La crisi del III secolo: la paura di vivere e l’anarchia militare

Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.

Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.

Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).

M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).

Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.

La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio.  Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).

Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.

Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.

La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.

Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.

Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς,  φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).

Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.

Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.

Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.

Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.

Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.

Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.

I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.

Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.

Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.

Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):

Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.

Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.

Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.

I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.

Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.

Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.

Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.

Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.

L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.

Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.

Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.

Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).

È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).

La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.

La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.

Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.

In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.

Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.

L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.

Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.

Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).

Bibliografia:

G. Alföldy, The Crisis of the Third Century as Seen by Contemporaries, GRBS 15 (1974), 89-111.

Bianchi Bandinelli R., Roma. La fine dell’arte antica, Milano 1970.

A.K. Bowman, P. Garnsey, A. Cameron (eds.), Cambridge Ancient History: The Crisis of Empire (A.D. 193-337), Cambridge 2005.

M. Cappelli, Per un pugno di barbari. Come Roma fu salvata dagli imperatori soldati, Milano 2021.

M.H. Dodgeon, S.N.C. Lieu (eds.), The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars (AD 226-363): A Documentary History, London-New York 1991.

E.R. Doods, Pagan and Christian in an Age of Anxiety: Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965.

J.F. Drinkwater, H. Elton (eds.), Fifth-Century Gaul. A Crisis of Identity?, Cambridge 1992.

P. Edwell, Rome and Persia at War: Imperial Competition and Contact, 193-363 CE, London-New York 2020.

H. Halfmann, Itinera Principum. Geschichte und Typologie der Kaiserreisen im römischen Reich, Stuttgart 1986.

F. Hartmann, Herrscherwechsel und Reichskrise. Untersuchungen zu den Ursachen und Konsequenzen der Herrscherwechsel im Imperium Romanum der Soldatenkaiserzeit (3. Jahrhundert n. Chr.), Frankfurt a.M.-Bern 1982.

O. Hekster, Rome and Its Empire, AD 193-284, Edinburgh 2008.

K.-P. Johne (ed.), Die Zeit der Soldatenkaiser, Berlin 2008.

E. Kettenhofen, Die römisch-persischen Kriege des 3. Jahrhunderts n. Chr., Wiensbaden 1982.

R. Lane Fox, Pagans and Christians: In the Mediterranean World from the Second Century AD to the Conversion of Constantine, London 1986.

R. MacMullen, Paganism in the Roman Empire, New Haven-London 1983.

A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 1973².

M. Sommer, Die Soldatenkaiser, Darmstadt 2014.

P. Southern, The Roman Empire from Severus to Constantine, London 2001.

S. Swain, M. Edwards (eds.), Approaching Late Antiquity: the Transformation from Early to Late Empire, Oxford 2004.

E.A. Thompson, Peasant Revolts in Late Roman Gaul and Spain, P&P 2 (1952), 11-23.

H. Wolfram, History of the Goths, Berkeley 1988.

Plotino di Licopoli

I. La vita, l’opera, la scuola

Da Alessandria a Roma. | Della vita di Plotino (Πλωτῖνος) si sa quasi esclusivamente quello che riferisce il suo discepolo Porfirio nella Vita Plotini. Infatti, non solo Plotino non parlò mai di sé nella sua opera, ma non volle parlarne nemmeno con gli amici più intimi. Scrive Porfirio (Plot. 1):

Πλωτῖνος ὁ καθ’ ἡμᾶς γεγονὼς φιλόσοφος ἐῴκει μὲν αἰσχυνομένῳ ὅτι ἐν σώματι εἴη. Ἀπὸ δὲ τῆς τοιαύτης διαθέσεως οὔτε περὶ τοῦ γένους αὐτοῦ διηγεῖσθαι ἠνείχετο οὔτε περὶ τῶν γονέων οὔτε περὶ τῆς πατρίδος. Ζωγράφου δὲ ἀνασχέσθαι ἢ πλάστου τοσοῦτον ἀπηξίου ὥστε καὶ λέγειν πρὸς Ἀμέλιον δεόμενον εἰκόνα αὐτοῦ γενέσθαι ἐπιτρέψαι· οὐ γὰρ ἀρκεῖ φέρειν ὃ ἡ φύσις εἴδωλον ἡμῖν περιτέθεικεν, ἀλλὰ καὶ εἰδώλου εἴδωλον συγχωρεῖν αὐτὸν ἀξιοῦν πολυχρονιώτερον καταλιπεῖν ὡς δή τι τῶν ἀξιοθεάτων ἔργων;

«Plotino, il filosofo dell’età nostra, aveva l’aspetto di uno che si vergogna di essere in un corpo. In virtù di tale disposizione d’animo, egli aveva ritegno a parlare della sua nascita, dei suoi genitori, del suo luogo di provenienza. Sdegnava a tal punto il mettersi a disposizione di un pittore o di uno scultore che ad Amelio, il quale voleva convincerlo a che gli si facesse il ritratto, rispose: “Non basta, dunque, trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire; ma voi pretendete addirittura che io consenta a lasciare una più durevole immagine di tal simulacro, come se fosse davvero qualcosa che valga la pena di vedere?”».

Stando alla Suda (π 1811 Adler), Plotino nacque a Licopoli, presso il Delta del Nilo (od. Sajin al-Kum?), verso il 205, il tredicesimo anno di principato di Settimio Severo. Nel 232, all’età di ventott’anni, Plotino iniziò a dedicarsi interamente alla filosofia, entrando a far parte del circolo di Ammonio Sacca ad Alessandria, presso il quale rimase fino al 243. Mentre frequentava la scuola di Ammonio, Plotino si era convinto della necessità di un contatto diretto con la sapienza orientale, che, probabilmente, considerava il completamento di quanto avesse appreso dal maestro.

La spedizione contro i Sassanidi di Gordiano III nel 243 sembrò, dunque, offrirgli l’occasione propizia di confrontarsi con Gimnosofisti e Magi; così, Plotino lasciò Alessandra per seguire l’imperatore (Porph. Plot. 3). Si rivelò tuttavia un’esperienza drammatica, che non gli poté dare alcuno dei frutti sperati: il giovane imperatore fu ucciso in Mesopotamia e il filosofo riparò ad Antiochia, riuscendo solo a stento a salvarsi. Di qui egli non poté o non volle far ritorno in Egitto (probabilmente Ammonio era scomparso) e decise di recarsi a Roma, dove giunse ancora nel 244, quando M. Giulio Filippo era ormai asceso alla porpora. Allora Plotino aveva ormai raggiunto i quarant’anni e si sentiva, perciò, maturo per aprire nella capitale dell’Impero una scuola tutta sua.

Per circa un decennio (244-253) il filosofo tenne lezioni, rifacendosi alle conversazioni di Ammonio e al suo metodo, lasciando largo spazio alla discussione e alla diretta ricerca di coloro che lo frequentavano, ma senza comporre nessuno scritto. Si trattava di mantenere fede al vecchio patto stretto con due suoi condiscepoli, Erennio e Origene, sebbene più tardi avesse scoperto che essi lo avevano tradito. Solo dal 254 Plotino ruppe gli indugi e si mise a scrivere pure lui. Quando Porfirio giunse a Roma nel 263, Plotino aveva già composto ben ventun trattati. Ne scrisse altri ventiquattro fra il 264 e il 268, e i restanti nove dopo il 268.

Porfirio, ammesso nella scuola, ricevette dal maestro l’incarico di emendare e riordinare i vari scritti (Porph. Plot. 3-8; 24-25). Siccome questi testi erano stati redatti senza un ordine preciso, Porfirio decise di seguire il modello adottato da Andronico di Rodi nella pubblicazione delle opere di Aristotele, cioè di radunare insieme i libri che trattavano tematiche molto vicine. In più, Porfirio si lasciò guidare dalla convinzione del significato metafisico del numero e, combinando con la «perfezione del numero sei» l’«enneade», cioè il numero nove, divise i cinquantaquattro trattati plotiniani in sei gruppi di nove ciascuno e raggruppò gli argomenti affini, graduandoli, a seconda della difficoltà. Nacquero così quelle Enneadi, che contengono uno dei più alti messaggi filosofici dell’antichità.

La pubblicazione di Porfirio del corpus plotiniano avvenne tra il 300 e il 305. Nulla, invece, è rimasto dell’edizione che approntò il discepolo Eustochio né dei Cento libri di scolii agli scritti del maestro, raccolti da Amelio.

Profondamente amato e stimato da tutti, anche per la dirittura della sua vita, per la sua aspirazione a costituire una società di «saggi» seguaci della vita platonica, Plotino non solo ebbe molti scolari, uomini e donne, ma a lui ci si rivolse quale consigliere, tutore, amministratore di beni. Il maestro godette dell’immensa stima degli imperatori Gallieno e Salonina: a tal proposito, Porfirio riferisce che il filosofo, avvalendosi dell’amicizia e dell’affetto degli Augusti, progettava di far sorgere in Campania una città di filosofi, che avrebbe avuto il nome di Πλατωνόπολις (Porph. Plot. 12). Plotino scomparve nel 270, all’età di 66 anni, a causa di un male (non ben identificabile) che gli procurò piaghe nelle mani e sui piedi e gli arrochì notevolmente la voce. Negli ultimi tempi, a causa di questa malattia, egli aveva abbandonato la scuola e gli amici, ritirandosi nella tenuta di un vecchio conoscente in Campania, dove spirò in solitudine.

Un oratore che parla in un’aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec. d.C. dal tempio di Ercole. Ostia, Museo Archeologico.

Caratteristiche e finalità della scuola plotiniana. | La scuola di Plotino non assomigliava probabilmente a nessuna delle precedenti. L’autorità e il prestigio che il filosofo si era acquistati presso l’aristocrazia furono tali che molti «al pensiero della morte imminente» gli affidavano i figli e le figlie da educare e i loro beni da conservare e amministrare, come «a un custode sacro e divino», sicché la casa in cui abitava (che apparteneva a una certa Gemina, di cui era ospite) brulicava di ragazzi, ragazze e vedove (Porph. Plot. 9). Da lui si recavano anche uomini politici al fine di comporre vertenze e liti e a lui si affidavano tutti come arbitro infallibile. Quanto al suo progetto di una città i cui abitanti avrebbero dovuto osservare «le leggi di Platone» (νόμοις… τοῖς Πλάτωνος), sebbene Gallieno e l’imperatrice Salonina avessero preso in seria considerazione la sua attuazione, fallì a causa delle trame dei cortigiani.

Le lezioni di Plotino erano frequentati da vari tipi di uditori. Alcuni erano occasionali e saltuari, attratti semplicemente dalla fama del maestro e, quindi, dalla curiosità. C’erano poi quelli che frequentavano con certa costanza, e fra questi comparivano numerosi senatori romani e nobili di origine orientale. Infine, c’erano i veri e propri «seguaci». È da notare che anche un certo numero di donne – come riferisce il biografo – prendeva parte alle lezioni. Agli scritti del maestro, invece, solo pochi avevano diritto di accesso, e solo dopo aver dimostrato di possedere precisi requisiti intellettuali e morali (Porph. Plot. 1-12).

Platone aveva fondato la sua Accademia per poter formare nella filosofia gli uomini che avrebbero dovuto rinnovare la πολιτεία; Aristotele aveva istituito il Peripato per organizzare in modo sistematico tutta la ricerca e tutto il sapere; Pirrone, Epicuro e altri avevano creato le loro scuole per cercare di dare alle persone l’ἀταραξία, la pace e la tranquillità dell’anima. La scuola di Plotino si prefiggeva un ulteriore fine: voleva insegnare agli aderenti a sciogliersi dalla vita di quaggiù per riunirsi al divino e poterlo contemplare fino al culmine di una trascendente unione estatica. Lo scopo della nuova istituzione era, dunque, religioso e mistico: quello stesso fine che stava alla base del progetto di Platonopoli.

Plotino. Busto (attribuito), marmo, c. 250-300, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

II. Ripresa e conclusione della «seconda navigazione»

Lo sviluppo delle istanze medioplatoniche e neopitagoriche. | Il moderno lettore delle Enneadi può avere spesso l’impressione che molte tesi non vengano dimostrate o che, perlomeno, non vengano convenientemente giustificate. Ma chi si soffermasse a questa impressione e valutasse non adeguatamente fondata la speculazione plotiniana, cadrebbe in un grave errore di prospettiva e ne pregiudicherebbe in modo irreparabile la comprensione. Occorre tener presente, infatti, che, nel secolo immediatamente precedente, il medioplatonismo e il neopitagorismo avevano raggiunto la loro ἀκμή. Questi movimenti avevano messo definitivamente in crisi il materialismo dei grandi sistemi ellenistici, avevano recuperato gli esiti della platonica «seconda navigazione» e avevano addirittura tentato di integrarli e di rielaborarli, tenendo conto soprattutto degli apporti di Aristotele, senza trascurare le istanze precedenti. Plotino, insomma, trovò alcune verità filosofiche già guadagnate e giustificate dai suoi predecessori.

Tra l’altro, già in antico si era notata certa somiglianza fra alcune tesi di Numenio e alcune parallele tesi di Plotino; anzi, questa somiglianza apparve tanto forte che ad Atene si accusò Plotino addirittura di plagio! Uno dei discepoli, Amelio, si sentì in dovere di difendere il maestro e di confutare pubblicamente con uno scritto questa accusa (Porph. Plot. 17). Se quest’accusa è infondata, è comunque innegabile l’esistenza di tangenze tra i due pensatori. Plotino, in sostanza, riprese le istanze sostenute dai medioplatonici e dai neopitagorici, ma le sviluppò e le portò a maturazione con una profondità, una lucidità e un’audacia senza paragoni, tali da eclissare i suoi immediati predecessori.

III. Il sistema di Plotino nei suoi fondamenti e nella sua struttura

La prima ipostasi: l’uno. | È impossibile intendere l’originalità e la novità di Plotino, se non si comprende la riforma che egli apportò alla metafisica platonica e aristotelica, la quale aveva condotto a risultati che, per più di un aspetto, erano stati rivoluzionari. È ben vero che in Platone si possono rintracciare spunti plotiniani ante litteram e che nella successiva storia del platonismo e del neopitagorismo questi spunti siano lievitati in modo considerevole. Eppure, Plotino andò ben oltre con una vera e propria rifondazione della metafisica classica.

Il principio ultimo del reale per Aristotele era costituito dall’essenza (οὐσία) e dall’intelligenza del Motore immobile (νοῦς). Invece, per Plotino il principio era ancora ulteriore: l’uno (τὸ ἕν). Questo si situa al di là dell’essere e oltre l’intelligenza, è trascendente. L’uno, dunque, per Plotino è il fondamento e il principio assoluto di tutte le cose: ogni realtà, più precisamente, è tale solo in virtù della sua unità. Se l’unità di una cosa si spezza, quella cosa cessa di esistere. La sussistenza di un elemento dipende, dunque, dalla sua unità: se si toglie questa, si toglie l’essere della cosa.

Una volta stabilito che l’essere degli enti dipende dalla loro unità, da che cosa deriva questa loro unità? Secondo Plotino, tutti gli elementi fisici ricevono unità dall’anima, la quale è appunto attività creatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili; perciò, è fondamento della loro unità. Ma allora l’anima stessa è unità o piuttosto l’anima imprime unità, ma non coincide con essa, e deriva essa stessa la propria unità da qualcos’altro? La risposta di Plotino è chiarissima: esistono gradi differenti di unità. In tal senso, l’anima detiene un grado di unità superiore a quello dei corpi, ma non è essa stessa unità. Dunque, l’anima introduce nel mondo fisico l’unità, però, a sua volta, la riceve da ciò che sta al di sopra, vale a dire dall’intelligenza (νοῦς) e dall’essere (οὐσία).

Eppure, sia l’intelligenza sia l’essere, per quanto godano di un grado superiore all’anima, non sono l’uno, perché implicano molteplicità: dualità di pensante e pensato e molteplicità di idee, cioè la totalità delle realtà intellegibili. La radice dell’unità, dunque, è qualcosa che trascende lo stesso νοῦς, qualcosa di assolutamente scevro di qualsivoglia pluralità, è l’uno in sé (Plot. Enn. VI 9, 1-12).

Infinitudine, trascendenza, ineffabilità. | Caratteristica fondamentale dell’uno è l’infinitudine. Da questa occorre partire per comprendere le differenze fra la metafisica di Plotino e quella classica. L’infinitudine era stata attribuita al principio (ἀρχή) solo da alcuni antichi filosofi della natura e in dimensione fisica. In Platone e in Aristotele era prevalsa l’idea che l’infinito (ἀπείρων) comportasse imperfezione (che fosse, cioè, sinonimo di indeterminato, incompiuto), mentre il finito (in quanto determinato, compiuto) era stato associato con il perfetto. Platone aveva inteso il principio primo come limite (πέρας), mentre il principio materiale come l’illimitato e l’infinito (ἀπείρων). Aristotele, poi, aveva dichiarato impossibile l’esistenza dell’infinito in atto, concependolo come puramente potenziale e circoscrivendolo alla categoria della quantità; inoltre, aveva affermato che il perfetto implica sempre un fine e il fine un limite.

E, dunque, che cosa significa l’infinito nella dimensione dell’immateriale? L’infinito plotiniano non è spaziale né quantitativo, ma, come in certa misura già in Filone di Alessandria, è inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice. In tal senso, evidentemente, il concetto di potenza (δύναμις) assume non già il significato di potenzialità, poiché questo significato aristotelico era strutturalmente legato alla materia e al corporeo, ma di attività, come in Filone. Dunque, la potenza coincide con la forza attiva (ἐνέργεια), con l’atto puro, l’atto metafisico primo e supremo. Intendere l’uno come infinita potenza significa, dunque, concepirlo come infinita spirituale energia creatrice (Plot. Enn. V 5, 10-12; VI 9, 6).

Le rivoluzionarie conseguenze che il concetto positivo di infinito immateriale comportò nell’ambito della «seconda navigazione» furono le seguenti. L’uno non poteva essere inteso come idea (ἰδέα) platonica, perché forma ed essenza in Platone implicavano la finitudine, il limite, né tantomeno come sostanza immobile, eterna e separata, in senso aristotelico, perché anche questa essenza, ovvero il νοῦς, era concepita parimenti finita e determinata. Di conseguenza, siccome l’essere, com’era stato inteso e da Platone e da Aristotele, era l’essere dell’εἶδος e dell’οὐσία e, perciò, finito, si comprende per quale ragione Plotino sentisse la necessità di porre l’uno «al di sopra dell’essere e del pensiero» e di ribadire questa tesi nel corso di tutte le sue Enneadi. Era questa una nuova concezione di trascendenza, che, nell’ambito della grecità, non aveva se non assai vaghi precedenti, mentre aveva un chiaro antesignano in Filone Alessandrino. Il principio supremo per Plotino non solo trascendeva il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine, compresa quelle poste da Platone e da Aristotele all’intelligibile e all’intelligenza. Si comprende, insomma, come all’uno Plotino tendesse ad attribuire determinazioni prevalentemente negative e a dichiararlo perfino «ineffabile» (Plot. Enn. V 3, 13).

Anubis. Mosaico (dettaglio), fine II-inizi III sec. da una domus urbana di Ariminium. Rimini, Museo della Città.

Le caratterizzazioni positive dell’uno. |Con il termine «uno» (τὸ ἕν) Plotino designava il principio supremo, senza però indicare un particolare uno, cioè una determinata unità, ma l’uno-in-sé, la causa e la ragione d’essere di tutte le altre cose, l’assolutamente semplice che è ragion d’essere del complesso e del molteplice. Anche queste precisazioni, comunque, possono trarre in inganno, giacché la semplicità dell’uno non è povertà, ma è infinita potenza, quindi infinita ricchezza: l’uno è potenza di tutte le cose, nel senso che tutte le porta all’essere e nell’essere le mantiene (Plot. Enn. III 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

L’altra categoria che Plotino usa di frequente per riferirsi al principio assoluto è «bene» (ἀγαθόν). Anche in questo caso, non si tratta di un particolare bene, ma del bene-in-sé, ovvero non di qualcosa che ha il bene, ma che è il bene stesso, il bene assolutamente trascendente (Plot. Enn. II 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

Sulla base di quanto si è fin qui detto, è ora possibile chiarire meglio il senso delle affermazioni secondo cui l’uno è al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita. Plotino, evidentemente, non voleva dire che il principio primo fosse il non-essere, il non-pensiero o qualcosa che fosse privo di vita. Al contrario, egli intendeva significare che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’uno è alcunché di superiore a questi suoi prodotti. E, in effetti, Plotino usa questi termini quando si riferisce all’uno accompagnandolo con «per così dire», cioè in senso analogico, o addirittura parla di «super-pensiero», di «super-essere», di «super-vita» (Plot. Enn. VI 8, 14-16).

L’uno come attività auto-produttrice. |L’uno è la ragion d’essere di tutto ciò che a esso segue ed è tale proprio per il suo essere quello che è. Ma Plotino non si accontentava di una spiegazione a questo livello; egli pose una domanda ancora più radicale, toccando così i limiti estremi delle possibilità della metafisica: perché l’uno è ed è quello che è? Questo interrogativo, posto in altri termini, equivale alla seguente: perché esiste l’assoluto e perché l’assoluto è così com’è?

