La posizione dell’etica nel sistema aristotelico delle scienze

Aristotele. Etica Nicomachea (a cura di M. Zanatta), Introduzione, cap. I, Milano 201211, pp. 5-10.

 

1.L’etica come «scienza pratica»

 

Lisippo (attribuito), Testa di Aristotele. Copia romana del I-II secolo d.C. da un originale greco in bronzo del IV secolo a.C. Musée du Louvre.
Lisippo (attribuito), Testa di Aristotele. Copia romana del I-II secolo d.C. da un originale greco in bronzo del IV secolo a.C. Musée du Louvre.

Nella classificazione aristotelica del sapere[1] l’etica figura come «scienza pratica». In quanto «scienza» essa esprime un sapere causale, essendo esattamente questa la caratteristica della scienza. Com’è infatti esplicitamente dichiarato negli Analitici Posteriori, si ha scienza «quando si conosce la causa per la quale una cosa è, e che proprio di tale cosa è causa»[2]. In quanto «pratica» essa rivolge il sapere, vale a dire la conoscenza delle cause, non già alla pura contemplazione (tali, appunto, le scienze teoretiche: matematica, fisica e filosofia prima), né alla produzione (poíēsis – tali le scienze «poietiche», vale a dire le arti), ma alla prassi, cioè all’azione.

È opportuno caratterizzare un po’ più dettagliatamente queste istanze ed avviare dalle relative riflessioni le mosse del discorso che intende esplicitare la natura del sapere etico.

Conformemente all’impostazione realistica della sua gnoseologia[3], per Aristotele la specificità del tipo di sapere espresso da una scienza si definisce fondamentalmente in relazione all’oggetto che quella scienza studia. L’istanza si regge sul presupposto che realtà la cui definizione è diversa, essendo qualitativamente diverse, sono studiate da scienze diverse, dal momento che la scienza ha espressamente ad oggetto determinazioni qualitative del reale e mira alla conoscenza dell’essenza. Presupposto, in tutta chiarezza, di natura metafisica, sulla base del quale vengono esclusi dall’indagine scientifica in quanto tale gli aspetti quantitativi: quegli aspetti che, potendo essere i medesimi anche in realtà essenzialmente diverse, si offrirebbero  ad un tipo di conoscenza che sorvoli sulle differenze di qualità ed accomuni nel medesimo campo d’indagine realtà la cui essenza è diversa; superando così quell’impianto epistemologico per il quale ogni scienza, essendo conoscenza di essenze, ha un suo oggetto proprio, vale a dire un ambito ben definito della realtà come suo dominio.

Dire che per Aristotele la natura di ogni scienza è fondamentalmente definita dall’oggetto che essa studia, non significa che lo Stagirita nel caratterizzare il sapere tralascia di considerare quelle che potrebbero dirsi le «condizioni soggettive» del sapere stesso. Anzi, in alcuni casi – com’è per l’appunto quello dell’etica; lo vedremo ben presto – esse rivestono un’importanza decisiva in ordine non soltanto all’acquisizione della scienza, ma altresì alla qualificazione stessa della sua natura: nella misura in cui la precisazione delle qualità che si devono possedere e con le quali ci si deve disporre per poter acquisire una scienza, denota indubbiamente un requisito della scienza stessa, dunque una sua prerogativa. Ma si tratta di una prerogativa che alla scienza non appartiene «di per sé», bensì per la mediazione della disposizione del soggetto che l’acquisisce, di modo che la caratterizzazione che essa conferisce al tipo di sapere è sì reale, ma non fondamentale e primaria. Anche in quest’aspetto non è difficile riscontrare la presenza di un’istanza metafisica: non soltanto nel senso della primalità dell’oggetto e delle sue determinazioni nel processo conoscitivo, ma altresì nel senso che, in virtù di questa primalità, l’oggetto si presenta come in sé e per sé definito, indipendentemente ed anteriormente al rapporto conoscitivo con il soggetto, e si manifesta in questo come sostanza, in riferimento alla quale si struttura la conoscenza nelle sue determinazioni e nei suoi caratteri. Esattamente il contrario dell’istanza moderna, paradigmaticamente espressa dalla «rivoluzione copernicana» della Critica della Ragion Pura di Kant, in seguito alla quale l’oggetto non è un in sé, ma una costruzione del soggetto, il quale ordina secondo strutture a priori un caos di modificazioni empiriche.

