La morte del passerotto (Catull. Carm. III)

di A. BALESTRA et al., In partes tres. v. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Bologna 2016, pp. 338-340.

Questo carme si presenta come un epicedio, ovvero come un lamento funebre per la morte del passer di Lesbia, animaletto cui la puella era sinceramente affezionata. Pur seguendo lo schema tipico degli epigrammi funebri ellenistici, tra i quali figurano già epicedi per animali domestici, Catullo introduce alcuni elementi di novità, a partire dall’effetto di ironia, determinato dalla sproporzione tra l’effettiva entità dell’evento rievocato e il registro per lo più altisonante e solenne adottato nel corso del componimento (non mancano, però, significative inserzioni dalla lingua d’uso). L’effetto finale è quello di una velata parodia dei lamenti funebri; ancora una volta, campeggia la figura di Lesbia, rappresentata in un atteggiamento quasi materno nei confronti del passer, la cui morte provoca in lei tristezza e pianto.

 

Lugete, o Veneres Cupidinesque[1]

et quantum est hominum uenustiorum!

passer mortuus est meae puellae,

passer, deliciae meae puellae,

5   quem plus illa oculis suis amabat[2];

nam mellitus erat, suamque norat

ipsa tam bene quam puella matrem,

nec sese a gremio illius mouebat,

sed circumsiliens modo huc modo illuc

10 ad solam dominam usque pipiabat.

qui nunc it per iter tenebricosum[3]

illuc unde negant redire quemquam.

at uobis male sit, malae tenebrae

Orci[4], quae omnia bella deuoratis;

15 tam bellum mihi passerem abstulistis.

o factum male! o miselle passer!

tua nunc opera meae puellae

flendo turgiduli rubent ocelli.

 

Piangete Veneri e voi Amorini,

e quanti sono disposti all’amore.

è morto il passero della mia ragazza,

il passero, gioia della mia ragazza,

5   che lei amava più dei propri occhi,

perché era dolce come il miele e la riconosceva

così come una bimbetta la propria mamma;

mai che si scostasse dal suo grembo

e, saltellando intorno qua e là,

10 cinguettava sempre, solo rivolto alla sua padrona.

Ora, procede per una strada oscura,

là donde si dice che nessuno torni.

Maledizione a voi, maledette tenebre infernali,

che inghiottite ogni cosa graziosa!

15 un passerotto così carino voi me lo avete rapito.

Che brutta azione! Che passerotto infelice!

Ora, per colpa tua, gonfi di pianto, sono arrossati

gli occhi soavi della mia ragazza.

Fanciulla con passero. Statua, marmo, IV-III sec. a.C.

 

L’epicedio per il passer. | Il componimento, come si è detto, presenta lo schema tipico dei lamenti funebri: si apre con un invito al lutto (vv. 1-2), prosegue con l’identificazione del defunto (v. 3) e l’elogio delle sue virtù (vv. 4-10), presenta quindi la comploratio, ovvero il compianto per la sorte del passero (vv. 11-12), a cui fa seguito la maledizione rivolta alle divinità dell’oltretomba (vv. 13-15) e la commossa partecipazione alla sofferenza dei sopravvissuti (vv. 16-18). Componimenti che piangono la morte di un animale domestico sono ampiamente presenti nella poesia ellenistica: in particolare, nel VII libro dell’Anthologia Palatina si trova un’intera sezione di epigrammi dedicati a tale argomento (189-216).

L’originalità di Catullo. | Tuttavia, in questo componimento il tema è affrontato in una chiave originale: sotto il velo dell’ironia, che si origina dalla sproporzione tra l’evento cantato, ovvero la morte del passerotto, e i toni elegiaci e patetici cui il poeta fa ricorso, traspare la figura di Lesbia, la puella amata. Grazie anche a una serie di artifici retorici, è lei la presenza dominante e la vera protagonista della lirica, sebbene di lei si parli espressamente solo nella chiusa. Quello che in apparenza poteva sembrare un carmen di morte di un animaletto domestico, in linea con una tradizione già ben consolidata nella poesia ellenistica, si rivela dunque un canto d’amore per Lesbia: ai vv. 3-4 la ripetizione enfatica dell’espressione passer… meae puellae («il passero… della mia ragazza») sembra già anticipare che il tema principale del carme non è tanto la morte del passerotto, quanto l’effetto di questo evento sulla donna amata. L’espressione meae puellae ritorna per la terza volta nella chiusa del testo (v. 17), dove la sorte dell’animale risulta chiaramente relegata in secondo piano e a dominare è l’immagine degli occhi della puella gonfi di lacrime e arrossati dal pianto.

Come in molti dei suoi componimenti più riusciti, anche in questo Catullo è stato in grado di dare uno sviluppo originale a un tema non nuovo, trasformando il lamento funebre per un animaletto domestico in un’occasione per rappresentare il proprio universo affettivo con accenti del tutto personali.

***

Note:

[1] Veneres allude forse alla molteplicità degli aspetti e dei caratteri di Venere, oppure all’insieme delle divinità femminili che formavano il corteo della dea. Cupidinesque, invece, designa gli Amorini, che nella poesia ellenistica facevano parte del seguito di Afrodite. La medesima espressione Veneres Cupidinesque ricorre anche nel c. 13, là dove il poeta intende sottolineare il pregio estremo dell’unguentum che si appresta a donare all’amico Fabullo, e a tale scopo dichiara di averlo ricevuto come regalo proprio dalle divinità dell’amore per tramite della sua puella.

[2] Questa espressione è certamente iperbolica, tipica della lingua d’uso: è qui utilizzata per esprimere la profondità dell’affetto che legava Lesbia al suo passerotto.

[3] Secondo una credenza popolare, anche gli animali scendevano nel regno dei morti. Qui, però, l’espressione ha un’intonazione ironica.

[4] Orcus è uno dei nomi con cui era invocato Plutone; qui indica per metonimia gli Inferi, di cui il dio era il sovrano.

Sulla tomba del fratello (Catull. carm. CI)

da G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 639-642; cfr. F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1. Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 730-731.

 

Catullo riprende il tema della morte del fratello (già affrontato nei carmina 65 e 68) e ne fa un’elegia sepolcrale, in cui i moduli stilistici attinti alla lunga e consolidata tradizione dell’epigramma funerario si coniugano a una ferale mestizia, a una composta solennità, a un’accorata intensità che nulla hanno di convenzionale, ma che fanno anzi superare a questa lirica tutti i limiti imposti dal genere letterario e dall’inevitabile confronto con i modelli (sopra tutti, il componimento di Meleagro per Eliodora, contenuto nell’Antologia Palatina).

Nel 57 a.C., durante il viaggio in Bitinia al seguito del propretore Gaio Memmio, Catullo visita il sepolcro del fratello, scomparso precocemente qualche anno prima nella Troade: al mesto rituale funebre dell’offerta votiva, al pianto e alla «corrispondenza d’amorosi sensi», che Catullo intreccia con la «cenere muta» del defunto, si accompagna una meditazione sconsolata sul destino umano e sulla morte, dalla quale emerge l’amara consapevolezza dell’inutilità del rito e insieme della sua insopprimibile necessità per chi resta; esso, infatti, se, da una parte, separa gli uomini, dall’altra, non ne lacera i legami affettivi. Da questo contrasto tra la disillusione del celebrante e il tenue conforto che comunque l’atto liturgico concede scaturisce il fascino (e la fortuna letteraria) di questo componimento.

 

Metro: distici elegiaci.

 

Multas per gentes et multa per aequora uectus[1],

aduenio has miseras, frater, ad inferias[2],

ut te postremo donarem munere mortis[3]

et mutam nequiquam alloquerer cinerem[4],

quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,

heu miser indigne frater adempte mihi[5].

Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum

tradita sunt tristi munere ad inferias,

accipe fraterno multum manantia fletu,

atque in perpetuum, frater, aue atque uale![6]

 

Sballottato per molte genti e per molti mari,

eccomi giunto, fratello, per portarti queste misere offerte funebri,

perché io ti doni un tardivo omaggio di morte

e parli invano alla muta cenere.

Dal momento che la sorte ti ha portato via da me,

ah, povero fratello, ingiustamente te mi ha strappato.

Ora, tuttavia, nell’attuale situazione, queste offerte che, secondo l’antico

costume degli antenati sono portate con triste tributo per l’offerta,

ricevi abbondantemente grondanti di fraterno pianto,

e addio, fratello, addio per sempre!

 

https://www.rationalist.com.au/wp-content/uploads/2016/10/Catullus-brother-urn.jpg

 

Un rito funebre tardivo (e vano) | Nel primo distico, il viaggio in Oriente si configura come un interminabile peregrinare finalizzato unicamente alla ricerca della tomba del fratello. Alla solenne intonazione del v. 1 si contrappone la semplicità delle offerte (has miseras… ad inferias), che dopo tanta fatica finalmente sono recate al defunto – la loro sostanziale inutilità è uno dei motivi centrali di questo carmen. Il secondo distico specifica i due atti liturgici che costituiscono il rito: il dono dell’offerta funebre (v. 3) e l’appello rivolto al defunto per invitarlo a goderne (v. 4); ma Catullo è ben consapevole dell’illusorietà del rito: l’allocuzione al fratello non è che un monologo con le sue ceneri mute (mutam nequiquam…).

 

Pathos sotto controllo | Il distico centrale (vv. 5-6) apre uno squarcio emotivo, l’espressione patetica del lutto. La ripetizione dell’azione violenta della sorte (abstulit, adempte), che «ha strappato» a Catullo il fratello, sottolinea come la morte abbia reciso ogni possibilità di comunicazione tra loro. Ma proprio quando l’effusione patetica sembra sul punto di spezzare l’iniziale compostezza, Catullo riprende il controllo di se stesso e si richiama alla necessità di compiere il rituale, pur nella sua inanità; segna il passaggio l’accumulo dei tre avverbi che aprono il v. 7 (nunc tamen interea), in funzione fortemente avversativa. L’esecuzione del rito si conclude con la pacata mestizia della formula d’addio (aue atque uale).

La struttura bilanciata del carme, che incornicia al centro (vv. 5-6) il momento di più forte scarto emotivo, tra due blocchi simmetrici di due distici ciascuno, dedicati al mesto rituale (vv. 1-4) e alla sua ripresa (vv. 7-10), contribuisce all’effetto di pathos misurato.

 

L’incipit solenne e il «cenere muto» | Il primo verso è studiatamente solenne (vi contribuisce in misura determinante l’allusione omerica all’incipit dell’Odissea) e suscita un’attesa che contrasta pateticamente con l’inanità del rito funebre.

Nel secondo distico entra in scena il tema delle ceneri fraterne (nel sonetto In morte del fratello Giovanni, Ugo Foscolo avrebbe scelto di rendere il nesso catulliano al maschile, per riprodurre il medesimo scarto del latino, poiché in italiano «cenere» è normalmente femminile).

 

Un omaggio alla tradizione, senza grande convinzione | Al v. 5 inizia la sezione in cui Catullo si rivolge al fratello e, sebbene con la consapevolezza di rivolgersi a una muta cenere, si dispone comunque al rito tradizionale imposto dal mos maiorum (prisco… more parentum, v. 7): emerge, dunque, uno scarto fra l’individualità di Catullo e i valori della collettività, che il poeta rispetta senza però esserne pienamente rassicurato.

 

Come un epigramma sepolcrale | Pur non rientrando a pieno nel genere dell’epigramma sepolcrale, il carme ne riecheggia formule e movenze. L’avverbio indigne («ingiustamente», v. 6) è comune nelle epigrafi funerarie in relazione a casi di morte violenta o prematura. Al lessico dell’epigramma sepolcrale appartengono anche mutam… cinerem (v. 4), more parentum (v. 7), tristi munere (v. 8). Ma è soprattutto nel finale che, dopo il pathos del v. 9 (con l’iperbato allitterante fraterno… fletu ad abbracciare multum manantia, anch’esso allitterante), Catullo cerca la sobrietà della nuda formula di commiato ai defunti, attestata nelle epigrafi funerarie: aue atque uale.