Innanzitutto, bisogna escludere che esso sia per caso o per accidente, perché possono esistere in siffatto modo solo le cose del mondo sensibile, soggette al divenire. In secondo luogo, esso può esistere per una libera scelta, del tipo di quella che presuppone l’esistenza di contrari sui quali deve operare, perché esso è al di là di tutto questo. Inoltre, non si può dire che esso esista di necessità, perché la necessità è a esso posteriore, anzi è proprio esso la legge e la necessità delle altre cose. E, ancora, non si può nemmeno parlare, nei confronti dell’assoluto, di un essere, di un’essenza e di una determinata natura e spiegare la sua attività in funzione della sua natura medesima, perché esso trascende ogni cosa e la sua attività è tale solo in senso analogico. Operari sequitur esse, avrebbero detto i filosofi medievali. Plotino per caratterizzare il suo assoluto avrebbe affermato il contrario: esse sequitur operari; o meglio, essere e operare, nell’assoluto, coincidono: il primo principio si auto-pone, crea sé stesso, è attività auto-produttrice. In esso la volontà corrisponde al suo atto e, quindi, al suo stesso essere: è volontà di essere ciò che è, è libertà totale e assoluta; vuole essere ciò che è, perché è quanto di più alto possa esistere, è valore supremo e supremo positivo (Plot. Enn. VI 8, 7).

Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del Sole. Olio su tela, 1899. Mosca, Tretyakov Gallery.

La processione di tutte le cose dall’uno. | Allora, perché e come dall’uno sono derivate tutte le altre cose? Perché l’uno, pago di sé stesso, non è rimasto in sé stesso? È questa, in fondo, la domanda metafisica di assai ardua soluzione. Anche il tentativo plotiniano di rispondere a questo problema rappresenta uno dei vertici della metafisica antica. Si tratta di una risposta originalissima, un unicum nella storia del pensiero occidentale.

Nel rispondere al quesito, Plotino si avvale, a più riprese, di immagini splendide, divenute giustamente famose. La più celebre è certamente quella della luce (Plot. Enn. IV 3, 17): la derivazione delle cose dall’uno è rappresentata come l’irraggiarsi della luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti in intensità, mentre la fonte della luce permane in sé senza mai spegnersi. Il primo cerchio luminoso prodotto è l’intelligenza, la seconda ipostasi (ὑπόστασις); il cerchio successivo è l’anima, la terza ipostasi. Il cerchio che viene dopo segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la materia, che abbisogna di un irraggiamento esterno, essendo ormai tenebra.

Plotino riprende questa immagine della luce (Plot. Enn. IV 1, 6) intrecciandola con altre: il fuoco che emana calore, la sostanza odorosa che emana profumo, il vivente che, giunto a maturità, genera. Altre due celebri immagini sono quella della sorgente inesauribile che genera i fiumi e quella dell’albero da frutto (Plot. Enn. III 8, 10). Infine, non meno interessante è l’immagine dei cerchi concentrici: l’uno è come il centro, la seconda ipostasi è come un cerchio immobile, mentre l’anima è come un cerchio mobile (Plot. Enn. IV 4, 10).

Queste immagini sono state spesso prese troppo alla lettera e alcuni interpreti si sono addirittura fermati a esse, fraintendendo così i concetti che esse dovrebbero chiarire. È sulla base di queste immagini che taluni hanno parlato di «emanazionismo», di «panteismo» e di «monismo». In realtà, le cose sono assai più complesse di quanto queste formule non lascino supporre. La plotiniana «processione dall’uno» era ben altra faccenda.

Da tutte le immagini usate dal filosofo si ricava che il principio rimane fisso e, restando, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo condiziona. Ciò che è generato è inferiore al generante e non serve al generante; il generato ha bisogno del generante, non viceversa (Plot. Enn. V 3, 12).

Ora, data la sua infinita perfezione e la sua trascendente potenza, l’uno generante non è forse «necessitato» a creare? Può la fonte di luce non emanare luce, la fonte d’acqua non zampillare acqua, l’oggetto profumato non diffondere profumo? È proprio su questo punto che le immagini traggono in inganno, rivelando solo un aspetto del pensiero plotiniano e velando l’altro, che è proprio quello più nuovo. Plotino distingueva due tipi differenti di attività dell’uno e delle altre ipostasi: da una parte, l’attività dell’ente, dall’altra quella che deriva dall’ente. La prima è immanente all’ente, per così dire, mentre la seconda esce dall’ente e si dirige all’esterno. In altri termini, l’attività dell’ente coincide con la singola realtà, mentre l’attività che deriva dall’ente si dirige ad altro. Applicando questa distinzione all’uno, si dovrà parlare di un’attività dell’uno e di un’attività che deriva dall’uno: l’attività dell’uno è quella che lo fa essere, lo mantiene e lo fa rimanere; invece, l’attività che deriva dall’uno è quella che fa sì che dall’uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. È chiaro che l’attività dall’uno dipenda strutturalmente dalla stessa attività dell’uno (Plot. Enn. V 4, 2).

La seconda ipostasi: l’intelligenza. | La generazione delle ipostasi implica un’ulteriore attività, che non è meno essenziale delle altre: senza di essa, infatti, le ipostasi stesse non potrebbero sussistere. Si tratta dell’attività del «rivolgersi» al principio da cui ciascuna deriva per «guardarlo» e «contemplarlo». E questa attività non è affatto espressa nelle immagini sopra ricordate. Di conseguenza, essa è stata misconosciuta (e talora del tutto ignorata) dagli interpreti, mentre essa rappresenta uno dei cardini attorno a cui ruota tutta la metafisica plotiniana. In particolare, per quanto riguarda la seconda ipostasi (νοῦς), è da rilevare che la potenza originaria non genera altro che qualcosa di indeterminato o informe; ciò può determinarsi e divenire forma soltanto «rivolgendosi» all’uno, guardandolo e contemplandolo.

Questo prodotto indeterminato e informe dell’uno è detto da Plotino «alterità» intelligibile, o «materia intelligibile», cioè pensiero indefinito, che può determinarsi appunto rivolgendosi all’uno. Tuttavia, anche questo «rivolgersi» all’uno non è ancora intelligenza, ma la causa che la fa essere. Plotino distingueva fra il «rivolgersi» della potenza all’uno, il quale la feconda e la informa, e il «riflettere» di questa potenza su sé stessa già fecondata. Questi due momenti, distinguibili solo logicamente e non cronologicamente, spiegano le due facce dell’intelligenza: nel primo momento nasce la sostanza (il contenuto del pensiero), nel secondo nasce il pensiero vero e proprio. Questa duplicità dei momenti giustifica altresì la nascita del molteplice (Plot. Enn. II 4-5; V 2, 1). Inoltre, la nascita della seconda ipostasi è il formarsi del molteplice: l’intelligenza, infatti, non pensa l’uno, ma pensa se medesima riempita e fecondata dall’uno; il molteplice sorge solamente all’interno della seconda ipostasi (Plot. Enn. VI 7, 16).

Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum

Essere, pensiero, vita. | Se per Plotino l’uno è «potenza di tutte le cose» e l’intelligenza è, a sua volta, «tutte le cose» (V 4, 2), l’intelligenza è, anzitutto, inscindibile unione di essere e pensiero, è l’essere puro di Platone, quell’essere che è pienamente e non può non essere, ed è, a un tempo, il pensiero di pensiero di cui parlava Aristotele. In secondo luogo, l’intelligenza è anche vita, è «il vivente perfetto», il «vivente in sé», «vita infinita», non necessariamente legato alla dimensione fisica, ma è spirituale, immateriale e fuori dalla temporalità (Plot. Enn. VI 6, 7-8).

L’intelligenza come «cosmo intelligibile». |Nel nuovo contesto della dottrina ipostatica dell’intelligenza, Plotino riprende un’espressione coniata da Filone, per cui il platonico Iperuranio diveniva «cosmo intelligibile». Cogliendo dall’Alessandrino una serie di spunti e sulla base della propria inedita concezione dell’intelligenza come strutturale unità di essere e pensiero, Plotino procedette alla più audace riforma della dottrina delle idee proposta dalla speculazione antica.

La modifica principale consistette nella trasformazione dell’idea da mero «intelligibile» a intelligenza, o meglio in qualcosa che fosse contemporaneamente intelligibile e intelligenza, sostanza pensante in cui pensante e pensato coincidessero. Le idee diventavano forze o potenze intelligenti, vive: insomma, «spiriti» (Plot. Enn. IV 8, 3).

Connessa a questa era l’ulteriore modifica della concezione del rapporto sussistente fra le idee, fra ciascuna idea e la totalità delle idee, e viceversa. Plotino, superando Platone, giunse ad affermare che ciascuna idea fosse in certo senso tutte le altre. Inoltre, nella misura in cui l’intelligenza rinserra in sé tutte le cose, esistono idee di tutte le cose, e non solo delle specie, ma anche di tutte le possibili differenze in cui può presentarsi la specie. Così, per esempio, non esiste un’unica idea di uomo, ma tante idee di uomo quante sono le differenti conformazioni degli uomini, quante sono le differenze tra un individuo e l’altro.

In Plotino si incontra, altresì, la dottrina dei numeri ideali, ma in parte approfondita e chiarita: i numeri ideali (da distinguere nettamente da quelli matematici!) derivano tutti dallo stesso uno. La diade sorge dall’uno medesimo ed è illimitata e può ricevere limite dall’uno stesso. I numeri ideali derivano dalla delimitazione della diade da parte dell’uno. Tali numeri sono la forza che divide l’essere e fa nascere la molteplicità delle cose (Plot. Enn. V 1, 5; VI 6, 9-15).

Tutto quanto sopra è stato detto spiega la ragione per cui Plotino, con espressione filoniana, abbia descritto con νοῦς il «cosmo intelligibile», mondo dell’ordine e dell’armonia spirituale, mondo della bellezza. Secondo Plotino, la bellezza, in generale, coincide con la forma: una cosa è bella per quanto possiede di forma. L’intelligenza, che è il mondo delle forme e delle idee, vale a dire il sistema perfettamente ordinato delle forme nella loro totalità è la suprema e assoluta bellezza (Plot. Enn. I 6; V 8).

Scena nilotica. Affresco, ante 79, dal Tempio di Iside (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La terza ipostasi: l’anima. | L’intelligenza è potenza inesauribile e infinita e, in quanto tale, «trabocca» e genera un’altra realtà, gerarchicamente inferiore: l’anima (ψυχή). Per spiegare la processione (ἀπόρροια) dell’anima dall’intelligenza, Plotino si rifaceva agli stessi schemi di cui si era servito per chiarire la processione dell’intelligenza dall’uno. Dunque, analogamente, egli distinse tra un’attività dell’intelligenza, che rivolge a sé stessa, e un’attività dall’intelligenza, rivolta all’esterno; la seconda attività deriva dalla prima e, anzi, è conseguenza della prima, in quanto è proprio in grazia del proprio rivolgersi a sé medesima che l’intelligenza produce qualcos’altro (Plot. Enn. V 3, 7; VI 2, 22).

Il risultato di tale attività, comunque, non è ancora anima: occorre, come si è visto per l’intelligenza nei confronti dell’uno, che anche il prodotto dell’attività che procede dall’intelligenza si rivolga a guardare e a contemplare l’intelligenza medesima. L’anima, infatti, come prodotto dell’attività dell’intelligenza, è nei confronti di questa come la materia rispetto alla forma o come l’indeterminato rispetto alla determinazione formale (Plot. Enn. II 4, 3; V 1, 3-6). Rivolgendosi all’intelligenza e contemplandola, l’anima, appunto, «attraverso l’intelligenza» stessa vede il bene, cioè l’uno; entra in possesso del bene medesimo. In ultima analisi, sta proprio in questo aggancio all’uno, tramite l’intelligenza, il fondamento supremo della realtà dell’anima per Plotino (Plot. Enn. VI 7, 31).

L’anima nel sistema plotiniano. | La caratteristica essenziale dell’intelligenza consiste nel pensare, donde la sua dualità – il pensiero è sempre pensiero dell’essere – e la sua molteplicità – l’essere è una molteplicità di idee. L’uno, sosteneva Plotino, se vuole pensare deve farsi intelligenza, dato che l’uno come tale non può pensare. Ora, anche l’anima pensa, almeno nella misura in cui guarda e contempla il principio che l’ha generata, l’intelletto; ma la sua essenza consiste non nel pensare – altrimenti, non si distinguerebbe dall’intelligenza –, ma nel produrre e nel dar vita a tutte le altre cose che sono, quelle sensibili, nell’ordinarle e nel governarle (Plot. Enn. IV 8, 3; V 6, 2).

Ora, è da notare che questo «guardare» dell’anima alle cose che sono dopo di lei, questo «ordinare», «reggere», «comandare», coincidono con il suo produrre, generare e far vivere queste stesse cose. L’anima è principio creatore di tutte le cose. L’anima è, di conseguenza, non solo principio di movimento, ma essa stessa è movimento come vita (V 2, 1).

In conclusione, si può dire che, come l’uno deve diventare intelletto per pensare, così deve farsi anima per generare tutte le cose del mondo visibile. L’anima, dunque, costituisce il momento estremo nel processo di espansione dell’infinita potenza dell’uno, l’ipostasi cosmogonica che coincide con il momento in cui l’incorporeo genera il corporeo, manifestandosi nella dimensione del sensibile. Non bisogna dimenticare che le ipostasi successive all’uno, da un lato, in un certo senso sono l’uno stesso, nella misura in cui questo è la fonte e la potenza di tutto e, dall’altro, non sono l’uno, ma differenziazioni della potenza dell’uno, in cui il nuovo che sorge non distrugge l’antico, ma deriva proprio dal permanere dell’antico.

Scena di sposalizio. Rilievo, marmo, c. 280, dal cosiddetto Sarcofago dell’Annona, da una camera sepolcrale di via Latina. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme

La posizione intermedia dell’anima. | Plotino assegna all’anima una «posizione intermedia» e la considera «l’ultima dea» (Plot. Enn. IV 8, 5), l’estrema realtà intelligibile, che confina con il sensibile ed è la causa stessa che genera il sensibile. L’anima possiede «due volti» (IV 6, 3), orientati nell’una e nell’altra direzione, ma ciò esclude che essa abbia una natura mista di incorporeo e corporeo. L’anima si trova in posizione intermedia e ha due facce, perché nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere incorporea, le «accade» di aver a che fare con il corporeo da essa stessa prodotto, condividendone alcune caratteristiche, ma non nel modo in cui tali tratti sono propri del corporeo stesso.

Non essendo a priori divisa, l’anima «diventa divisibile nei corpi», non nella maniera in cui sono divisi questi, ma «senza deflettere dall’unità del suo essere» (Plot. Enn. IV 1, 1-2). La divisibilità dell’anima non significa la sua frantumazione in parti staccate successiva l’una dall’altra come avviene per i corpi, ma l’entrare intera in tutte le parti del corpo diviso, dato che essa non ha grandezza. L’anima è, dunque, divisa-e-indivisa, una-e-molteplice, in quanto è principio che produce, regge e governa il mondo sensibile: con la sua unità molteplice e divisa essa elargisce la vita a tutte le cose, con la sua unità indivisibile le riunisce e le controlla; è tutta dappertutto e dappertutto identica.

La pluralità dell’anima. | La questione dell’unità e della molteplicità proprie dell’anima, per la verità, risulta ancora più complessa se la si guarda da un’altra angolatura. Plotino, infatti, parlava di una molteplicità dell’anima non solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale, gerarchico. Malgrado l’ampiezza del linguaggio delle Enneadi su questo argomento, che talvolta rasenta l’equivoco, sembra che la gerarchia delle anime cui Plotino fa riferimento sia la seguente. In primo luogo, esiste un’anima suprema, universale, ossia nella sua interezza e purezza, ipostasi del mondo intelligibile; in secondo luogo, c’è un’anima del tutto, quella del mondo sensibile, che pone, regge e governa l’universo medesimo (anima mundi); infine, ci sono le anime particolari, che non creano, ma animano e reggono i diversi singoli corpi: ciascuna di esse scende nel proprio corpo, con il quale ha un rapporto più stretto che non l’anima dell’universo. Dall’anima suprema, perciò, derivano tutte le altre. L’anima del tutto e quelle individuali sono della stessa natura di quella e si differenziano per la maggiore o minore vicinanza con i corpi (Plot. Enn. IV 3, 5-6; VI 4, 4).

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

IV. La processione del sensibile dall’intelligibile, il significato e il valore del cosmo fisico

La processione della materia. | Elemento caratteristico del mondo fisico è la materia sensibile. Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma è puramente intellegibile. Quest’ultima detiene i caratteri propri dell’intellegibile medesimo: la semplicità, l’immutabilità e l’eternità. Diversamente, quella sensibile rivela tratti opposti. Secondo Plotino, caratteristica di ogni tipo di materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata, ma quella sensibile è un’immagine di quella intellegibile e, in quanto copia si allontana dall’essere dell’originale, consegnandosi al negativo e al male.

La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, cioè come estrema tappa di quel processo in cui l’impulso a creare e la forza produttiva si indeboliscono fino a esaurirsi completamente. La materia sensibile, anzi, diventa esaurimento totale e, quindi, privazione estrema della potenza dell’uno, dell’uno stesso e, in definitiva, del bene. Si noti che per Plotino il male non è inteso come forza negativa opposta alla positiva, ma come mancanza e privazione del positivo (Plot. Enn. I 8, 7; III 4, 15). Se la materia intellegibile è puro essere, quella sensibile deve necessariamente distinguersi come «non-essere»: beninteso, non si tratta del nulla, ma di ciò che è «diverso dall’essere» (I 8, 3). La materia fisica non è nulla di ciò che è proprio del mondo dell’essere, dell’intelligenza e dell’anima e, in genere, dell’intellegibile (Plot. Enn. III 4, 16; 6, 7).

Plotino cerca di determinare le ragioni di questa mancanza di ogni spessore ontologico proprio della materia. Essa è prodotta dall’anima, non dall’anima suprema, ma dal lembo estremo dell’anima universale, in cui la contemplazione si affievolisce, nella misura in cui l’anima si volge più a sé che all’intelligenza (Plot. Enn. III 9, 2; IV 3, 9).

Infine, Plotino cerca di approfondire ulteriormente la ragione della differente natura della materia rispetto alle realtà che la precedono puntando ancora una volta sul tipico concetto di contemplazione. L’anima superiore contempla e da questa contemplazione scaturisce la forza creatrice dell’anima cosmica. Questa forza creatrice è una contemplazione illanguidita, digradante quanto a intensità, tanto che «in quel digradare va quasi svanendo» (Plot. Enn. III 8, 5). E così la materia, prodotto di quest’attività che è languida contemplazione, non ha più la forza di volgersi verso chi l’ha generata e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla stessa anima sorreggerla, e quindi ordinarla, informarla, tenerla, in qualche modo, appesa all’essere. E così nasce, appunto, il cosmo sensibile.

Il disegno razionale del mondo. | Il mondo sensibile è costituito, nella sua totalità così come nelle sue parti, di materia e forma, ma a differenza della materia intellegibile, che è forza o potenza che perennemente cerca la sua forma, la possiede e in essa si attua, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma, ma solo inerte possibilità di rifletterla, senza esserne a fondo veramente informata e vivificata. Insomma, la materia sensibile è tale da essere incapace di costruire una vera unità con la forma. La forma penetra nella materia solo «in modo menzognero», come un oggetto che si rifletta nello specchio (Plot. Enn. I 8, 14; III 6, 13).

Per creare il mondo fisico l’anima pone dapprima la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che si spegne e diviene oscurità; successivamente le dà forma, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola alla luce (Plot. Enn. IV 3, 9). Plotino, dunque, perviene alla conclusione che nell’universo sensibile non solo la forma ha un netto predominio, ma, al limite, il cosmo si risolve quasi per intero nella forma.

Defunto fra Osiride e Anubis. Dipinto su sudario di una mummia, fine II-inizi III secolo, dall’Oasi del Fayyum. Mosca, Museo Pushkin.

Genesi della temporalità. | Il passaggio dal mondo intellegibile a quello sensibile comporta anche il transito dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. Quest’ultima, a detta di Plotino, coincide con l’attività stessa con cui l’anima crea il mondo fisico, cioè con quell’attività che produce qualcosa che è altro dall’intelligenza e dall’essere, che sono invece nella dimensione dell’eterno. L’eternità, per Plotino, è vita senza mutamento, che è presente tutta intera simultaneamente.

Ebbene, l’anima, per una sorta di «temerarietà» e «desiderio di appartenere a sé stessa» (V 1, 1) o per «desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù» (III 7, 11), non paga di vedere il tutto simultaneamente, esce dall’unità, avanza e si distende, per così dire, in un prolungamento e in una serie di atti che si succedono l’un l’altro, e crea così un mondo sensibile che è, sì, fatta a immagine dell’intellegibile, ma che fatalmente volge e pone in successione di prima e di poi ciò che colà, invece, era tutto insieme e simultaneo. Così facendo, l’anima temporalizza sé stessa e, di conseguenza, il suo prodotto. Il mondo è strutturalmente nel tempo, così come è nell’anima e per l’anima.

