di Claudio – giacché «libelli così o si scrivono subito o non si scrivono più» (R. Roncali). Da questo punto di vista, il Ludus è più vicino alla satira luciliana, che sbertucciava i primores populi e non esitava a bollare il vizioso per nome, o a certa libellistica polemica d’età giulio-claudia di cui si ha notizia da Svetonio.

La scrittura di questo caustico pamphlet è agile, scorrevole, varia nell’alternanza di livelli stilistici alti e bassi. Si passa dai toni piani della lingua colloquiale, nelle parti prosastiche, alla parodia della magniloquenza epico-tragica nelle parti metriche. L’alternanza di aulico e volgare, i ricalchi e gli adattamenti parodici dei classici, le ironiche citazioni in greco, le frequenti assonanze con la prosa filosofica fanno di questo libello un finissimo divertissement letterario.

Apoteosi di Tib. Claudio Germanico Augusto, nelle vesti di Giove Capitolino. Statua, marmo, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il ritmo rapido e serrato trascina velocemente il lettore da una scena all’altra (dalla terra al cielo, dal cielo alla terra e poi agli inferi) senza intoppi narrativi. La vivacità degli episodi e la verve satirica hanno fatto pensare anche alla possibilità di una destinazione scenica (non solo di lettura) negli ambienti del palatium.

Gli Epigrammi

Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono adespoti, ma siccome tre di essi, in un altro codice, sono attribuiti all’autore, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione a lui, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso, ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La fortuna

Già si è accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rimproverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo insegnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degni di lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sempre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X 1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, leggevano solamente le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1, 126).

Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolo pronunciarono sullo stile “moderno” dello scrittore. In particolare, Frontone sconsigliava all’imperatore M. Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensavano i difetti, consistenti in un’eloquenza aggrovigliata (confusam… eloquentiam) e nella tendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti positivi, poi, gli sembravano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento, ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).

Non molto più benevolo fu il giudizio di Gellio, che dedicò a Seneca un intero capitolo delle Noctes Atticae (XII 2): il filosofo era ritenuto ineptus et insubidus homo per le critiche da lui espresse (ne XXII libro delle Epistulae morales, che non è giunto) riguardo all’oratoria ciceroniana.

Il contenuto etico delle Epistulae e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spesso, fraintendendone il pensiero, lo considerarono uno degli spiriti nobili del paganesimo più vicini al Cristianesimo. Tertulliano usava l’espressione Seneca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20, 1). Lattanzio lo considerava omnium Stoicorum acutissimus; tra l’altro, questi scrisse, inaugurando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioè ai cristiani) similia locutus est! (Ist. I 5, 28). Girolamo lo nominava di frequente nei suoi testi e per primo citò un carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso, che è pervenuto. In realtà, i punti di contatto tra la filosofia senecana e la teologia paolina erano ben pochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza esterna che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67 d.C.), si avvalevano per la loro “predicazione” del mezzo delle lettere. Il carteggio, comunque, contribuì alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero il contrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli sia dipesa dalla fama medievale di Seneca e dalla diffusione della leggenda sulla sua conversione.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Reg. lat. 1500, f. 62r, illustrazione delle Troades.

In età medievale, infatti, grande fu la fortuna del «Seneca morale», come lo chiamò Dante (Inf. IV 141) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo, che sicuramente lesse. La sua morte era stata intesa come martirio cristiano, secondo una leggenda che, attraverso il Roman de la rose, confluì poi nel Novellino. Quest’ultimo, inoltre, presenta aneddoti della vita di Seneca (tolti dai Fiori dei filosofi) come veri exempla, cioè testimonianze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare.

Una prova ulteriore della fama goduta dal filosofo nel Medioevo consiste nel gran numero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, il Liber de moribus, ecc.). L’autore divenne assai popolare nei secoli XII e XIII: a questo periodo, infatti, risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari monasteri, come quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conservazione dei Dialogi, che, in seguito, ebbero grande diffusione nell’Europa settentrionale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesse per il teatro senecano fu espresso, poi, dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.

Le Epistulae morales ad Lucilium e alcuni trattati furono letti anche da Petrarca e da Boccaccio, i quali, però, non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fu considerato un autore nazionale e tradotto e commentato persino da re Alfonso V in persona.

Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse un Seneca Philosophus da un Seneca Tragicus. L’editio princeps delle opere filosofiche fu quella napoletana del 1475.

Nel XVI secolo Seneca assurse a maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’ammirazione di Montaigne, i cui scritti furono densi di citazioni tratte dalle Epistulae morales e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuitica, poi protestante. Le tragedie dell’orrore, inoltre, con il loro barocco cupo e truculento, furono di grande attualità sia in Italia, sia nell’Inghilterra elisabettiana. Così il teatro senecano influenzò moltissimo Shakespeare (in particolare, nel Macbeth e nell’Hamlet). Lessero Seneca anche Racine e Corneille: quest’ultimo, soprattutto, nella Médée e nella Phèdre imitò le tragedie omonime dell’autore latino.

Barcelona, Archivo de la Corona de Aragón. Col. Manuscritos, Sant Cugat 11 (XIV sec.), f. 1r., illustrazione di una miscellanea con le opere morali di Seneca, che raffigura l’autore intento a leggere, davanti a un armarium.

Anche Voltaire conobbe le opere morali e Alfieri fu influenzato dalle vibranti e cupe scene del teatro di Seneca.

Nell’Ottocento lo scrittore latino continuò a essere letto dagli intellettuali. Criticato da Hegel, che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammarato da Schopenhauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancor oggi continua a costituire uno dei capisaldi della paideia umanistica. Non così per il Seneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo, sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si è aggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.

Il tempo e l’interiorità (Sᴇɴ. 𝐸𝑝. 𝑎𝑑 𝐿𝑢𝑐. 1, 1)

da A. BALESTRA et al.In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 84-87; Lucio Anneo Senca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. SOLINAS, Milano 1995, pp. 581-582.

 

Una volta compreso che l’uomo ha pieno potere sul proprio passato, nel senso che può in tutta libertà esaminarlo quando vuole, ha inizio il cammino verso la saggezza, che a poco a poco diventa il cammino verso la felicità. La lettera che apre la raccolta delle Epistulae morales ad Lucilium riprende questo fondamentale concetto, ossia la necessità di comprendere ciò che il tempo è l’unico vero possesso dell’uomo, ma da essa emerge anche un’indicazione su come comportarsi giorno per giorno. Seneca afferma, infatti, che il pieno dominio sulla parte più intima e più vera di se stessi, ossia sulla propria interiorità, avviene quando il tempo della vita è vissuto con coscienza, riconoscendo che ogni giorno rappresenta un valore unico, da conservare con cura nel proprio animo. Da questa riflessione appare evidente che il saggio sarà colui che, secondo la felice espressione di Alfonso Traina, riuscirà a trasformare il valore del tempo della vita da «quantitativo» a «qualitativo».

Dalla lettera, inoltre, ricaviamo un’immagine assai umana di Seneca filosofo: egli (che, quando scrive la lettera, è già sessantenne), pur additando senza esitazioni la via della saggezza, non si presenta come un “sapiente”, ma come un uomo che è in cammino, forse solo di un passo più avanti rispetto ai suoi interlocutori, ma ancora assai lontano dalla perfezione.

Pseudo-Seneca (o Esiodo, o Lucrezio). Busto, bronzo, fine I sec. a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Seneca Lucilio suo salutem.

[1, 1] Ita fac, mi Lucili: uindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serua. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si uolueris adtendere, magna pars uitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota uita aliud agentibus. [2] Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem        aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterît; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas conplectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur uita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac  lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque uult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et uilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum inpetrauere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.