Un esempio particolarmente eloquente di quanto abbiano detto è offerto dalle motivazioni che Aristotele adduce a sostegno dell’istanza che la filosofia prima è scienza divina. «Una scienza» precisa lo Stagirita «può essere divina solo in questi due sensi: o perché essa è scienza che il Dio possiede in grado supremo, o, anche, perché essa ha come oggetto le realtà divine. Ora, soltanto la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio e, anche, che il Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza»[4]. La sapienza, asserisce la tesi del libro I della Metafisica, è scienza delle cause e dei principi primi. Ma il Dio, il Motore Immobile, è causa e principio primo. La filosofia prima – la sapienza – ha dunque per oggetto il Dio e per questo è divina: perché, appunto, tale è il suo oggetto. Ma d’altro canto un sapere che conosce la ragione suprema del tutto – tale la portata della causa prima – e che per questo è «perfetto», vale a dire tocca la compiutezza, non può che essere posseduto da un essere perfetto: soltanto questo ente, infatti, adegua con la sua natura la natura di quella conoscenza ed è costitutivamente in grado di accogliere nella compiutezza della sua realtà un conoscere che sa compiutamente il tutto. Il che significa che la condizione per poter possedere – o, meglio, per poter possedere in modo del tutto e per tutto adeguato, dunque in modo supremo – la sapienza è quella perfezione che è propria del Dio, e per questo la sapienza è divina.

Nel libro XII della Metafisica Aristotele ribadisce paradigmaticamente l’istanza asserendo che quell’attività contemplativa della quale l’uomo partecipa imperfettamente per un tempo limitato, definisce invece la condizione e l’esistenza stessa del Motore Immobile[5]; e nel libro X dell’Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che in tanto all’uomo è dato di partecipare in qualche modo dell’attività contemplativa che è propria del Dio, in quanto in lui alberga il noûs, che è elemento divino[6].

Queste precisazioni, specificate più dettagliatamente dall’esempio qui sopra analizzato, comportano che l’individuazione di quel tipo di sapere che è l’etica richiede necessariamente che se ne precisi l’oggetto e se ne indichino le «condizioni soggettive».

Quale sia il genere di realtà che riguarda l’etica, Aristotele precisa nel VI libro dell’Etica Nicomachea. Vi sono delle realtà che «non possono essere diversamente da quelle che sono»[7], la cui modalità di esistenza è la necessità[8]; il loro stesso essere è causato da necessità (la necessità assoluta, distinta dallo Stagirita dalla necessità ipotetica, che costituisce invece il regno della phýsis), giacché sono o divengono secondo scansioni costanti. Comprese in questo genere di realtà sono innanzitutto il Motore Immobile, indi gli astri, in terzo luogo i fenomeni costanti, quali il levarsi ed il tramontare del Sole e delle stelle, i solstizi, gli equinozi, ecc. Questo genere di realtà non attiene, in tutta chiarezza, all’etica, in quanto non è oggetto di azione e non ammette alcuna possibilità di operare: istanze, queste, che definiscono invece il dominio della moralità.

L’etica ha invece per oggetto «realtà che possono essere diversamente da quello che sono»[9], la cui modalità di esistenza non è la necessità (la necessità assoluta), bensì la contingenza e possono «sia essere che non essere»[10]. Lo Stagirita annovera in questo genere di realtà gli enti naturali (tà katà phýsin), gli enti che sono oggetto di produzione (tà poiētiká) e quelli che sono oggetto di azione (tà praktá)[11]. I primi costituiscono il regno della natura, che è altresì la loro causa, e sono appunto soggetti a «necessità ipotetica»; i secondi rientrano nel dominio della produzione e dell’arte, che ne è la causa. Né gli uni né gli altri riguardano l’etica, che concerne invece il terzo genere di enti, quelli che sono oggetto d’azione e sono realizzati nella prassi.

Sia l’azione che la produzione implicano un sapere, ed in entrambi i casi il sapere non è fine a se stesso, ma è finalizzato al fare. Ancora, sia il fare della produzione che quello dell’azione hanno il loro principio nel soggetto che opera, ma il primo tende ad un fine estrinseco all’agente e da lui separato – la produzione, appunto, dell’oggetto –, laddove il fine dell’agire è intrinseco ed indistinguibile dall’agente, e l’azione è perciò atto autotelico[12].