 

Pur atteggiandosi nelle linee esteriori come fosse un epigramma funerario, il carmen 101 di Catulo non è concepito come un’iscrizione sepolcrale. Solo i due distici finali (vv. 7-10) conservano in qualche modo la parvenza esterna dell’epitaffio, là dove si menzionano le offerte tradizionali recate in dono sulla tomba e si usa la formula di saluto rivolta al morto: in perpetuum… aue atque uale (v. 10).

Il poeta ha trasformato una forma tradizionale in un componimento intimo e fortemente personale, che ha il tono del lamento elegiaco, il genere letterario che in Grecia, prima di diventare una forma poetica destinata a cantare le pene d’amore, aveva avuto origine nel compianto riservato al lutto familiare. O almeno, per l’esattezza, era questo il convincimento che gli elegiaci latini (e più tardi i grammatici) si fecero del significato di «elegia», inventando un’etimologia che da εὖ λέγω («dir bene» del defunto) o da ἤ ἤ λέγω («esclamare ohi, ohi», cioè «lamentarsi»), o anche da ἐλεέω («commiserare») – anche se la parola «elegia» originariamente designava soltanto la struttura metrica (distico formato da un esametro seguito da un pentametro) senza alcun riferimento specifico ai contenuti, che potevano essere i più disparati. Comunque, è certo che i Latini, una volta ereditato il distico, finirono per associare all’elegia una nota predominante di canto doloroso (flebiles elegi, «i versi elegiaci pieni di pianto»).

Il compianto di Catullo vuole essere sostanzialmente un omaggio al fratello. La tomba che ora viene visitata dal poeta è lontana da casa: si trova nella Troade, dove pure giacciono i resti mortali degli eroi cantati da Omero. Il primo verso, come si è detto, allude chiaramente all’esordio dell’Odissea; in questo modo, cioè proiettando il modello epico sul proprio testo e associando il ricordo di esso alle sue nuove parole, Catullo fa di se stesso quasi una replica di Odisseo e, di conseguenza, in un certo senso, può includere il fratello nello stesso destino di morte eroica che era toccato ai guerrieri omerici.

Nell’Eneide anche Virgilio non avrebbe, poi, mancato di cogliere l’allusione di Catullo a Omero. Quando, infatti, nel VI libro del poema virgiliano l’anima di Anchise accoglie il figlio Enea, che è sceso nel regno dei defunti per avere indicazioni sul proprio destino, lo accoglie come uno che ha appena concluso un lungo viaggio tormentoso, vale a dire come un secondo Ulisse, navigatore esule. E, per dire questo, Anchise si serve quasi delle stesse parole di Catulo, facendo riemergere in tutta chiarezza il modello epico arcaico: Quas ego te terras et quanta per aequora uectum / accipio… («Trasportato per quali terre e per quali mari, / io t’accolgo…», Aen. VI, vv. 692-693).

Dietro il testo virgiliano sta il ricordo del componimento catulliano: il poeta che si era fatto navigatore per visitare la tomba lontana del fratello; ma dietro il carmen di Catullo si affaccia anche il modello eroico dell’Odissea. Virgilio ha costruito il suo testo nuovo arricchendolo di antiche “citazioni”, che sono riconoscibili sotto la superficie delle parole e che invitano i suoi lettori all’emozione di dotte memorie. La letteratura, da Omero attraverso Catullo fino a Virgilio, diventa come un grande corpo in crescita continua.

 

***

Note:

[1] Multas uectus: nel primo verso si avverte l’eco del celebre incipit dell’Odissea («Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto / vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia: / di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, / molti dolori patì sul mare nell’animo suo, / per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni») e come quello si ha un incedere epico e maestoso, sottolineato dalla posizione a fine verso del participio uectus (dal verbo ueho), dal doppio per e soprattutto dal poliptoto multas… multa, nonché dalla collocazione di questi due aggettivi all’inizio e alla metà esatta del verso. Tra l’altro, il participio uectus («trascinato, sbattuto») suggerisce l’idea di passività del soggetto, «sballottato» fra i disagi di un lungo viaggio.

[2] aduenio inferias: secondo la maggior parte dei commentatori, aduenio ha un valore perfettivo o resultativo («eccomi giunto»), da cui dipenderebbe l’uso dei congiuntivi imperfetti anziché presenti nella doppia finale che segue; ad inferias (sottinteso ferendas) è un’espressione che ha valore, appunto, finale, cioè specifica il motivo del viaggio e fa riferimento alle libagioni rituali (di vino, miele, latte, fiori o sangue sacrificale) che si presentavano alla tomba del defunto come offerta ai suoi Mani; la parola inferiae non è connessa agli dèi inferi, ma al verbo (in)fero (cfr. Festo 99, 26 Lindsay: inferiae sacrificia quae dis Manibus inferebant); miser è un epiteto stereotipato in riferimento alla sfera della morte, ma qui, associato al rito compiuto lontano dalla patria dal solo Catullo, assume anche una connotazione di compassione e di desolato squallore.

[3] Postremomunere mortis: «l’ultimo dono di morte», ovvero dovuto alla morte; munere, allitterante con mortis, è retto da donarem, qui costruito con l’accusativo della persona a cui si dona (te) e l’ablativo della cosa donata. Il munus mortis è il «tributo funebre», definito postremum, cioè «ultimo, estremo», ma anche «tardivo», poiché da tempo il fratello era morto, e nessuno aveva ancora compiuto il rituale richiesto dalla tradizione romana.

[4] Mutamcinerem: cinis, di norma maschile, è qui usato al femminile, esemplato sul corrispondente termine greco κόνις (un preziosismo neoterico tipico di Catullo e di Calvo); l’iperbato che separa cinerem dal suo attributo mutam contribuisce ad accrescere sia la desolazione di questo aggettivo sia il senso vanificante del vicino avverbio nequiquam.

[5] quandoquidemmihi: quandoquidem è una congiunzione arcaica di uso prosastico, conservata nella poesia dattilica per comodità metrica; mihi tete: da notare l’accostamento tra i due pronomi personali (di cui il secondo è raddoppiato e rafforzato), nel quale si può scorgere una visualizzazione dello stretto vincolo affettivo tra il poeta e suo fratello; l’avverbio indigne esprime l’ingiustizia della precocità della scomparsa; non sfuggano il forte pathos e l’alta drammaticità di questo verso, che ripete il concetto già espresso in quello precedente, richiamandosi, al contempo, ai vv. 20 e 92 del carmen 68.

[6] Nuncuale: l’avverbio interea significa «nell’attuale situazione», «stando così le cose», e non, come di solito, «intanto» (che implicherebbe la promessa di tornare in futuro con altre più ricche offerte); con haec è sottinteso munera; tristi munere è ablativo di modo; ad inferias, come al v. 2, ha valore finale; multum manantia: l’uso di multum come accrescitivo di aggettivi o participi è proprio della lingua familiare; questo espediente, unito all’allitterazione e al forte iperbato, accresce l’impressione di pathos; fraterno… fletu: ablativo strumentale retto da manantia, «del pianto del fratello»; aue atque uale: la formula, nonostante la sua ricorrenza nelle iscrizioni sepolcrali, vibra nell’explicit di accorata intensità, anche grazie all’inserimento di in perpetuum e alla ripresa di frater.

L. Anneo Seneca

da G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 343-355, con inserzioni da F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 84-96.

L. Anneo Seneca nacque a Corduba (od. Cordova), in Hispania Tarraconensis, intorno al 5 a.C. Era di famiglia ricchissima d’estrazione equestre. Il padre era M. Anneo Seneca il Retore e la madre, Elvia, era una donna di profonda cultura.

Anonimo, Seneca. Busto, marmo, XVII sec. Madrid, Museo del Prado.

Giunto a Roma, Seneca ricevette un’ottima educazione sia oratoria sia filosofica, in vista della carriera politica: seguì le lezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e del retore Papirio Fabiano, aderente alla setta dei Sestii, che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vita pubblica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito, intorno al 26 d.C., Seneca si recò in Aegyptus al seguito di uno zio prefetto, e vi soggiornò a lungo forse anche per sfuggire alle persecuzioni ordinate già da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci di pratiche ascetiche e straniere. Ritornato nell’Urbe, nel 31 d.C. iniziò l’attività forense e compì il cursus honorum, ottenendo un successo cospicuo. Il giovane provinciale entrò presto nell’ordine senatorio e ricoprì anche la quaestura. Ma un suo discorso in Senato offese Caligola (37-41 d.C.), che, geloso della sua fama oratoria, l’avrebbe messo a morte, se non fosse stato per l’intercessione di un’amante del princeps.

Non scampò, tuttavia, dalla relegatio che, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola: in realtà, con quest’atto, si voleva colpire l’opposizione politica coagulata attorno alla famiglia di Germanico e discriminare Giulia Livilla, rivale di Messalina a corte. Quanto a Seneca, egli fu dunque allontanato in Corsica, dove rimase per otto lunghi anni, praticando i precetti stoici secondo i quali il bene del sapiens non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore. Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperiale per consolarlo della scomparsa del fratello, ma soprattutto per ottenere con adulazioni smaccate la revoca della pena.

Caduta in disgrazia Messalina, nel 49 d.C. la nuova Augusta Agrippina riuscì a ottenere dall’imperatore il rientro a Roma di Seneca e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, Nerone. Nel ruolo di educatore, affiancato dal praefectus praetorio S. Afranio Burro, Seneca scorse l’occasione per realizzare il sogno platonico di uno Stato perfetto, illuminato dalla sapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza, guidando l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone. Morto Claudio nel 54 d.C., effettivamente Seneca, di comune accordo con Burro, per cinque anni governò in luogo del princeps.

Secondo il programma senecano l’imperatore avrebbe dovuto apparire un modello di virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i suoi cives, in una ritornata età dell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità, prospettandogli la gloria derivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristocrazia senatoria e ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione dei poteri. Anche se – come si legge nel De clementia, dedicato proprio a Nerone e «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamento costituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del princeps.

Tuttavia, il sogno di trasformare il giovane imperatore nel sovrano-filosofo auspicato da Platone non urtava solo contro il corso degli eventi e contro la natura di Nerone, che di lì a poco avrebbe rivelato il suo volto illiberale, paranoico e dispotico, attuando una politica anti-senatoriale, repressiva e autocratica. Collideva anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coerentemente con i precetti enunciati. E questa debolezza lo rendeva poco credibile agli occhi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e finanche l’usura. Inoltre, la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinastici imponeva che Seneca stesso prendesse parte in delitti che non potevano non ripugnare alla sua coscienza morale e filosofica. Così il maestro lasciò che Nerone si sbarazzasse del fratellastro Britannico (55 d.C.) e togliesse di mezzo finanche la madre Agrippina (59 d.C.).

Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quegli anni di reggenza non doveva risultare positivo per Seneca. Alla morte nel 62 dell’amico Burro, egli non fu più disposto ad avallare la politica assolutistica di Nerone, ormai sedotto e controllato da Poppea, avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regime, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Fu questo il periodo in cui attese alla composizione delle sue opere.

Ben presto, però, la politica lo raggiunse anche nel dorato isolamento: inviso ormai e sospetto a Nerone e al suo nuovo praefectus praetorio Tigellino, Seneca fu coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65), di cui egli era forse solo al corrente, senza esserne davvero partecipe. Il princeps, condannatolo a morte per lesa maestà, gli ingiunse di tagliarsi le vene: con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente preparato nella riflessione di un’intera vita.