[4] Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem euenit, ratio mihi constat inpensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed euenit mihi quod plerisque non suo uitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. [5] Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serues tua, et bono tempore incipies. Nam ut uisum est maioribus nostris, «Sera parsimonia in fundo es»; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.

***

 

Seneca saluta il suo Lucilio,

[1, 1] Fai così, o mio Lucilio: rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che finora ti era portato via con la forza o sottratto con la frode o che ti sfuggiva di mano, raccoglilo e conservalo. Persuaditi, succede proprio come ti scrivo: certi momenti ci sono tolti con brutalità, altri presi subdolamente, altri ancora si disperdono. Però, lo spreco più vergognoso è quello provocato dall’incuria. E se avrai la compiacenza di prestare attenzione, noterai che la maggior parte della vita se ne va mentre operiamo malamente, una porzione notevole mentre non facciamo nulla, tutta quanta la vita mentre siamo occupati in cose che non ci riguardano. [2] Mi indicherai un uomo che attribuisca un valore effettivo al tempo, che sappia soppesare ogni giornata, che si renda conto di morire ogni giorno? Sbagliamo, infatti, in questo, cioè nel fatto che ravvisiamo la morte innanzi a noi; ebbene, una gran parte della morte appartiene già al passato. Tutto ciò che della nostra esistenza è dietro di noi, la morte lo tiene saldamente. Fai dunque, o mio Lucilio, quel che mi scrivi che fai: tieni strette tutte le tue ore, così avverrà che dipenderai meno dal domani, se avrai messo mano all’oggi. [3] Mentre si diversificano gli impegni, la vita ci passa davanti. Tutto, o Lucilio, è al di fuori dell’uomo: soltanto il tempo è nostro; di quest’unico bene fugace e instabile la natura ci ha affidato il possesso e ne può estromettere chiunque essa voglia. E la follia dei mortali è tanto grande che sopportano che siano loro addebitati dei beni che sono i più insignificanti e di pochissimo valore, certamente risarcibili, una volta che li hanno ottenuti; nessuno, invece, si considera debitore di qualcosa, se ha ricevuto un po’ di tempo; eppure, questo è l’unico bene che nemmeno una persona riconoscente può restituire.

[4] Forse chiederai che cosa faccio io che ti impartisco tali insegnamenti. Lo confesserò candidamente: proprio quello che succede a un uomo spendaccione, ma scrupoloso, mi risulta chiaro il calcolo delle uscite. Non ho il diritto di affermare che non sperpero nemmeno un poco di tempo, ma dirò quanto ne perdo e perché e in che modo; così renderò ragione della mia povertà. Del resto, mi capita ciò che succede alla maggior parte delle persone dopo che sono state ridotte in miseria per colpa loro: tutti sono comprensivi, nessuno, però, viene ad aiutarle. [5] E quindi? Non considero un poveraccio chi si accontenta di quel poco – non importa quanto – che gli è rimasto. Preferisco, tuttavia, che tu tenga in serbo le tue risorse e comincerai a farlo nel momento opportuno. Infatti, come giustamente vedevano i nostri vecchi, è troppo tardi risparmiare quando si è giunti al fondo, perché ciò che rimane è davvero poca cosa e, per giunta, la peggiore. Stammi bene.

 

***

Il tempo, unico bene

Questa lettera sviluppa alcuni temi presenti nel De brevitate vitae, e peraltro assai ricorrenti nell’opera di Seneca. Nel passo, infatti, è assai marcato il biasimo verso le numerose persone che non si curano del valore del tempo e che lo usano come se non valesse nulla: motivo fondamentale del De brevitate vitae. La lettera, inoltre, espone una serie di concetti basilari del pensiero senecano (non a caso, del resto, essa è inserita al primo posto nell’epistolario), che chiariscono la relazione tra il tempo e l’interiorità.

Posto che l’unico bene di cui l’uomo può disporre effettivamente sia il tempo della vita (tempus tantum nostrum est, 3), è necessario avere coscienza di come esso sia speso e conservarlo nella memoria (tempus… collige et serua, 1; omnes horas complectere, 2). Un’attenta sorveglianza sul presente (ratio mihi constat impensae, 4) permette di aver sempre a disposizione nella memoria i momenti della propria vita passata e coincide con l’esercizio massimo della libertà; l’esortazione a curarsi del tempo diventa così un invito a riprendere pieno possesso di se stessi (uindica te tibi, 1).

L’insieme di questi concetti evidenzia il fatto che il tempo dell’esistenza, nel momento in cui è vissuto con consapevolezza e resta a disposizione della memoria (collige et serua, 1), forma la coscienza, ossia coincide con l’interiorità, nel senso che rappresenta la parte essenziale e costitutivo della persona così come previsto nel disegno strutturale dell’universo, la natura (in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, 3).

Inoltre, la coscienza del tempo che passa, ossia il mantenimento nel proprio animo del ricordo di azioni e pensieri su cui si esercita attenta sorveglianza, da un lato si presenta come sottrazione alla morte del suo dominio sul tempo (quidquid aetatis retro est mors tenet, 2), dall’altro dà un solido fondamento alle azioni future ed evita che ci si debba ingenuamente affidare a una vaga speranza nel domani (minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris, 2).

 

La filosofia per tutti, giorno per giorno

La prima lettera a Lucilio, se da un lato fissa con rigore alcuni concetti fondanti della filosofia di Seneca, dall’altro lascia nel lettore l’idea che la ricerca filosofica non sia effettivamente interdetta a nessuno. Seneca, infatti, dopo aver usato nette espressioni di riprovazione per il diffuso costume di valutare assai poco il tempo della vita – la maggior parte del quale viene speso in attività poco sensate e addirittura è sprecato per incuria (per negligentiam, 1) –, confessa candidamente che, in fatto di tempo, lui stesso ne è uno sciupone (luxuriosum, ossia «persona che ama spendere molto», 4) e che è come la gente ridotta in miseria (ad inopiam, 4). Nonostante ciò, egli riesce a farsi bastare quello che ha (sat est, 5). Ovviamente, Seneca spera che il proprio allievo faccia meglio (tu tamen…, 5).

Dalle parole del filosofo si ricava l’impressione gratificante che non è impossibile entrare nella schiera degli otiosi e abbandonare quella degli occupati: lo Stoicismo, in effetti, prevede che chiunque possa raggiungere la saggezza. E, se questo non accade, è perché la maggior parte della gente non se ne cura abbastanza.

 

Carpe diem? No, grazie!

Si noti che l’esortazione di Seneca a prendere possesso della parte vera di sé, della propria interiorità (mediante l’attento esame dei momenti della propria vita da conservare e mantenere, perché non scivolino via) comunica un messaggio assai differente rispetto a quello contenuto nel carpe diem dell’Ode I 11 di Orazio. Il poeta, infatti, rifacendosi al pensiero sapienziale greco, esortava a vivere il presente come unica dimensione possibile del tempo, nella coscienza che la durata della vita e i piaceri a essa connessi potessero essere brevi. Secondo Seneca, invece, la dimensione del tempo che più conta è il passato, formato dagli attimi di vita del presente che fugge, consapevolmente vissuti e mantenuti nella memoria.

In entrambi gli autori, comunque, si esprime una certa sfiducia verso il futuro: quam minum credula postero, al v. 8 del carme oraziano; minus ex crastino pendeas, nell’epistola senecana (1, 2). Tuttavia, nei testi successivi, si può notare che, per Seneca, l’esame attento del passato permette di annullare l’azione negativa del destino (compresa la morte) sull’uomo, mentre in Orazio l’incertezza sul futuro rimaneva unicamente uno stimolo a rifugiarsi nel presente.