Ecco dunque precisarsi dal punto di vista oggettivo la natura dell’etica come «scienza pratica», accanto alle scienze poietiche, che attengono alla produzione, ed alle scienze teoretiche, che concernono il puro contemplare. «Scienza» in quanto, appunto, essa implica un sapere, e «pratica» in quanto tale sapere ha per fine l’agire. In questo senso l’etica è «scienza dell’agire». Questo infatti, come abbiamo detto, comporta un sapere, giacché per operare è necessario conoscere quel che si vuole raggiungere; ma si tratta di un sapere che spinge all’azione, dunque di un sapere pratico.

E poiché la scienza per Aristotele è costitutivamente un sapere causale, l’etica studia le determinazioni in virtù delle quali l’azione si produce.

Questa caratterizzazione dell’etica non è però sufficiente ed esige ulteriori precisazioni. Dire infatti che essa studia le determinazioni in virtù delle quali si produce l’azione, potrebbe dar luogo all’equivoco di credere che l’etica per Aristotele sia di natura descrittiva, nel senso che si limiti a spiegare quali sono i fattori che intervengono nell’azione e ad indicare il loro apporto in ordine alla produzione dell’azione medesima, laddove è risaputo – e comunque corrisponde ad una precisa istanza del pensiero di Aristotele – che nel discorso morale interviene, ed in modo massiccio e decisivo, la dimensione normativa, in virtù della quale si pone una discriminante assiologica nell’agire e l’etica non si limita a spiegare come si produce l’azione, ma dice necessariamente  qual è l’azione moralmente positiva e quali sono i fattori  che concorrono al suo effettuarsi. Vedremo a suo tempo in che termini si calibra il discorso aristotelico a riguardo, ma già fin d’ora – in sede di qualificazione dell’etica come scienza pratica – va detto che la dimensione deontologica e normativa non si aggiunge al discorso «causale» sul prodursi dell’azione morale, ma scaturisce da esso e si pone come il momento della compiutezza e della perfezione stessa dell’atto. Ché l’atto sarà adeguato a sé medesimo, vale a dire alla natura ed alla finalità delle determinazioni che lo pongono, se nel suo esplicarsi porta a realizzazione la natura e la finalità di quelle determinazioni stesse. In questa realizzazione consiste propriamente il momento eticamente positivo dell’atto, vale a dire la sua «bontà». L’etica dunque, come «scienza pratica», ha da studiare le determinazioni in virtù delle quali l’azione si produce nella piena esplicazione di quelle determinazioni stesse, vale a dire in modo tale da realizzare nella loro specifica natura e funzione le determinazioni dalle quali procede.

E poiché queste determinazioni sono facoltà umane, ne consegue che la positività morale dell’atto nasce dalla sua capacità di realizzare la natura e la funzione dell’uomo, e l’etica si specifica esattamente quella «scienza», vale a dire quel sapere causale, che indica e pone in atto quelle determinazioni in virtù delle quali l’uomo nell’agire realizza la sua natura e la sua finalità. O – il che è lo stesso – si pone come la conoscenza delle determinazioni conformemente alle quali l’uomo agisce in modo da realizzare la sua natura.

 

 

Bassorilievo con l'assemblea degli dèi. Marmo, 530-525 a.C. ca. dal Tesoro dei Sifni. Museo Archeologico di Delfi.
Bassorilievo con l’assemblea degli dèi. Marmo, 530-525 a.C. ca. dal Tesoro dei Sifni. Museo Archeologico di Delfi.

2.Etica e politica

 

Nell’ambito delle scienze pratiche Aristotele annovera anche la politica e a più riprese nel corso della trattazione dell’Etica Nicomachea afferma che l’etica stessa convergenza in essa. Il punto è di estrema importanza e merita di essere ben sottolineato.

In I 1 lo Stagirita, dopo aver asserito che è il bene umano supremo, il quale costituisce l’oggetto dello studio dell’etica, è il fine «che vogliamo di per se stesso»[13], mentre «le altre cose vogliamo a causa di questo», così argomenta:

Tutti converranno che esso è oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado, e tale è la politica. Questa infatti dispone quali scienze sono necessarie nella città e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere e fino a che punto. E vediamo che anche le più stimate delle potenze le sono subordinate, ad esempio la strategia, l’economia, la retorica. E poiché la politica si serve delle altre scienze pratiche ed inoltre è legislatrice di che cosa bisogna fare e da quelli delle altre scienze. Di conseguenza, sarà il bene propriamente umano[14].