Ne deriva che la vita dell’anima è la vita nella dimensione della temporalità a differenza di quella dell’intelligenza che è nell’eternità: la vita come temporalità è vita che scorre in momenti successivi, che crea scorrendoli, è rivolta sempre a momenti ulteriori ed è carica dei momenti trascorsi. Plotino, insomma, ripropone amplificandola la definizione platonica di tempo come «immagine dell’eterno».

V. Origini, natura e destino dell’uomo

L’uomo prima della sua discesa nel mondo sensibile. | Nella concezione di Plotino, l’umanità non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste a esso sia pure in altra condizione, cioè come pura anima. Il filosofo afferma in tutta chiarezza che prima della nascita «noi eravamo lassù», nel mondo dell’essere e dell’intelligenza, «eravamo altri uomini» e anzi «dèi» (Plot. Enn. IV 4, 14), partecipi della vita spirituale del tutto, senza le scissioni e le lacerazioni che sono proprie della vita terrena. Anzi, Plotino precisa (IV 8, 4), addirittura, che le anime dei singoli erano in origine associate all’anima universale nel governo del mondo, come re accanto al signore supremo. Ma perché le anime degli uomini discendono nei corpi?

Si tratta dell’antico problema che aveva travagliato Platone e al quale egli non aveva saputo dare una soluzione conclusiva, oscillando fra opposte tesi: quella di una necessità ontologica e quella di una «colpa». Plotino riprende queste opposte posizioni e cerca di conciliarle, sulla base delle acquisizioni della sua riflessione metafisica.

Innanzitutto, occorre premettere che la ragione principale della discesa delle anime particolari nei corpi degli individui vada ricercata nella stessa legge che regola la processione (ἀπόρροια) di tutte le cose dall’uno. Secondo tale legge, dunque, l’anima mundi deve esplicare tutte le sue possibilità, producendo non solo l’universo in generale, ma anche, attraverso le anime particolari, tutti i viventi particolari, fra i quali anche gli uomini. Tutto ciò deve accadere, affinché l’infinita potenza dell’uno possa raggiungere la sua massima espressione, garantendo la perfezione del tutto. Insomma, come l’anima universale non può permanere come puro pensiero, altrimenti non si differenzierebbe dall’intelletto, così le anime particolari non possono permanere come intelligenze peculiari, ma devono assumere, per distinguersi dalla suprema intelligenza, la funzione che è loro propria, che consiste nell’ordinare, reggere e governare le cose sensibili.

È evidente che, così essendo, la discesa dell’anima nei corpi non è volontaria, in quanto non dipende da una scelta né da una liberazione dell’anima stessa, ma non può nemmeno costituire una colpa. Anzi, Plotino ammette addirittura che, se l’anima riesce a fuggire rapidamente dal corpo, non solo non riceve danno dall’aver assunto un corpo, ma un arricchimento, sia per aver contribuito all’attuazione delle potenzialità dell’universo sia per aver sofferto l’esperienza stessa del male, che le fa acquistare più chiara coscienza del bene e le permette di esplicare tutte le sue virtù.

Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

L’uomo e i rapporti fra anima e corpo. | Plotino porta alle sue estreme conseguenze anche l’equazione di uomo e anima, identità stabilita per la prima volta da Socrate e ontologicamente sviluppata da Platone. Nulla vieta, sostiene il Licopolitano, che si chiami «io» anche l’insieme di anima e di corpo, ma resta pur sempre che «l’uomo vero» è solo l’anima, anzi «l’anima separata» e «separabile» (Plot. Enn. I 1, 10). In verità, in più parti delle Enneadi, si afferma che in ogni essere umano esistano tre uomini e non semplicemente l’uomo interiore e l’uomo empirico. Questa tesi, che di primo acchito più stupire, diventa molto meno paradossale, non solo se misurata con i parametri dell’ontologia plotiniana, ma altresì se ricollegata alla tradizione medioplatonica, dalla quale lo stesso neostoico Marco Aurelio aveva tratto la sua triplice distinzione dell’individuo in νοῦς, ψυχή e σῶμα. È questa, sostanzialmente, la tripartizione da cui Plotino prende le mosse, trasformandola secondo i moduli della sua ontologia e dandole, per così dire, un inusitato spessore metafisico, in grazia della teoria della processione.

Questa tripartizione è riproposta anche in termini di «anima», nel senso che i «tre uomini» possono essere considerati come tre anime o meglio «tre potenze» dell’anima, dato che il «primo uomo» non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con l’intelligenza; il «secondo uomo» è l’anima (o pensiero discorsivo), che è a mezzo fra l’intelligibile e il sensibile; il «terzo uomo» è l’anima che vivifica il corpo terreno (Plot. Enn. II 9, 2; IV 7, 6). Per Plotino, l’uomo è comprensibile solo nella dinamica di queste tre parti ed è un’anima che si serve del corpo. Tuttavia, da un lato, il corpo non è che una «caduta dell’anima» in ciò che è inferiore e l’anima è ragione governante il corpo, e in quanto tale mantiene su di esso una sua superiorità e un legame stretto con l’assoluto (Plot. Enn. IV 8, 8).

L’attività e le funzioni dell’anima. | Le attività elementari della vita vegetale e animale sono garantite dall’anima mundi: a questa, infatti, spetta la generazione del mondo, mentre le anime singole si occupano di produrre, vivificare e reggere ogni corpo. Come tutte le attività che sembrano appartenere ai corpi in generale sono, in realtà, proprie dell’anima che le produce, così tutte le attività che sembrerebbero appartenere al corpo particolare sono la diretta regia dell’anima che lo governa, cioè proprie e peculiari di quest’anima medesima. A tutti i livelli, l’anima è concepita come impassibile e capace solo di agire, perché l’incorporeo non può subire affezioni, in alcun modo, dal corporeo. Ma, allora, come si spiega la sensazione?

La risposta di Plotino è ingegnosa e distingue nettamente due tipi di sensazione: una esteriore, che non è altro se non l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi (in funzione della συμπάθεια che lega tutte le cose dell’universo fra loro e con il tutto), e la percezione sensitiva vera e propria, che è, invece, un atto conoscitivo dell’anima, che fattivamente coglie l’affezione. Dunque, quando si sente, il corpo umano patisce un’affezione da parte di un altro corpo; invece, l’anima entra in azione, non solo nel senso che «non le sfugge» (III 4, 2) l’affezione corporea, ma nel senso che essa «giudica» queste affezioni (III 6, 1). Anzi, per Plotino, nell’impressione sensoriale che si produce nel corpo umano, l’anima vede l’orma di forme intellegibili e, dunque, la stessa sensazione è, per l’anima, una forma di contemplazione dell’intelligibile nel sensibile.

Plotino attribuisce all’anima anche le facoltà dell’immaginazione e della memoria. Non il corpo di per sé né il corpo considerato in unione con l’anima sono capaci di ricordo, ma solo l’anima: il corpo è, al contrario, un impaccio e uno ostacolo al ricordare e, quindi, causa di oblio. Memoria e ricordo hanno però un rapporto strutturale con la temporalità, con il venir prima e dopo; l’anima, nella misura in cui entra in contatto con il corporeo, ha anche rapporto con la temporalità. Invece, tutto ciò che permane nell’identità e nell’eguaglianza dell’eterno non ha memoria, perché partecipa della simultanea presenza della totalità (Plot. Enn. IV 3, 26).

Diversa strutturalmente dalla memoria è la reminiscenza (ἀνάμνησις), la quale consiste in un conservare nell’anima ciò che all’anima stessa è in qualche modo connaturato, in quanto le deriva dal suo strutturale contatto con le realtà supreme. L’anima superiore è, infatti, agganciata eternamente all’intelletto: di conseguenza, nell’aldilà l’anima tende a lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, mentre nell’al-di-qua la reminiscenza delle cose supreme non può mai interamente oscurarsi (Plot. Enn. IV 3, 25-27). La più alta attività conoscitiva dell’anima consiste nel pensiero che coglie le idee e l’intelligenza; al di sopra di questa, però, l’anima possiede anche la capacità meta-razionale di cogliere lo stesso uno e con esso «unificarsi».

Allo stesso modo, sentimenti, passioni e volizioni e tutto ciò che a essi è legato vengono interpretati da Plotino come attività psichiche. Infatti, per il filosofo, è il corpo che patisce, mentre l’anima, propriamente, resta immune da affezione e agisce sul corpo, accorgendosi della passione del corpo e interessandosene di conseguenza.

La libertà dell’uomo. | L’attività più alta dell’anima consiste nella libertà. Da questo punto di vista, Plotino riprende le tradizionali dottrine platoniche e, come tutti i suoi predecessori, non riesce a liberarsi interamente dalle ipoteche dell’intellettualismo socratico. Ciononostante, sembra che egli abbia compiuto alcuni progressi, in virtù della sua nuova concezione dell’assoluto. L’uno, principio imprincipiato, è infatti essenzialmente libertà, volizione e causa di sé. Esso vuole e pone sé stesso, perché è bene. Pertanto, nell’assoluto la libertà coincide con la volontà del bene e nel voler essere bene.

Se così è, anche la libertà dell’uomo andrà cercata in questa stessa direzione. La libertà dell’intelligenza consiste nel porsi sulla scia del bene (IV 8, 4); analogamente, la libertà dell’anima consiste nel porre la propria forza operante sulle orme dell’intelletto e nell’agire di conseguenza, secondo quei modi che la portano a unirsi all’intelligenza, all’uno e al bene stessi. La libertà, dunque, secondo Plotino, non può consistere nell’attività pratica, cioè nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nelle virtù più alte, nella contemplazione e nell’estasi. La libertà e la volontà sovrana, insomma, consistono nell’immateriale: l’anima è libera nella misura in cui, tramite l’intelligenza, tende al bene (Plot. Enn. VI 8, 6-7).

Scena di offerta delle primizie. Affresco, fine II sec. dalla Tomba di Padiosir Petosiris‎, dal Qārat el-Muzawwaqa, Oasi di Dakhla (Egitto).

Le vie del ritorno all’assoluto. | Plotino ridimensiona la dottrina delle virtù. Quelle «civili», che erano state la base dell’etica classica, sono per il filosofo egiziano semplicemente un punto di partenza, non un punto d’arrivo: giustizia, saggezza, fortezza e temperanza, intese in senso «politico», sono solo capaci di assegnare limiti e misure ai desideri e di eliminare false opinioni; sono dunque solo un’orma del bene supremo. Queste virtù sono una condizione per diventare simili al dio, ma l’assimilazione al dio è qualcosa di superiore: appunto, superiori alle virtù «civili» sono quelle intese come «purificazioni». Infatti, mentre le virtù politiche si limitano a moderare le passioni, le virtù come purificazioni liberano l’individuo dalle passioni medesime, consentendo all’anima di unirsi a ciò che le è affine, l’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 1-3).

Quando l’anima ha raggiunto l’intelligenza e la contempla, allora, in questa contemplazione e imitazione, le virtù si trasfigurano. A questo punto, le virtù sono il modo di vivere dell’anima, che, distaccatasi dalle cose sensibili e rientrata totalmente in sé, vive in purezza la vita stessa degli dèi, assimilandosi all’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 7).

Per Plotino, le virtù non sono le uniche vie che portano a unirsi al divino: rifacendosi a Platone, egli valorizza anche l’erotica e la dialettica, che sono, sia pure a diverso titolo e in differente misura, modi diversi con i quali l’anima si distacca, si libera e si purifica dal corporeo e si avvicina all’assoluto. L’erotica plotiniana, come quella platonica, è strettamente connessa alla bellezza, che è fondamentalmente la forma a tutti i livelli. Anche la bellezza sensibile è forma, il tralucere della forma intellegibile nel sensibile. Nella misura in cui ciò che è bello è forma, è connaturale all’anima ed è, quindi, capace di far rientrare l’anima in sé e di riportarla al ricordo delle sue divine origini. E la «trafittura» che prova l’amante nel vedere il bello, non è altro che metafisico ricordo delle proprie origini trascendenti (Plot. Enn. I 6, 4; III 5).

La riunificazione all’uno. | Le vie del ritorno all’uno sono, sostanzialmente, un ripercorrere a ritroso la metafisica processione dall’uno e, siccome le successive ipostasi derivano da esso per una sorta di differenziazione e di alterità ontologica (alle quali nell’uomo si aggiungono anche alterità morali), è evidente che il ricongiungimento all’uno dovrà consistere proprio nell’eliminazione di ogni difformità in una sorta di semplificazione (Plot. Enn. VI 9, 11). Questo è possibile perché l’alterità non è nell’ipostasi dell’uno, ma in quelle che seguono all’uno, soprattutto nell’umano. Così, immune da qualsiasi diversità, l’uno è presente sempre negli uomini, ma gli uomini sono presenti all’uno soltanto quando eliminano la propria alterità.

Spogliarsi di quest’ultima significa per la persona rientrare in sé stessa, nella propria anima, distaccandosi dal corpo e da tutto ciò che a esso inerisce, ma anche dalla stessa parte affettiva dell’anima e di tutto ciò che le è connesso. L’anima stessa deve, inoltre, eliminare la parola, il discorso e la ragione discorsiva, tutto ciò che in qualsivoglia modo la possa dividere dall’uno, perfino la conoscenza riflessa del proprio essere (Plot. Enn. III 6, 5; VI 9, 7). La frase che riassume in maniera icastica questo processo di purificazione totale dell’anima è: Ἄφελε πάντα («Spogliati di tutto», Plot. Enn. V 3, 17). Si tratta, indubbiamente, della concezione più radicale che si riscontra nella storia del pensiero antico. Spogliarsi di tutto non significa affatto impoverire o annullare sé stessi, ma, al contrario, vuol dire accrescersi, riempiendosi di divino e di infinito.

Il filosofo in cattedra. Rilievo, marmo, c. 260-280, dal cosiddetto Sarcofago di Plotino. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’estasi. | La tangenza con l’uno è detta ἔκστασις, che non può essere una forma di scienza né di conoscenza intellettuale e razionale. Consiste piuttosto nel contemplare in stretto contatto (senza riflessa distinzione tra soggetto e oggetto) il contemplato, in una compresenza, se non in un’unificazione totale con esso. Anche a tal riguardo, non pochi interpreti sono caduti in errore e hanno confuso l’estasi con uno stato di incoscienza o con alcunché di irrazionale. In verità, Plotino concepiva questo elemento come uno stato di iper-coscienza, come qualcosa di iper-razionale. Nell’estasi l’anima vede sé stessa divinizzata, riempita dell’uno e, nell’ordine del possibile, pienamente assimilata a esso. Dunque, il contemplare estatico dell’anima è un partecipare alla sussistenza dell’uno con tutte le caratteristiche che di esso sono peculiari: ossia l’essere al di sopra dell’essere, del pensiero, della ragione e della coscienza (Plot. Enn. VI 9, 11).

Che la dottrina dell’estasi sia stata divulgata in Alessandria soprattutto da Filone è indubitabile, così com’è altrettanto certo che Plotino ne abbia più volte fatta esperienza diretta. Tuttavia, è da rilevare che, mentre Filone concepiva biblicamente l’estasi come grazia, ovvero come «dono gratuito» di Dio, Plotino la reinserisce in una prospettiva collegata alle categorie greche: il dio non fa dono di sé ai mortali, ma questi possono salire a lui e a lui unirsi per loro forza naturale.

L’asse portante del pensiero plotiniano consiste nell’idea di «contemplazione creatrice», che è l’esatto opposto di quell’emanazionismo di cui qualche interprete ha parlato. Iniziando l’ottavo trattato della III Enneade, in cui il maestro illustra proprio il concetto di contemplazione (θεωρία), che rivoluziona tutti gli schemi più consolidati, Plotino utilizza un tono scherzoso per attutire l’impatto della nuova dottrina con il lettore: tutto è contemplazione (Plot. Enn. III 8, 1). Ma subito il tono ritorna serio: Plotino dimostra i due punti estremi della dottrina, concernenti, rispettivamente, la natura e l’attività pratica. Che l’intelligenza contempli l’uno e l’anima l’intelligenza e, attraverso l’intelligenza, l’uno medesimo, non poteva sembrare paradossale, data la struttura delle ipostasi. Piuttosto, potevano risultare estranee alla contemplazione la natura e la prassi: anche loro, secondo la dottrina plotiniana, sono contemplazione e prodotto della contemplazione (III 8, 3).

È evidente che, come la natura contempla e crea in quanto è anima, così anche nelle anime particolari contemplazione e azione dovranno essere strutturalmente interconnesse. Non solo la prassi dipende dalla contemplazione, risultando tanto più ricca quanto più ricca è la contemplazione, ma essa tende pure a ritornare alla contemplazione. La prassi, perfino nel suo più basso grado, anche senza saperlo, tende a una contemplazione (Plot. Enn. III 8, 6).

Dunque, la vera forza creatrice, asserisce Plotino, non è l’azione (πρᾶξις), ma la contemplazione (θεωρία): portando alle estreme conseguenze la concezione platonica, in Plotino la contemplazione diviene un concetto metafisico generale. La spirituale attività del «vedere» si trasforma in creare. Perciò, l’uno è una sorta di auto-contemplazione; l’intelligenza è contemplazione dell’uno e di sé riempita dell’uno; l’anima è contemplazione dell’intelligenza e di sé ripiena di intelligenza; la natura, estremo lembo dell’anima, è contemplazione di sé; la stessa zione non è che un più debole grado di contemplazione. La contemplazione è silenzio: tutta la realtà è dunque contemplazione e silenzio.

In questo senso, il «ritorno» all’uno mediante l’estasi diviene non altro che il ritorno mediante la contemplazione dell’uno. Estasi ricorre una sola volta nelle Enneadi. Il significato più appropriato sarebbe «semplificazione», che, come si è visto, consiste nell’eliminazione dell’alterità, separazione da tutto ciò che è terreno e molteplice, contemplazione in cui soggetto contemplante e contemplato si fondono: Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῇδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῇδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον («Ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo», Plot. Enn. VI 9, 11).

Bibliografia:

F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, Vol. I, Roma-Bari 2006, 190-197.

M. Andolfo, L’ipostasi di Psiche in Plotino, Milano 1996.

E. Bréhier, Plotino, Milano 1976.

C. Carbonara, La filosofia di Plotino, Napoli 1964.

R. Chiaradonna, Filosofia tardoantica, Roma 2012.

C. Cilento, Saggi su Plotino, Milano 1973.

M. Di Pasquale Barbanti, Venticinque anni di studi plotiniani in Italia, Teoresi 29 (1974), 275-306.

G. Faggin, G. Reale, R. Radice (eds.), Plotino, Enneadi / Porfirio, Vita di Plotino, Milano 1992.

M.L. Gatti, Plotino e la metafisica della contemplazione, Milano 1996.

M. Gigante, L’Accademia flegrea da Cicerone a Plotino, in F. Romano (ed.), Momenti e problemi di storia del platonismo, Catania 1984, 84-95.

P. Hadot, Plotino, o la semplicità dello sguardo, Torino 1999.

V. Mathieu, Come leggere Plotino, Milano 2004.

P. Prini, Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore, Roma 1976.

G. Pugliese Carratelli, Platonopolis a Cuma?, PP 35 (1980), 440-442.

G. Pugliese Carratelli, Ancora su Platonopolis, PP 39 (1984), 146.

G. Reale, Il pensiero antico, Milano 2001, 447-473.

G. Reale, D. Antiseri, Il pensiero occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, 341-352.

P.M. Schuhl, P. Hadot, Le Néoplatonisme, Paris 1971.

V. Verra, Il neoplatonismo, in V. Mathieu (ed.), Questioni di storiografia filosofica, Brescia 1975, 399-444.

A. Zierl, Pensiero e parola in Plotino, Napoli 2006.

La scuola pitagorica

di N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. 1. Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Novara 2006, 39-52.

 

La tradizione ha complicato di tanti elementi leggendari la figura di Pitagora che riesce difficile delinearla nella sua realtà storica. Gli accenni di Aristotele si limitano a poche e semplici dottrine, riferite per di più non a Pitagora stesso, ma, in generale, ai Pitagorici; e se la tradizione si arricchisce a misura che si allontana nel tempo dal Pitagora storico, questo è segno evidente che si arricchisce di elementi leggendari e fittizi, che poco o nulla hanno di veramente storico.

Pitagora. Erma, marmo pario, I secolo d.C. Copia romana di un originale greco. Roma, Musei Capitolini.