 

L’andamento colloquiale, ma sorvegliato

Il brano senecano ha una duplice funzione: da un lato, afferma con energia i fondamenti filosofici della ricerca della felicità; dall’altro, essa esprime una visione non integralista, soprattutto per il fatto che Seneca stesso non pone la propria esperienza come esempio da seguire. La strategia espressiva conferma pienamente tale duplice valenza.

Da un lato, infatti, il tono si rivela piuttosto colloquiale, lontano da espressioni colte e da un lessico ricercato: lo si può ricavare dal fatto che egli parli del tempo attingendo a campi semantici come quello della finanza e del commercio (pretium, aestimet, 2; aliena, possessionem, uilissima, imputari, quicquam debere, 3; ratio, impensae, perdere, paupertatis, inopiam, 4) e quello giuridico (uindica, 1; manum inieceris, 2), assai vicini all’esperienza della gente comune; e Seneca ricorre anche a espressioni di sapienza popolare (sera parsimonia in fundo est, 5).

D’altra parte, però, la scelta e la disposizione delle parole sono studiate con la perizia di un oratore consumato. Si osservi, per esempio, con quanta cura nell’esordio venga reiterato l’utilizzo nelle frasi di tre membri paralleli, il tricolon (aut… aut… aut…; quaedam… quaedam… quaedam…; agentibus… agentibus… agentibus, 1; qui… qui… qui, 2), associato a climax (auferebatur…, subripiebatur…, excidebat…, 1; eripiuntur… subducuntur… effluunt, 1; magna… maxima… tota, 1), con lievi variazioni. Si noti, poi, l’uso della domanda retorica (Quem mihi dabis…, 2) e le numerose antitesi (per esempio: crastino… hodierno, 2; Omnia… aliena… nostrum; misit… expellit; accepit… reddere, 3), oltre alle icastiche sententiae che condensano in poche parole, facilmente memorizzabili, i concetti: per esempio, quidquid aetatis retro est mors tenet (2), oppure Dum differtur uita transcurrit (3), o ancora Omnia… aliena sunt, tempus tantum nostrum est (3). Nel complesso la pagina risulta un’originalissima sintesi tra lo stile drammatico di un’accorta allocuzione tragica e il colloquio quotidiano.

«Non abbiamo poco tempo, ne perdiamo molto» (Sᴇɴ. 𝐷𝑖𝑎𝑙. X 1)

da F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, p. 118; e da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 76-78.

Il dialogo De brevitate vitae rappresenta uno degli scritti in cui più chiaramente si trova l’indicazione dei primi passi che un uomo deve compiere, quando vuole mettersi in cammino per raggiungere una stabile e duratura condizione di felicità. Seneca si rivolge a Paolino, dedicatario dell’opera e suo suocero (padre di Paolina, che Seneca sposò nel 49 d.C.); il lessico è privo di tecnicismi, ma l’autore si serve della comprensione e dell’affetto necessari verso chi pare necessitare dei primi rudimenti della filosofia. Nell’esordio del dialogo si trova un assunto fondamentale: è necessario convincersi che la vita di ciascun uomo, per quanto possa risultare paradossale, è lunga a sufficienza per raggiungere la felicità. Il punto sarà capire come distribuire il proprio tempo.

Mosaico raffigurante un uomo che guarda una meridiana; l’epigrafe cita: ἐνάτη παρήλασεν («la nona è passata»). Durante la giornata degli antichi la nona era la terza ora prima del tramonto e segnava la fine di ogni attività lavorativa o pubblica. IV sec. d.C. da Daphne (Turchia). Antakya, Museo Archeologico.

[1] Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrunt[1], adeo ut exceptis admodum paucis[2] ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et inprudens uulgus ingemuit: clarorum quoque uirorum hic adfectus querellas euocauit. Inde illa maximi medicorum[3] exclamatio est, «uitam breuem esse, longam artem»[4]; [2] inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis[5] est: «aetatis illam animalibus tantum indulsisse[6] ut quina aut dena[7] saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare[8]».

[3] Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus[9]. Satis longa uita[10] et in maximarum rerum consummationem[11] large data est, si tota bene conlocaretur[12]; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit[13], ubi nulli bonae rei[14] inpenditur, ultima demum necessitate cogente[15] quam ire non intelleximus transisse sentimus[16]. [4] Ita est: non accipimus breuem uitam sed facimus nec inopes eius sed prodigi sumus[17]. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur[18], at quamuis modicae, si bono custodi[19] traditae sunt, usu crescunt[20], ita aetas nostra bene disponenti multum patet[21].

***

[1] La maggior parte dei mortali, Paolino, si lamenta per la malignità della natura, perché siamo messi al mondo per un breve spazio di tempo, perché questo lasso a noi concesso trascorre così velocemente, così in fretta che, tranne pochissime persone, la vita pianta in asso gli altri proprio nel momento in cui si preparano alla vita. Né di tale comune calamità, come credono, si è lamentata solo la gente e il popolo ignorante; questo sentimento ha suscitato le lamentele anche dei personaggi illustri. Da qui deriva la famosa sentenza del più grande fra i medici: «La vita è breve, l’arte lunga»; [2] di qui la controversia, poco decorosa per un saggio, di Aristotele, che si mette a discutere con la natura: «Ha concesso agli animali tanto tempo, che possono vivere ciascuno cinque o dieci generazioni, mentre un termine tanto più breve è stato riservato per l’uomo, nato per azioni tanto numerose e grandi».

[3] Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle imprese più grandi, se fosse messa a frutto tutta intera con attenzione; ma quando essa scivola via nel lusso e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, una volta che l’ora estrema ci incalza, ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando. [4] Già: non riceviamo una vita breve, ma breve l’abbiamo resa noi, e non ne siamo poveri, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, venute in mano a un cattivo padrone, sono dissipate in un attimo, mentre, benché modeste, se sono state affidate a un buon amministratore, crescono con l’impiego, così la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare.

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Un breve dialogo d’occasione

Secondo la maggior parte degli studiosi, il De brevitate vitae fu composto nel 49 d.C., poco dopo il ritorno dall’esilio, quando a Seneca non era ancora giunta la chiamata a corte come precettore di Nerone. Il libello, assai breve (20 capitoletti), pare inserirsi nella scia delle numerosi opere filosofiche che, a partire dall’inizio dell’Ellenismo, riflettevano su come utilizzare positivamente il tempo della vecchiaia e che prendevano di solito le mosse da considerazioni sulla brevità della vita umana: nella letteratura latina, per esempio, sullo stesso tema si legge il Cato Maior de senectute di Cicerone. L’apparente garbato manierismo dell’opera senecana viene però smentito dal fatto che, sviluppando la tesi iniziale, il filosofo giunge, nei capitoli centrali dell’opera, a conclusioni sul valore del tempo assai importanti, che sarebbero rimasti fondamentali nel suo pensiero.

La scelta dell’argomento dipende probabilmente dall’occasione in cui l’opuscolo fu redatto: Seneca, sulla soglia dei cinquant’anni, risolte le travagliate vicende che lo avevano portato in esilio, forse pensava di ritirarsi a vita privata, come il dedicatario Pompeo Paolino, suo suocero, di poco più anziano di lui; è probabile, infatti, che anche Paolino proprio allora intendesse lasciare il delicato – e lucroso – incarico di prefetto dell’annona (l’ufficio incaricato di rifornire l’Urbe delle derrate necessarie alle distribuzioni di olio, vino e frumento alla plebe).

Una brillante conferenza

L’andamento del De brevitate vitae sembra richiamare le caratteristiche dei testi che gli oratori predisponevano per le recitazioni: vere e proprie conferenze, spesso tenute in ambito privato. In questo testo, infatti, si può riconoscere una veste retorica abilmente studiata, che si muove su due piani, quello stilistico e quello concettuale.