Noël Sylvestre, La morte di Seneca. Olio su tela, 1875. Béziers, Musée des Beaux-Arts.

Le opere e le fonti biografiche

Della vasta produzione senecana, anche fra le opere superstiti quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore: alcune di queste furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in dodici libri di Dialogi (titolo già noto a Quintiliano, e che, pur ricalcando il greco διατριβαί ovvero διαλέξεις, non implica generalmente una forma dialogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a Platone); in queste opere sono trattate questioni di carattere etico e psicologico: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapientis; 3-5. Ad Novatum de ira libri III; 6. Ad Marciam de consolatione; 7. Ad Gallionem de vita beata; 8. Ad Serenum de otio; 9. Ad Serenum de tranquillitate animi; 10. Ad Paulinum de brevitate vitae; 11. Ad Polybium de consolatione; 12. Ad Helviam matrem de consolatione.

Le altre opere filosofiche, tramandate autonomamente, sono i sette libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone (in tre libri, di cui restano il primo e l’inizio del secondo), e i venti libri comprendenti le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più propriamente scientifico sono le Naturales quaestiones, in sette libri (in origine, forse, otto), dedicate a Lucilio. Eccone gli argomenti: I. i fuochi celesti; II. i tuoni, i fulmini, i lampi; III. le acque terrestri; IV. la piena de Nilo e le nubi; V. i venti; VI. il terremoto; VII. le comete.

Sono pervenute di Seneca anche nove tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, tramandate dal manoscritto Etruscus della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in quest’ordine: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento romano: una praetexta probabilmente opera di un imitatore.

A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludus de morte Claudii, o Apokolokyntosis (cioè «inzuccatura» o «apoteosi di uno zuccone»), una satira menippea, dai toni feroci, sul singolare processo di beatificazione del defunto imperatore. Fu scritta nel 54, subito dopo la scomparsa di Claudio, e inscenata a corte con il consenso di Agrippina.

Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Diverse sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, svariati trattati di carattere fisico, geografico, etnografico e molti altri testi filosofici (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte l’autore). Parecchie anche le opere di incerta paternità o sicuramente spurie: fra queste ultime il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e l’apostolo Paolo di Tarso, frutto di una leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.

Molte sono le notizie autobiografiche fornite dall’autore in persona (specialmente nelle Epistulae e nella Consolatio ad Helviam matrem); fra le altre fonti, le più importanti sono i libri XIII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico Cassio Dione e le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.

Flora. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Dialogi e la saggezza stoica

Ben poche, fra le opere senecane rimaste, sono databili con sicurezza o buona approssimazione, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del pensiero dell’autore o collegarle alle sue vicende biografiche. Fra queste dovrebbe essere la Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40) e indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio. Il genere della consolatio, già coltivato nella tradizione filosofica ellenica, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), intorno a quali, a loro volta, ruota gran parte della riflessione di Seneca: a tale repertorio tematico egli torna a far riferimento anche nelle altre due consolationes pervenute. Tutte e due, tra l’altro, sono ascritte agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem, forse del 42, cerca di tranquillizzare la madre sulla propria condizione di esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra, probabilmente del 43, rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente il princeps per ottenere il ritorno a Roma – si tratta, infatti, dell’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo.

I singoli testi della raccolta Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o di problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive: uno Stoicismo, beninteso, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche.

I tre libri del De ira, ad esempio, scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle; all’ira, più precisamente, è dedicato il III libro. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca avrebbe inviato qualche anno dopo, quando Novato avrebbe assunto il cognomen Gallione (dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione) anche il De vita beata (forse del 58): quest’ultimo affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il tema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse, che gli venivano mosse (Tacito, Ann. XIII 42), di incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato, grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato (anche mediante la pratica dell’usura).

François-Léon Benouville, L’ira di Achille. Olio su tela, 1847. Montpellier, Musée Fabre.

Posto che l’essenza della felicità è nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’Epicureismo, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza, se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnauit, «nessuno ha condannato la saggezza alla povertà», 23). Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia, che resta un ideale mai pienamente conseguibile, dovrà saper «sopportare» gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare, secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere beni e ricchezze, ma non farsi possedere da essi.

Del resto, Seneca non pretende di essere un saggio, ma uno che cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. L’accusa di incoerenza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri pensatori del passato:

[18, 1] «Aliter» inquis «loqueris, aliter uiuis». Hoc, malignissima capita […], Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi uiuerent, sed quemadmodum esset et ipsis uiuendum. De uirtute, non de me loquor, et cum uitiis conuicium facio, in primis meis facio: potuero, uiuam quomodo oportet.

Parli in un modo – tu mi dici – e vivi in un altro. Queste accuse […] furono rivolte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavano non come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno anzitutto i miei. Quando ne sarò capace, vivrò secondo virtù. (trad. G. Garbarino)

Tryphe a banchetto. Mosaico, III sec. d.C. da Antakya. Antakya, Museo Archeologico.

Il superiore distacco del sapiens dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della trilogia dedicata all’amico Sereno, che aveva inteso abbandonare le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi.

Il primo dei tre dialoghi, pubblicato dopo il 41, esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità: proprio perché possiede la virtus, il sapiens non può ricevere offesa da parte degli uomini.

Il De tranquillitate animi, scritto all’epoca della collaborazione con Nerone e l’unico parzialmente in forma dialogica, affronta un problema fondamentale nella riflessione senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere di una vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca propone una mediazione, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche vigenti: l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi del tumulto cittadino, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche per ciò si tende a collocare il dialogo poco prima del 62), la scelta totale di una vita appartata è, invece, dichiarata nel De otio: un’opzione forzata, resa necessaria da una situazione politica ormai compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi.

Più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52, sembra risalire il De brevitate vitae, dedicato al suocero Paolino, praefectus annonae. L’opera affronta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che tale può sembrare perché non se ne sa afferrare l’essenza, ma la si disperde in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. La vita è lunga per chi sa impiegarla (vita, si uti scias, longa est, 2, 1), mentre appare brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) per chi sciupa il proprio tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi, rappresentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parrucchiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giorno canzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati senza costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile, ripetendo con «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente il saggio agli occupati.

Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta dei Dialogi, cioè il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae: il testo dibatte l’apparente contraddizione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra punire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, afferma Seneca, Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventure, le avversità che colpiscono chi non se le meriterebbe, non contraddicono tale disegno “provvidenziale”, ma sono, effettivamente, un segno della Providentia divina, che sa distinguere i saggi e, creando ostacoli, consente loro di perfezionarsi: così, il sapiens stoico realizza la propria natura razionale nel riconoscere il posto che, nell’ordine cosmico governato dal λόγος, è stato a lui assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Filosofia e potere

Dedicati a Lucilio e successivi al ritiro dalla vita pubblica, sono anche i Naturalium quaestionum libri VII, l’unica opera senecana di carattere scientifico pervenuta. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti, alle comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio) e sembra costituire il supporto “fisico” all’impianto filosofico di Seneca. Ma, in realtà, non c’è integrazione né organicità fra indagine e ricerca morale.

Più o meno allo stesso periodo, intorno al 64, come attesta lo stesso autore in Epistulae ad Lucilium, 81, 3, risale un’altra opera filosofica tramandata autonomamente dai Dialogi, cioè i sette libri De beneficiis, dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiario, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati – si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti. L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una “monarchia illuminata”. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di quel progetto.

L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la propria concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione (Stupazzini lo ha definito il «manifesto della teoria politica» senecana). L’autore non mette in discussione la legittimità costituzionale del principatus, né le forme apertamente monarchiche che esso aveva ormai assunto: il potere unico era più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal λόγος, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formavano l’Impero; senza considerare, infine, che proprio il principato si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana, che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione senatoria. Il problema, piuttosto, era quello di avere un buon princeps: e, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarebbe stata la sua stessa coscienza, che lo avrebbe dovuto trattenere dal governare in modo dispotico. La clementia, che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di «filantropica benevolenza», era la virtù che avrebbe dovuto informare i suoi rapporti con gli altri, cives o peregrini: con essa, e non incutendo timore, l’imperatore avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione, che, da sempre, sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato.

È evidente, in questa concezione di un Principato “illuminato” e paternalistico, che affida alla coscienza del governante, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione con il princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltivò un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, come si è accennato, alla filosofia spettava un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale dell’imperatore e dell’élite politica, ma la rapida degenerazione del regime neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana dovette ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pose, dunque, al servizio dell’umanità.

Seneca-Socrate. Erma bifronte, I sec.-metà III sec. d.C. c. Berlin, Antikensammlung, Staatliche Museen.

La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae morales ad Lucilium

Se è vero, infatti, che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica dell’autore, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, rimase effettivamente forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione di Seneca successiva al suo ritiro egli si mosse soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale.

L’opera principale della sua produzione tarda, la maggiore e la più celebre in assoluto, sono le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di venti libri di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate appunto all’amico Lucilio, un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative; di buona cultura, era poeta e scrittore egli stesso.

Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare – varie lettere, infatti, richiamano quelle di Lucilio in risposta –, ipotesi, peraltro, non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera, come si è detto, è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62/3 d.C.); essa costituisce, in ogni caso, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.

Le lettere fondano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incline a trattare separatamente singoli temi etici. Un antecedente latino erano state le Epistulae di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chi sente l’esigenza della filosofia intensa come ricerca morale, come quotidiana pratica di saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune il fatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il legame stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impanca a maestro, ma parla sottovoce (umilissima uerba, 38, 1), considerando se stesso bisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale, il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.

Ma il modello delle Epistulae morales ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva con i discepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Seneca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigli utili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loro novità rispetto alla produzione epistolare precedente:

[15, 1] Mos antiquis fuit, usque ad meam servuatus aetatem, primis epistulae uerbis adicere: «Si uales bene est, ego ualeo». Recte nos dicimus: «Si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus.

Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in uso, di aggiungere alle prime parole della lettera: «Se stai bene, sono contento; io sto bene». Meglio, noi diciamo: «Se ti dedichi alla filosofia, sono contento; io sto bene». Stare bene, infatti, in definitiva, consiste in questo. Senza ciò l’animo soffre.

In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale, era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’attualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondare l’interiorità:

[118, 1-2] […] nec faciam quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam «si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit scribat». […] Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et uidere quam multarum rerum candidatus sit, et non suffragari.

[…] Non farò quel che Cicerone, uomo eloquentissimo, esige da Attico, cioè scrivergli «anche se non avrà nulla che gli sia venuto a fior di bocca». […] È preferibile affrontare le proprie debolezze che quelle altrui, analizzare se stessi e vedere a quante cose ci si candida e non dare alcun voto favorevole.

Naturalmente, non che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento alla sfera privata. anzi, ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anni remoti; c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono le espressioni di tenerezza per la giovane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o il resoconto dei fatti del giorno. Ma da questi eventi, di per sé irrilevanti, l’autore trae sempre spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che lo ha colpito lo spinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare di lusso lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù dell’uomo.

Dunque, più degli altri generi della letteratura filosofica, l’epistula, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico-discepolo (sul modello delle scuole di filosofia), la lettera ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. Tra l’altro, allo stesso intento concorre l’uso di concludere ogni epistula, almeno nei primi tre libri, con una sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza su cui meditare.

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Seneca.

Rifacendosi a uno schema di procedimento in uso nel Giardino epicureo, che graduava i vari momenti del cammino verso la sapientia, Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui fa seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi alla forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla tendenza delle singole lettere, man mano che ci si addentra nell’epistolario, ad assimilarsi al trattato filosofico.