Figlio di Mnesarco, Pitagora nacque a Samo, probabilmente intorno al 571/70 a.C., venne in Italia nel 532/1 e morì nel 497/6. Si dice che sia stato discepolo di Ferecide di Siro e di Anassimandro e che abbia viaggiato in Egitto e nei paesi del Medio Oriente. Certo è soltanto che da Samo emigrò nella Magna Grecia e prese dimora a Crotone, dove fondò una scuola che fu insieme un’associazione religiosa e politica. La leggenda rappresenta Pitagora come profeta e operatore di miracoli; la sua dottrina gli sarebbe stata trasmessa direttamente dal suo nume tutelare, Apollo, per bocca della sacerdotessa di Delfi, Temistoclea[1].

È assai probabile che Pitagora non abbia lasciato scritto nulla. Aristotele, infatti, non conosce nessun suo testo e l’affermazione di Giamblico che gli scritti dei primi Pitagorici fino a Filolao sarebbero stati conservati come secreto della scuola, non vale se non come una prova del fatto che, anche più tardi, non si possedevano scritti autentici del maestro, anteriori proprio a Filolao[2]. Posto ciò, è molto difficile riconoscere nel Pitagorismo la parte che spetta al suo fondatore. Una sola dottrina, invero, gli può essere attribuita con tutta certezza: quella della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e della sua trasmigrazione in altri corpi. Secondo questa dottrina, che fu fatta propria da Platone, il corpo è una prigione per l’anima, che vi è stata rinchiusa dalla divinità per punizione. Finché l’anima è nel corpo, essa ha bisogno del corpo perché solo per mezzo di esso può sentire; ma quando ne è fuori, essa vive in un mondo superiore una vita incorporea. A questa vita l’anima ritorna, se si è purificata durante la vita corporea; in caso contrario, essa riprende, dopo la morte, la catena delle trasmigrazioni[3].

Andrea di Bonaiuto, Pitagora (dettaglio dal Trionfo di S. Tommaso d’Aquino). Affresco, 1366-1367. Firenze, S. Maria Novella. Cappellone degli Spagnoli

 

La scuola di Pitagora, come si accennava, fu un’associazione religiosa e politica, oltre che filosofica in senso stretto. Pare che l’ammissione alla società fosse subordinata a prove rigorose e all’osservanza di un silenzio di vari anni. Nei più alti gradi, inoltre, i Pitagorici vivevano in piena comunione dei beni. Ma di tutte queste notizie il fondamento storico è assai poco sicuro. Molto probabilmente il Pitagorismo fu una delle tante sette celebratrici di misteri ai cui iniziati veniva imposta una certa disciplina e certe regole di astinenza, che non dovevano essere gravose. Il carattere politico della setta ne determinò, però, la rovina. Contro il governo aristocratico, tradizionale nelle città magnogreche, al quale avevano dato il proprio appoggio i membri dell’associazione, si determinò un movimento democratico che provocò rivoluzioni e tumulti.

I Pitagorici furono resi oggetto di persecuzioni: le sedi della loro scuola furono date alle fiamme, essi stessi furono massacrati o costretti all’esilio; e solo in seguito, dopo alterne vicende, i fuoriusciti poterono rientrare in patria. È probabile che Pitagora fosse stato costretto a lasciare Crotone per Metaponto proprio a causa di quei rivolgimenti.

Dopo la diaspora delle comunità pitagoriche in Italia meridionale si ha notizia di filosofi di questo indirizzo anche fuori della Magna Grecia. Il primo di essi è Filolao, che era contemporaneo di Socrate e di Democrito e visse a Tebe negli ultimi decenni del V secolo a.C. Nello stesso periodo, Platone colloca Timeo di Locri, dell’esistenza storica del quale non si è nemmeno tanto sicuri. Nella seconda metà del IV secolo a.C. il Pitagorismo assunse nuova importanza politica per opera di Archita, tiranno di Taranto, di cui fu ospite lo stesso Platone durante il suo viaggio in Magna Grecia. Dopo il Tarentino, la filosofia pitagorica sembra essersi estinta anche in Italia. Si rifaceva al Pitagorismo, anche se non è stato (come alcuni sostengono) scolaro di Pitagora, il medico Alcmeone di Crotone, che riprese alcune dottrine della scuola; costui è notevole soprattutto per aver posto nel cervello l’organo della vita spirituale dell’uomo.

La dottrina dei Pitagorici aveva essenzialmente carattere religioso: lo stesso Pitagora si mostrava come depositario di una sapienza che gli era stata trasmessa dalla divinità; a questa sapienza i suoi discepoli non potevano apportare alcuna modificazione, ma dovevano rimanere fedeli alle parole del maestro (ipse dixit). Inoltre, gli scolari erano tenuti a conservare il segreto e, perciò, la scuola si ammantava di misteri e di simboli che velavano il significato dei suoi insegnamenti ai profani.

 

Salvator Rosa, Pitagora emerge dall’aldilà. Olio su tela, 1662.

 

La dottrina fondamentale dei Pitagorici è che la sostanza delle cose sta nel numero. Secondo Aristotele, i Pitagorici, che erano stati i primi a far progredire la matematica, credevano che i principi della disciplina fossero quelli di tutte le cose[4]; e poiché i principi della matematica sono i numeri, parve loro di vedere in essi, più che nel fuoco, nella terra o nell’aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono. Aristotele, quindi, riteneva che i Pitagorici avessero attribuito al numero quella funzione di causa materiale che gli Ionici avevano assegnato a un elemento corporeo: il che è un’indicazione senza dubbio preziosa per intendere il significato del Pitagorismo, ma non è ancora sufficiente a renderlo chiaro.

In realtà, se gli Ionici per spiegare l’ordine del mondo avevano fatto ricorso a una sostanza corporea, i Pitagorici facevano di quell’ordine stesso la sostanza dell’universo. Il numero come sostanza del mondo, dunque, è l’ipostasi dell’ordine misurabile dei fenomeni. La grande scoperta dei Pitagorici – quella che ne determinò l’importanza nella storia della scienza occidentale – consiste appunto nella funzione fondamentale che essi avevano riconosciuto alla misura matematica per intendere l’ordine e l’unità del cosmo. Del resto, l’ultima fase del pensiero platonico sarebbe stata dominata dalla medesima preoccupazione, ovvero trovare quella scienza della misura che fosse, al contempo, il fondamento dell’essere in sé dell’essenza umana. Per primi i Pitagorici hanno dato espressione tecnica all’aspirazione fondamentale dello spirito ellenico verso la misura, quell’aspirazione che Solone esprimeva dicendo: «La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della conoscenza, che è la sola a disporre i limiti di tutte le cose»[5]. Come sostanza del mondo, il numero è il modello originario delle cose, giacché costituisce, nella sua perfezione ideale, l’ordine in esse implicito[6].

Pitagora e Filolao fanno esperimenti musicali. Xilografia dal Theorica musicae di F. Gaffurio (1492)
Pitagora e Filolao fanno esperimenti musicali. Xilografia dal Theorica musicae di F. Gaffurio (1492).

Il concetto di numero come ordine misurabile consente di eliminare l’ambiguità tra significato aritmetico e significato spaziale del numero pitagorico, ambiguità che ha dominato le interpretazioni antiche e recenti del Pitagorismo. Aristotele afferma che i Pitagorici trattavano i numeri come grandezze spaziali e riporta anche l’opinione che le figure geometriche siano l’elemento sostanziale di cui consistono i corpi[7]. I suoi commentatori sono andati anche oltre, ritenendo che i Pitagorici considerassero le figure geometriche quali principi della realtà corporea e che le riconducessero a un insieme di punti, ritenendo, a loro volta, i punti unità estese[8]. E interpreti più recenti hanno insistito nel definire il significato geometrico come il solo che consenta di intendere il principio pitagorico che tutto risulta composto di numeri.

In realtà, se per numero si intende l’ordine misurabile del mondo, il significato aritmetico e quello geometrico risultano fusi, giacché la misura suppone sempre una grandezza spaziale ordinata (quindi, geometrica) e, nello stesso tempo, un numero che la esprima. Si può dire che il vero significato del numero pitagorico sia espresso da quella figura sacra – la τετρακτύς (tetraktys) – per la quale i Pitagorici avevano l’abitudine di giurare e che era la seguente:

Tetraktys - Wikipedia

 

La τετρακτύς rappresenta il numero 10 come il triangolo che ha il 4 per lato. La figura costituisce, dunque, una disposizione geometrica che esprime un numero o un numero espresso con una disposizione geometrica: il concetto che essa presuppone è quello dell’ordine misurabile.

Se il numero è la sostanza delle cose, tutte le opposizioni delle cose vanno ricondotte a opposizioni tra numeri. Ora, l’opposizione fondamentale delle cose rispetto all’ordine misurabile che ne costituisce la sostanza è quella di limite e illimitato: il limite, che rende possibile la misura, e l’illimitato che la esclude. A questa opposizione corrisponde quella fondamentale tra i numeri, cioè pari e impari, dove l’impari corrisponde al limite e il pari all’illimitato. E difatti ne numero impari l’unità dispari costituisce il limite del processo di numerazione, mentre nel numero pari questo limite è assente e il processo rimane, perciò, inconcluso. L’unità è poi il parimpari, perché l’aggiunta di essa rende pari l’impari e impari il pari. A questa opposizione ne corrispondono altre nove fondamentali, secondo questo ordine: 1) limite vs illimitato; 2) impari vs pari; 3) unità vs molteplicità; 4) destra vs sinistra; 5) maschio vs femmina; 6) quiete vs movimento; 7) retta vs curva; 8) luce vs tenebre; 9) bene vs male; 10) quadrato vs rettangolo. Il limite, cioè l’ordine, è la perfezione; perciò, tutto ciò che si trova dalla stessa parte nella serie degli opposti è bene e ciò che si trova dall’altra parte è male.

Luca della Robbia. Euclide e Pitagora, o la Geometria e l’Aritmetica. Panello, marmo, 1437-1439. Dal basamento della Torre campanaria del Duomo di Firenze. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

 

I Pitagorici, tuttavia, sostenevano che la lotta tra gli opposti fosse conciliata da un principio di armonia; questa, in quanto fondamento e vincolo degli stessi opposti, costituiva per loro il significato ultimo della realtà. Filolao definiva l’armonia come «l’unità del molteplice e la concordia del discordante»[9]. Come dappertutto c’è l’opposizione degli elementi, così dappertutto c’è l’armonia; e si può altrettanto dire bene che tutto è numero o che tutto è armonia, perché ogni numero è un’armonia dell’impari e del pari. La natura dell’armonia è poi rivelata dalla musica: i rapporti musicali, infatti, esprimono nel modo più evidente la sostanza dell’armonia universale e, perciò, erano assunti dai Pitagorici come modello di tutte le armonie del cosmo[10].

 

Più o meno coerentemente alla dottrina metafisica del numero, i Pitagorici svilupparono una concezione cosmologica e antropologica di cui si conoscono soltanto scarsi elementi. Filolao affermò che il principio che la diversità degli elementi corporei (acqua, aria, fuoco, terra ed etere) dipendesse dalla diversità della forma geometrica delle particelle più piccole che li compongono. Questa teoria, che in lui si trova appena accennata, fu poi ripresa e precisata da Platone nel Timeo, in cui si attribuisce a ogni elemento la costituzione di un determinato solido geometrico; ma questa precisazione, resa possibile dallo sviluppo dato alla geometria solida dal matematico Teeteto (al quale fu intitolato l’omonimo dialogo platonico), non era stata possibile a Filolao. Circa la formazione del cosmo, i Pitagorici ritenevano, infatti, che al cuore dell’universo esistesse un fuoco centrale, chiamato madre degli dèi, perché da esso sarebbero nate tutte le creature e i corpi celesti; tale fuoco era anche detto Hestia, focolare o altare dell’universo, cittadella o trono di Zeus, perché era considerato il fulcro da cui emanava la forza capace di conservare il mondo. Nella concezione pitagorica, poi, da questo fuoco sarebbero attratte tutte le parti più vicine dell’illimitato che lo circonda (spazio o materia infinita), parti che da questa attrazione vengono limitate, e quindi plasmate dall’ordine. Questo processo, ripetuto più volte, avrebbe condotto, via via, alla formazione dell’intero universo, nel quale, perciò – come riferisce anche Aristotele – la perfezione non sarebbe al principio, ma al termine[11].

File:Terra e Antiterra nel pitagorismo.jpg
La costituzione dell’universo secondo i Pitagorici [link].
 

L’aspetto notevole di questa cosmogonia è il fatto che la concezione dell’universo che ne deriva fa annoverare i Pitagorici tra i primi anticipatori di Copernico. Essi, infatti, concepivano il mondo come una sfera, al centro della quale vi era il fuoco originario; attorno a esso orbitavano da occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, che era più lontano dal centro, e poi, a distanze sempre minori, i cinque pianeti, il Sole – che, come una lente, raccoglieva i raggi del fuoco primordiale –, la Luna, la Terra e l’Anti-terra – un ipotetico pianeta che i Pitagorici calcolavano per completare la sacra decina. Il limite estremo del cosmo, dunque, doveva essere formato da una sfera avvolgente di fuoco, corrispondente al fuoco celeste.

Le stelle fisse erano credute fissate a sfere trasparenti dalla cui rotazione erano portate in giro[12]. Poiché ogni corpo mosso velocemente produce un proprio suono musicale, questo doveva accadere anche per i corpi celesti: il movimento delle sfere, così, dava origine a una serie di toni musicali che, nel loro complesso, formava un’ottava. Secondo i Pitagorici, i comuni mortali non potevano percepire queste musiche, perché li avevano sentiti ininterrottamente fin dalla nascita o anche perché i loro orecchi, nel corso del tempo, diventavano sempre meno adatti a udirle.

Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del sole. Olio su tela, 1899.

Come ogni altra cosa anche l’anima umana è armonia, quella che intercorre fra gli elementi che compongono il corpo. A questa dottrina, che è esposta da Simmia, discepolo di Filolao, nel Fedone platonico, Platone stesso obietta che, se considerata armonia, l’anima non potrebbe essere immortale perché dipenderebbe da elementi corporei, che si dissolvono con la morte. Tale obiezione è apparsa così seria che si è negato che la dottrina dell’anima-armonia fosse intesa dai Pitagorici nel senso chiarito da Platone e la si è riportata, invece, all’interpretazione di Claudiano Mamerto, secondo la quale l’anima sarebbe piuttosto la convenienza (cioè il vincolo che unisce anima e corpo)[13]. In realtà, se si tiene fermo il principio pitagorico che l’armonia è numero e il numero è sostanza, l’obiezione platonica perde valore: è l’armonia che determina e condiziona la mescolanza degli elementi corporei, non già questa è condizione di quella.

Alla dottrina dell’armonia si collega pure l’etica pitagorica con la sua definizione di giustizia. Quest’ultima è un numero quadrato; consiste cioè nel numero uguale moltiplicato per il numero uguale, perché rende l’uguale con l’uguale. Per questo, i Pitagorici la indicavano con il 4, che è il primo numero quadrato, o con il 9, che è il primo numero quadrato dispari. Per tutto il resto, l’etica pitagorica era di carattere eminentemente spirituale: il suo precetto fondamentale era, infatti, quello di seguire la divinità e di diventare simile a essa. Le massime e prescrizioni di carattere pratico, che costituiscono il patrimonio etico della scuola, non hanno uno speciale significato filosofico, se non in quanto, forse, si incomincia a intravedere in esse quella subordinazione dell’azione alla contemplazione, della morale pratica alla sapienza, che sarebbe riuscita vittoriosa con l’Aristotelismo. Il Pitagorismo aveva additato la purificazione dell’anima, che altre sette analoghe avevano conosciuto in riti e pratiche propiziatori, nell’attività teoretica, sola capace di sottrarre l’anima alla catena delle nascite e di ricondurla alla divinità.

***

Nota bibliografica

Le testimonianze su Pitagora in H. Diels – W. Kranz (eds.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-19526, cap. XIV. Le Vite di Pitagora, composte da Porfirio e da Giamblico, sono utili per la conoscenza della leggenda del maestro e delle dottrine neopitagoriche e neoplatoniche, ma non per la ricostruzione della biografia storica dell’uomo. La Vita di Porfirio si legge nell’edizione di A. Nauck (Leipzig 1886); quella di Giamblico nell’edizione curata da L. Deubner (ibi 1937). Su Pitagora, si vd. Th. Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1869-1909 [= 1922-19232], I, 108 ss.; J. Burnet, Early Greek Philosophy, London 1920, 93 ss.; A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924. Cfr. anche K. Kerényi, Pythagoras und Orpheus, Amsterdam-Leipzig 1940; E. Bindel, Pythagoras. Leben und Lehre in Wirkdichkeit und Legende, Stuttgart 1962; R. Cuccioli Melloni, Ricerche sul pitagorismo. I. Biografia di Pitagora, Bologna 1969; F. Gorman, Pythagoras: A Life, London 1979; A. Slosman, La vie extraordinaire de Pythagore, Paris 1983. I frammenti dei Pitagorici sono stati raccolti, con traduzione italiana, introduzione e commento da M. Timpanaro Cardini, Firenze 1958-1964 [19692], 3 voll.

Sulle vicende della scuola pitagorica, si vd. A. Rostagni, Pitagora e i Pitagorici in Timeo (1914), ora in Scritti minori, II 1, Torino 1956, 3-50. I frammenti di Filolao in Diels – Kranz, op. cit., cap. XLIV; quelli di Archita ibid., cap. XLVII; quelli di Alcmeone ibid., cap. XXIV. Su questi Pitagorici, si vd. A. Olivieri, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli 1931; K. von Fritz, Pythagorean Politics in Southern Italy, New York 1940; D. Teti, Alcmeone e Pitagora. Scuola medica crotoniate e scuola pitagorica italica, Padova 1970.

Sulla dottrina pitagorica, si vd. ancora E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Halle 1923 (rist. Darmstadt 1962); J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge 1948 (rist. Amsterdam 1966); H. Strainge Long, A Study of the Doctrine of Metempsychosis in Greece from Pythagoras to Plato, Princeton 1948; W. Burkert, Weisheit und Wissenshaft. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Plato, Nürnberg 1962 (trad. engl. Cambridge Mass. 1972); J.A. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Toronto 1966; C.J. De Vogel, Pythagoras and Early Pythagorism, Assen 1966; W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge Mass. 1972.

***

Note

[1] Aristox. fr. 2 F.H.G. II = 15 Wehrli, in Diog. VIII 21: Ὁ δ᾽ αὐτός φησιν, ὡς προείρηται, καὶ τὰ δόγματα λαβεῖν αὐτὸν παρὰ τῆς ἐν Δελφοῖς Θεμιστοκλείας: «La stessa fonte [= Aristosseno], come abbiamo detto, asserisce che egli desunse le proprie dottrine da Temistoclea, sacerdotessa di Delfi».

[2] Iambl. v. Pyth. 199: θαυμάζεται δὲ καὶ ἡ τῆς φυλακῆς ἀκρίβεια˙ ἐν γὰρ τοσαύταις γενεαῖς ἐτῶν οὐθεὶς οὐδενὶ φαίνεται τῶν Πυθαγορείων ὑπομνημάτων περιτετευχὼς πρὸ τῆς Φιλολάου ἡλικίας, ἀλλ’ οὗτος πρῶτος ἐξήνεγκε τὰ θρυλούμενα ταῦτα τρία βιβλία, ἃ λέγεται Δίων ὁ Συρακούσιος ἑκατὸν μνῶν πρίασθαι Πλάτωνος κελεύσαντος, εἰς πενίαν τινὰ μεγάλην τε καὶ ἰσχυρὰν ἀφικομένου τοῦ Φιλολάου, ἐπειδὴ καὶ αὐτὸς ἦν ἀπὸ συγγενείας τῶν Πυθαγορείων, καὶ διὰ τοῦτο μετέλαβε τῶν βιβλίων: « S’ammira anche la cura che ebbero a tener segrete le loro dottrine. Perché in tante generazioni fino a Filolao nessuno conobbe memorie di Pitagorici: fu Filolao il primo a divulgare i tre libri famosi, di cui si dice che furono acquistati per cento mine da Dione siracusano per incarico di Platone, quando Filolao si trovò in dura e grave povertà. Filolao faceva parte della setta dei Pitagorici, e per questo aveva potuto avere i libri».

[3] Cfr. Plat. Gorg. 493a: καὶ ἡμεῖς τῷ ὄντι ἴσως τέθναμεν: ἤδη γάρ του ἔγωγε καὶ ἤκουσα τῶν σοφῶν ὡς νῦν ἡμεῖς τέθναμεν καὶ τὸ μὲν σῶμά ἐστιν ἡμῖν σῆμα, τῆς δὲ ψυχῆς τοῦτο ἐν ᾧ ἐπιθυμίαι εἰσὶ τυγχάνει ὂν οἷον ἀναπείθεσθαι καὶ μεταπίπτειν ἄνω κάτω, καὶ τοῦτο ἄρα τις μυθολογῶν κομψὸς ἀνήρ, ἴσως Σικελός τις ἢ Ἰταλικός, παράγων τῷ ὀνόματι διὰ τὸ πιθανόν τε καὶ πειστικὸν ὠνόμασε πίθον, τοὺς δὲ ἀνοήτους ἀμυήτους: «Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente direzione in su e in giù. Un uomo ingegnoso, un Siculo o forse un Italico, parlando per immagini, mutando di poco il suono del nome, chiamò “orcio” questa parte dell’anima perché seducibile e credula e chiamò “dissennati” i non iniziati».