A livello stilistico, sono particolarmente curate la scelta e la disposizione delle parole. Anche solo soffermandoci sull’esordio, si notano espressioni di tono epico, come il sostantivo mortalium per «uomini» (I 1) e le perifrasi exiguum aeui e dati… temporis spatia, ma anche le insistenze su termini affini etimologicamente (decurrant e destituat, conqueritur e querellas, malignitate e malo) o semanticamente (aeui e temporibus). La letterarietà del passo è evidente anche nel richiamo all’incipit del Bellum Iugurthinum di Sallustio (Falso queritur de natura sua genus humanum, quod inbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur, Jug. 1). Particolarmente cara a Seneca è anche l’abitudine di evitare parallelismi troppo evidenti, variando un elemento del costrutto, come si evidenzia nell’alternanza di indicativo e di congiuntivo nelle due brevi causali iniziali (gignimur… decurrant, con variatio anche della persona). Infine, si può notare l’antitesi brevem / longam (1, 1) messa in evidenza dal chiasmo vitam brevem… longam artem, assente nell’originale greco di Ippocrate, Aph. 1, 1: ὁ βίος βραχὺς, ἡ δὲ τέχνη μακρὴ.

Argomentare per induzione

Dal punto di vista concettuale, si può notare che il testo, proprio perché probabilmente pensato per un’agile conferenza, non si sviluppa mediante argomentazioni rigorosamente fondate sul processo logico deduttivo, ossia non procede per sillogismi con la deduzione di verità particolari da assunti generali: Seneca sceglie di agire più sulla sfera emotiva che su quella razionale dell’ascoltatore. Dopo aver evidenziato la tesi con un’icastica sententia (procedimento frequente nelle sue opere) a 1, 3 (Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus), l’oratore “martella” l’ascoltatore replicando il concetto con leggere variazioni (Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, 1, 3; non accipimus brevem vitam sed fecimus, 1, 4).

Le sententiae hanno tutte una natura vagamente paradossale, ne senso che sembrano in contrasto con quella che potrebbe essere l’opinione comune. L’uso di paradossi, oltre a essere caratteristico della scuola stoica e richiamare il modo di argomentare di Socrate (del quale, per esempio, è assai nota l’affermazione di «sapere di non sapere»), è un modo per incuriosire l’ascoltatore. L’esordio stesso, con la confutazione di una massima di Aristotele, filosofo di indubbia autorevolezza, ha il sapere di una sfida all’ascoltatore. L’argomentazione vera e propria è affidata a un esempio (Sicut… patet, 1, 4), in modo che l’ascoltatore ricavi intuitivamente da un caso particolare una verità generale, con metodo opposto rispetto a quello sillogistico. La similitudine è tratta dall’ambito finanziario, forse per catturare meglio l’interesse di Paolino, persona che nella propria vita professionale si era occupata di finanza.

Anche nel resto dell’opera la validità della tesi sarà sostenuta da numerosi esempi, da imitare o da respingere.

L’essere e il tempo

Il tema del tempo in Seneca percorre molte pagine della sua opera, dai dialoghi alle Epistulae ad Lucilium, in cui significativamente viene trattato già nella prima lettera. Ma «il tempo in Seneca non è mai puro oggetto di speculazione, come sarà in Agostino; è il tempo vissuto nell’ansia della sua fugacità» (A. Traina). Da qui il bisogno di riconquistarlo all’insegna della qualità. Quando abbiamo qualcosa in quantità ridotta rispetto a quello che desidereremmo, ecco che scatta il desiderio di possederlo almeno al meglio. Così Seneca sia nel De brevitate vitae, opera tutta incentrata sulla durata della vita umana e l’uso che ne fa l’individuo, sia in numerose lettere ribadisce più volte che la vita non è breve, come per lo più si afferma, ma tale appare perché se ne fa un cattivo uso (de brev., 1, 4); che bisogna rimpossessarsi del tempo che ci viene portato via perché è l’unica cosa che veramente ci appartiene (Ep. ad Luc. I, 1); che bisogna vivere il presente e nel presente perché è l’unico tempo su cui si può contare per cercare di raggiungere la perfezione morale, fine ultimo del sapiens, per il quale, unico, la vita è abbastanza lunga. Una valutazione qualitativa del tempo, dunque, che esclude passato e futuro che non ci appartengono se non come «dimensioni psichiche», un invito alla vita interiore.

***

Note

[1]quod gignimur, quod decurrunt: i due quod individuano due proposizioni causali; la prima ha l’indicativo ed esprime oggettività, mentre la seconda ha il congiuntivo ed esprime la valutazione soggettiva dei parlanti (cong. obliquo). haecspatia: questo iperbato ne contiene a sua volta un altro, dati… temporis.

[2] exceptispaucis: ablativo assoluto con valore temporale.

[3] Si tratta di Ippocrate di Cos (460-377 a.C. ca.).

[4] È la traduzione latina di una massima attribuita a Ippocrate (Aforismi 1, 1), il cui significato probabilmente è che non è sufficiente lo spazio di una vita, ma è necessario il lavoro di generazioni, per conoscere i segreti dell’arte medica.

[5] inde Aristotelislis: il soggetto è lis, che ha come participio congiunto conveniens, completato dal dativo sapienti viro (participio e sostantivo); exigentis è participio congiunto con Aristotelis, complemento di specificazione del soggetto.

[6] aetatisindulsisse: la proposizione infinitiva sottintende un verbo di dire che la introduce; illam è la «natura», soggetto dell’infinitiva; indulsisse ha sia il complemento oggetto (tantum da unire a aetatis, genitivo partitivo), sia il complemento di termine, animalibus.

[7] quinadena: aggettivi numerali distributivi.

[8] hoministare: proposizione infinitiva unita alla precedente mediante asindeto avversativo; genito è participio attributivo del complemento di vantaggio homini; il soggetto dell’infinitiva è terminum, lett. «cippo miliare», che allude metaforicamente alla vita come strada da percorrere. Non è noto se la massima attribuita ad Aristotele risalga proprio a quest’ultimo: da Cicerone (Tusc. III 69), infatti, è attribuita a Teofrasto (371-287 a.C.), successore del filosofo nella direzione della scuola peripatetica.

[9] Non exiguum perdimus: in questa frase è compendiato tutto il pensiero di Seneca riguardo il rapporto che ha l’uomo (non così sapiens) con il tempo della vita, pensiero che trova la sua espressione nello schema compositivo, frequente nei suoi scritti, non… sed; exiguum… multum: reggono entrambi il genitivo di qualità temporis. La contrapposizione fra la prima e la seconda parte della frase continua a livello semantico; perdidimus è perfetto (da perdo, -is, perdidi, perditum, –ere che indica il «perdere inutilmente con il proprio fare») risultativo: «Seneca guarda al passato da un presente già compromesso» (Traina).

[10] Satis longa vita: è la risposta dell’autore a quanti affermano, lamentandosene, che la vita è breve.

[11] in maximarum consummationem: «per il compimento…»; consummare è composto da cum + summare (da summa), cioè «fare la somma».

[12] data estconlocaretur: periodo ipotetico misto in cui la protasi, di I tipo (obiettività), dice ciò che effettivamente la natura dà all’uomo (una vita abbastanza lunga), l’apodosi, di III tipo (irrealtà), ciò che l’uomo non fa (cioè non la fa fruttare); il verbo conlocaretur è qui usato nel senso tecnico di «mettere a frutto», proprio del lessico finanziario. Spesso nelle sue opere, Seneca parla del tempo attraverso metafore tratte dal campo della finanza: il tempo è un «capitale» che può essere «messo a frutto» o dilapidato; ciascuno è «amministratore» del proprio tempo.