L’oggetto dell’etica – il bene propriamente umano, vale a dire quel fine delle cose che sono oggetto d’azione che vogliamo di per se stesso – coincide dunque con l’oggetto della politica. Di modo che la trattazione stessa dell’etica può dirsi una «trattazione di politica» («A queste cose» scrive espressamente Aristotele «tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica»[15]). Infatti precisa lo Stagirita:

Il bene è amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino quando concerne un popolo o delle città[16].

Queste istanze hanno dato luogo ad esegesi diverse. Da una parte infatti si è interpretata questa convergenza di etica e di politica come una vera e propria subordinazione della prima alla seconda, nel senso che il fine dell’etica, cioè il bene dell’individuo, non soltanto converge, ma è finalizzato al bene dello Stato, e quindi è subordinato ad esso. È per esempio l’esegesi di Aspasio.

Ma dal confronto con altri passi una tale calibrazione della «convergenza» dell’etica con la politica appare non soddisfacente. In VII 12 si dice ad esempio:

Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica. Questi infatti è architetto del fine, volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto[17].

Non è dunque al politico nel senso corrente del termine, vale a dire a chi gestisce gli affari della città nell’uso e nella pratica corrente dell’azione politica, che compete di pronunciarsi sul valore morale del piacere, ma a chi si occupa «filosoficamente» di politica. La politica tout court va perciò distinta da un’altra forma di politica: una forma che non ha di mira la prassi nella sua dinamica effettuale, bensì la determinazione del fine, vale a dire del bene supremo dell’uomo, in riferimento al quale si specifica il valore morale di ogni azione. Ed in questo senso essa è «architettonica», vale a dire «direttiva», rispetto ad ogni altra disciplina che si occupa delle cose dell’uomo. Ora, lo studio del bene umano supremo, vale a dire del fine ultimo realizzabile dall’uomo, costituisce il compito e l’oggetto dell’etica. Ecco allora che l’etica stessa coincide con quella forma di «politica studiata filosoficamente», distinta dalla politica simpliciter: in modo tale che, mentre per un verso si autentica la distinzione dei due piani o livelli della politica, si mostra per l’altro l’inadeguatezza di pensare ad una subordinazione dell’etica ad una disciplina superiore. Ed in questo senso si chiarisce la portata della «convergenza» di cui abbiamo detto. A riguardo si sono espressi molto opportunamente Gauthier e Jolif: «All’interno della stessa vera politica[18] Aristotele (…) ha distinto due piani: quello della scienza universale e quello della pratica corrente. Sul piano della scienza universale si colloca la politica architettonica che è la nomotetica, la cui funzione è di fissare le norme generali delle azioni e il fine da raggiungere; sul piano della pratica corrente si collocano la politica nel senso usuale del termine, il cui oggetto è il governo quotidiano della città, l’economia domestica, il cui oggetto è il governo di se stessi. Non vi è dubbio che, nel quadro di questa divisione del sapere pratico, è la politica architettonica, vale a dire la nomotetica, che Aristotele intende identificare con la morale. Ma Aristotele si è mantenuto saldo a questa concezione? Si rileverà che essa rende malamente conto della distinzione tra la morale e la politica che da questo momento egli professa, giacché la politica è, essa stessa, una nomotetica piuttosto che un’arte della pratica politica. L’ultimo capitolo dell’Etica Nicomachea sembra invitarci ad una soluzione più soddisfacente: mentre l’etica, fissando il bene supremo che costituisce il fine dell’uomo, stabilisce la legge morale, la politica fa di questa legge morale una legge dello Stato. Esso le assicura la forza di coercizione che le è necessaria. La nomotetica stessa si divide dunque in due parti ben distinte: che corrispondono esattamente a quelle che sono l’etica e la politica aristoteliche»[19]. E sulla base di questa distinzione gli studiosi possono ulteriormente precisare la natura del rapporto tra l’etica e la politica in Aristotele chiarendo il senso del rapporto che intercorre tra il bene dell’individuo e quello dello Stato. «L’oggetto della morale» essi scrivono «è il bene supremo dell’individuo; ma, ancorché essa possa, a rigor di termini, accontentarsi di assicurare questo bene ad un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo, o, più esattamente – ma questo non fa nessuna differenza – che la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte del termine, la politica architettonica che detta alla città il suo fine. In altri termini: la vera politica è la morale»[20].