[4] Aristot. Met. I 5.

[5] Sol. fr. 20 G.-P.2 = 16 W.2: γνωμοσύνης δ’ ἀφανὲς χαλεπώτατόν ἐστι νοῆσαι / μέτρον, ὃ δὴ πάντων πείρατα μοῦνον ἔχει.

[6] Aristot. Met. I 6, 987b 10.

[7] Aristot. Met. XIII 6, 1080b 18; VII 2, 1028b 15.

[8] Cfr. Alex. in Met. I 6, 987b 33, ed. Bonitz, p. 41.

[9] Philol. fr. 10 D.

[10] Id. fr. 6 D.

[11] Cfr. Aristot. Met. XII 7, 1072b 28.

[12] Aristot. Coel. II 13.

[13] Claud. Mam. de stat. anim. II 7 § 172.

T. Lucrezio Caro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 135-151 = Id., E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 518-531.

1. Il poeta dell’Epicureismo

Tito Lucrezio Caro è, insieme a Catullo, il più grande poeta dell’età di Cesare – un periodo in cui predomina la prosa – e l’unico la cui opera ci sia giunta per intero. Il suo lungo poema in sei libri, De rerum natura [Sulla natura delle cose], espone la filosofia di Epicuro con rigore, ma anche con coraggio, perché le teorie dell’Epicureismo erano sempre state guardate con sospetto a Roma.

Ma il poema di Lucrezio non è un arido manuale di filosofia. È soprattutto una grande opera di poesia, dall’ispirazione possente e dallo stile personalissimo, che trasuda l’entusiasmo dell’autore per la sua missione di divulgazione. Un’opera tanto più interessante perché, come accade per Catullo, ignora deliberatamente i terribili sconvolgimenti e le violenze che segnarono la politica romana del I secolo a.C. per concentrarsi sulla contemplazione intellettuale e sulla poesia.

2. Una biografia con molte incertezze

La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di san Girolamo (circa 347-420), che è una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio, con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di Svetonio:

Nasce il poeta Tito Lucrezio. Costui in seguito, indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia, libri che furono poi riveduti da Cicerone, si uccise di propria mano a 43 anni di età[1].

Alcuni manoscritti di Girolamo collocano questa notizia della nascita nel 96, altri nel 94 a.C.; la data di morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51 a.C.

Ma questa non è l’unica difficoltà. Il grammatico Elio Donato (IV secolo) così scrive nella sua Vita Vergilii:

A Cremona Virgilio trascorse i primi anni fino alla toga virile, che assunse al compimento del diciassettesimo anno, sotto quei medesimi consoli sotto i quali era pure nato: avvenne che in quello stesso giorno morisse il poeta Lucrezio[2].

Ora, Virgilio compì diciassette anni nel 53 a.C.; invece, i consoli sotto i quali nacque (70 a.C.), Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, furono eletti per la seconda volta non nel 53, ma nel 55 a.C. Per accordare le due indicazioni, si è supposto che nei manoscritti si sia corrotta l’indicazione d’età di Virgilio (che avrebbe avuto quindici anni e non diciassette), e si ricava così la data del 15 ottobre 55 a.C.

Ma come accordare questa data con il 53/1 di Girolamo? È necessario ammettere che quest’ultimo abbia confuso il nome dei consoli del 94 e del 98 a.C. e collocare la nascita in quest’ultima data. Oggi 98 e 55 sono ritenute le date più verosimili, anche se permangono notevoli incertezze; si può affermare con una certa sicurezza, tuttavia, solo che il poeta nacque negli anni ‘90, e morì verso la metà degli anni ‘50 del I secolo a.C.

Nulla di concreto si può affermare sulla sua provenienza: si è pensato che fosse campano, poiché a Napoli era fiorente una scuola epicurea e perché il De rerum natura si apre con inno a Venere molto simile alla Venus fisica venerata a Pompei. Ma tanto questa ipotesi quanto quella di chi vuole il poeta nato a Roma, per via di alcuni, pochi riferimenti a luoghi precisi dell’Urbs, sono prive di basi convincenti.

Sarebbe interessante determinare la classe sociale di provenienza di Lucrezio, ma dal tono delle parole che rivolge all’aristocratico Memmio, dedicatario del poema, nel corso dell’opera, non è possibile capire se egli si collocasse sullo stesso livello o non fosse, piuttosto, un liberto; in ogni caso, è fuori discussione l’ampiezza della cultura ricevuta. Qualche notizia più approfondita su questi temi è, in verità, presente nella cosiddetta Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894, in cui si sostiene che il poeta visse «in stretta intimità» con Cicerone (da cui avrebbe accolto suggerimenti stilistici), Attico, Bruto, Cassio, cioè con le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la Vita sia un falso, composto dall’umanista Gerolamo Borgia all’inizio del Cinquecento.

Va, con ogni probabilità, respinta la notizia di san Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio come frutto della follia del poeta. Prima di san Girolamo, questa notizia della follia non si trova neppure nel cristiano Lattanzio (circa 240-320), che pure accusa metaforicamente di «delirare», e che certamente non avrebbe mancato di accennare a un elemento così importante, se solo lo avesse conosciuto.

Alcuni critici contemporanei interpretano questa follia come una depressione patologica del poeta, per spiegare – ma in modo poco convincente – il “pessimismo” lucreziano così contrario all’“ottimismo” di Epicuro, il filosofo di cui illustra le dottrine.

Busto di Lucrezio
Busto di Lucrezio

3. L’opera: il poema che traduce Epicuro

Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri (ogni libro va da un minimo di quasi 1100 versi a un massimo di quasi 1500, per un totale di 7415 esametri), forse non finito o comunque mancante dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Περί φύσεως in trentasette libri.

Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verisimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e patronus di Catullo e di Cinna. La data di composizione del poema non è sicura. Nel I libro l’autore afferma che Memmio non può sottrarsi alla cura del bene comune «in un momento difficile per la patria» (v. 41 s.); tutta la prima metà del secolo, infatti, è funestata da eventi bellici, ma si tende a pensare che il riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59 a.C., anche perché Memmio fu pretore nel 58 a.C.: non è però impossibile pensare a date anteriori.

Girolamo, nello stesso passo del Chronicon in cui riferisce le notizie biografiche su Lucrezio, asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato a opera di Cicerone. Certo è che in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54 (Ad Quintum fratrem II 9, 3), Cicerone mostra di aver già letto e apprezzato il poema: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis [«Nei poemi di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria»].

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

4. L’Epicureismo a Roma

Il poema lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’Epicureismo a Roma era stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente, che nella scelta dell’atteggiamento da tenere verso il pensiero greco era molto attenta a eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per la res publica o per il mos maiorum. Certo, non tutti mostravano la chiusa intolleranza di Catone verso la cultura ellenica; ma anche un autore come Cicerone, amante della filosofia, eresse un argine insormontabile proprio nei confronti dell’Epicureismo. Questa dottrina era considerata pericolosa, perché, da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità, distoglieva i cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dèi negli affari umani, corrodeva quella religione ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.

Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti dei filosofi Alceo e Filisco, che volevano divulgare l’Epicureismo a Roma, nel I secolo a.C. questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, era protettore di filosofi epicurei e nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove, sotto la guida di Sirone, studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali futuri poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Tito Pomponio Attico, di Cesare e del cesaricida Cassio.

Meno sappiamo sulla penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori; ma è interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tuscolanae disputationes (4, 7), ci informa del fatto che le divulgazioni dell’Epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio (età incerta; forse fine del II-inizi del I secolo a.C.) e Cazio (I secolo a.C.), circolavano presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati. In effetti, lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione, coerentemente con l’universalismo del suo messaggio.

L. Calpurnio Pisone Cesonino. Busto, bronzo, fine I sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. Il contenuto del poema

Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi), che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici (V-VI).

Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore, come dimostrano alcune ripetizioni di versi e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema: poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dèi, ma non mantiene fede alla promessa, si è pensato che proprio questi descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena – che avrebbe fatto da pendant al gioioso inno a Venere con il quale si apre – e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1569 (1483), Frontespizio del De rerum natura di Lucrezio, f. 1r.

6. Il genere letterario

Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella, prosastica, seguita da Amafinio e Cazio, perché optò per la forma del poema epico-didascalico. Questa scelta dovette destare sorpresa, perché Epicuro aveva condannato la poesia (soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca) per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli altri epicurei si erano attenuti scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento.

Nella sua scelta, Lucrezio fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. In due luoghi distinti del poema (I 136-145; IV 1-25) Lucrezio giustifica questa sua scelta, ricorrendo nel secondo caso a una celebre similitudine: come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a guarirli, così egli vuole «cospargere con il miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara.

Michael Burghers, Lucrezio. Dal frontespizio del T. Lucretius Carus, Of the Nature of Things di Thomas Creech, riprodotto nell’edizione di John Digby, London 1714.

La novità di Lucrezio | Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma ebbe modelli importanti in tutta la tradizione epico-didascalica. In particolare, Lucrezio guarda con dichiarata simpatia al Περί φύσεως di Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C., che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. Certo, Lucrezio ne respingeva l’ispirazione misticheggiante e le posizioni filosofiche, ma ne ammirava diversi elementi: l’argomento trattato, l’ardore di apostolo, l’atteggiamento profetico di rivelatori della verità, l’organizzatore del materiale e alcuni caratteri formali come l’uso dell’esametro. Questo spiega il fervido omaggio che Lucrezio gli rivolge verso la fine del I libro (vv. 716-733).

Ancora più grande è la differenza tra Lucrezio e gli altri poeti didascalici latini, sia precedenti sia successivi a lui. Infatti, questi si ricollegavano più direttamente alla tradizione ellenistica, che ricercava l’ispirazione in argomenti tecnici in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche e si limitava per lo più a descrivere fenomeni. Lucrezio, invece, ambisce non solo a descrivere, ma anche a indagare le cause e a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre, egli vuole convincere il lettore della validità della dottrina epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità una ratio sulla quale è obbligato a esprimere un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.

L’ethos (cioè l’intenzione) del genere didattico ellenistico era eminentemente encomiastico: il testo rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, Lucrezio articola spesso le proprie argomentazioni con le formule non mirandum e nec mirum: «non c’è da meravigliarsi» davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e chi abbia capito i principi delle cose e i loro concatenamenti non può rimanerne stupito. Alla “retorica del mirabile” («ammira e stupisciti, tu che ascolti») Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”, che è, di fatto, il contrario del miracoloso; e così necesse est è un’altra delle formule più frequenti nell’argomentare lucreziano.

Rembrandt van Rijn, Lo studioso al leggio. Olio su tela, 1641. Warsaw, Castello Reale.

Lucrezio e il lettore-discepolo | La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che l’autore gli propone. Così, per esempio, nel I libro: «Perciò, benché tu indugi adducendo molte obiezioni, / è inevitabile che tu ammetta l’esistenza del vuoto tra i corpi» (v. 398 s.); o nel II: «Perciò, smettila, spaventato dalla stessa novità, / di espellere dall’animo il vero, ma con più attento / giudizio valuta e, se ti appaiono verità, / cedi, o, se invece è falso, combatti» (v. 1040 ss.).

Il destinatario del messaggio – fatto direttamente responsabile – deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del “sublime” lucreziano, quegli spettacoli alti e grandiosi che ricorrono nel poema: la furia dei venti, gli universi infiniti, l’eternità del tempio passato e futuro sono spettacoli sublimi che coinvolgono il lettore spettatore e lo spronano. Il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in “eroe”, a emozionarsi a trovare in sé la forza di accettare la dottrina, anche qualora le verità proclamata dal poeta siano terribili e perfino paurose[3].

Da questo approccio discendono alcune caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Tra i procedimenti dimostrativi Lucrezio non trascura il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica, ma anche la dimostrazione per assurdo della falsità di tesi o possibili obiezioni. Uno spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto ciò che è troppo lontano o piccolo per essere osservato direttamente, come per esempio i fenomeni astronomici (libro VI) o l’esistenza degli atomi e del vuoto in cui essi si muovono (libri I e II).

Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La sua struttura complessiva è semplice. Prima c’è un’introduzione (vv. 1-93), che si apre con un inno a Epicuro. Poi, viene la trattazione vera e propria (vv. 94-829), a sua volta suddivisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, cioè composta di atomi estremamente sottili e di vuoto (vv. 94-416), poi che l’anima, in quanto materiale, è anche mortale, soggetta al ciclo di nascita e morte proprio di tutti i corpi (vv. 417-829). In quest’ultima parte Lucrezio propone ben ventinove diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, la scelta degli esempi e delle immagini creano un insieme di innegabile forza persuasiva, anche se Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Infine, nell’ultima parte (vv. 830-1094) Lucrezio dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo (vv. 933 ss.): se la vita trascorsa è stata colma di gioie ci si può ritirare come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono a ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere, perché eadem sunt omnia semper (III 945).

In questo libro è particolarmente chiaro un ultimo carattere dell’opera, il suo contatto con la letteratura diatribica. La diàtriba (letteralmente «discussione») si era sviluppata in Grecia in età ellenistica, e il rappresentante più noto ne era stato Bione di Boristene (ca. 325-255 a.C.), un filosofo viaggiatore che esponeva alla gente per strada argomenti di carattere filosofico-morale. Anche se il suo orientamento filosofico era prevalentemente cinico, Bione aveva contribuito a sviluppare una presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti spunti satirici assai vivaci e con la partecipazione di più personaggi fittizi.

Filosofo di Antikythera. Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

8. I temi del De rerum natura

La religione | Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare. Ben più empia e crudele è la religio, ovvero la religione tradizionale basata sulla paura degli dèi e quasi una «superstizione», che aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca per Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scena tra le più elaborate del poema (I 80-101), impostata su un tono volutamente molto patetico. La religio è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla e diventassero quindi insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è quindi necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa.

Si vede come già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica. Il suo messaggio fu di fatto ignorato non solo per intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché capace di mettere in discussione i fondamenti culturali, sociali e politici dello Stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione.

Se l’insistenza sui «terribili detti» (I 103) dei vates costituisce probabilmente una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco è descritto fin da subito come un nuovo Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli dèi per aiutare gli uomini), come un guerriero omerico impegnato in un duello eroico: fu il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo» (I 66)[4]. Per questo egli può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e il IV, tutti i libri dell’opera si aprono con un’appassionata celebrazione dei meriti del filosofo.

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Epicuro credeva che gli dèi fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia (la zona tra terra e cielo in cui abitavano), incuranti delle vicende della Terra e dell’uomo: a loro poteva andare la pietas dei terrestri e potevano costituire un punto di riferimento ideale. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dèi in un rapporto di dipendenza e che da essi egli potesse attendersi benefici o punizioni come da un padrone. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e «contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi» (V 1203).

Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità (vv. 1161-1240) è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi scientifiche. La loro conoscenza, invece, permette di capire, per esempio, che il fulmine o le tempeste non sono i segni di una punizione divina, anche perché colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Alcuni hanno visto a torto in questi versi quasi un cedimento di Lucrezio nei confronti di quelle paure che lui stesso tenta di combattere: sua intenzione è, invece, quella di delineare l’origine storica di un fenomeno del quale non è difficile ricostruire le cause e che, quindi, va affrontato ed eliminato.

Il corso della storia | Oltre a temi fisici (come la natura della materia e la formazione dei corpi) ed etico-morali (la religione, la paura della morte, l’amicizia, l’amore), Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione (II 1024-1174).

Tu tutta la seconda metà del libro V (vv. 772-1457) tratta invece dell’origine della vita sulla Terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della Terra. A tali fantasticherie Lucrezio oppone la saldezza delle leggi naturali della fisica epicurea, che dimostrano l’impossibilità che due esseri di natura diversa, come l’uomo e il cavallo, per esempio, si congiungono e generino un centauro: è questo uno degli insegnamenti basilari di Epicuro. È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta alcuni “sbagli” dando vita a uomini mancanti di parti vitali del corpo (V 837 ss.).

I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui avevano davvero bisogno; non per questo la loro vita era priva di pericoli, perché molti venivano sbranati dalle fiere. In seguito (vv. 1011-1457) Lucrezio tratta delle tappe del progresso umano, positive (la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura) e negative (l’origine e lo sviluppo della guerra, il sorgere del timore religioso). Spesso è stata la natura a mostrare casualmente gli uomini come agire: del metallo surriscaldato un incendio fortuito virgola e raccolto sin una buca del terreno, per esempio, può avere indicato la tecnica della fusione. La necessità di comunicare, invece, ha spinto l’uomo a creare le prime forme di linguaggio: caso i bisogni materiale sono stati fattori di avanzamento della civiltà.

Prometeo, Gaia, Aion, le stagioni e i venti. Mosaico, IV secolo, da Damasco (Siria).

È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Ovviamente, Lucrezio non poteva credere in una mitica «età dell’oro», in cui l’umanità viveva come in un paradiso terrestre dal quale il degenerare delle razze l’avrebbe irrimediabilmente allontanata, come invece sosteneva Esiodo nelle Opere e i giorni.

Lucrezio critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni naturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, ma la sua non è una visione sconsolata e pessimistica: a questi problemi l’Epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che «di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo» (II 20), cioè a evitare i desideri non naturali e non necessari, badando a soddisfare solo quelli naturali e necessari[5]. Come si vede, l’Epicureismo non era affatto quella forma di edonismo sfrenato che i suoi avversari dipingevano.

Perciò, il saggio deve allontanarsi dalle inutili ricchezze e dalle tensioni della vita, secondo il consiglio di Epicuro, λάθε βιώσας («vivi nascosto»). L’unica vera ricchezza è lo studio della natura con gli amici più fidati (come diceva Epicuro: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per a completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», Massime capitali, trad. it. G. Arrighetti). Celebre è la similitudine che apre il libro II: il saggio che vive secondo i precetti di Epicuro è come colui che, al sicuro sulla terraferma, osserva distaccato l’altrui pericolo nel mare in tempesta.

8. L’interpretazione dell’opera

Nell’interpretazione dell’opera di Lucrezio, di certo, ha avuto un peso determinante la notizia di san Girolamo sulla follia del poeta, notizia che, come abbiamo visto, è dovuta al desiderio da parte del dotto cristiano di screditare un poeta materialista. Perciò, non possono essere accettate le tesi di coloro che, confondendo l’autore con il narratore, hanno affannosamente ricercato nel De rerum natura tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, o come crisi maniaco-depressive o come generica angoscia esistenziale[6]. Anche la tesi più recente (1868) del francese Patin è dovuta all’avversione per il credo materialista del poeta: secondo Patin, infatti, per tutto il poema Lucrezio si affanna a persuadere un “anti-Lucrezio” scettico, ovvero lotta con se stesso in una specie di sdoppiamento della personalità.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, I secolo d.C. da Pompei.

Al contrario, il De rerum natura è pervaso da una tensione che può ben essere definita «illuministica», volta a convincere razionalmente il lettore e a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui l’autore crede profondamente. E se nel poema hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche e violentemente drammatiche, questo non è dovuto al fatto che Lucrezio non riesca a convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, ma a precisi motivi di contesto. Per esempio, per confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale, Lucrezio sottolinea la totale indifferenza della natura verso l’uomo con immagini forti: la “colpa” della natura è evidente nelle asperità del terreno, nelle difficoltà di lavorarlo, nella durezza del clima, nel gran numero di animali nocivi all’uomo che la Terra nutre, nelle malattie e nella morte prematura. E, quando nel finale del IV libro Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione tanto irrazionale[7]. Più in generale, alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema e radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace.

Bisogna ammettere però che a tratti in forte pessimismo sembra separare Lucrezio dalla serenità del suo maestro Epicuro. Questo problema ha un ruolo centrale in buona parte della critica, e non è facile giungere a una valutazione equilibrata che tenga conto di tutte le sfumature, dei toni qualora diversi tra una parte e l’altra del poema. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente; ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti.

Albert Bierstadt, L’incombere della tempesta nella valle. Olio su tela, 1891. Nordsee Museum Husum.

Nel III libro, per esempio, l’autore insiste sul fatto che la morte «per noi non è nulla» (nihil est ad nos neque pertinet hilum, v. 830), perché con essa la nostra sensibilità si perde del tutto. Tutto questo, però, non basta a eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba avere un termine: se la vita trascorsa è stata piacevole e nella di diverso può essere esperito in futuro, perché «tutto è sempre uguale» (v. 945), conviene allontanarsi come un convitato sazio, serenamente (aequo animo, v. 939, un’espressione tipicamente epicurea che ritroveremo in Orazio); in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Ma è proprio questa rigidità razionalistica a contrastare vivamente con la vivida descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre.