[13] per luxumdiffluit: «scivola via nel lusso e nell’indifferenza»; diffluo (composto di dis + fluo) indica «lo scorrere in diverse parti» e di conseguenza il perdersi in mille rivoli; per con accusativo ha valore strumentale.

[14] nulli bonae rei: dativo di fine.

[15] ultima cogente: ablativo assoluto; con ultima necessitas Seneca vuole indicare eufemisticamente la morte.

[16] quam sentimus: «ci accorgiamo che è trascorsa quella che non abbiamo capito che stava passando»; la contrapposizione fra i sinonimi intellegere / sentire affida la comprensione la prima all’intelletto, la seconda ai sensi, come l’antitesi fra ire / transisse è soprattutto nel valore temporale.

[17] non accipimussumus: con lo stesso movimento antitetico Seneca esprime il concetto del non habemus… sed perdidimus; uguale è anche la contrapposizione temporale presente/passato dei verbi. nec inopessumus: Seneca sottolinea con vigore il concetto riprendendolo e in tal modo rinforzandolo.

[18] momento dissipantur: «sono dissipate in un attimo»; dissipare (da dis + spargo), il cui significato etimologico è «spargere qua e là», viene usato, conservandone l’immagine, come termine proprio, riferito a sostanze e patrimoni.

[19] bono custodi: buon custode delle ricchezze, quindi «buon amministratore».

[20] usu crescunt è contrapposto a momento dissipantur.

[21] aetas nostra… patet: «la nostra vita molto si estende, per chi la sa bene organizzare»; in aetatem disponere c’è l’idea del disporre in ordine, distribuire il tempo.

T. Lucrezio Caro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 135-151 = Id., E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 518-531.

1. Il poeta dell’Epicureismo

Tito Lucrezio Caro è, insieme a Catullo, il più grande poeta dell’età di Cesare – un periodo in cui predomina la prosa – e l’unico la cui opera ci sia giunta per intero. Il suo lungo poema in sei libri, De rerum natura [Sulla natura delle cose], espone la filosofia di Epicuro con rigore, ma anche con coraggio, perché le teorie dell’Epicureismo erano sempre state guardate con sospetto a Roma.

Ma il poema di Lucrezio non è un arido manuale di filosofia. È soprattutto una grande opera di poesia, dall’ispirazione possente e dallo stile personalissimo, che trasuda l’entusiasmo dell’autore per la sua missione di divulgazione. Un’opera tanto più interessante perché, come accade per Catullo, ignora deliberatamente i terribili sconvolgimenti e le violenze che segnarono la politica romana del I secolo a.C. per concentrarsi sulla contemplazione intellettuale e sulla poesia.

2. Una biografia con molte incertezze

La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di san Girolamo (circa 347-420), che è una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio, con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di Svetonio:

Nasce il poeta Tito Lucrezio. Costui in seguito, indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia, libri che furono poi riveduti da Cicerone, si uccise di propria mano a 43 anni di età[1].

Alcuni manoscritti di Girolamo collocano questa notizia della nascita nel 96, altri nel 94 a.C.; la data di morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51 a.C.

Ma questa non è l’unica difficoltà. Il grammatico Elio Donato (IV secolo) così scrive nella sua Vita Vergilii:

A Cremona Virgilio trascorse i primi anni fino alla toga virile, che assunse al compimento del diciassettesimo anno, sotto quei medesimi consoli sotto i quali era pure nato: avvenne che in quello stesso giorno morisse il poeta Lucrezio[2].

Ora, Virgilio compì diciassette anni nel 53 a.C.; invece, i consoli sotto i quali nacque (70 a.C.), Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, furono eletti per la seconda volta non nel 53, ma nel 55 a.C. Per accordare le due indicazioni, si è supposto che nei manoscritti si sia corrotta l’indicazione d’età di Virgilio (che avrebbe avuto quindici anni e non diciassette), e si ricava così la data del 15 ottobre 55 a.C.

Ma come accordare questa data con il 53/1 di Girolamo? È necessario ammettere che quest’ultimo abbia confuso il nome dei consoli del 94 e del 98 a.C. e collocare la nascita in quest’ultima data. Oggi 98 e 55 sono ritenute le date più verosimili, anche se permangono notevoli incertezze; si può affermare con una certa sicurezza, tuttavia, solo che il poeta nacque negli anni ‘90, e morì verso la metà degli anni ‘50 del I secolo a.C.

Nulla di concreto si può affermare sulla sua provenienza: si è pensato che fosse campano, poiché a Napoli era fiorente una scuola epicurea e perché il De rerum natura si apre con inno a Venere molto simile alla Venus fisica venerata a Pompei. Ma tanto questa ipotesi quanto quella di chi vuole il poeta nato a Roma, per via di alcuni, pochi riferimenti a luoghi precisi dell’Urbs, sono prive di basi convincenti.

Sarebbe interessante determinare la classe sociale di provenienza di Lucrezio, ma dal tono delle parole che rivolge all’aristocratico Memmio, dedicatario del poema, nel corso dell’opera, non è possibile capire se egli si collocasse sullo stesso livello o non fosse, piuttosto, un liberto; in ogni caso, è fuori discussione l’ampiezza della cultura ricevuta. Qualche notizia più approfondita su questi temi è, in verità, presente nella cosiddetta Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894, in cui si sostiene che il poeta visse «in stretta intimità» con Cicerone (da cui avrebbe accolto suggerimenti stilistici), Attico, Bruto, Cassio, cioè con le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la Vita sia un falso, composto dall’umanista Gerolamo Borgia all’inizio del Cinquecento.

Va, con ogni probabilità, respinta la notizia di san Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio come frutto della follia del poeta. Prima di san Girolamo, questa notizia della follia non si trova neppure nel cristiano Lattanzio (circa 240-320), che pure accusa metaforicamente di «delirare», e che certamente non avrebbe mancato di accennare a un elemento così importante, se solo lo avesse conosciuto.

Alcuni critici contemporanei interpretano questa follia come una depressione patologica del poeta, per spiegare – ma in modo poco convincente – il “pessimismo” lucreziano così contrario all’“ottimismo” di Epicuro, il filosofo di cui illustra le dottrine.

Busto di Lucrezio
Busto di Lucrezio

3. L’opera: il poema che traduce Epicuro

Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri (ogni libro va da un minimo di quasi 1100 versi a un massimo di quasi 1500, per un totale di 7415 esametri), forse non finito o comunque mancante dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Περί φύσεως in trentasette libri.

Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verisimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e patronus di Catullo e di Cinna. La data di composizione del poema non è sicura. Nel I libro l’autore afferma che Memmio non può sottrarsi alla cura del bene comune «in un momento difficile per la patria» (v. 41 s.); tutta la prima metà del secolo, infatti, è funestata da eventi bellici, ma si tende a pensare che il riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59 a.C., anche perché Memmio fu pretore nel 58 a.C.: non è però impossibile pensare a date anteriori.

Girolamo, nello stesso passo del Chronicon in cui riferisce le notizie biografiche su Lucrezio, asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato a opera di Cicerone. Certo è che in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54 (Ad Quintum fratrem II 9, 3), Cicerone mostra di aver già letto e apprezzato il poema: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis [«Nei poemi di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria»].