Non meno importante dell’aspetto teorico – più volte, anzi, Seneca polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici – è nella lettera quello parenetico: l’epistula tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare, al bene.

Oltre però a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline piuttosto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti – si è detto – per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui il saggio informa la propria vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti.

Col tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo, ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.

La convinzione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi i servi, per i quali l’autore trova parole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati con una passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazione della componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una “carità cristiana”. Ma le analogie con il Cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del carattere fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fastidio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacoli circensi.

Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.

Un motivo costantemente presente nella sua riflessione è quello della morte, vista non come oggetto di paura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema affermazione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Seneca raccomanda: «Medita la morte: chi ti dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere servo».

Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via della perfezione interiore, Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comunicare i risultati della propria speculazione agli altri, perché possano trarne giovamento. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore funge anche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo e centripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra “predicazione” e “interiorità”. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina, che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirittura inscindibili: «Bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te stesso» (15, 3). E anche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il bene dell’umanità, posteri inclusi:

[8, 1-2] In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. […] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo.

Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato e ho chiuso le porte di casa: per poter essere utile a un maggior numero di persone […]. Mi sono isolato non tanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle mie: ora agisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.

Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistulae, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium quale valore supremo: un otium che, beninteso, non è inerzia, ma alacre ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati anche loro nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistulae stesse possano esercitare il proprio benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore – resasi necessaria la rinuncia alla rivendicazioni sul terreno politico – è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile “drammatico”

Se fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent uerba nostra sed prosint (75, 5): queste si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma, ad esempio, di sententiae o di citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo di chi legge un precetto o una norma morale.

In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodare ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un succedersi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto, ma destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca assai ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nell’insegnamento dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica “puntillistica”, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa, fino a cristallizzarla nell’espressione epigrammatica. Di questo stile aguzzo e penetrante, che nella sua continua tensione non sa evitare una certa “teatralità”, Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico», secondo un’efficace definizione), che alterna i toni sommessi della meditazione interiore a quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa tra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.

Pseudo-Seneca. Busto, marmo, II sec. d.C. ca. Zürich, Archäologische Sammlung der Universität.

Le tragedie

Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie, delle quali nove sono generalmente ritenute autentiche (benché qualche dubbio sussista per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco (cothurnatae). Di queste tragedie, le sole, di tutta a letteratura latina, pervenute in forma non frammentaria, si sa molto poco circa le circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tantomeno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Sicché, nell’impossibilità di delineare una cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine in cui la tradizione manoscritta più autorevole le ha trasmesse.

L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia dell’eroe, che, provocata da Giunone, lo induce a uccidere moglie e figli; una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca, infine, ad Atene a purificarsi. Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono sofocleo sono improntate le Phoenissae, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Naturalmente ancora a Euripide (ma forse anche a un’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio) si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e, perciò, assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. Anche la Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell’Ippolito (quello superstite, ma anche quello, anteriore, perduto), nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus, che narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e, quindi, sposo della madre Giocasta: alla scoperta della tremenda verità, egli reagisce accecandosi. All’omonimo dramma di Eschilo si ispira, assai liberamente, l’Agamemnon, che rappresenta l’assassinio del re, dal ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Il Thyestes mette in scena, invece, il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in testi perduti di Sofocle e di Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente): animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Nell’Hercules Oetaeus (cioè “sull’Eta”, il monte su cui si svolge l’evento culminante del dramma dell’eroe), modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e, in realtà, dotato di potere mortale: tra dolori atroci l’eroe si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito l’assunzione fra gli dèi.

Francisco de Zurbarán, La morte di Ercole. Olio su tela, 1634. Madrid, Museo del Prado.

I drammi scritti da Seneca, oltre a costituire una preziosa testimonianza di un intero genere letterario, sono importanti anche come documento della ripresa del teatro tragico latino, dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea aveva fatto per promuovere una rinascita dell’attività teatrale: in questo progetto, tra le altre, si inseriva la produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., in cui la polemica anti-tirannica connessa al soggetto forse aveva avuto come bersaglio M. Antonio. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l’élite intellettuale senatoria sembrò, in effetti, ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime dispotico di certi principes. Tra l’altro, nella tragedia latina, che riprendeva ed esaltava un aspetto già fondamentale in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide.

I tragediografi di età giulio-claudia e flavia di cui si ha notizie furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana del I secolo d.C. Si apprende dagli Annales di Tacito che, sotto il principato di Tiberio, Mamerco Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a togliersi la vita perché in un suo dramma, l’Atreus, erano state ravvisate allusioni all’imperatore. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche il consolato: di lui avrebbe scritto una biografia l’amico Plinio il Vecchio. Pomponio Secondo, oltre a tragedie cothurnatae, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. Si può ricordare, infine, all’epoca di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figurò come interlocutore nel Dialogus de oratoribus di Tacito; delle sue tragedie si conoscono vari titoli, fra cui quelli di due praetextae, il Cato e il Domitius.

La scarsità di notizie sulle tragedie senecane non consente, però, di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che si conosce, anzi, sulla destinazione della letteratura tragica in età già anteriore a Seneca – e cioè che si continuava, sì, a rappresentare normalmente in scena i drammi, ma che ci si poteva anche limitare a leggerli nelle sale di recitazione (odea) – ha indotto gli studiosi a credere (anche sulla base di certe loro peculiarità stilistiche) che quelle di Seneca fossero tragedie destinate prevalentemente alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per talune di esse, la rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, la più diffusa, anche se non tutti gli argomenti di questa tesi sono ugualmente probanti: per esempio, la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano incompatibili con i canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero presupporre, piuttosto che smentire, una messinscena, laddove una semplice lettura avrebbe limitato, se non del tutto annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico.

Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come opposizione fra mens bona e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche – come, per esempio, nella vicenda di Ercole, il tema dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà – rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro di Seneca non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica.

Genève, Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 190, 1 (1410 c.), f. 20r, illustrazione dal De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, raffigurante Atreo che imbandisce a Tieste le membra dei figli.

L’analogia, però, non va troppo accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria (che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato, messinscene paradigmatiche di conflitti interiori), sia perché, nell’universo tragico, il λόγος, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni atroci e orrorosi, e su questo scenario terrificante si scatena la lotta delle forze del male: battaglia che non investe soltanto la psiche dell’uomo, che viene scagliata fin nei suoi angoli più reconditi, spesso attraverso lunghi ed elaborati monologhi, ma il mondo intero, concepito – stoicamente – come unità fisica e morale, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un particolare rilievo, fra le forme in cui più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito politico sul tema del potere, che, come si è visto, occupa un posto centrale nella riflessione e nella biografia senecane.

Di quasi tutte le tragedie dell’autore, come si è detto, si dispone dei corrispettivi precedenti greci, nei confronti dei quali si possono valutare l’atteggiamento che Seneca ha tenuto. Atteggiamento che, rispetto a quello dei drammaturghi latini arcaici, denota, da un lato, una maggiore autonomia (dopo la grande stagione augustea, infatti, la letteratura latina non si limitò più a “tradurre”, ma si misurò alla pari con quella ellenica, in libera emulazione) e, al tempo stesso, però, presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impianto drammatico.

Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il linguaggio poetico delle tragedie senecane ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali, nonché il particolare tipo di senario, già adottato nel teatro tragico augusteo e vicino piuttosto, nel suo rigido schema, al trimetro giambico greco e oraziano che non al più libero senario arcaico.

Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulus espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle sententiae, si sa, è alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stichiche (cioè un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da sempre, infatti, sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (per esempio, nei cataloghi geografici e mitologici), in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.

Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ἐκφράσεις), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica, che alterano i tempi dello sviluppo scenico inserendosi così nella tendenza, propria del teatro senecano, a isolare singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” dovessero essere letti nelle sale di recitazione).

Uno stile, insomma, che con i suoi tratti più peculiari, si inquadra agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i più rappresentativi.

Claudia Ottavia. Busto, marmo, età giulio-claudia, ante 62 d.C. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragedia d’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Seneca stesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissuadere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun autore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre, la morte del princeps è descritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi, non può essere stata scritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C., tre anni prima dell’imperatore.

Nella vicenda Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze con Poppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione del pupillo, ma è consigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fattori dell’ex moglie, il princeps mette in atto il suo delitto: la donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di forza e coraggio stoici. In chiusura della tragedia, appare l’ombra di Agrippina, madre di Nerone e anche lei sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino i delitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631). Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui l’amato Nerone, tremante, affonda nella propria gola il pugnale crudele.

L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli ambienti dell’opposizione senatoria. Si è ipotizzato che l’autore possa essere stato il tragediografo L. Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annaea, il cui praenomen avrebbe facilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere stata composta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisione di particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, sia perché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbe stata possibile se egli fosse stato ancora in vita. Inoltre, l’Octavia è stata conservata da un ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggiormente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia è stata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente o, quantomeno, vicino agli ambienti senatori, che conoscevano assai bene i comportamenti etici, il pensiero e la produzione letteraria di Seneca: alcuni passi, infatti, sono la trasposizione in versi dei Dialogi del filosofo.

L’ambiente culturale che ha espresso quest’opera, dunque, è certamente senatorio. Lo dimostra – come si accennava sopra – la considerazione dell’imperatore come di un tiranno assassino e il fatto che non compaia mai il Senato, ormai ridotto all’ombra di se stesso, ma solo il popolo anonimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i fruitori del testo, certamente destinata alla sola lettura, come si apprende a proposito delle tragedie di Curiazio Materno dal Dialogus tacitiano, che si immagina iniziato «il giorno dopo a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura (recitauerat) del Catone» (una tragedia che, avendo per protagonista il personaggio simbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi circa il contenuto di opposizione al regime imperiale: e Tacito, infatti, aggiunge che la recitatio «urtò la suscettibilità dei potenti»). In questo clima culturale assai teso, nel quale la tragedia assurse a genere della “resistenza” senatoria alla tirannide imperiale, s’inseriva l’Octavia.

Ormai il genere tragico non aveva più un avvenire: infatti, non sarebbe sopravvissuto alle epurazioni neroniane e alla politica di ricambio dei Flavii, che sostituirono alla vecchia nobilitas una nuova classe di funzionari italici e provinciali.

Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Apokolokyntosis

Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo intitolano due dei manoscritti principali che lo hanno trasmesso) o Divi Claudii Apokolokyntosis (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo); il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokyntosis, fornito dallo storico Cassio Dione (LX 35). Questa parola implicherebbe un riferimento a («zucca»), forse come emblema di stupidità, e secondo Dione si tratterebbe di una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal Senato post mortem. Il fatto che nel testo senecano non ci sia accenno a una zucca, e che l’apoteosi, di fatto, non abbia luogo, ha fatto sorgere dubbi sull’identificazione dell’opera menzionata da Dione con il Ludus, dubbi che oggi giustamente sono quasi del tutto dissolti: il curioso termine, dunque, andrà inteso non come «trasformazione in zucca», ma piuttosto come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio aveva goduto. Altri dubbi e perplessità sono stati suscitati dal fatto che, a quanto si sa da Tacito (Ann. XIII 3), lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore defunto (pronunciata da Nerone), ed è parso a molti insostenibile un così radicale contrasto di comportamento.

La difficoltà ad ammettere che, subito dopo gli elogi ufficiali, Seneca potesse dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio ha anche indotto diversi studiosi a posticipare, a torto, la data di composizione (attorno al 60) di un pamphlet che si giustificava solo se reso pubblico (magari in forma anonima) sull’onda di un evento, come la divinizzazione di Claudio, che, dietro il fragile velo dell’ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica – la composizione dell’opera va, quindi, collocata nello stesso 54.

Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.