In realtà, proprio queste, che sono state considerate come contraddizioni da critici desiderosi di screditare Lucrezio, non fanno che aggiungere fascino alla sua personalità poetica: la sua insoddisfazione amara è il segno oggettivo di un interiorità tormentata, e forse i luoghi più eloquenti dell’opera sono proprio quelli in cui le contraddizioni non risolte lasciano il segno sul corpo della dottrina.

9. Lingua e stile

Il giudizio di Cicerone nella lettera al fratello Quinto, riportato sopra, testimonia che l’Arpinate ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha a lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle due affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva.

Certamente, il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione, che deriva quasi obbligatoriamente dalla mancanza nella lingua latina di un vocabolario astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a tale mancanza, deve ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi. E così un discorso di per sé intellettuale guadagna in emotività ed efficacia poetica attraverso la descrizione, ora stupita ora curiosa, di cose immense e piccolissime, distanti e vicine, statiche e dinamiche.

A queste antitesi corrisponde stilisticamente il contrasto efficace tra le movenze di una lingua colloquiale e la scelta di uno stile sublime, tra l’energia del parlato e la preziosità della dizione epico-tragica, tra la durezza e l’eleganza, tra la meraviglia e la commozione, tra il ragionamento pacato e l’invettiva profetica. Questa varietà si fonde nel registro dell’enthusiasmós poetico, posto al servizio di una missione didattica vissuta con un ardore eccezionale.

Lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, si piega al fine di persuadere il lettore. Le ripetizioni, nelle quali si è a lungo visto un segno di “immaturità” stilistica di Lucrezio, sono frequenti, ma Epicuro stesso raccomandava di riassumere alcuni concetti in brevi formule facilmente ricordabili. Così, per esempio, il principio essenziale per cui l’incessante divenire degli aggregati è possibile solo grazie al loro continuo disfacimento è ripetuto quattro volte (I 670; 792; II 753; III 519).

Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (per esempio, le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique), dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile.

Non va neppure trascurato il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove (quali semina o primordia rerum, e corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco (come homoeomerìa): è appunto in questa circostanza che egli lamenta la «povertà del vocabolario avito» (I 832: patrii sermonis egestas).

Al di fuori del lessico strettamente tecnico, Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto Ennio) gli fornisce specie nel campo degli aggettivi composti (per esempio, suaviloquens, altivolans, navigerum, frugiferens), e molti ne crea egli stesso, rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter) e perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus, sul modello omerico). Da Ennio trae le più caratteristiche forme dell’espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici. In campo grammaticale i due fenomeni sicuramente più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in -ier (più arcaico di -i), e il prevalere della desinenza bisillabica -ai nel genitivo singolare della 1^ declinazione (anziché -ae), che contribuiscono all’elevazione del tono del discorso.

L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Il moderato ricorso all’enjambement (peraltro diffuso nelle sezioni in cui si intende accentuare il pathos) annulla soprattutto nelle parti tecniche argomentative la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.

Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide; tutta la descrizione della peste di Atene nel finale dell’opera è naturalmente basata sul racconto di Tucidide. Non mancano allusioni ai poeti ellenistici: nel proemio del IV libro Lucrezio si presenta come il poeta che raggiunge per primo «gli impervi terreni delle Muse Pieridi» per attingere a una nuova fonte di poesia, riproducendo così il gesto di consapevolezza che Callimaco aveva canonizzato a inizio degli Aitia.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

10. La fortuna di Lucrezio

Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: è sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’ Epicureismo ha larga parte. Si è pensato (ma le ipotesi sono molteplici) che Cicerone abbia voluto, in tale sede, appositamente ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore. Tutto sommato, scarsa è la presenza di Lucrezio anche in altri autori di I secolo a.C., anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non mancano di riprendere alcuni aspetti e di tributargli alte lodi.

La lettura del poema continua anche nei secoli successivi, come testimoniano Seneca, Quintiliano, Stazio (cui si deve la bella definizione docti furor arduus Lucreti, in Silv. II 7, 76) e Plinio il Vecchio.

Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni, ma a partire dai secoli successivi incominciano a perdersi le tracce dell’opera. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna. Alla prima edizione a stampa (Brescia 1473) e al fiorire delle attività filologica sull’opera (studiata tra gli altri da Marullo, Avancio e soprattutto Lambino) si affianca la ripresa di interesse, da parte dei dotti dell’epoca, anche di tendenze filosofiche diverse: è il caso di Pontano e Poliziano (anche da alcune Stanze per la Giostra di quest’ultimo, ispirate alla Venere di Lucrezio Botticelli trasse spunto per la sua Primavera).

Nel Cinquecento appaiono le prime «confutazioni di Lucrezio». Si tratta di opere in versi che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare tesi sovente opposte a quelle materialiste del De rerum natura. Un celebre esempio di questa produzione è, senz’altro, l’Anti-Lucretius, sive de Deo et Natura del Cardinale di Polignac (1747).

Il filosofo francese Gassendi (1592-1655), con il suo Empirismo, riporta in auge, in pieno XVII secolo, la dottrina di Epicuro (e, naturalmente, di Lucrezio) conciliandola con la presenza di un Dio creatore. Molière ne traduce nel Misantropo il celebre passo del IV libro sui difetti delle donne; l’Illuminismo, poi, confesserà la sua ammirazione per l’arte e (non sempre) per la filosofia del poeta latino.

La prima traduzione italiana dell’opera è del dotto fiorentino Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto impostogli in patria.

Non si può affermare con certezza una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, anche se alcune tracce nei suoi testi indicano, comunque, un certo grado di conoscenza diretta (per esempio, i vv. 111-114 de La ginestra: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra al comun fato», riprendono forse I 65-66: Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra).

Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori guida che li accomunano o li separano.

***

Bibliografia

ALFIERI V.E., Lucrezio, nuova edizione riveduta, Galatina 1982 [19291].

ALFONSI L., L’avventura di Lucrezio nel mondo antico… e oltre, in AA.VV., Lucrèce: huit exposés suivis de discussions, Vandoeuvres-Genève, du 22 au 27 août 1977, Vandoeuvres-Genève 1978, pp. 271-321.

ALGRA K.A., KOENEN M.H., SCHRIJVERS P.H. (eds.),  Lucretius and his Intellectual Background, Amsterdam 1997.

ANDRE J.-M., Cicéron et Lucrèce : loi du silence et allusions polémiques, Mélanges de philosophie, de littératures, et d’histoire ancienne offerts à Pierre Boyancé, Rome 1974, 21-38.

ASMIS E., Rhetoric and Reason in Lucretius, AJPh 104 (1983), 36-66.

BAILEY C. (ed.), Titus Lucretius Carus, De rerum natura libri sex, Edited with Prolegomena, Critical Apparatus, Translation and Commentary, 3 voll., Oxford 1947 [19722].

VAN BERCHEM D., La publication du De rerum natura et la VIe Eglogue de Virgile, MH 3 (1946), 26-39.

BERETTA M., The Revival of Lucretian Atomism and Contagious Diseases During the Renaissance, MedSec 15 (2003), 129-154.

BERETTA M., CITTI F. (eds.), Lucrezio, la natura e la scienza, Firenze 2008.

BERGSON H., Extraits de Lucrèce avec un commentaire, des notes et une étude sur la poésie, la philosophie, la physique, le texte et la langue de Lucrèce, Paris 1884 [ed. it. Lucrezio. Con un saggio di J. Hersch, a cur. di R. De Benedetti, trad. di A. Carenzi, Milano 2001].

BERNAYS J., De emendatione Lucretii, in RhM 5 (1847), 533-587.

BIGNONE E., Per la fortuna di Lucrezio e dell’epicureismo nel medio evo, RFIC 41 (1913), 230-262.

BOLLACK M., La raison de Lucrèce. Constitution d’une poétique philosophique avec un essai d’interprétation de la critique lucrétienne, Paris 1978.

BOYANCE P., Lucrèce et l’Épicurisme, Paris 1963 [19782].

BOYANCE P., Lucrèce. Sa vie, son œuvre, avec en exposé de sa philosophie, Paris 1964.

BRIGHT D.F., The plague and the structure of the De rerum natura, Latomus 30 (1971), 607-632.

BRIND’AMOUR P., La mort de Lucrèce, in BIBAUW J. (éd.), Hommages à Marcel Renard, I, Bruxelles 1969, 153-161.

BROWN A., The return of Lucretius to Renaissance Florence, Cambridge 2010 [trad. it. di A. Asioli, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Roma 2013].

BROWN P.M., Lucretius: De Rerum Natura I, Bristol 1984.

BROWN P.M., Lucretius: De Rerum Natura III, Warminster 1997.

BROWN R.D., Lucretius on Love and Sex. A Commentary on De Rerum Natura IV, 1030–1287, with Prolegomena, Text and Translation, Leiden 1987.

BUTTERFIELD D., The Early Textual History of Lucretius’ De rerum natura, Cambridge 2013.

CAMPBELL G., Lucretius on Creation and Evolution. A Commentary on De Rerum Natura Book Five Lines 772–1104, Oxford 2003.

CANALI L., Nei pleniluni sereni. Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro, Milano 1995.

CANFORA L., Vita di Lucrezio, Palermo 1993.

CETRANGOLO E., Lucrezio. Tragedia, Roma 1982.

CLASSEN C.J., Poetry and Rhetoric in Lucretius, TAPhA 99 (1968), 77-118.

CLASSEN C.J. (ed.), Probleme der Lukrezforschung, Hildesheim 1986.

CLAY D., Lucretius and Epicurus, Ithaca 1983.

COMMAGER H.S., Lucretius’ interpretation of the plague, HSCPh 62 (1957), 105-121.

CONTE G.B., Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucano, con una prefazione di C. Segre, Palermo 2012.

COSTA C.D.N., Lucretius De Rerum Natura V, Oxford 19984.

D’ANNA G., S. Girolamo e i poeti latini, in Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, 283-309.

D’ANNA G., Una rilettura dell’Inno a Venere di Lucrezio, Paideia 58 (2003), 161-175.

DE LACY P., Lucretius and the history of Epicureanism, TAPhA 79 (1948), 12-35.

DELLA VALLE G., Tito Lucrezio Caro e l’epicureismo campano, Napoli 1933.

DEL LUCCHESE F., MORFINO V., MORMINO G. (eds.), Lucrezio e la modernità. I secoli XV-XVII, Atti del Convegno Internazionale Università di Milano-Bicocca 13-14 dicembre 2007, Napoli 2011.

DIONIGI I. (ed.), Poeti traduttori e traduttori poeti, Bologna 2004.

DIONIGI I., Lucrezio. Le parole e le cose, Bologna 20053.

DIONIGI I., Lucretius and the Grammar of the Cosmos, in BERETTA CITTI (2008), 27-34.

DIXON H., Pomponio Leto and his teachers Lorenzo Valla and Pietro Odo da Montopoli: Evidence from Work on Lucretius, IMU 51 (2010), 267-328.

DIXON H., Pomponio Leto’s notes on Lucretius (Utrecht, Universiteitbibliotheek, X fol 82 rariora), Aevum 85 (2011), 191-216.

EDWARDS M.J., Lucretius, Empedocles and Epicurean polemic, AuA 35 (1989), 104-115.

ENGLERT W., Lucretius, On the Nature of Things, Newburyport 2003.

ERNOUT A., ROBIN L., Lucrèce, De rerum natura, commentaire exégétique et critique, Paris 19622.

FABBRI R., La «Vita Borgiana» di Lucrezio nel quadro delle biografie umanistiche, LettIt 34 (1984), 348-366.

FOWLER D., Lucretius and politics, in Griffin M., Barnes J., (eds.), Philosophia Togata, Oxford 1989, 120-150.

FURLEY D.J., Lucretius and the Stoics, BICS 13 (1966), 13-33 [= in Furley Cosmic Problems, Cambridge 1989, 183-205].

FURLEY D.J., Lucretius the Epicurean: on the history of man, EntH 24 (1978), 1-37 [=  reprinted in Furley Cosmic Problems, Cambridge 1989, 206-222].

GALE M., Myth and Poetry in Lucretius, Cambridge 1994.

GALE M., Lucretius and the Didactic Epic, London 2001.

GALE M. (ed.), Oxford Readings in Classical Studies: Lucretius, Oxford 2007.

GALE M., Lucretius: ‘De Rerum Natura’ V, Warminster 2008.

GAMBINO LONGO S., Savoir de la nature et poésie des choses. Lucrèce et Épicure à la Renaissance italienne, Paris 2004.

GARANI M., Empedocles Redivivus: Poetry and Analogy in Empedocles and Lucretius, New York-London 2007.

GEER R.M., Non-Suetonian Passages in the Life of Vergil Formerly Ascribed to Donatus, TAPhA 57 (1926), 107-115.

GERLO A., Pseudo-Lucretius?, AntiqClass 25 (1956), 41-72.

GIANCOTTI F., Il preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze 1978.

GILLESPIE S., HARDIE PH. (eds.), The Cambridge Companion to Lucretius, Cambridge 2007.

GODWIN J., Lucretius: ‘De Rerum Natura’ IV, Warminster 1986.

GODWIN J., Lucretius: ‘De Rerum Natura’ VI, Warminster 1991.

GODWIN J., Lucretius, London 2004.

GORDON C.A., A Bibliography of Lucretius, London 1962.

HADZITS G.D., Lucretius and his Influence, London 1935.

HOLFORD-STREVENS L, Horror vacui in Lucretian biography, LICS 1 (2002), 1-23.

HOLMES B., Daedala lingua: crafted speech in De rerum natura, AJPh 126 (2005), 527-585.

HOUSMAN A.E., The First Editor of Lucretius, CR 42 (1928), 122-123.

HUTCHINSON G., The Date of De Rerum Natura, CQ 51 (2001), 150-162.

JOHNSON W.R., Lucretius and the Modern World, London 2000.

JONES H., The Epicurean Tradition, London-New York 1989.

KENNEDY D., Rethinking Reality. Lucretius and the Textualization of Nature, Ann Arbor 2002.

KENNEY E.J., Doctus Lucretius, Mnemosyne 23 (1970), 366-392.

KENNEY E.J., Lucretius: De Rerum Natura Book III, Cambridge 1981.

KLEVE K., The philosophical polemics in Lucretius, EntH 24 (1978), 39-71.

KOLLMAN E.D., Lucretius’ criticism of the early Greek philosophers, StClass 13 (1971), 79-93.

KONSTAN D., Some Aspects of Epicurean Psychology, Leiden 1973.

LACHMANN C. (ed.), T. Lucreti Cari, De rerum natura libri sex, Berolini 1850.

LACHMANN C., T. Lucretii Cari De rerum natura libros commentarius, quartum editus, Berolini 1882.

LANDOLFI L., Simulacra et pabula amoris. Lucrezio e il linguaggio dell’eros, Bologna 2013.

LATHAM R.E., GODWIN J., Lucretius, On the Nature of the Universe, Harmondsworth 1994.

LEHOUX D., MORRISON A.D., SHARROCK A. (eds.), Lucretius: Poetry, Philosophy, Science, Oxford 2013.

LEROY L., La personnalité de Lucrèce, BAGB 3 (1955), 20-31.

LOGRE B.J., L’anxiété de Lucrèce, Paris 1946.

LONGONI F. (ed.), Ugo Foscolo: Letture di Lucrezio. Dal De rerum natura al sonetto Alla sera, pres. di G. Barbarisi, Milano 1990.

LUZI M., Vicissitudine e forma. Da Lucrezio a Montale: il mistero della creazione poetica, Milano 1974.

MAGNONI A., Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902), Eikasmos 16 (2005), 419-470.

MARKOVIC D., The Rhetoric of Explanation in Lucretius’ De Rerum Natura, Leiden 2008.

MARTHA C., Le poëme de Lucrèce. Morale, religion, science, Paris 1869 [18732].

MELVILLE R. 1997, Lucretius, On the Nature of the Universe, with introduction and notes by D. and P. Fowler, Oxford 1997.

MILLER J., INWOOD B. (eds.), Hellenistic and Early Modern Philosophy, Cambridge 2003.

MINYARD J.D., Lucretius and the Late Republic. An Essay in Roman Intellectual History, Leiden 1985.

MONTARESE F., Lucretius and his Sources: A Study of Lucretius, De rerum natura I 635-920 (Sozomena 12), Berlin-Boston 2012.

MURLEY C., Lucretius, De rerum natura, Viewed as Epic, TAPhA 78 (1947), 336-346.

NUSSBAUM M.C., The Therapy of Desire: Theory and Practice in Hellenistic Ethics, Princeton 1994.

ODIFREDDI P., Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere, Milano 2013.

PALMER A., Reading Lucretius in the Renaissance, Cambridge 2014.

PARATORE E., Una nuova ricostruzione del “De Poetis” di Suetonio, Roma 1946.

PARATORE E., L’epicureismo e la sua diffusione nel mondo latino, Roma 1960.

PAULSON J., Index Lucretianus. nach den Ausgaben von Lachmann, Bernays, Munro, Brieger und Giussani zusammengestellt, Darmstadt 1970.

PELLEGRIN É., Le codex Pomponii Romani de Lucrèce, Latomus 7 (1948), 77-82.

PERELLI L., Surrealismo di Lucrezio, Belfagor 5 (1947), 565-574.

PERELLI L., Lucrezio poeta dell’angoscia, Firenze 1969.

PIAZZI L., Lucrezio e i Presocratici. Un commento a De rerum natura 1, 635–920, Pisa 2005.

PIAZZI L., Lucrezio. Il De rerum natura e la cultura occidentale, Napoli 2009.

PIAZZI L. (ed.), Lucrezio, Le leggi dell’universo (La natura, Libro I), Venezia 2011.

PICHON R., Les travaux récents sur la biographie de Lucrèce, JdS 8 (1910), 70-84.

PIERI A., Non parlerò degli dèi. Il romanzo di Lucrezio, Firenze 2003.

PIZZANI U., Il problema del testo e della composizione del De rerum natura di Lucrezio,

PIZZANI U., La psicologia lucreziana nell’interpretazione di G.B. Pio, RPL 6 (1983), 291-302.

PIZZANI U., La polemica antiepicurea in Lattanzio, in Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, 171-203.

PRÉAUX J., Le jugement de Cicéron sur Lucrèce et Salluste, RBPH 42 (1964), 57-73.

PROSPERI V., «Di soavi licor gli orli del vaso». La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino 2004.

PROSPERI V., Proemi lucreziani nella poesia italiana del Cinquecento, MD 59 (2007), 145-162.

PROSPERI V., Per un bilancio della fortuna di Lucrezio in Italia tra Umanesimo e Controriforma, Sandalion 31 (2008 [2009]), 191-210.

REINHARDT T., The speech of nature in Lucretius’ De Rerum Natura 3.931-71, CQ 52 (2002), 291-304 .

REINHARDT T., Epicurus and Lucretius on the origins of language, CQ 58 (2008), 127-140.

ROLLER D., Gaius Memmius: Patron of Lucretius, CPh 65 (1970), 246-248.

RONCONI A., Da Lucrezio a Tacito. Letture critiche, Firenze 1968.

RONCONI A., Per la storia dell’antica critica lucreziana, in Interpretazioni letterarie nei classici, Firenze 1972, 169-188.

RÖSLER W., Lukrez und die Vorsokratiker: doxographische Probleme im 1. Buch von “De rerum natura”, Hermes 101 (1973), 418-164.

ROSTAGNI A., Ricerche di biografia lucreziana, in Scritti Minori, II, 2, Torino 1956, 112-147.

ROSTAGNI A. (ed.), Svetonio De poetis e biografi minori, Torino 19562.

SACCENTI M., Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 22-25 settembre 1980), Firenze 1982, 119-148.

SANDBACH F.H., Lucreti Poemata and the Poet’s Death, CR 54 (1940), 72-77.

SANGUINETI E., Quaderno di traduzioni. Lucrezio-Shakespeare-Goethe, Torino 2006.

SANTAYANA G., Three Philosophical Poets. Lucretius, Dante, and Goethe, Cambridge 1947.

SCARCIA R., D’ANNA G., PARATORE E. (eds.), Ricerche di biografia lucreziana, Roma 1964.

SCHIESARO A., Simulacrum et Imago: Gli argomenti analogici nel De rerum natura, Pisa 1990.

SCHRIJVERS P.H., 1999, Lucrèce et les sciences de la vie, Leiden 1999.

SEDLEY D., Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, Cambridge 1998.

SEGAL C., Lucretius on Death and Anxiety, Princeton 1990.

SERRES M., La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce: fleuves et turbulences, Paris 1977 [= The Birth of Physics, Manchester 2000].

SHEARIN W.H., The Language of Atoms: Performativity and Politics in Lucretius’ De Rerum Natura, Oxford 2015.

SMITH M.F. (ed.), Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, Cambridge 19241 [= 19752; repr. 1992].

SMITH M.F. (ed.), Lucretius, On the Nature of Things, Indianapolis-Cambridge 2001.

SOLARO G. (ed.), Pomponio Leto, Lucrezio, con nota di L. Canfora, Palermo 1993.

SOLARO G., Note sulla fortuna di Lucrezio, RPL 22 (1999), 153-159.

SOLARO G., Lucrezio. Biografie umanistiche, Bari 2000.