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

4. L’Epicureismo a Roma

Il poema lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’Epicureismo a Roma era stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente, che nella scelta dell’atteggiamento da tenere verso il pensiero greco era molto attenta a eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per la res publica o per il mos maiorum. Certo, non tutti mostravano la chiusa intolleranza di Catone verso la cultura ellenica; ma anche un autore come Cicerone, amante della filosofia, eresse un argine insormontabile proprio nei confronti dell’Epicureismo. Questa dottrina era considerata pericolosa, perché, da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità, distoglieva i cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dèi negli affari umani, corrodeva quella religione ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.

Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti dei filosofi Alceo e Filisco, che volevano divulgare l’Epicureismo a Roma, nel I secolo a.C. questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, era protettore di filosofi epicurei e nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove, sotto la guida di Sirone, studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali futuri poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Tito Pomponio Attico, di Cesare e del cesaricida Cassio.

Meno sappiamo sulla penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori; ma è interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tuscolanae disputationes (4, 7), ci informa del fatto che le divulgazioni dell’Epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio (età incerta; forse fine del II-inizi del I secolo a.C.) e Cazio (I secolo a.C.), circolavano presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati. In effetti, lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione, coerentemente con l’universalismo del suo messaggio.

L. Calpurnio Pisone Cesonino. Busto, bronzo, fine I sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. Il contenuto del poema

Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi), che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici (V-VI).

Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore, come dimostrano alcune ripetizioni di versi e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema: poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dèi, ma non mantiene fede alla promessa, si è pensato che proprio questi descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena – che avrebbe fatto da pendant al gioioso inno a Venere con il quale si apre – e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1569 (1483), Frontespizio del De rerum natura di Lucrezio, f. 1r.

6. Il genere letterario

Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella, prosastica, seguita da Amafinio e Cazio, perché optò per la forma del poema epico-didascalico. Questa scelta dovette destare sorpresa, perché Epicuro aveva condannato la poesia (soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca) per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli altri epicurei si erano attenuti scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento.

Nella sua scelta, Lucrezio fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. In due luoghi distinti del poema (I 136-145; IV 1-25) Lucrezio giustifica questa sua scelta, ricorrendo nel secondo caso a una celebre similitudine: come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a guarirli, così egli vuole «cospargere con il miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara.

Michael Burghers, Lucrezio. Dal frontespizio del T. Lucretius Carus, Of the Nature of Things di Thomas Creech, riprodotto nell’edizione di John Digby, London 1714.

La novità di Lucrezio | Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma ebbe modelli importanti in tutta la tradizione epico-didascalica. In particolare, Lucrezio guarda con dichiarata simpatia al Περί φύσεως di Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C., che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. Certo, Lucrezio ne respingeva l’ispirazione misticheggiante e le posizioni filosofiche, ma ne ammirava diversi elementi: l’argomento trattato, l’ardore di apostolo, l’atteggiamento profetico di rivelatori della verità, l’organizzatore del materiale e alcuni caratteri formali come l’uso dell’esametro. Questo spiega il fervido omaggio che Lucrezio gli rivolge verso la fine del I libro (vv. 716-733).

Ancora più grande è la differenza tra Lucrezio e gli altri poeti didascalici latini, sia precedenti sia successivi a lui. Infatti, questi si ricollegavano più direttamente alla tradizione ellenistica, che ricercava l’ispirazione in argomenti tecnici in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche e si limitava per lo più a descrivere fenomeni. Lucrezio, invece, ambisce non solo a descrivere, ma anche a indagare le cause e a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre, egli vuole convincere il lettore della validità della dottrina epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità una ratio sulla quale è obbligato a esprimere un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.

L’ethos (cioè l’intenzione) del genere didattico ellenistico era eminentemente encomiastico: il testo rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, Lucrezio articola spesso le proprie argomentazioni con le formule non mirandum e nec mirum: «non c’è da meravigliarsi» davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e chi abbia capito i principi delle cose e i loro concatenamenti non può rimanerne stupito. Alla “retorica del mirabile” («ammira e stupisciti, tu che ascolti») Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”, che è, di fatto, il contrario del miracoloso; e così necesse est è un’altra delle formule più frequenti nell’argomentare lucreziano.

Rembrandt van Rijn, Lo studioso al leggio. Olio su tela, 1641. Warsaw, Castello Reale.

Lucrezio e il lettore-discepolo | La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che l’autore gli propone. Così, per esempio, nel I libro: «Perciò, benché tu indugi adducendo molte obiezioni, / è inevitabile che tu ammetta l’esistenza del vuoto tra i corpi» (v. 398 s.); o nel II: «Perciò, smettila, spaventato dalla stessa novità, / di espellere dall’animo il vero, ma con più attento / giudizio valuta e, se ti appaiono verità, / cedi, o, se invece è falso, combatti» (v. 1040 ss.).

Il destinatario del messaggio – fatto direttamente responsabile – deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del “sublime” lucreziano, quegli spettacoli alti e grandiosi che ricorrono nel poema: la furia dei venti, gli universi infiniti, l’eternità del tempio passato e futuro sono spettacoli sublimi che coinvolgono il lettore spettatore e lo spronano. Il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in “eroe”, a emozionarsi a trovare in sé la forza di accettare la dottrina, anche qualora le verità proclamata dal poeta siano terribili e perfino paurose[3].

Da questo approccio discendono alcune caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Tra i procedimenti dimostrativi Lucrezio non trascura il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica, ma anche la dimostrazione per assurdo della falsità di tesi o possibili obiezioni. Uno spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto ciò che è troppo lontano o piccolo per essere osservato direttamente, come per esempio i fenomeni astronomici (libro VI) o l’esistenza degli atomi e del vuoto in cui essi si muovono (libri I e II).

Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La sua struttura complessiva è semplice. Prima c’è un’introduzione (vv. 1-93), che si apre con un inno a Epicuro. Poi, viene la trattazione vera e propria (vv. 94-829), a sua volta suddivisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, cioè composta di atomi estremamente sottili e di vuoto (vv. 94-416), poi che l’anima, in quanto materiale, è anche mortale, soggetta al ciclo di nascita e morte proprio di tutti i corpi (vv. 417-829). In quest’ultima parte Lucrezio propone ben ventinove diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, la scelta degli esempi e delle immagini creano un insieme di innegabile forza persuasiva, anche se Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Infine, nell’ultima parte (vv. 830-1094) Lucrezio dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo (vv. 933 ss.): se la vita trascorsa è stata colma di gioie ci si può ritirare come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono a ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere, perché eadem sunt omnia semper (III 945).

In questo libro è particolarmente chiaro un ultimo carattere dell’opera, il suo contatto con la letteratura diatribica. La diàtriba (letteralmente «discussione») si era sviluppata in Grecia in età ellenistica, e il rappresentante più noto ne era stato Bione di Boristene (ca. 325-255 a.C.), un filosofo viaggiatore che esponeva alla gente per strada argomenti di carattere filosofico-morale. Anche se il suo orientamento filosofico era prevalentemente cinico, Bione aveva contribuito a sviluppare una presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti spunti satirici assai vivaci e con la partecipazione di più personaggi fittizi.

Filosofo di Antikythera. Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

8. I temi del De rerum natura

La religione | Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare. Ben più empia e crudele è la religio, ovvero la religione tradizionale basata sulla paura degli dèi e quasi una «superstizione», che aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca per Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scena tra le più elaborate del poema (I 80-101), impostata su un tono volutamente molto patetico. La religio è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla e diventassero quindi insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è quindi necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa.

Si vede come già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica. Il suo messaggio fu di fatto ignorato non solo per intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché capace di mettere in discussione i fondamenti culturali, sociali e politici dello Stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione.