Il princeps, verso il quale il filosofo nutriva personali motivi di risentimento, appena morto (il 13 ottobre del 54, forse avvelenato da Agrippina Minore) ascende all’Olimpo per essere accolto fra gli dèi, in base alla decretata apoteosi. Ma questi, riuniti in un’assemblea a mezza via tra i concilia deorum omerici e le sedute del Senato, dopo un duro intervento di Augusto, che affonda la proposta di divinizzazione, lo spediscono nell’Ade. Passando per Roma, il dio mancato s’imbatte nel proprio sontuoso funerale seguito da gente contenta (omnes laeti, hilares) e solo allora realizza d’essere veramente morto (ubi uidit funus suum intellexit se mortuum esse, 12, 3). Quindi, scene agli inferi, dove prima diviene schiavo di Caligola, poi del liberto Menandro, al cui servizio continuerà a fare quello che aveva fatto in vita, istruire processi e dare ascolto ai liberti: una condanna di contrappasso, per così dire. Allo scherno dell’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’operetta, parole di elogio per il successore, preconizzando l’avvento di un’età di splendore e di rinnovamento.

La descrizione di Claudio è feroce: di lui sono messi in luce impietosamente i difetti fisici e morali. L’imperatore è zoppo, balbuziente, brutto al punto da potersi ascrivere a stento alla specie umana (quasi homo). Il ritratto morale è conforme all’immagine che ne davano i contemporanei. Egli era, anche da vivo, pubblicamente considerato – certamente a torto – inetto, debole, spietato, succube dei suoi potenti liberti. Quando Nerone, leggendo la laudatio funebris, ne elogiò l’avvedutezza e il senno, «nessuno – scrive Tacito (Ann. XIII 3, 1) – seppe trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, sfoggiasse grande eloquenza». Claudio era, insomma, oggetto di scherno negli ambienti di corte anche prima che fosse scritta questa feroce menippea dell’«apoteosi negata».

Pur possedendo i caratteri formali della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l’iniziatore di questa forma letteraria), ovvero il prosimetrum, lo spudaigelaion (“serio-faceto”), l’aggressività espressiva, l’indignatio polemica, e tutti i topoi propri del genere (quali, ad esempio, l’ascesa in cielo e la discesa agli inferi), il Ludus de morte Claudii sembra discostarsi dal modello del filosofo gadarense almeno per l’assenza di un tratto: la demistificazione. La feroce caricatura, infatti, non disvela nulla che non appartenesse all’immagine pubblica del personaggio messo alla berlina, abitualmente deriso e fatto oggetto di strali ironici, critiche, battute pesanti (come ricorda Tacito). Della letteratura satirica mancano l’intento tradizionale, la censura dei costumi. Non sono tipici della menippea originaria, ma nemmeno di quella varroniana, l’attacco ad personam e la tempestività dell’invettiva, che, in questo caso, è composta subito post mortem di Claudio – giacché «libelli così o si scrivono subito o non si scrivono più» (R. Roncali). Da questo punto di vista, il Ludus è più vicino alla satira luciliana, che sbertucciava i primores populi e non esitava a bollare il vizioso per nome, o a certa libellistica polemica d’età giulio-claudia di cui si ha notizia da Svetonio.

La scrittura di questo caustico pamphlet è agile, scorrevole, varia nell’alternanza di livelli stilistici alti e bassi. Si passa dai toni piani della lingua colloquiale, nelle parti prosastiche, alla parodia della magniloquenza epico-tragica nelle parti metriche. L’alternanza di aulico e volgare, i ricalchi e gli adattamenti parodici dei classici, le ironiche citazioni in greco, le frequenti assonanze con la prosa filosofica fanno di questo libello un finissimo divertissement letterario.

Apoteosi di Tib. Claudio Germanico Augusto, nelle vesti di Giove Capitolino. Statua, marmo, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il ritmo rapido e serrato trascina velocemente il lettore da una scena all’altra (dalla terra al cielo, dal cielo alla terra e poi agli inferi) senza intoppi narrativi. La vivacità degli episodi e la verve satirica hanno fatto pensare anche alla possibilità di una destinazione scenica (non solo di lettura) negli ambienti del palatium.

Gli Epigrammi

Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono adespoti, ma siccome tre di essi, in un altro codice, sono attribuiti all’autore, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione a lui, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso, ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La fortuna

Già si è accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rimproverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo insegnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degni di lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sempre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X 1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, leggevano solamente le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1, 126).

Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolo pronunciarono sullo stile “moderno” dello scrittore. In particolare, Frontone sconsigliava all’imperatore M. Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensavano i difetti, consistenti in un’eloquenza aggrovigliata (confusam… eloquentiam) e nella tendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti positivi, poi, gli sembravano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento, ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).

Non molto più benevolo fu il giudizio di Gellio, che dedicò a Seneca un intero capitolo delle Noctes Atticae (XII 2): il filosofo era ritenuto ineptus et insubidus homo per le critiche da lui espresse (ne XXII libro delle Epistulae morales, che non è giunto) riguardo all’oratoria ciceroniana.

Il contenuto etico delle Epistulae e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spesso, fraintendendone il pensiero, lo considerarono uno degli spiriti nobili del paganesimo più vicini al Cristianesimo. Tertulliano usava l’espressione Seneca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20, 1). Lattanzio lo considerava omnium Stoicorum acutissimus; tra l’altro, questi scrisse, inaugurando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioè ai cristiani) similia locutus est! (Ist. I 5, 28). Girolamo lo nominava di frequente nei suoi testi e per primo citò un carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso, che è pervenuto. In realtà, i punti di contatto tra la filosofia senecana e la teologia paolina erano ben pochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza esterna che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67 d.C.), si avvalevano per la loro “predicazione” del mezzo delle lettere. Il carteggio, comunque, contribuì alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero il contrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli sia dipesa dalla fama medievale di Seneca e dalla diffusione della leggenda sulla sua conversione.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Reg. lat. 1500, f. 62r, illustrazione delle Troades.

In età medievale, infatti, grande fu la fortuna del «Seneca morale», come lo chiamò Dante (Inf. IV 141) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo, che sicuramente lesse. La sua morte era stata intesa come martirio cristiano, secondo una leggenda che, attraverso il Roman de la rose, confluì poi nel Novellino. Quest’ultimo, inoltre, presenta aneddoti della vita di Seneca (tolti dai Fiori dei filosofi) come veri exempla, cioè testimonianze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare.

Una prova ulteriore della fama goduta dal filosofo nel Medioevo consiste nel gran numero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, il Liber de moribus, ecc.). L’autore divenne assai popolare nei secoli XII e XIII: a questo periodo, infatti, risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari monasteri, come quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conservazione dei Dialogi, che, in seguito, ebbero grande diffusione nell’Europa settentrionale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesse per il teatro senecano fu espresso, poi, dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.

Le Epistulae morales ad Lucilium e alcuni trattati furono letti anche da Petrarca e da Boccaccio, i quali, però, non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fu considerato un autore nazionale e tradotto e commentato persino da re Alfonso V in persona.

Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse un Seneca Philosophus da un Seneca Tragicus. L’editio princeps delle opere filosofiche fu quella napoletana del 1475.

Nel XVI secolo Seneca assurse a maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’ammirazione di Montaigne, i cui scritti furono densi di citazioni tratte dalle Epistulae morales e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuitica, poi protestante. Le tragedie dell’orrore, inoltre, con il loro barocco cupo e truculento, furono di grande attualità sia in Italia, sia nell’Inghilterra elisabettiana. Così il teatro senecano influenzò moltissimo Shakespeare (in particolare, nel Macbeth e nell’Hamlet). Lessero Seneca anche Racine e Corneille: quest’ultimo, soprattutto, nella Médée e nella Phèdre imitò le tragedie omonime dell’autore latino.

Barcelona, Archivo de la Corona de Aragón. Col. Manuscritos, Sant Cugat 11 (XIV sec.), f. 1r., illustrazione di una miscellanea con le opere morali di Seneca, che raffigura l’autore intento a leggere, davanti a un armarium.

Anche Voltaire conobbe le opere morali e Alfieri fu influenzato dalle vibranti e cupe scene del teatro di Seneca.

Nell’Ottocento lo scrittore latino continuò a essere letto dagli intellettuali. Criticato da Hegel, che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammarato da Schopenhauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancor oggi continua a costituire uno dei capisaldi della paideia umanistica. Non così per il Seneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo, sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si è aggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.

Il volto dell’indicibile

di J.-P. VERNANT, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna 1987, 39-62.

La maschera di Medusa

Pittore della Gorgone. Testa di Gorgone circondata da animali. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere. 600 a.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Il modello iconografico della Gorgone, nella sua doppia forma di γοργόνειον da una parte (la sola maschera), di personaggio femminile dalla faccia gorgonica dall’altra, non è rappresentato soltanto nella serie dei vasi dipinti. Figura anche, fin dall’epoca arcaica, sul frontone dei templi, ed anche quale acroterio o antefissa. Lo si trova ancora sugli scudi, quale ἐπίσημα, a decorazione di utensili domestici, appeso nei laboratori degli artigiani, fissato sui loro forni, collocato nelle case private, figurato su monete. Apparso agli inizi del VII secolo a.C., questo modello vede costituirsi i suoi tipi canonici nei loro tratti essenziali verso il secondo quarto di tale secolo. Al di là delle varianti che ne presenta l’iconografia corinzia, attica, laconica, si possono delineare, in prima analisi, due caratteristiche fondamentali della rappresentazione di Medusa. Innanzitutto la frontalità. Contrariamente alle convenzioni figurative che regolano lo spazio pittorico greco in epoca arcaica, la Gorgone è sempre, senza alcuna eccezione, rappresentata di faccia. Pura maschera o persona intera, il viso della Gorgone è ogni volta frontale rispetto all’osservatore. In secondo luogo la «mostruosità». Di qualunque tipo siano le modalità adottate nella distorsione espressiva, la figura si avvale sistematicamente delle interferenze tra l’umano e il bestiale, associate e commiste in maniera diversa. La testa, slargata, arrotondata, ricorda un muso leonino, gli occhi sono sbarrati, lo sguardo è fisso e penetrante, la chioma trattata come una criniera animalesca o irta di serpenti, le orecchie ingrandite, deformate, simili talora ad orecchie bovine; il cranio può presentare corna; la bocca, ghignante, si allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo le file dei denti, con zanne ferine o di cinghiale, e con la lingua che fuoriesce, protesa in avanti; il mento è peloso o barbuto, la pelle solcata talvolta da rughe profonde. Questo volto si presenta più come orribile ghigno che come viso. Nello sconvolgimento dei tratti tipici della faccia umana, esso esprime, per un effetto di inquietante estraneità, un mostruoso che oscilla tra due poli: l’orrore del terrifico, il ridicolo del grottesco. Allo stesso modo, tra la Gorgone che è dalla parte del terrifico, e i Sileni o Satiri che, nel registro del mostruoso, si situano dalla parte del grottesco, si possono rilevare, insieme a evidenti contrasti, significative convergenze. Queste due categorie di personaggi hanno del resto chiare affinità con la rappresentazione cruda e brutale del sesso, femminile o maschile – rappresentazione che, come il volto mostruoso di cui essa è per certi aspetti l’equivalente, può provocare sia il terrore di un’angoscia sacra sia lo scoppio del riso liberatore.

Baubò/Iambe. Statuetta, terracotta policroma, V sec. a.C. da Priene.