STALLINGS A.E., Lucretius, On the Nature of Things, Harmondsworth 2007.

TATUM W.J., The Presocratics in book one of Lucretius’ De rerum natura, TAPhA 114 (1984), 177-189.

TENENTI A., La polemica sulla religione di Epicuro nella prima metà del Seicento, StStor 1 (1960), 227-243.

TESCARI O., Lucretiana, Torino 1935.

TRAGLIA A., Sulla formazione spirituale di Lucrezio, Roma 1948.

TRAINA A., Lucrezio e la “congiura del silenzio”, in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, I serie, Bologna 19862, 81-91.

TUROLLA E., Lucrezio, Roma 1929.

WARDY R., Lucretius on what atoms are not, CPh 83 (1988), 112-128.

WARREN J., Lucretian palingenesis recycled, CQ 51 (2001), 499-508.

WARREN J., Facing Death: Epicurus and his Critics, Oxford 2004.

WEST D., The Imagery and Poetry of Lucretius, Edinburgh 1969.

WHEATLAND LITCHFIELD H., Cicero’s Judgement on Lucretius, HSCPh 24 (1913), 147-159.

WILKINSON L.P., Lucretius and the Love-Philtre, CR 63 (1949), 47-48.

WINSPEAR A.D., Che cosa ha detto veramente Lucrezio, trad. it. F. Cardelli, Roma 1968 [= Lucretius and Scientific Thought, Montreal 1963].

WISEMAN T.P., The Two Worlds of Titus Lucretius Carus, in Cinna the Poet and Other Roman Essays, Leicester 1974, 11-43.

***

Sitografia

ALCUIN

Bibliotheca Augustana

Conoscenza (Rai)

Enciclopedia Britannica

Enciclopedia Italiana

Epicurean Friends

Gutenberg Project

Internet Encyclopedia of Philosophy

Intratext

Liber Liber

Lucrezio.net

Musique Deoque

Perseus

PHI Latin Texts

Romano Impero

Stanford Encyclopedia of Philosophy

Textlog

Treccani.it – Enciclopedia Online

VRBIS ET ORBIS

Wikipedia

Zeno.org

***

Note

[1] Suet. Poet. 16, 1 Rostagni = Hier. Euseb. 171, 1-3: Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem uersus, cum aliquot libros per interualla insaniae, conscripsisset, quos postea Cicero emendauit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

[2] Don. Vit. Verg. 6: Initia aetatis Cremonae egit usque ad uirilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, euenitque ut eodem ipso die Lucretius poeta decederet.

[3] Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia per l’autore, che costruisce il suo discorso, e una forma di percezione delle cose per il lettore, che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue leggi. Il sublime, coinvolgendo colui che è lettore del testo e, perciò spettatore della grande di emozionante descrizione lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Ecco che allora il sublime, per il destinatario, funziona anche come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un esortazione al lettore: che scelga per sé, anche lui, un modello di vita alto e forte. E tutto il De rerum natura si configura allora come un protreptikós lógos, come insegnamento che contiene insieme un drammatico consiglio: tu stesso, lettore, devi divenire quasi lo specchio di questa sublimità universale, maestosa e terribile, che io cerco di rappresentare adeguatamente in questo mio stile sublime; tu stesso devi trasformarti in un «lettore sublime», emozionarti e trovare dentro di te la forza dell’accettazione e dell’adeguamento.

[4] A parte certi diffusi accenti genericamente “prometeici” che suggeriscono nella figura di Epicuro il campione della liberazione umana, fin dall’inizio del poema (I 62-79) l’immagine del filosofo (armato di vivida vis animi e forte della ratio naturae) si modella apertamente sui tratti del guerriero omerico impegnato in un duello eroico: il rituale delle “scene di sfida”, codificate nell’Iliade, con le varie movenze che preludono allo scontro fra guerrieri (guardare il nemico negli occhi, disporsi di fronte a lui saldamente, ecc.) costituisce il modello implicito della descrizione che Lucrezio fa del suo campione impegnato contro quell’avversario temibile che è il mostro gigantesco della superstizione (mortales tollere contra / est oculos ausus, primusque obsistere contra). Segno, questo, dell’intonazione epico-eroica che Lucrezio voleva aggiungere all’ardore didascalico della sua poesia di genere sublime.

[5] Epic. 6, 33: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle [in futuro], anche con Zeus può gareggiare in felicità» (trad. Arrighetti).

[6] La confusione fra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore”, che prende la parola all’interno del poema, continua a nuocere alla lettura critica dell’opera. Le due figure non vanno sovrapposte meccanicamente: nessuno, infatti, penserebbe di far coincidere sic et simpliciter il Dante-personaggio della Commedia con l’uomo Alighieri.

[7] In questo particolare caso, avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi (Catullo) e l’orientamento della morale tradizionalista a condannare con severità gli amanti che sconsideratamente dissipavano le loro sostanze in doni e lussi (IV 1123-1124: «e intanto il patrimonio si dissolve, si trasforma in tappeti babilonesi; i doveri sono trascurati, la reputazione vacilla e soffre»).

Epicuro e la fondazione del «Giardino»

di REALE G., Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 293-312 [testo rielaborato]; cfr. ID. – ANTISERI D., Il pensiero occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, pp. 251-264.

 

Epicuro. Busto, marmo, copia romana di II sec. d.C. da originale ellenistico. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

I. La genesi e le caratteristiche del «Giardino».

 

1. La polemica di Epicuro contro Platone e Aristotele. – La prima, in ordine cronologico, delle grandi Scuole ellenistiche sorse ad Atene verso la fine del IV secolo a.C. (307/6 a.C.) per opera di Epicuro[1]. Per l’esattezza, questa Scuola era già stata costituita, almeno nel suo embrione, qualche anno addietro, giacché Epicuro aveva insegnato a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco; e a Mitilene, e soprattutto a Lampsaco, egli aveva raccolto i suoi primi seguaci. In ogni caso, fu il trasferimento della Scuola ad Atene (la quale restava ancora la capitale della cultura ellenica) che segnò l’ingresso effettivo di essa nella vita spirituale della grecità. Questo avvenimento, infatti, costituiva, nei confronti delle grandi istituzioni di Platone e di Aristotele, un vero e proprio atto di sfida e, addirittura, l’inizio di una spirituale rivoluzione, come si vedrà.

Ma Epicuro aveva capito di avere qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che aveva per sé il futuro, mentre le Scuole di Platone e di Aristotele avevano per loro stesse, ormai, solo il passato: un passato che, per quanto fosse prossimo cronologicamente, dai nuovi eventi era stato reso d’improvviso remoto spiritualmente.

L’avversione nutrita dal filosofo per entrambi i grandi maestri fu radicale e non conobbe mezze misure: l’antipatia per il Platonismo era nata in lui, probabilmente, già al tempo della sua prima venuta ad Atene, in occasione dell’efebato, e forse addirittura da ben prima, allorché, nell’isola natia, aveva udito le lezioni di Panfilo. Epicuro, insomma, non poteva accordarsi con Platone in nessuna delle dimensioni secondo cui questi si era mosso: non in quella metafisico-gnoseologica, che faceva perno sull’immateriale; non in quella mistico-religiosa, tutta incentrata sul soprasensibile e sul trascendente; neppure in quella politica, la quale idealizzava la vecchia πόλις (pólis) e i suoi valori, che la storia stava distruggendo inesorabilmente, conflitto dopo conflitto. La stessa marcata ostilità Epicuro concepì anche nei confronti di Aristotele, dunque, che egli considerava sostanzialmente platonico, soprattutto per quanto concerneva le opere pubblicate – quantomeno quelle lette da lui.

2. Il ripudio della “seconda navigazione”. – Epicuro cercò di respingere, in modo drastico, il fondamento stesso su cui poggiavano gli imponenti edifici speculativi dei due antichi maestri, vale a dire la “seconda navigazione” con tutti gli esiti a essa connessi. Epicuro non solo negava che la sensazione velasse le cose e confondesse l’anima, ma riteneva che essa costituisse il più solido criterio di verità, che fosse sempre e solo verace, e che dunque sapesse «cogliere l’essere». I ragionamenti e le dimostrazioni portavano nel vuoto, perché procedevano all’infinito e, pertanto, rischiavano di allontanare sempre più l’uomo dalle cose, velandole e mai rivelandole. La platonica inferenza metempirica e la dialettica, che generava tale inferenza, erano dunque decettive: per Epicuro, dunque, bisogna fermarsi alle cose e alle loro «voci» (ad Herod. 37 ss.); e non solo la dialettica, per lui, ma anche le scienze prescritte da Platone come tappe obbligate della «lunga via» dell’essere sono decettive: ecco allora che la geometria gli appariva «tutta contraria alla verità», perché erano «infondati i suoi principi»; l’astronomia era «vana»; la musica era «inutile» e addirittura «dannosa».

Respingendo, dunque, la “seconda navigazione” ed eliminando il soprasensibile, non restava ad Epicuro se non la presocratica physis, la quale veniva però ad assumere un nuovo significato: i Presocratici, infatti, non avevano determinato la physis in base alle categorie sensibile-soprasensibile, materiale-immateriale, corporeo-incorporeo, appunto perché queste sarebbero nate solo con la “seconda navigazione”. Ma, dopo Platone e Aristotele, la determinazione della realtà in queste categorie diventò necessaria, anche per chi non condividesse le soluzioni dei due filosofi. Sicché la visione della physis, della realtà, proposta da Epicuro divenne un vero e proprio «materialismo».

Epicuro. Busto, marmo. Berlin, Pergamonmuseum.

 

3. La ripresa dell’Atomismo e delle categorie eleatiche di fondo ad esso connesse. – Epicuro, per la verità, non seppe creare una nuova ontologia: per esprimere la propria visione materialistica del mondo in maniera positiva (ossia non negando semplicemente la tesi platonico-aristotelica), egli si rifece ai concetti e alle figure teoretiche già elaborate, appunto, nell’ambito della filosofia presocratica. E fra tutte le prospettive possibili era pressoché inevitabile che egli adottasse quella degli Atomisti, proprio perché essa, dopo la platonica “seconda navigazione”, risultava senz’altro la più materialistica di tutte.

Le fonti antiche informano che Epicuro apprese le dottrine dell’atomo da Nausifane, del quale seguì le lezioni a Teo, vicino a Colofone, per almeno quattro anni. Tuttavia, superbamente convinto com’era delle novità etiche che veniva elaborando e insegnando ai Greci, Epicuro negò al maestro ogni debito di riconoscenza, così come sconfessò tutti gli altri filosofi con cui ebbe rapporti diretti o indiretti. Ma l’Atomismo era una precisa risposta alle aporie sollevate dall’Eleatismo, un tentativo di mediare le opposte istanze del lógos eleatico da un lato e dell’esperienza dall’altro. Nella logica atomista passò gran parte di quella eleatica (Leucippo, il primo atomista, fu discepolo di Melisso e, in generale, l’Atomismo fu, fra le proposte pluralistiche, la più rigorosamente eleatica). Di conseguenza, era inevitabile che questa passasse anche in Epicuro.

 

4. I rapporti fra Epicuro, Socrate e i Socratici minori. – Come si è detto sopra, una delle caratteristiche della filosofia di età ellenistica era il ritorno a Socrate e al Socratismo. Già in Epicuro questo fu evidente non solo nella decisa preminenza data ai problemi etici in generale, ma anche nella specifica concezione della filosofia come quella che doveva provvedere alla «salute dell’anima» (πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον)[2]. Si vedrà, inoltre, come lo stesso «intellettualismo socratico» sarebbe ritornato a giocare un ruolo molto importante e come sarebbero stati ribaditi perfino i «paradossi» di questo intellettualismo. Naturalmente, il messaggio di Socrate agì attraverso il filtro del materialismo: infatti, Epicuro non poté più attribuire alla physis quella valenza e quella preminenza che le dava Socrate, giacché il suo materialismo imponeva di concepire l’anima e il corpo come omogenei per natura (in quanto atomi materiali e l’una e l’altro).

Fra i Socratici minori, indubbiamente, agirono sulla formazione della filosofia epicurea, in primo luogo, i Cirenaici con la loro dottrina del piacere, che, come si vedrà, con logica eleatica sarebbe stata ripensata a fondo e radicalmente riformata. In secondo luogo, esercitarono un preciso influsso anche i Cinici: l’eliminazione dei bisogni superflui e indotti dalla società nonché la riduzione dei bisogni elementari a quelli il cui soddisfacimento sarebbe stato indispensabile alla sopravvivenza, il rifiuto della partecipazione alla vita politica e l’autarchia erano infatti precisi temi cinici, che, sia pure con una nuova coloritura, giocarono un ruolo essenziale nel sistema filosofico epicureo.

 

5. Il ruolo predominante dell’etica. – Per un’esatta collocazione storica e teoretica del pensiero di Epicuro resta ancora un punto essenziale da rilevare. I Presocratici avevano conosciuto la filosofia solamente come cosmologia e come ontologia, ignorando l’etica; Socrate e suoi seguaci avevano respinto, invece, la cosmologia e l’ontologia, riducendo la filosofia a pura etica, alla dottrina della saggezza; con Platone e con Aristotele, invece, l’ontologia (facendosi metafisica) era tornata a essere momento essenziale della speculazione filosofica e su di essa era stata fondata l’etica: la superiorità della metafisica (cioè della dottrina che spiegava le cause di tutta la realtà) sull’etica, infatti, era ben evidente in Platone ed era stata addirittura affermata a livello tematico in Aristotele. Ebbene, Epicuro, mentre riaffermava la necessità dell’ontologia come fondamento dell’etica, capovolse la gerarchia platonico-aristotelica e dichiarò l’etica superiore alla fisica (all’ontologia). Alla saggezza e alla conoscenza, la σοφία (sophia), era così sovraordinata la φρόνησις (phrónesis), l’assennatezza[3]. Il problema della vita con Epicuro diventò il problema per eccellenza: tutto il resto era finalizzato alla soluzione di esso. Inoltre, a Epicuro non interessava solo la soluzione teoretica di quel dilemma, ma anche la messa in pratica dell’etica stessa: in certi testi, anzi, il filosofo sembrerebbe soprattutto preoccupato di questa messa in atto, specialmente nei luoghi in cui si rivolge ai propri discepoli.

Pieter Paul Rubens, Giardino d’amore. Olio su tela, 1632-33 c. Madrid, Museo del Prado.

 

6. Le finalità del «Giardino» e le loro novità. – Pur con le numerose differenze che le contraddistinguevano, le filosofie morali di Socrate, di Platone e di Aristotele avevano come sfondo comune la pólis e l’ἔθος (éthos), che la caratterizzava. Tutte le voci di dissenso che si erano levate contro quell’universo, da quelle dei Sofisti a quelle dei Socratici minori, per quanto radicali e audaci avessero potuto essere o apparire, supponevano, in ogni caso, un assetto ideologico e sociale ancora saldamente sorretto dalla vitalità della pólis medesima. Le affermazioni di cosmopolitismo dei Socratici minori, poi, avevano avuto un significato particolare, in quanto – come è noto – si trattava di uomini di origine non greca o semi-greca, ai quali era, quindi, in tutto o in parte, estraneo quell’éthos. Epicuro visse e pensò in un’epoca in cui la pólis e i suoi valori erano stati ormai posti in crisi dalla rivoluzione di Alessandro; inoltre, essendo di sangue greco, anzi di origine ateniese, Epicuro comprese perfettamente il senso tragico di quel vuoto spirituale che si era formato e si prefisse di colmarlo, proponendo appunto un nuovo éthos che rompesse con il passato, ormai morto e non più resuscitabile a nuova vita.

Questo éthos inusitato, contrariamente a quello tradizionale radicato nella realtà poleica, si fondava ora sul singolo uomo, sull’uomo privato: era l’éthos dell’individuo. Socrate, Platone e Aristotele avevano insegnato la «virtù politica», vale a dire la virtù che perfezionava l’uomo come cittadino, presupponendo che l’uomo, in quanto tale, coincidesse con il cittadino. La nuova virtù che Epicuro andava insegnando, invece, era quella dell’uomo privato, una virtù che avrebbe dovuto perfezionare l’uomo in quanto individuo, di per sé considerato, al di fuori della sua convivenza in uno Stato. Epicuro, insomma, contestò definitivamente l’identificazione dell’uomo con il cittadino, condannando, anzi, la politica come «inutile affanno» e proclamando la validità e l’eccellenza del «vivere nascosto», appartato e lontano dal tumulto della politica.

Anche la scelta del luogo in cui sorse la sua Scuola fu espressione di questa rivoluzionaria novità. Socrate aveva insegnato nelle piazze e nei ginnasi cittadini, dove gli uomini liberi si incontravano; in ginnasi Platone e Aristotele avevano fondato le rispettive Scuole. Epicuro, dal canto suo, scelse invece un luogo del tutto abnorme: un edificio con un giardino, anzi con un orto, nei sobborghi di Atene. Il «Giardino», infatti, era lontano dal chiasso della «politica», immerso nel silenzio della campagna; da lì si poteva gustare la pace della natura, ammirando quel paesaggio fatto di campi e di alberi, che a Socrate e a Platone non avrebbe detto nulla, ma che per la nuova sensibilità ellenistica era invece di grandissima importanza. Di qui il nome «Giardino» passò a indicare l’istituto e l’espressione «quelli del Giardino» fu usata per designare gli Epicurei.

Il verbo che veniva da lì può essere riassunto in poche proposizioni generali:

  • la realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall’intelligenza umana;
  • nelle dimensioni del reale c’è spazio anche per la felicità dell’uomo;
  • la felicità consiste nella mancanza di dolore e di turbamento: è la pace dello spirito;
  • per raggiungere questa felicità e questa pace, l’uomo necessita solo di se stesso;
  • all’uomo non servono, perciò, la città, le istituzioni, la nobiltà di nascita, le ricchezze, le cose tutte e nemmeno gli dèi: l’uomo è perfettamente autosufficiente.

È chiaro che, allora, nei confronti di questo messaggio, tutti gli uomini diventavano uguali: infatti, tutti aspirano alla pace dello spirito, tutti ne hanno diritto e tutti possono persino guadagnarsela, se vogliono. Per conseguenza, il «Giardino» aprì le proprie porte a tutti, nobili e non nobili, liberi e schiavi, uomini e donne (e, perfino, a prostitute in cerca di redenzione).

Epicuro aveva visto molto lontano: se i contemporanei accolsero con sospetto le sue idee, il tempo gli diede invece ragione e la sua filosofia sarebbe sopravvissuta addirittura a tutte le altre scuole di pensiero fondate nella sua epoca.

 

 

 

II. La canonica epicurea

 

1. La «canonica» come determinazione dei criteri di verità. – Si è visto quale sia stato il significato della logica aristotelica: essa aveva costituito il primo grandioso tentativo nella storia spirituale dell’Occidente di determinare le forme che strutturalmente sorreggono e determinano il pensiero umano, il primo tentativo di spiegare in generale come ragiona la mente dell’uomo. Così lo Stagirita aveva saputo stabilire quali siano gli elementi primi del pensare e del ragionare (le categorie), quale sia la più elementare connessione di questi elementi (il giudizio, la proposizione), che cosa sia il ragionare in quanto tale (il sillogismo), quali tipi di ragionamenti siano possibili, quali validi e quali non validi, quali siano i sillogismi dialettici e quali siano i paralogismi sofistici, che cosa siano i procedimenti deduttivi e quelli induttivi, quali siano la loro portata, il loro limite e le loro condizioni.

Ora, il «Giardino» di Epicuro non solo perse pressoché per intero i risultati e le acquisizioni di questo grandioso disegno, ma smarrì perfino il senso stesso della problematica logica aristotelica. In effetti, Epicuro si occupò di logica solamente al fine di stabilire quali fossero i criteri e i canoni basilari che avrebbero permesso all’uomo di raggiungere la verità e la certezza. Restrinse la logica a una sorta di critica della conoscenza e ridusse questa ad alcuni principi elementarissimi, che, dopo Aristotele, suonavano come semplicistici e, in parte, perfino come grossolani. Del resto, il termine «canonica», con cui Epicuro designò la sua logica, esprime assai efficacemente il significato che egli le attribuiva. Pertanto, ben si spiega come Epicuro e i suoi discepoli non riconoscessero alla logica alcun valore autonomo e la congiungessero alla fisica, considerandola addirittura quasi un’introduzione a essa[4].

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

2. La sensazione e la sua validità assoluta. – Epicuro, nel suo Canone, affermava che i criteri della verità erano tre: le sensazioni, le prenozioni e i sentimenti.

Come primo e fondamentale criterio, dunque, egli poneva le sensazioni: contro tutte le tendenze (da quelle dei Sofisti a quelle dell’incipiente Scetticismo), che avevano affermato o andavano allora predicando il carattere soggettivo e relativizzante della sensazione, e quindi la sua aleatorietà dal punto di vista della certezza e della validità, Epicuro rivendicava con strenua energia la certezza e la validità della sensazione, che egli proclamava essere addirittura assolute. Per Epicuro, infatti, le sensazioni erano sempre e tutte vere, senza alcuna eccezione: se uno solo dei sensi, anche una sola volta, ingannasse l’uomo, allora egli non potrebbe più prestar fede ad alcuno di essi e crollerebbe la validità della sensazione medesima[5].