Queste istanze permettono di asserire che il rapporto tra etica e politica non si configura affatto nei termini di una «subordinazione» della prima alla seconda, ma, tutt’al contrario, nei termini di una puntualizzazione da parte della seconda del fine che la prima ha da perseguire, così come – rilevano Gauthier e Jolif[21] – ben lungi dal «subordinare l’individuo alla società», Aristotele subordina invece «la società all’individuo, i cui fini questa persegue». L’autore dei Magna Moralia ha ben colto il punto scrivendo che l’etica è méros kaì archḗ tēs politikḗs[22], dove kaì costituisce un’endiadi e l’espressione indica che l’etica è «la parte principale della politica». «Parte» perché, come abbiamo visto, l’etica non esaurisce la nomotetica, vale a dire la politica in senso vero, come scienza architettonica, ma ne specifica un ambito. Ma d’altro canto ne è la parte «fondamentale», perché è quella nella quale si determina il fine da realizzare.

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Note

[1] Cfr. Metaf. VI 1, 1025 b 3 sgg.

[2] Anal. Post. I 2, 71 b 9-12.

[3] A riguardo si veda ad es. V. La Via, Il problema della formazione della filosofia e l’oggettivismo antico, Roma 1940.

[4] Metaf. I 2, 983 a 5 sgg.: τοιαύτη δὲ διχῶς ἂν εἴη μόνη· ἥν τε γὰρ μάλιστ᾽ἂν ὁ θεὸς ἔχοι, θεία τῶν ἐπιστημῶν ἐστί, κἂν εἴ τις τῶν θείων εἴη. μόνη δ᾽ αὕτη τούτων ἀμφοτέρων τετύχηκεν· ὅ τε γὰρ θεὸς δοκεῖ τῶν αἰτίων πᾶσιν εἶναι καὶ ἀρχή τις, καὶ τὴν τοιαύτην ἢ μόνος ἢ μάλιστ᾽ἂν ἔχοι ὁ θεός.

[5] Cfr. Metaf. XII 7, 1072 b 14-18: ἐκ τοιαύτης ἄρα ἀρχῆς ἤρτηται ὁ οὐρανὸς καὶ ἡ φύσις. διαγωγὴ δ᾽ἐστὶν οἵα ἡ ἀρίστη μικρὸν χρόνον ἡμῖν οὕτω γὰρ ἀεὶ ἐκεῖνο· ἡμῖν μὲν γὰρ ἀδύνατον, ἐπεὶ καὶ ἡδονὴ ἡ ἐνέργεια τούτου  καὶ διὰ τοῦτο ἐγρήγορσις αἴσθησις νόησις ἥδιστον, ἐλπίδες δὲ καὶ μνῆμαι διὰ ταῦτα.

«Da un tale Principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato Egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a Lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto, e, in virtù di questi, anche speranze e ricordi» – trad. it. G. Reale.

[6] Cfr. Eth. Nic. X 7, 1177 b 26 sgg.: οὐ γὰρ ᾗ ἄνθρωπός ἐστιν οὕτω βιώσεται, ἀλλ᾽ ᾗ θεῖόν τι ἐν αὐτῷ ὑπάρχει· ὅσον δὲ διαφέρει τοῦτο τοῦ συνθέτου, τοσοῦτον καὶ ἡ ἐνέργεια τῆς κατὰ τὴν ἄλλην ἀρετήν. εἰ δὴ θεῖον ὁ νοῦς πρὸς τὸν ἄνθρωπον, καὶ ὁ κατὰ τοῦτον βίος θεῖος πρὸς τὸν ἀνθρώπινον βίον.

«Infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino. E di quanto questo eccelle sul composto, di tanto anche la sua attività eccelle su quella secondo l’altra specie di virtù. Di conseguenza, se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo» – tr. it. M. Zanatta.