Per precisare questo gioco d’interferenze tra la faccia di Medusa e l’immagine del sesso femminile – come tra il φαλλός e i personaggi tipo Satiri o Sileni, la cui mostruosità, pur prestandosi al riso, non manca di inquietare –, bisogna spendere una parola sulla singolare figura di Baubo, personaggio dal duplice aspetto: spettro notturno, sorta di orchessa, avvicinata, al pari di Medusa, Mormo o Empusa, a Ecate infernale, ma anche buona vecchia le cui allegre facezie e i cui gesti indecenti riescono a rompere il digiuno di Demetra afflitta per la figlia, provocandone il riso. Il confronto dei testi che riferiscono questo episodio con le statuette di Priene raffiguranti un personaggio femminile ridotto a un semplice volto, che è al tempo stesso un bassoventre, conferisce al gesto di Baubo che alza la veste per ostentare la sua intimità un significato inequivocabile: quel che Baubo fa vedere a Demetra è un sesso che ha preso le sembianze di un volto, un volto in forma di sesso; si potrebbe dire: il sesso fatto maschera.
Nel ghigno, questa figura del sesso si fa risata, uno scoppio di riso al quale risponde il riso della dea, come al ghigno d’orrore che solca il viso di Medusa risponde il terrore di chi la guarda. Il φαλλός, del quale uno dei nomi con cui è indicato, βαυβών, sottolinea il rapporto con Baubo, assume al polo opposto del mostruoso una funzione simmetrica. Normalmente esso accresce il ridicolo, denuncia il grottesco di quei mostri piacevoli che sono i Satiri, ma nelle iniziazioni provoca un effetto di terrore sacro, di spavento affascinato espresso dal gestire di certi personaggi femminili che indietreggiano davanti al φαλλός scoperto.
Esistono del resto due versioni del riso di Demetra mentre è alla disperata ricerca della figlia; e in ognuna di esse la protagonista, per creare l’effetto di choc liberatore rispetto alla tristezza, utilizza l’elemento scandaloso in un diverso registro. Secondo la prima versione, Iambe, γραῖα Ιάμβη, la vecchia Iambe come la chiama Apollodoro, deride Demetra e rompe la sua afflizione con battute licenziose, con l’αἰσχρολογία, come si faceva durante le Tesmoforie o nel γεφυρισμός della processione eleusina. Iambe può essere considerata il femminile di Iambos, il giambo, nel suo aspetto musicale di canto satirico, di poesia di invettiva e di derisione. L’effetto liberatore di una sessualità sfrenata, prossima al mostruoso per il suo carattere anomico, opera del linguaggio e per mezzo del linguaggio: frizzi ingiuriosi, scherzi osceni, battute scatologiche, tutto ciò che il greco comprende nel termine σκόπτειν o nella locuzione παρασκόπτειν πολλά. Nella seconda versione Baubo, sostituendo Iambe, mette in atto le stesse procedure sul piano visivo; ella sostituisce lo spettacolo alle parole, mostra la cosa invece di nominarla. Quando esibisce crudamente il proprio sesso imprimendogli una sorta di movimento, Baubo vi fa apparire il volto ilare di un giovane, il piccolo Bacco (Ἴακχος), il cui nome evoca il grido degli iniziati (ἰάχω, ἰαχή) ma è pure ravvicinato a χοῖρος, porcellino ed anche, certamente, sesso femminile.

Pittore di Anagiro. Gorgone. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere, da Atene. 600-575 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Frontalità, mostruosità: queste due caratteristiche pongono il problema delle origini dello schema figurativo di Medusa. Sono stati ricercati antecedenti nel Vicino Oriente, nel mondo cretese-miceneo, in quello sumerico-accadico. Sono stati proposti agganci con la figura di Bes egiziano e soprattutto con quella del demone Hambaba, così come è rappresentato nell’arte assira. Nonostante l’interesse di questi studi, essi non toccano ciò che ai nostri occhi costituisce il fatto essenziale: la specificità di una figura che, quali che possano essere state le derivazioni o le trasposizioni, si profila come una creazione nuova, assai diversa dagli antecedenti invocati. La sua originalità non può essere colta al di fuori delle relazioni che, in seno all’arcaismo greco, la legano a pratiche rituali, a temi mitici, ad una Potenza soprannaturale, infine, che emerge e si afferma nello stesso tempo in cui si costruisce e si fissa il modello simbolico che la rappresenta nella forma particolare della maschera gorgonica.
A questo riguardo i tentativi di Jane Harrison di basarsi su alcune analogie figurative tra Arpie, Erinni, Gorgoni per ascriverle tutte ad un medesimo fondo religioso «primitivo», e per farne specie diverse di Kῆρες, spiriti nefasti, spettri, brutture, sembrano assolutamente inutili. Non è buona metodologia fondere insieme in un’unica, vaga categoria figure diverse, ignorando le divergenze che, distinguendole chiaramente, conferiscono a ciascuna di esse il loro significato e il loro posto particolare nel sistema delle Potenze divine. Le Erinni non hanno né ali né maschera; le Arpie hanno ali, ma non maschera; le sole Gorgoni, oltre alle ali, presentano la facies di una maschera. Le affinità, sottolineate specialmente da Th.G. Karagiorgia, tra Medusa e la Signora degli Animali, la Πότνια, sono più suggestive. Tra questi due personaggi esistono punti di contatto così come esistono somiglianze o almeno parallelismi nella loro iconografia. Bisognerà tenerne conto. Per alcuni aspetti Medusa si presenta come la faccia cupa, il sinistro rovescio della Grande Dea di cui Artemide in modo particolare raccoglierà l’eredità. La presenza di divergenze, di stacchi tra i due modelli deve tuttavia metterci in guardia da una pura e semplice assimilazione. Essenziale rimane comprendere perché e come i Greci abbiano elaborato una figura simbolica che, combinando in una forma singolare faccialità e mostruosità, si distingue abbastanza nettamente da tutte le altre per farsi subito riconoscere per quel che è: la faccia di Medusa.

Frontone del tempio di Artemide. La Gorgone (dettaglio), da Corfù. Museo Archeologico di Corfù.

Al fine di illustrare questi punti di vista un po’ astratti faremo un esempio. Sul Vaso François (verso il 570 a.C.) tutti gli dèi sono rappresentati come in un repertorio: sono tutti di profilo, ad eccezione di tre personaggi: la Gorgone, raffigurata sulla faccia interna delle due anse, Dioniso, che regge un’anfora sulle spalle, e Calliope, una delle Muse. Nei casi della Gorgone e di Dioniso, il cui volto è reso come una maschera, la frontalità non ci sorprende: si potrebbe dire che va da sé. Nel caso di Calliope costituirebbe un problema se la Musa non fosse rappresentata, nel corteo divino, intenta a suonare la zampogna, lo strumento campestre detto anche “flauto di Pan”. E noi mostreremo, ampliando le osservazioni di Paul M. Laporte su questo argomento, che soffiare nel flauto equivale, per molteplici ragioni, a farsi la faccia di Medusa. Alle Gorgoni dipinte internamente alle anse corrispondono, all’esterno, le figurazioni della Signora degli Animali. I due tipi di Potenza si trovano dunque praticamente associati e, al tempo stesso, contrapposti. Il contrasto si realizza su vari piani. In primo luogo, e soprattutto, le Gorgoni sono di prospetto, le Signore degli Animali di profilo, come tutti gli altri dèi o eroi che figurano sul vaso. Inoltre le Gorgoni sono in corsa, con le ginocchia flesse; le Signore sono immobili, in piedi, ritte, in atteggiamento ieratico. Le Gorgoni hanno un chitone corto, le Signore una lunga tunica che le avvolge fino ai piedi. La chioma delle prime, irta, si contrappone a quella delle seconde, portata normalmente all’indietro sulle spalle mediante una fascia. Il valore di maschera del volto gorgonico si accompagna dunque, nell’iconografia, a tutta una serie di indizi che contrassegnano senza ambiguità la differenza rispetto al modello della Πότνια, la Signora degli Animali.
Uno studio iconografico dovrà tendere ad esplorare tutta la rete di questi segni e a delineare il quadro degli elementi significativi dell’immagine, del loro ruolo all’interno di diverse serie omogenee, stabilite in funzione del luogo d’origine, della natura degli oggetti, dei temi figurati. […]

Sigillo in sardonico con la rappresentazione di una «Potnia thḗrōn», da Cnosso (Creta). Periodo Neopalaziale (1600-1400 a.C.). Museo Archeologico di Herakleion.

Nelle rappresentazioni figurate il cavallo – o i cavalli quando sono due in posizione simmetrica – si associa alla Gorgone talora come una parte di lei, un suo prolungamento o una sua emanazione, talora come il piccolo che ella nutre e protegge, talora come la prole che ella partorisce o anche la cavalcatura che ella cavalca, talora infine, sulla linea del mito di Perseo, come il cavallo Pegaso che balza, mentre ella muore, dal suo collo troncato. Riguardo alle varie possibilità di associazione tra la Gorgone e il cavallo c’è dunque nell’iconografia, quando la si confronti con la leggenda, un surplus e quasi un’esuberanza di significati.

Una faccia del terrore

Ma passiamo ai testi per chiarire – attraverso le indicazioni che ci forniscono sui miti e sugli elementi del rituale legati alla Gorgone – la personalità, i modi d’azione, i campi d’intervento, le forme di manifestazione della Potenza fatta maschera.
Fin da Omero è già innalzato il teatro sul quale Medusa fa la sua apparizione e interpreta i suoi differenti ruoli. Nell’Iliade la scena è guerresca. Medusa figura sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone; sull’altro fronte, quando Ettore, portando la morte nella mischia, fa girare in tutti i sensi i cavalli, «i suoi occhi hanno lo sguardo della Gorgone». In questo contesto di scontro senza remissione, Gorgone è una Potenza di Terrore, associata a «Spavento, Rotta, Inseguimento che gelano i cuori». Ma questo terrore di cui incarna la presenza, che in qualche maniera mobilita, non è «normale»; non dipende dalla situazione particolare di pericolo in cui ci si può trovare. È il terrore allo stato puro, il Terrore come dimensione del soprannaturale. In effetti, questa paura non è né seconda né motivata, come quella che provocherebbe la coscienza di un pericolo. È prima. Di primo acchito e di per se stessa Medusa produce un effetto di spavento perché appare sul campo di battaglia come un prodigio (τέρας), un mostro (πέλωρ), in forma di testa (κεφαλή), terribile e spaventosa (a guardarsi e a udirsi, δεινή τε σμερδή τε), con il volto dall’occhio terribile (βλοσυρῶπις), con lo sguardo terrificante (δεινόν δερκομένη). Maschera e occhio gorgonici, se ci si attiene all’Iliade, operano in un contesto ben definito; essi appaiono integrati all’attrezzatura bellica, alla mimica, alla smorfia stessa del guerriero (uomo o dio) posseduto dal μένος, il furore guerresco; concentrano in qualche modo la potenza di morte che irradia dalla persona del combattente ricoperto dell’armatura e pronto a manifestare la straordinaria vigoria nella battaglia, la forza (ἀλκή) di cui è dotato. La folgorazione dello sguardo di Medusa agisce congiuntamente allo splendore del bronzo rilucente i cui barbagli, dall’armatura e dall’elmo, salgono fino al cielo e diffondono il panico. La bocca del mostro, spalancata, evoca il terrificante grido di guerra che Achille, risplendente della fiamma che Atena gli fa sprigionare dal capo, lancia a tre riprese prima del combattimento. «Si direbbe che si tratta della voce sonora della tromba che squilla» e questa «voce di bronzo», nella bocca dell’Eacide, basta a far tremare di terrore le file nemiche.

Gorgone alata in corsa. Statua acroteriale, terracotta policroma, VII sec. a.C. da un tempio dorico (Siracusa). Siracusa, Museo Archeologico Regionale.