Se l’insistenza sui «terribili detti» (I 103) dei vates costituisce probabilmente una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco è descritto fin da subito come un nuovo Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli dèi per aiutare gli uomini), come un guerriero omerico impegnato in un duello eroico: fu il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo» (I 66)[4]. Per questo egli può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e il IV, tutti i libri dell’opera si aprono con un’appassionata celebrazione dei meriti del filosofo.

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Epicuro credeva che gli dèi fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia (la zona tra terra e cielo in cui abitavano), incuranti delle vicende della Terra e dell’uomo: a loro poteva andare la pietas dei terrestri e potevano costituire un punto di riferimento ideale. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dèi in un rapporto di dipendenza e che da essi egli potesse attendersi benefici o punizioni come da un padrone. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e «contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi» (V 1203).

Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità (vv. 1161-1240) è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi scientifiche. La loro conoscenza, invece, permette di capire, per esempio, che il fulmine o le tempeste non sono i segni di una punizione divina, anche perché colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Alcuni hanno visto a torto in questi versi quasi un cedimento di Lucrezio nei confronti di quelle paure che lui stesso tenta di combattere: sua intenzione è, invece, quella di delineare l’origine storica di un fenomeno del quale non è difficile ricostruire le cause e che, quindi, va affrontato ed eliminato.

Il corso della storia | Oltre a temi fisici (come la natura della materia e la formazione dei corpi) ed etico-morali (la religione, la paura della morte, l’amicizia, l’amore), Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione (II 1024-1174).

Tu tutta la seconda metà del libro V (vv. 772-1457) tratta invece dell’origine della vita sulla Terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della Terra. A tali fantasticherie Lucrezio oppone la saldezza delle leggi naturali della fisica epicurea, che dimostrano l’impossibilità che due esseri di natura diversa, come l’uomo e il cavallo, per esempio, si congiungono e generino un centauro: è questo uno degli insegnamenti basilari di Epicuro. È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta alcuni “sbagli” dando vita a uomini mancanti di parti vitali del corpo (V 837 ss.).

I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui avevano davvero bisogno; non per questo la loro vita era priva di pericoli, perché molti venivano sbranati dalle fiere. In seguito (vv. 1011-1457) Lucrezio tratta delle tappe del progresso umano, positive (la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura) e negative (l’origine e lo sviluppo della guerra, il sorgere del timore religioso). Spesso è stata la natura a mostrare casualmente gli uomini come agire: del metallo surriscaldato un incendio fortuito virgola e raccolto sin una buca del terreno, per esempio, può avere indicato la tecnica della fusione. La necessità di comunicare, invece, ha spinto l’uomo a creare le prime forme di linguaggio: caso i bisogni materiale sono stati fattori di avanzamento della civiltà.

Prometeo, Gaia, Aion, le stagioni e i venti. Mosaico, IV secolo, da Damasco (Siria).

È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Ovviamente, Lucrezio non poteva credere in una mitica «età dell’oro», in cui l’umanità viveva come in un paradiso terrestre dal quale il degenerare delle razze l’avrebbe irrimediabilmente allontanata, come invece sosteneva Esiodo nelle Opere e i giorni.

Lucrezio critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni naturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, ma la sua non è una visione sconsolata e pessimistica: a questi problemi l’Epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che «di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo» (II 20), cioè a evitare i desideri non naturali e non necessari, badando a soddisfare solo quelli naturali e necessari[5]. Come si vede, l’Epicureismo non era affatto quella forma di edonismo sfrenato che i suoi avversari dipingevano.

Perciò, il saggio deve allontanarsi dalle inutili ricchezze e dalle tensioni della vita, secondo il consiglio di Epicuro, λάθε βιώσας («vivi nascosto»). L’unica vera ricchezza è lo studio della natura con gli amici più fidati (come diceva Epicuro: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per a completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», Massime capitali, trad. it. G. Arrighetti). Celebre è la similitudine che apre il libro II: il saggio che vive secondo i precetti di Epicuro è come colui che, al sicuro sulla terraferma, osserva distaccato l’altrui pericolo nel mare in tempesta.

8. L’interpretazione dell’opera

Nell’interpretazione dell’opera di Lucrezio, di certo, ha avuto un peso determinante la notizia di san Girolamo sulla follia del poeta, notizia che, come abbiamo visto, è dovuta al desiderio da parte del dotto cristiano di screditare un poeta materialista. Perciò, non possono essere accettate le tesi di coloro che, confondendo l’autore con il narratore, hanno affannosamente ricercato nel De rerum natura tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, o come crisi maniaco-depressive o come generica angoscia esistenziale[6]. Anche la tesi più recente (1868) del francese Patin è dovuta all’avversione per il credo materialista del poeta: secondo Patin, infatti, per tutto il poema Lucrezio si affanna a persuadere un “anti-Lucrezio” scettico, ovvero lotta con se stesso in una specie di sdoppiamento della personalità.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, I secolo d.C. da Pompei.

Al contrario, il De rerum natura è pervaso da una tensione che può ben essere definita «illuministica», volta a convincere razionalmente il lettore e a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui l’autore crede profondamente. E se nel poema hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche e violentemente drammatiche, questo non è dovuto al fatto che Lucrezio non riesca a convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, ma a precisi motivi di contesto. Per esempio, per confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale, Lucrezio sottolinea la totale indifferenza della natura verso l’uomo con immagini forti: la “colpa” della natura è evidente nelle asperità del terreno, nelle difficoltà di lavorarlo, nella durezza del clima, nel gran numero di animali nocivi all’uomo che la Terra nutre, nelle malattie e nella morte prematura. E, quando nel finale del IV libro Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione tanto irrazionale[7]. Più in generale, alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema e radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace.

Bisogna ammettere però che a tratti in forte pessimismo sembra separare Lucrezio dalla serenità del suo maestro Epicuro. Questo problema ha un ruolo centrale in buona parte della critica, e non è facile giungere a una valutazione equilibrata che tenga conto di tutte le sfumature, dei toni qualora diversi tra una parte e l’altra del poema. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente; ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti.

Albert Bierstadt, L’incombere della tempesta nella valle. Olio su tela, 1891. Nordsee Museum Husum.

Nel III libro, per esempio, l’autore insiste sul fatto che la morte «per noi non è nulla» (nihil est ad nos neque pertinet hilum, v. 830), perché con essa la nostra sensibilità si perde del tutto. Tutto questo, però, non basta a eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba avere un termine: se la vita trascorsa è stata piacevole e nella di diverso può essere esperito in futuro, perché «tutto è sempre uguale» (v. 945), conviene allontanarsi come un convitato sazio, serenamente (aequo animo, v. 939, un’espressione tipicamente epicurea che ritroveremo in Orazio); in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Ma è proprio questa rigidità razionalistica a contrastare vivamente con la vivida descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre.

In realtà, proprio queste, che sono state considerate come contraddizioni da critici desiderosi di screditare Lucrezio, non fanno che aggiungere fascino alla sua personalità poetica: la sua insoddisfazione amara è il segno oggettivo di un interiorità tormentata, e forse i luoghi più eloquenti dell’opera sono proprio quelli in cui le contraddizioni non risolte lasciano il segno sul corpo della dottrina.

9. Lingua e stile

Il giudizio di Cicerone nella lettera al fratello Quinto, riportato sopra, testimonia che l’Arpinate ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha a lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle due affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva.

Certamente, il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione, che deriva quasi obbligatoriamente dalla mancanza nella lingua latina di un vocabolario astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a tale mancanza, deve ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi. E così un discorso di per sé intellettuale guadagna in emotività ed efficacia poetica attraverso la descrizione, ora stupita ora curiosa, di cose immense e piccolissime, distanti e vicine, statiche e dinamiche.