[7] Eth. Nic. VI, 1139 b 20: πάντες γὰρ ὑπολαμβάνομεν, ὃ ἐπιστάμεθα, μηδ᾽ ἐνδέχεσθαι ἄλλως ἔχειν· τὰ δ᾽ ἐνδεχόμενα ἄλλως, ὅταν ἔξω τοῦ θεωρεῖν γένηται, λανθάνει εἰ ἔστιν ἢ μή. ἐξ ἀνάγκης ἄρα ἐστὶ τὸ ἐπιστητόν. ἀίδιον ἄρα· τὰ γὰρ ἐξ ἀνάγκης ὄντα ἁπλῶς πάντα ἀίδια, τὰ δ᾽ ἀίδια ἀγένητα καὶ ἄφθαρτα.

«Tutti ammettiamo che ciò che conosciamo per scienza non può essere diversamente da quello che è. Invece le cose che possono essere altrimenti da quel che sono, una volta uscite dalla conoscenza non sappiamo se esistono o no. Pertanto ciò che è oggetto di scienza esiste necessariamente. Di conseguenza è eterno: infatti, gli enti che sono di necessità assoluta sono tutti eterni, e gli enti eterni sono ingenerati e incorruttibili» – tr. it. M. Zanatta.

[8] Cfr. Ibid., 1139 b 23.

[9] Eth. Nic. VI, 1140 a 1: τοῦ δ᾽ ἐνδεχομένου ἄλλως ἔχειν ἔστι τι καὶ ποιητὸν καὶ πρακτόν.

«Ciò che invece può essere altrimenti da quello che è, è oggetto tanto della produzione che dell’azione» – tr. it. M. Zanatta.

[10] Ibid., 1140 a 13: τι […] καὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι.

[11] Cfr. Ibid., 1140 a 2.

[12] Sulla differenza tra azione e produzione cfr. Eth. Nic. VI, 4.

[13] Eth. Nic. I 1, 1094 a 17 sgg: ὃ δι᾽αὑτὸ βουλόμεθα.

[14] Eth. Nic. I 1, 1094 a 27 sgg: δόξειε δ᾽ ἂν τῆς κυριωτάτης καὶ μάλιστα ἀρχιτεκτονικῆς. τοιαύτη δ᾽ ἡ πολιτικὴ φαίνεται· τίνας γὰρ εἶναι χρεὼν τῶν ἐπιστημῶν ἐν ταῖς πόλεσι, καὶ ποίας ἑκάστους μανθάνειν καὶ μέχρι τίνος, αὕτη διατάσσει· ὁρῶμεν δὲ καὶ τὰς ἐντιμοτάτας τῶν δυνάμεων ὑπὸ ταύτην οὔσας, οἷον στρατηγικὴν οἰκονομικὴν ῥητορικήν: χρωμένης δὲ ταύτης ταῖς λοιπαῖς πρακτικαῖς τῶν ἐπιστημῶν, ἔτι δὲ νομοθετούσης τί δεῖ πράττειν καὶ τίνων ἀπέχεσθαι, τὸ ταύτης τέλος περιέχοι ἂν τὰ τῶν ἄλλων, ὥστε τοῦτ᾽ ἂν εἴη τἀνθρώπινον ἀγαθόν.

[15] Ibid., 1094 b 11: ἡ μὲν οὖν μέθοδος τούτων ἐφίεται, πολιτική τις οὖσα.

[16] Ibid., 1094 b 10: ἀγαπητὸν μὲν γὰρ καὶ ἑνὶ μόνῳ, κάλλιον δὲ καὶ θειότερον ἔθνει καὶ πόλεσιν.

[17] Eth. Nic. VII 12, 1152 b 1-3: περὶ δὲ ἡδονῆς καὶ λύπης θεωρῆσαι τοῦ τὴν πολιτικὴν φιλοσοφοῦντος· οὗτος γὰρ τοῦ τέλους ἀρχιτέκτων, πρὸς ὃ βλέποντες ἕκαστον τὸ μὲν κακὸν τὸ δ᾽ ἀγαθὸν ἁπλῶς λέγομεν.

[18] Ossia della politica in senso architettonico.

[19] R.-A. Gauthier – J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, II, 1, Paris-Louvain 1970, p. 11.

[20] Ibid.

[21] Ibid.

[22] Magna Moralia I 1, 1181 b 3.