Non è necessario accettare la tesi di Thalia Phillies Howes, che collega Γοργώ, γοργός, γοργοῦμαι al sanscrito garġ, per riconoscere le connotazioni sonore della maschera della Gorgone. Thalia Phillies Howes scrive: «È chiaro che un qualche suono terrificante era la forza che in origine stava dietro la Gorgone: un suono gutturale, un urlo animale, che usciva dalla gola con un possente respiro, e che richiudeva una bocca spalancata». I nostri rilievi saranno più limitati e più precisi. Sappiamo da Pindaro che dalle mascelle vorticose delle Gorgoni lanciate all’inseguimento di Perseo si alza uno strepito lamentoso (ἐρικλάγταν γόον) e che queste grida escono ad un tempo dalle loro bocche di fanciulle e da quelle degli orribili serpi loro associati. Questo grido acuto, inumano (κλάζω, κλαγγή) è quello che nell’oltretomba urlano i morti nell’Ade (κλαγγή νεκύων). […] Per sottolineare, sul doppio registro visivo e sonoro, i legami della maschera di Medusa con la mimica facciale del combattente in preda alla frenesia bellica, insisteremo tuttavia su un particolare significativo. Tra gli elementi che rendono terrificante il personaggio del guerriero, accanto al grido formidabile, al bagliore del bronzo, alle fiamme che si sprigionano dalla sua testa e dai suoi occhi, il testo dell’Iliade aggiunge, nel caso di Achille, una notazione che attirò già l’attenzione di Aristarco: lo stridore dei denti (ὀδόντων καναχή). François Bader ha spiegato il senso di questo rictus sonoro collegandolo, attraverso i suoi paralleli nella letteratura irlandese, all’immagine del guerriero indoeuropeo che Georges Dumézil ha saputo ricostruire. Ebbene, nello Scudo, menzionando «le teste di terribili serpenti» che gettavano il terrore (φοβέεσκον) fra le tribù degli uomini, Esiodo riprende al v. 164 l’espressione omerica: «risuonava lo stridore dei loro denti» (ὀδόντων καναχή πέλεν); e al v.234, riferendosi questa volta ai serpenti delle Gorgoni in corsa sulla scia di Perseo, scrive che questi mostri «dardeggiavano la lingua, digrignavano i denti dal furore (μένει δ᾽ ἐχάρασσον ὀδόντας), lanciando sguardi selvaggi». Quando, le armi rilucenti, un raggio di fuoco negli occhi, Achille stravolge il volto in una smorfia terribile, batte le mascelle, lancia un grido inumano di guerra al pari di Atena Egioca, l’eroe, infuriato, posseduto dal μένος, presenta un volto da maschera gorgonica.

Exekias. Achille e Pentesilea. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere. 540-530 a.C. London, British Museum.

Bagliore folgorante delle armi, sfavillio insostenibile della testa e degli occhi, violento grido di guerra, rictus e stridore di denti – un altro aspetto ancora avvicina la faccia mostruosa di Medusa al guerriero posseduto dal μένος, il furore della carneficina. Lo si potrebbe situare nella rubrica «effetti della chioma». Quando sarà necessario precisare il posto del cavallo nel bestiario strettamente associato a Medusa e notare le affinità cavalline della stessa, dovremo segnalare i valori dell’aggettivo γοργός applicato al cavallo. È lo stesso termine usato da Senofonte per caratterizzare l’aspetto che i lunghi capelli conferiscono ai giovani guerrieri spartani. Per i giovani che escono dall’efebia il non tagliarsi i capelli non dipende da civetteria o da una scelta individuale; è, per tutta una classe d’età, un obbligo stretto, il segno e quasi la consacrazione del loro stato: «A coloro che uscivano dall’efebia Licurgo ingiunse di portare i capelli lunghi, ritenendo che sembrassero più grandi, più nobili, più terribili (γοργοτέρους)». Plutarco conferma e precisa Senofonte: allora «allentavano anche ai giovani la rigidezza della disciplina (ἀγωγή): permettevano loro di abbellire la chioma, adornare le armi e le vesti, godendo che scalpitassero e sbuffassero come cavalli prima della corsa. All’uscire dall’adolescenza si lasciavano crescere i capelli, e specialmente in tempo di pericolo curavano che fossero scriminati e lucidi, ricordandosi di un detto di Licurgo: “I capelli rendono i belli più affascinanti e i brutti più orribili (φοβεροτέρους)”».
Una glossa ci indica il nome di questa operazione che mirava a far brillare la lunga chioma: «ξανθίζεσθαι: a Sparta “curarsi i capelli”; in Attica “tingersi i capelli”». Ξανθός significa «biondo» nel senso di «dorato», in un’accezione di splendore, come per l’oro e per il fuoco. Ξανθός è diverso da χλωρός, giallastro, con una sfumatura di pallore, addirittura di debolezza: la paura, δέος, è detta anche χλωρόν. Xanthos è anche un nome di cavallo, il cavallo guerriero e divino. Uno dei cavalli di Achille, nato da Zefiro e da Podarge, si chiama Xanthos. E Xanthos è anche il nome del cavallo di Castore, quello dei due Dioscuri che rappresenta il giovane e il cavaliere. Presso i Macedoni il termine designa le cerimonie rituali di purificazione della cavalleria, le Ξανθικὰ, nel corso delle quali si sacrificava al dio Xanthos. C’è un rapporto tra le fulve criniere dei cavalli da guerra e il biondo ramato dei capelli che il giovane guerriero, all’uscir dall’efebia, fa agitare come una criniera.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Nella Vita di Lisandro Plutarco segnala, per respingerla, un’altra interpretazione di cui si era fatto eco Erodoto e che collegava il costume spartano di mantenere i capelli lunghi alla battaglia in cui si affrontarono, per la Tireaide, due corpi scelti di trecento combattenti che rappresentavano per Argo e Sparta, le due città in lotta, il fior fiore della gioventù guerriera. Alla fine gli Argivi furono vinti. «Si rasero allora gli Argivi la testa – mentre prima portavano d’obbligo i capelli lunghi – […] Mentre i Lacedemoni istituirono una legge opposta: decidendo, con opposto costume a quello solito, di portare i capelli lunghi». Plutarco respinge invece la spiegazione che riallaccia l’usanza spartana alla volontà dei vincitori di distinguersi dai vinti: «Non è vero ciò che dicono alcuni, e cioè che gli Argivi, dopo aver subito una grave sconfitta, si facevano tagliare i capelli in segno di lutto, e viceversa gli Spartani, per aver combattuto bene, se li lasciarono crescere in segno di esultanza […]. Anche quest’usanza si deve a Licurgo. Egli, raccontano, disse della chioma lunga che rende i belli più affascinanti all’aspetto, e i brutti più orribili».
Tuttavia, se del racconto erodoteo si considera meno il fondamento «storico» che l’autore pretende di dare alla regola spartana e si sottolinea maggiormente il rapporto di opposizione che vi si esprime tra capelli rasati, onta della sconfitta, lutto e dolore, e capelli lunghi, vittoria, celebrazione, si potrà concludere che le due spiegazioni dell’antica usanza non sono contraddittorie. La bellezza virile del guerriero, enfatizzata da una capigliatura lunga e ondeggiante, comporta un aspetto «terrificante» il cui effetto sul campo di battaglia è, nel senso attivo del termine, «segno» di vittoria, così come i capelli rasati sono, con le altre manifestazioni del lutto, uno dei mezzi rituali che, oltraggiando e imbruttendo il volto dei viventi, consente di avvicinarli, nel corso dei funerali, a quel mondo di fantasmi senza forza e senza smalto, dove si dirige il defunto di cui si piange la scomparsa.
Il contrasto capelli lunghi/capelli corti chiarisce forse un’altra usanza spartana. A Sparta si conservò la tradizione di sposarsi con il rapimento della donna: «Rapita, la sposa veniva presa in consegna dalla madrina (νυμφεύτρια), così era chiamata, che le rasava il capo, le faceva indossare un mantello e dei calzari virili…».
Nessuno negherà che si tratta di un rito di passaggio, con mascheramento e inversione dello statuto sessuale. Ma questo non è tutto, e forse non è nemmeno l’essenziale, nella misura in cui il giovane, divenuto uomo compiuto all’uscire dall’efebia – come la giovane diventa donna completa entrando nello stato matrimoniale –, conserva i suoi capelli lunghi proprio in segno della sua piena virilità, una virilità che fin nella formazione oplitica conserva il ricordo e quasi la traccia di quel «furore» che, in tempi eroici, doveva abitare l’anima del giovane guerriero perché questi portasse il terrore nel campo nemico. Rasando il capo della giovane sposa, si estirpa da lei ciò che ancora poteva restare di mascolino e di guerresco nella sua femminilità, di selvaggio nel suo nuovo stato matrimoniale. Si evita di introdurre in casa, sotto la maschera della sposa, la faccia di Medusa.
Esichio nota che a Sparta è detto πόλος il giovane, o la giovane, non civilizzato, non integrato. Πόλος è il giovane cavallo, puledro o puledra. Nella Lisistrata Aristofane evoca le κόραι, le giovani vergini di Sparta: «Simili a puledre lungo l’Eurota scherzano le fanciulle fitta polvere levando coi piedi, le chiome agitando come fossero Baccanti che sfrenate brandiscono il tirso».

Pittore Macrone. Una menade invasata. Pittura vascolare a una kylix attica a figure rosse, 490-480 a.C. c. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

La selvatichezza del guerriero maschio si esprime attraverso la sua capigliatura lunga e fluttuante, simile alla criniera di un cavallo. La selvatichezza della giovane si manifesta nei suoi capelli sciolti che l’assimilano ad una puledra in libertà. Il rituale della testa rasata, per la giovane sposa, gioca su questi due simbolismi contrastanti che nella loro opposizione si rafforzano, dato che la sposa, se deve distinguersi dalla παρθένος per entrare nello stato coniugale, deve anche distinguersi nettamente dal marito.
Tagliando i capelli delle donne appena sposate, non soltanto si addomesticavano queste puledre non ammansite, ma si esorcizza in esse quell’inquietante elemento di selvatichezza che Atena e Artemide, le due vergini escluse dal matrimonio, detengono ciascuna a suo modo, Atena la guerriera mediante il volto di Medusa che tiene sul petto, Artemide la nutrice, la giovane selvaggia, con il lato gorgonico del suo personaggio e con le maschere che intervengono nei riti di iniziazioni dei giovani cui ella presiede.
Con l’Odissea, cambiamento di scena. Da guerresca, questa si fa infernale. I luoghi sotterranei, il regno della Notte, non sono tuttavia un mondo di silenzio. Nel libro XI Odisseo racconta il suo arrivo nell’Ade; la folla dei morti, ivi radunata, solleva «terribili grida» (ἠχῇ θεσπεσίῃ). «E verde orrore mi prese che il capo della Gorgone, il mostro tremendo, dall’Ade mandasse la lucente Persefone» (ἐμὲ δὲ χλωρὸν δέος ᾕρει,/μή μοι Γοργείην κεφαλὴν δεινοῖο πελώρου/ἐξ Ἀίδεω πέμψειεν ἀγαυὴ Περσεφόνεια). Subito Odisseo retrocede. Medusa è a casa propria nel paese dei morti di cui vieta l’entrata a ogni uomo vivente. Il suo ruolo è simmetrico a quello di Cerbero: lei impedisce al vivo di penetrare nel regno dei morti, Cerbero impedisce al morto di ritornare nel mondo dei vivi. Al pari di Omero, Aristofane colloca nell’Ade, accanto a Cerbero, Stige ed Echidna, le Gorgoni; Apollodoro racconta, anche lui, che davanti ad Eracle disceso negli Inferi tutte le ψυχαί fuggirono, eccetto Meleagro e Medusa. Dal fondo dell’Ade dove dimora, la testa di Medusa sorveglia, custodisce, vigila i confini del regno di Persefone. La sua maschera esprime e conserve l’alterità radicale del mondo dei morti cui nessun vivente può avvicinarsi. Per valicarne la soglia bisognerebbe aver affrontato la faccia di terrore ed essersi trasformati, secondo l’immagine di Medusa, in quello che sono i morti: teste, teste vuote, prive di forza, di ardore, i νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα secondo le parole di Omero.
Il volto del vivo, nella singolarità dei suoi tratti, è uno degli elementi della persona. Ma, nella morte, quella testa alla quale ci si trova ridotti, quella testa ormai inconsistente e senza più forza, pari all’ombra di un uomo o al suo riflesso in uno specchio, è annegata nell’oscurità, incappucciata di tenebre. È una testa vestita di notte, simile, nel regno dell’ombra, a quei volti che alla luce del sole alcuni eroi, come Perseo, ricoprono dell’elmo di Ade per rendersi così invisibili agli occhi dei viventi. L’Ἄιδος κυνέη, l’elmo in pelle di cane, copricapo di Ade, «contiene le tenebre lugubri della Notte» secondo le parole di Esiodo. Esso avvolge come una nube tenebrosa tutta la testa, la maschera, rendendo chi la porta invisibile a tutti gli sguardi, alla pari di un morto.