A queste antitesi corrisponde stilisticamente il contrasto efficace tra le movenze di una lingua colloquiale e la scelta di uno stile sublime, tra l’energia del parlato e la preziosità della dizione epico-tragica, tra la durezza e l’eleganza, tra la meraviglia e la commozione, tra il ragionamento pacato e l’invettiva profetica. Questa varietà si fonde nel registro dell’enthusiasmós poetico, posto al servizio di una missione didattica vissuta con un ardore eccezionale.

Lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, si piega al fine di persuadere il lettore. Le ripetizioni, nelle quali si è a lungo visto un segno di “immaturità” stilistica di Lucrezio, sono frequenti, ma Epicuro stesso raccomandava di riassumere alcuni concetti in brevi formule facilmente ricordabili. Così, per esempio, il principio essenziale per cui l’incessante divenire degli aggregati è possibile solo grazie al loro continuo disfacimento è ripetuto quattro volte (I 670; 792; II 753; III 519).

Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (per esempio, le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique), dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile.

Non va neppure trascurato il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove (quali semina o primordia rerum, e corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco (come homoeomerìa): è appunto in questa circostanza che egli lamenta la «povertà del vocabolario avito» (I 832: patrii sermonis egestas).

Al di fuori del lessico strettamente tecnico, Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto Ennio) gli fornisce specie nel campo degli aggettivi composti (per esempio, suaviloquens, altivolans, navigerum, frugiferens), e molti ne crea egli stesso, rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter) e perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus, sul modello omerico). Da Ennio trae le più caratteristiche forme dell’espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici. In campo grammaticale i due fenomeni sicuramente più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in -ier (più arcaico di -i), e il prevalere della desinenza bisillabica -ai nel genitivo singolare della 1^ declinazione (anziché -ae), che contribuiscono all’elevazione del tono del discorso.

L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Il moderato ricorso all’enjambement (peraltro diffuso nelle sezioni in cui si intende accentuare il pathos) annulla soprattutto nelle parti tecniche argomentative la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.

Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide; tutta la descrizione della peste di Atene nel finale dell’opera è naturalmente basata sul racconto di Tucidide. Non mancano allusioni ai poeti ellenistici: nel proemio del IV libro Lucrezio si presenta come il poeta che raggiunge per primo «gli impervi terreni delle Muse Pieridi» per attingere a una nuova fonte di poesia, riproducendo così il gesto di consapevolezza che Callimaco aveva canonizzato a inizio degli Aitia.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

10. La fortuna di Lucrezio

Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: è sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’ Epicureismo ha larga parte. Si è pensato (ma le ipotesi sono molteplici) che Cicerone abbia voluto, in tale sede, appositamente ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore. Tutto sommato, scarsa è la presenza di Lucrezio anche in altri autori di I secolo a.C., anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non mancano di riprendere alcuni aspetti e di tributargli alte lodi.

La lettura del poema continua anche nei secoli successivi, come testimoniano Seneca, Quintiliano, Stazio (cui si deve la bella definizione docti furor arduus Lucreti, in Silv. II 7, 76) e Plinio il Vecchio.

Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni, ma a partire dai secoli successivi incominciano a perdersi le tracce dell’opera. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna. Alla prima edizione a stampa (Brescia 1473) e al fiorire delle attività filologica sull’opera (studiata tra gli altri da Marullo, Avancio e soprattutto Lambino) si affianca la ripresa di interesse, da parte dei dotti dell’epoca, anche di tendenze filosofiche diverse: è il caso di Pontano e Poliziano (anche da alcune Stanze per la Giostra di quest’ultimo, ispirate alla Venere di Lucrezio Botticelli trasse spunto per la sua Primavera).

Nel Cinquecento appaiono le prime «confutazioni di Lucrezio». Si tratta di opere in versi che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare tesi sovente opposte a quelle materialiste del De rerum natura. Un celebre esempio di questa produzione è, senz’altro, l’Anti-Lucretius, sive de Deo et Natura del Cardinale di Polignac (1747).

Il filosofo francese Gassendi (1592-1655), con il suo Empirismo, riporta in auge, in pieno XVII secolo, la dottrina di Epicuro (e, naturalmente, di Lucrezio) conciliandola con la presenza di un Dio creatore. Molière ne traduce nel Misantropo il celebre passo del IV libro sui difetti delle donne; l’Illuminismo, poi, confesserà la sua ammirazione per l’arte e (non sempre) per la filosofia del poeta latino.

La prima traduzione italiana dell’opera è del dotto fiorentino Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto impostogli in patria.

Non si può affermare con certezza una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, anche se alcune tracce nei suoi testi indicano, comunque, un certo grado di conoscenza diretta (per esempio, i vv. 111-114 de La ginestra: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra al comun fato», riprendono forse I 65-66: Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra).

Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori guida che li accomunano o li separano.

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Note

[1] Suet. Poet. 16, 1 Rostagni = Hier. Euseb. 171, 1-3: Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem uersus, cum aliquot libros per interualla insaniae, conscripsisset, quos postea Cicero emendauit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

[2] Don. Vit. Verg. 6: Initia aetatis Cremonae egit usque ad uirilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, euenitque ut eodem ipso die Lucretius poeta decederet.

[3] Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia per l’autore, che costruisce il suo discorso, e una forma di percezione delle cose per il lettore, che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue leggi. Il sublime, coinvolgendo colui che è lettore del testo e, perciò spettatore della grande di emozionante descrizione lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Ecco che allora il sublime, per il destinatario, funziona anche come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un esortazione al lettore: che scelga per sé, anche lui, un modello di vita alto e forte. E tutto il De rerum natura si configura allora come un protreptikós lógos, come insegnamento che contiene insieme un drammatico consiglio: tu stesso, lettore, devi divenire quasi lo specchio di questa sublimità universale, maestosa e terribile, che io cerco di rappresentare adeguatamente in questo mio stile sublime; tu stesso devi trasformarti in un «lettore sublime», emozionarti e trovare dentro di te la forza dell’accettazione e dell’adeguamento.

[4] A parte certi diffusi accenti genericamente “prometeici” che suggeriscono nella figura di Epicuro il campione della liberazione umana, fin dall’inizio del poema (I 62-79) l’immagine del filosofo (armato di vivida vis animi e forte della ratio naturae) si modella apertamente sui tratti del guerriero omerico impegnato in un duello eroico: il rituale delle “scene di sfida”, codificate nell’Iliade, con le varie movenze che preludono allo scontro fra guerrieri (guardare il nemico negli occhi, disporsi di fronte a lui saldamente, ecc.) costituisce il modello implicito della descrizione che Lucrezio fa del suo campione impegnato contro quell’avversario temibile che è il mostro gigantesco della superstizione (mortales tollere contra / est oculos ausus, primusque obsistere contra). Segno, questo, dell’intonazione epico-eroica che Lucrezio voleva aggiungere all’ardore didascalico della sua poesia di genere sublime.

[5] Epic. 6, 33: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle [in futuro], anche con Zeus può gareggiare in felicità» (trad. Arrighetti).

[6] La confusione fra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore”, che prende la parola all’interno del poema, continua a nuocere alla lettura critica dell’opera. Le due figure non vanno sovrapposte meccanicamente: nessuno, infatti, penserebbe di far coincidere sic et simpliciter il Dante-personaggio della Commedia con l’uomo Alighieri.

[7] In questo particolare caso, avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi (Catullo) e l’orientamento della morale tradizionalista a condannare con severità gli amanti che sconsideratamente dissipavano le loro sostanze in doni e lussi (IV 1123-1124: «e intanto il patrimonio si dissolve, si trasforma in tappeti babilonesi; i doveri sono trascurati, la reputazione vacilla e soffre»).