Uomo mascherato (Phersu) in fuga. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

Le affinità infernali di Medusa orientano la ricerca in una duplice direzione. In primo luogo, ci portano a fare una digressione in ambito etrusco e ad aprire una parentesi circa la tesi di Altheim, ripresa e modificata in particolare da Agnello Baldi e da J.H. Croon. Richiamando la derivazione del latino persona (maschera, ruolo, persona) dall’etrusco Phersu, Altheim istituiva un’equivalenza tra Phersipnai e Περσεφόνη. Phersu figura in due affreschi della tomba detta degli Auguri, a Tarquinia (verso il 530 a.C.). Su una delle pareti laterali della camera mortuaria si affrontano due personaggi. L’uno porta una maschera tenebrosa che gli nasconde il volto e presenta una barba bianca che sembrerebbe posticcia. Un’iscrizione lo designa come Phersu, che dunque significherebbe «uomo mascherato», «portatore di maschera». Questo personaggio mascherato tiene con le due mani una lunga corda che si attorciglia alle gambe e alle braccia del suo avversario. Un’estremità di questa corda è fissata al collare di un cane che morde la gamba sinistra del secondo lottatore che impugna nella destra una clava e la cui testa è avvolta da un drappo bianco. Dalle ferite il sangue cola copioso. Lo stesso gruppo di due personaggi è rappresentato sulla parete di fronte. L’uomo mascherato non ha più né laccio né cane. Fugge a gambe levate, inseguito dall’avversario verso il quale gira la testa protendendo il braccio destro con la mano levata. L’interpretazione delle due scene è difficile e nessuna spiegazione sembra del tutto soddisfacente. Per Altheim si tratterebbe di una lotta rituale all’ultimo sangue in un gioco funebre in onore del defunto. Il termine Phersu designerebbe il Portatore di maschera officiante nel corso della cerimonia. Per J.H. Croon, la maschera costituisce nei giochi funebri un modo di figurare lo spirito del morto; nel corso di una danza rituale il Portatore di maschera mima e attualizza la Potenza d’Oltretomba, come Persefone, attraverso la maschera di Medusa posta sotto la sua autorità, presiede di persona al mondo infernale. Per R.B. Onians le scene hanno un significato diverso: il lottatore, armato di clava e attaccato dal cane, sarebbe Eracle disceso agli Inferi; Phersu andrebbe allora interpretato come Ade, alla fine vinto e messo in fuga. Per Agnello Baldi, Phersu, Περσεύς, Ade sono una sola e identica divinità. Comunque stiano le cose, nelle pitture murali etrusche di Orvieto e di Tarquinia, Ade è figurato con un elmo di pelle di lupo o di cane, che evoca sia la κυνέη indossata da Perseo sia la maschera di Phersu.

Rito del Phersu. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

La seconda via offre un terreno più sicuro. Si tratta di seguire Esiodo in quei confini del mondo dove la Teogonia localizza le Gorgoni e le associa a tutta la stirpe dei mostri loro apparentati. Le Gorgoni appartengono alla discendenza di Forco e Ceto, il cui nome evoca al tempo stesso un’enormità mostruosa e, nel più profondo del mare e della terra, cavernose voragini. In effetti, tutti i figli della coppia hanno in comune, accanto alla mostruosità, il fatto di abitare «lontano dal dio e dagli uomini», nelle regioni sotterranee, al di là dell’Oceano, alla frontiera della Notte, spesso per svolgervi il ruolo di guardiani, addirittura di spauracchi, che sbarrano l’accesso a luoghi proibiti. Nati dall’unione di Ponto e Gea, Forco e Ceto generano prima le Graie, le vergini canute della nascita, che uniscono in sé il giovane e il vecchio, la freschezza della bellezza e le rughe di una pelle paragonabile a quella pellicola ruvida che si forma sulla superficie del latte raffreddato e che ha per l’appunto il loro nome: γραῦς, pelle rugosa. La prima delle Graie esiodee si chiama Πεμφρηδώ; πεμφρηδών è una sorta di vespa vorace che scava cavità sotterranee. La seconda si chiama Ἐνυώ, nome che evoca la signora dei combattimenti e il violento grido di guerra, l’invocazione squillante (ἀλαλή), che si alza in onore di Enialo. Sorelle delle Graie, le tre Gorgoni, che uniscono nel loro gruppo il mortale e l’immortale, abitano al di là delle frontiere del mondo, dalla parte della Notte, nel paese delle Esperidi dalla voce canora (λιγύφωνοι). La Gorgone mortale, di nome Medusa, si unisce a Poseidone in una tenera prateria fiorita di fiori primaverili, paragonabile a quella dove Ade rapisce la giovane Kore per portarla sottoterra e farne Persefone. Quando Perseo ebbe reciso la testa di Medusa, le uscirono dal collo Crisaore e il cavallo Pegaso che si slanciò verso il cielo. Crisaore generò Gerione tricefalo, colui che fa risuonare la sua voce (γηρύω), che fa esplodere un γήρυμα come l’ὑπέρτονον γήρυμα, il grido acutissimo della tromba d’Etruria.

Dea assisa in trono (forse Persefone?). Statua, marmo, 460 a.C. ca. da Taranto. Berlin, Pergamonmuseum.

A Gerione è associata una dei nati dalla terza nidiata di Forco e Ceto, l’atroce Echidna, metà ragazza metà serpente, che abita nelle segrete profondità della terra, lontano dagli dèi e dagli uomini. Tra altri mostri, questa Echidna dà a sua volta la vita ai due cani ringhiosi, stizzosi e latranti, ai due cani simmetrici Orto, cane di Gerione, e Cerbero, cane di Ade, la bestia dalle cinquanta teste, «dalla voce di bronzo», che custodisce le dimore piene di frastuono (δόμοι ἠχήεντες) del suo padrone e di Persefone, la Temibile. In questi stessi luoghi dell’Averno, regno della Tenebra e del Terrore, goccia l’acqua dello Stige (Στύξ), il solenne testimone dei giuramenti degli dèi. Alle divinità colpevoli di spergiuro questa acqua primordiale (ὕδωρ ὠγύγιον) porta ciò che corrisponde alla morte per gli Immortali che ad essa non sono sottoposti: un κῶμα temporaneo che li avvolge, privati di respiro e di voce, per un anno buono, così come la morte avvolge per sempre di tenebre la testa degli uomini. In questo senso Stige rappresenta per gli dèi ciò che è Medusa per le creature umane: un oggetto di orrore e di terrore. Come Stige è στυγερή ἀθανάτοισι, orrore degli Immortali, così le Gorgoni, che nessun essere umano può guardare senza spirare all’istante, sono βροτοστυγεῖς, l’orrore dei mortali. Styx è anche il barbagianni, doppio sinistro della civetta, uccello infausto, caratterizzato dalla grossa testa, dall’occhio malvagio, dal grido notturno della sua bocca.

Persefone. Pinax, terracotta, V sec. a.C. da Mannella (Locri). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Nelle zone infernali Tenebre, Spavento, figure e grida mostruose si assommano per esprimere l’«alterità» di Potenze estranee al dominio delle divinità celesti come pure al mondo degli uomini, lo statuto interamente separato di esseri ai quali, come dice Eschilo a proposito delle γραῖαι παλαιαὶ παῖδες, le vecchie fanciulle ancestrali, non si mescolano né dio, né uomo, né bestia.
Le sonorità inquietanti fanno a tal punto parte dell’universo al quale si collegano le Gorgoni che nel passo dello Scudo dove si parla della loro corsa, Esiodo aggiunge alle indicazioni puramente visive, di cui si è servito fino a quel momento per descrivere la scenda dello scudo di Eracle, notazioni auditive: sotto i loro piedi lo scudo risuonava con un grande clamore stridente e sonoro (ἰάχεσκε σάκος μεγάλῳ ὀρυμαγδῷ /ὀξέα καὶ λιγέως). Le uniche ulteriori indicazioni sonore del testo riguardano, l’abbiamo visto, il battito delle mascelle dei serpenti che terrorizzano gli esseri umani o di quelli che si attorcigliano intorno alle cinture delle Gorgoni.
Nella schiatta dei mostri nati da Forco e Ceto i serpenti hanno il posto d’onore. I suoni stridenti emessi dalla strozza delle Gorgoni o che vanno modulando le loro mascelle vorticose sono anche quelli dei serpenti che, di concerto, digrignano e battono i denti. Con il serpente, sono il cane e il cavallo a costituire le tre specie animali la cui forma e la cui voce entrano più specificamente nella composizione del «mostruoso». Se la «voce di bronzo» di Cerbero (χαλκεόφωνος) echeggia nelle dimore dell’Ade, le Erinni, quando Eschilo le paragona a Gorgoni, fanno sentire grugniti, ringhi stridenti; gemono, come «geme» negli Inferi il lungo lamento degli uomini suppliziati; esse «latrano come cani», dice il tragediografo, ed il termine impiegato, κλαγγαίνω, richiama la κλαγγή dei morti nell’Odissea e il lamento stridente e sonoro delle Gorgoni e dei loro serpenti.

Gruppo del pittore Leagro. Gorgoneion. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca. da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Anche il cavallo, per come agisce e per le sonorità che gli sono proprie, può tradurre la presenza inquietante di una Potenza degli Inferi che si manifesta in forma animale. Alla sua nervosità, alla sua tendenza ad imbizzarrirsi di colpo per effetto di un improvviso terrore come quello causato dalla potenza demoniaca di Tαράξιππος, il Terrore dei cavalli (τὸ τῶν ἵππων δεῖμα), che lo porta a diventare frenetico e selvaggio fino a divorare la carne umana, a fremere, a sbavare, a coprirsi di schiuma bianca, bisogna aggiungere il nitrito, il fragore degli zoccoli che martellano la terra, il sordo digrignare dei denti (βρυγμός) e infine, tra le mascelle, il rumore sinistro del morso che provoca terrore, facendo risuonare l’omicidio. Nel lessico riferito al cavallo, γοργός assume un significato quasi tecnico. Riferito a tale animale, infatti, γοργοῦμαι significa «scalpitare». Senofonte nota, nell’Equitazione, che il cavallo nervoso e impetuoso è terribile a vedersi (γοργὸν ἰδεῖν), che le sue nari spalancate lo rendono γοργότερον, che i cavalli, quando si uniscono in torme, con il battito degli zoccoli, i nitriti, gli sbuffi moltiplicati dal numero, sembrano più ardenti e focosi (γοργότατοι).