In primo luogo, l’αἴσθησις (aisthesis), la sensazione, in quanto è un’affezione e, quindi, passiva, non si produce in sé, ma deve generarsi da qualcosa di cui essa è come l’effetto; e quindi deve essere altresì corrispondente a esso. In secondo luogo (questo costituisce l’argomento principale), la sensazione è oggettiva e vera, perché, in ultima analisi, è prodotta e quindi garantita dalla stessa struttura atomica della realtà. Infatti, da tutte le cose emanano dei complessi di atomi, che costituiscono immagini o simulacri delle medesime e le sensazioni sono prodotte dalla penetrazione di tali simulacri negli uomini. Per questo motivo, l’oggettività delle sensazioni è assoluta, perché esse possono sorgere solamente se, quando e come i simulacri entrano nelle persone. L’errore può essere solo dell’opinione, la quale può intervenire e giudicare scorrettamente intorno alla sensazione[6].

In terzo luogo, la sensazione – diceva Epicuro – è a-razionale e anche priva di memoria, non si autoproduce, ma è prodotta da altro; così essendo, essa non è in grado di togliere da sé, né di aggiungere a sé alcunché, ma, proprio perché tale, la sensazione è oggettiva (non è in alcun modo manipolata dall’attività del soggetto). La sensazione è quindi irrefutabile[7].

 

3. Le «proléssi» (o «anticipazioni») e il linguaggio. – Come secondo criterio della verità Epicuro poneva le cosiddette προλήψεις (prolépseis), cioè le anticipazioni (o, ancora, prenozioni), le quali non erano altro che rappresentazioni mentali delle cose e – si potrebbe dire – il corrispettivo sensistico del concetto o, meglio ancora, ciò a cui il sensismo epicureo riduceva l’universale concettuale. Le proléssi non erano altro che le immagini delle cose che scaturivano dalle percezioni, formantesi attraverso il ripetersi delle medesime percezioni e la loro conservazione nella memoria. Esse erano dette proléssi (cioè anticipazioni o prenozioni), appunto, per i seguenti motivi: una volta che, infatti, tramite le sensazioni, si siano formate nella persona le immagini delle cose nel modo sopra descritto, esse possono essere richiamate alla mente, perché rimangono in essa come «impronta» delle passate sensazioni; in questo modo, dunque, esse consentono di conoscere in anticipo quelle forme e quei caratteri che sono propri delle cose, senza che ci sia bisogno di averle di fronte e di percepirle attualmente; per dirla in altri termini, esse anticipano quali caratteri e quali forme le cose manifesteranno quando, tramite la sensazione, nuovamente ci si ritroverà a contatto diretto con esse. Inoltre, le prenozioni precedono e condizionano ogni tipo di riflessione, di ragionamento e, in genere, ogni attività razionale: infatti, non si potrebbe impostare e svolgere alcun discorso, se non basandosi su termini che sono noti per prenozione. La prólessi epicurea, dunque, anticipa l’esperienza e l’attività razionale solo in quanto è derivata e prodotta dall’esperienza[8].

Inoltre, per Epicuro, i «nomi» di cui è costituito il linguaggio umano si riferiscono non altro che a queste proléssi e lo fanno in modo fondamentalmente naturale: infatti, i nomi e, in genere, il linguaggio, secondo il filosofo, non sarebbero altro che l’espressione, tramite mezzi fonici, delle nostre percezioni e affezioni e, quindi, costituirebbero una naturale manifestazione dell’azione delle cose sull’anima umana[9].

 

4. I sentimenti di piacere e di dolore. – Come terzo criterio di verità Epicuro considerava i πάθη (páthe), i sentimenti, del piacere (ἡδονή) e del dolore (ἀλγηδών), che si possono chiamare, in un certo qual modo, anche «sensi interni».

Egli, infatti, nell’epistula ad Menoeceum scrisse: «Diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente»[10]. Le affezioni del piacere e del dolore sono oggettive per le medesime ragioni per cui lo sono tutte le altre sensazioni: esse sono il criterio assiologico per discriminare il valore dal disvalore, il bene dal male e, quindi, costituiscono il criterio della scelta o della non scelta, ossia la regola del nostro essere.

Combattimento fra Centauri e Lapiti. Bassorilievo, marmo, 400 a.C. ca. dalla cella del tempio di Apollo, Bassae-Phigaleia. London, British Museum.

 

5. L’opinione. – Sensazioni, proléssi e sentimenti hanno una comune caratteristica che garantisce il loro valore di verità e questa consiste nell’evidenza immediata. Pertanto, finché le persone si fermano all’evidenza e accolgono come vero ciò che è evidente, non possono errare. Ma poiché nel ragionare non ci si può fermare all’immediato, essendo il ragionamento fondamentalmente un’operazione di mediazione, nasce così l’opinione e, con essa, la possibilità dell’errore. Pertanto, mentre le sensazioni, le proléssi e i sentimenti sono sempre veri, le opinioni potranno essere variamente vere o false. Perciò, Epicuro ha cercato di determinare i criteri in base ai quali si distinguono le opinioni vere da quelle false.

Sono vere quelle opinioni che a) ricevono attestazione probante, cioè conferma da parte dell’esperienza e dell’evidenza; b) non ricevono attestazione contraria, ossia smentita dall’esperienza e dall’evidenza; invece, sono false quelle opinioni che a) ricevono attestazione contraria, ossia sono smentite dall’esperienza e dall’evidenza e b) non ricevono attestazione probante, cioè non ricevono conferma dall’esperienza e dall’evidenza.

È da notare, inoltre, che l’evidenza resta il parametro in base al quale si misura e si riconosce la verità: ma è, in ogni caso, un’evidenza solamente empirica, è quella dei fenomeni, quella quale appare ai sensi e non già alla ragione[11].

 

 

 

III. La fisica epicurea

1. I fondamenti ontologici. – La lunga epistula ad Herodotum, per quanto sia un’epitome e una sintesi, consente di cogliere in modo preciso sia i fondamenti sia i corollari essenziali di questa sezione della filosofia epicurea, mentre i frammenti del grande trattato Sulla natura finora scoperti offrono preziosi approfondimenti di alcuni importanti concetti.

I fondamenti possono essere enucleati e formulati come segue.

«In primo luogo, nulla nasce dal nulla»[12], perché, altrimenti, ogni cosa potrebbe assurdamente generarsi da qualsiasi cosa senza bisogno di nessun seme generatore; e nessuna cosa «si dissolve nel nulla», perché, al contrario, a questo momento, tutto sarebbe ormai perito e nulla più sarebbe. E poiché nulla nasce e nulla perisce, così la realtà nella sua totalità fu sempre quale ora è, e sarà sempre tale: infatti, oltre il tutto, non vi è nulla in cui esso possa mutarsi né vi è alcunché da cui possa essere cambiato[13]. È qui ribadito l’antico grande principio eleatico che era stato assunto come punto di partenza dai pluralisti e, in particolare, dagli Atomisti. Epicuro lo ha formulato secondo la versione propria di Melisso, che si sa essere stato maestro degli Atomisti, sia pure diluendone la pregnanza ontologica.

Questo «tutto» (πᾶν, ovvero la totalità del reale) è determinato da due elementi costitutivi essenziali: i corpi e il vuoto[14]. L’esistenza dei corpi è provata dai sensi stessi, mentre quella dello spazio e del vuoto è inferita dal fatto che esita il movimento; infatti, affinché ci sia movimento, è necessario che ci sia uno spazio vuoto in cui i corpi possano spostarsi. Il vuoto non è assoluto non essere, ma appunto «spazio» o – come diceva lo stesso Epicuro – «natura intangibile». Oltre questi elementi, dunque, tertium non datur, perché null’altro è pensabile che sia di per sé esistente e che non sia affezione dei corpi.

L’inferenza del vuoto con la relativa motivazione risaliva a Leucippo e risentiva ancora della problematica eleatica, in particolare della polemica antimelissiana da cui scaturiva. La recisa negazione, poi, che oltre i corpi e il vuoto esistesse alcunché faceva supporre ad Epicuro il dogma eleatico dell’assoluta omogeneità e uguaglianza dell’essere, ossia la categorica esclusione della possibilità di distinguere piani e significati diversi dell’essere, cioè il preciso ripudio delle riforme di Platone e di Aristotele.

La realtà quale era concepita da Epicuro era infinita: in primo luogo, perché totalità; in secondo luogo, perché infinito doveva essere anche ciascuno dei suoi principi costitutivi. In questo modo, infinita era ritenuta essere la moltitudine dei corpi e infinita l’estensione del vuoto. Se, al contrario, fosse stata finita la moltitudine dei corpi, questi si sarebbero dispersi nell’infinito vuoto; e se quest’ultimo fosse stato finito, esso non avrebbe potuto accogliere gli infiniti corpi[15].

Salvator Rosa, Democrito in meditazione. Olio su tela, 1650 c.

 

2. Gli atomi. – Per Epicuro, alcuni dei «corpi» sono composti, altri, invece, semplici e assolutamente indivisibili: questi ultimi soltanto sono originari e sono alcunché di compatto e di indivisibile (ἄτομοι, átomoi). L’ammissione dell’esistenza di questi corpi indivisibili si rende, perciò, necessaria, perché, in caso contrario, bisognerebbe asserire una divisibilità all’infinito dei corpi – la quale porterebbe, al limite, alla dissoluzione stessa del reale nel non-essere, il che – come si sa – è assurdo. Il fondamento per l’ammissione dell’esistenza dell’atomo è dunque il principio eleatico (e precisamente zenoniano) dell’impossibilità della divisione all’infinito, cosa che risolverebbe l’essere nel nulla[16].

È evidente, allora, da quanto si è detto, che il principio secondo cui nulla nasce e nulla perisce valga anche per i corpi semplici, cioè per gli atomi (così come per la totalità in quanto tale) e non per i corpi composti, che si generano e si corrompono. Tuttavia, la formazione e il deperimento dei corpi più complessi, ancora una volta, sono fenomeni intesi in spirito eleatico, ossia nella stessa maniera in cui li avevano concepiti gli Atomisti (e, in generale, tutti i filosofi pluralisti), preoccupati di salvare i fenomeni senza contraddire al principio di Parmenide, come unione di cose che sono e come disgregazione o separazione in cose che sono.

 

3. Le caratteristiche strutturali degli atomi. – Fra le caratteristiche dei corpi occorre distinguere quelle che appartengono ai corpi in quanto composti (che dipendono, cioè, dalla composizione) da quelle che appartengono ai corpi semplici, le quali sono originarie ed essenziali, e hanno quindi la massima importanza, perché senza esse i corpi stessi non potrebbero sussistere e anche perché da esse derivano le ulteriori caratteristiche dei corpi composti.

Le caratteristiche strutturali dell’atomo sono la forma (σχῆμα), la grandezza (μέγεθος) e il peso (βάρος). Su questo punto Epicuro si differenzia nettamente dagli antichi Atomisti, perché costoro indicavano come aspetti principali dell’atomo la figura, l’ordine (o disposizione spaziale che l’atomo ha rispetto agli altri sia nell’aggregato sia fuori) e la posizione (che un atomo assume sia nell’aggregato sia nel complesso della realtà). Epicuro, invece, esprime il concetto di forma proprio con il termine σχῆμα (schéma), che era quello con cui Aristotele aveva parafrasato l’arcaico ῥυσμός (rhusmós) degli Atomisti. Eppure, σχῆμα indicava la statica forma ontologica, senza più includere l’idea fisica di massa e la dinamica direzione dell’atomo; e così ben si spiega perché Epicuro sentisse il bisogno di esplicitare e affiancare a essa i caratteri di grandezza e peso, lasciando cadere l’ordine e la posizione – caratteri, quesi, che riguardano, più che gli atomi in sé considerati, i rapporti degli uni rispetto agli altri.

Le forme diverse degli atomi (che non sono solamente forme regolari di carattere geometrico, ma anche di ogni foggia e tipo, e sono, in ogni caso, sempre e solo quantitativamente differenti e non qualitativamente diverse come quelle platoniche e quelle aristoteliche, dato che gli atomi sono tutti di natura identica) risultano necessarie per spiegare le diverse qualità fenomeniche delle cose che appaiono; e così anche la grandezza degli atomi. Il peso, invece, risulta necessario per spiegare il movimento degli atomi medesimi.

Questi, per generare tutte le differenze che si possono riscontrare nella realtà, devono assumere figure diversissime e numerosissime, ma non infinite: per essere tali, infatti, dovrebbero poter variare all’infinito la propria grandezza; ma, così facendo, diverrebbero visibili, mentre ciò non accade. Invece, è infinito il loro numero per ciascuna delle forme esistenti. È questo un altro punto su cui Epicuro si allontana dagli antichi Atomisti, i quali, al contrario, avevano ritenuto infinite le forme e le figure degli atomi[17].

 

4. La dottrina dei «minimi». – Si è visto che la dimensione degli atomi ha un limite: infatti, se essi potessero avere ogni sorta di grandezza, dovrebbero diventare visibili; ma ciò è smentito dall’esperienza. Parimenti, la loro piccolezza ha un limite: infatti, se essi potessero diminuire le proprie dimensioni all’infinito, si vanificherebbero nel nulla; il che è assurdo ed è contrario a quella stessa logica (eleatica) che porta ad ammettere l’esistenza degli atomi.

Epicuro – si noti – parlò dei «minimi» (ἐλάχιστα) non solo in riferimento agli atomi, ma altresì allo spazio (al vuoto), al tempo, al movimento e alla «declinazione» degli atomi: e, in tutti questi casi, i «minimi» medesimi costituiscono l’unità di misura analogica. È stata questa una notevole novità apportata dal fondatore del «Giardino» alla fisica atomica antica[18].

 

5. Vuoto, movimento e «declinazione». – Il vuoto (κενός) ha caratteri antitetici rispetto a quelli dei corpi (σώματα). Si tratta, infatti, dello spazio che accoglie questi ultimi e che permette loro di muoversi, riunirsi e disgregarsi. È detto, perciò, vuoto appunto in contrapposizione ai corpi che sono il pieno di essere. Ben si spiega, inoltre, come esso sia detto anche natura intangibile, in quanto la caratteristica più tipica dei corpi per Epicuro è la loro tangibilità (il suo “sensismo” lo portò a privilegiare in larga misura il tatto sugli altri sensi); e si spiega anche la negazione che il vuoto possieda capacità di agire o patire, in quanto queste sono prerogative della corporeità: il semplice permettere ai corpi di passare attraverso di sé non è un patire. Infine, è chiaro anche il carattere di incorporeità attribuito al vuoto: se esso, infatti, fosse corporeo, i corpi medesimi, come si è detto, non potrebbero oltrepassarlo e muoversi in esso[19].

Oltre alle qualità esaminate, che sono, per così dire, statiche, gli atomi hanno un’ulteriore caratteristica essenziale di carattere dinamico: infatti, essi sono sempre in continuo movimento. Epicuro intese questo moto originario degli atomi non come quel volteggiare in ogni direzione di cui avevano predicato gli antichi Atomisti, ma come un moto di caduta verso il basso nell’infinito spazio, dovuto appunto al peso degli atomi stessi, cioè come un moto velocissimo quanto il pensiero e uguale per tutti gli atomi, pesanti o leggeri che fossero. Tale correzione della concezione dell’antico Atomismo risultò un ibrido assai infelice, per la verità, perché dimostrava in maniera lampante come il pensiero dell’infinito fosse irrimediabilmente compromesso dal “sensismo”, che non sapeva scrollarsi di dosso l’empirica rappresentazione dell’alto e del basso[20].

Resta ora da vedere come, cadendo in un «universo perpendicolare», gli atomi possano incontrarsi fra loro e costituire corpi composti.

Per risolvere la difficoltà Epicuro introdusse la teoria della «declinazione» (παρέγκλισις) degli atomi, secondo cui essi possono deviare in qualsiasi momento de tempo e qualsiasi punto dello spazio per un intervallo minimo dalla linea retta e così incontrare altri atomi. In virtù del principio della declinazione, gli atomi si urtano reciprocamente e rimbalzano gli uni sugli altri; conseguentemente, si origina anche un moto verso l’alto, appunto per l’urto e per il rimbalzo che deriva dalla declinazione. Questa della παρέγκλισις costituisce senza dubbio la più notevole delle innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica atomistica; si tratta, tuttavia, di un’innovazione che egli poté formulare solo a prezzo di gravissime aporie, le quali, peraltro, proprio in quanto tali, risultarono estremamente eloquenti e rivelatrici circa la nuova caratteristica del filosofare del «Giardino». La prima ragione dell’introduzione del concetto di declinazione fu di carattere puramente fisico (il solo moto di caduta non permetterebbe, infatti, l’incontro degli atomi e la formazione delle cose). Decisiva dovette essere, però, un’ulteriore motivazione di carattere morale: nel sistema dell’antico Atomismo, infatti, tutto avveniva per necessità: il fato e il destino erano considerati sovrani assoluti; ma in un mondo in cui predominava il destino, non c’era posto per la libertà umana e, quindi, nemmeno per una vita morale come Epicuro la concepiva e, pertanto, non c’era spazio per una vita del saggio. Non c’è dubbio, allora, che la παρέγκλισις sia stata introdotta per far posto nell’universo atomisticamente concepito alla libertà, alla vita morale e alla possibilità di realizzazione dell’ideale del saggio[21].

Diego Velázquez, Democrito. Olio su tela, 1630.

 

6. L’universo e i mondi infiniti. – Nell’infinito tutto (ἄπειρον), come già gli antichi Atomisti e contro la concezione di Platone e di Aristotele, Epicuro sosteneva l’esistenza di infiniti mondi (κόσμοι ἄπειροί εἰσιν), alcuni uguali o analoghi al nostro, altri dissimili.

È poi da rilevare che tutti questi infiniti mondi nascono e si dissolvono, alcuni più rapidamente e altri più lentamente, nel corso del tempo; sicché non solo i mondi sono infiniti nell’infinità dello spazio, in un dato torno di tempo, ma sono altresì infiniti nell’infinita successione temporale. E malgrado in ogni istante vi siano mondi che nascono e che muoiono, Epicuro può ben affermare che il tutto non muta: infatti, non solo gli elementi costitutivi dell’universo rimangono perennemente quali sono, ma anche tutte le loro possibili combinazioni restano attuate, appunto a causa dell’infinità dell’universo medesimo, che dà luogo all’attuazione di tutte le possibilità[22].

La nascita di nuovi mondi può aver luogo sia nello spazio, che li separa l’uno dall’altro e che Epicuro chiamava intermondo, sia pure all’interno di ciascun mondo stesso, allorché esso sia in via di dissoluzione. La loro formazione è data dall’afflusso di atomi aventi forme opportune, provenienti da altri intermondi o da altri mondi. Questi, dapprima, si combinano fra loro, in virtù del movimento di cui si è già detto; successivamente, questo agglomerato di atomi si accresce, a causa di gruppi di atomi dalle opportune forme che continuano ad affluire, fino a completarsi; infine, dopo aver raggiunto il punto culminante dello sviluppo e il giusto equilibrio, il mondo così formato inizia a perdere atomi e, quindi, a decrescere, finché, da ultimo, non si dissolve e gli atomi di cui era composto passano a generare altri mondi.

 

7. L’anima, la sua materialità e la sua mortalità. – L’anima (ψυχὴ), come tutte le altre cose, è un aggregato di «particelle sottili», formato in parte di atomi ignei, aeriformi e ventosi che costituiscono la parte irrazionale e alogica dell’anima, e in parte da atomi «diversi» dagli altri e che non hanno un nome specifico, i quali costituiscono la parte razionale. Pertanto, l’anima, come tutti gli altri composti, non è eterna, ma è mortale. È questa una conseguenza che scaturisce dalle premesse materialistiche di tutto il sistema epicureo[23].

 

8. I simulacri e la conoscenza. – La sensazione e, in generale, i processi conoscitivi erano spiegati da Epicuro secondo moduli desunti dall’Atomismo – i quali, come si è detto, erano in parte comuni anche ad Empedocle. Da tutte le cose emanano efflussi di «simulacri» (τύποι), che ne riproducono le fattezze e, penetrando nell’uomo, generano non solo sensazioni, ma anche pensiero[24].

Questi efflussi, a causa della loro sottigliezza, si espandono in tutte le direzioni con un moto veloce quanto il pensiero stesso e, invadendo il soggetto, lo fanno sentire e pensare. Le percezioni sensibili sono veritiere, per Epicuro, appunto nella misura in cui sono apprensione diretta dei «simulacri» che procedono dalle cose e ridanno la realtà di queste.

In modo analogo, il filosofo spiegava le rappresentazioni fantastiche, quelle dei sogni e dei deliri: infatti, egli sosteneva che i «simulacri» potessero mantenersi a lungo, conservando la disposizione e l’ordine che gli atomi avevano assunto nella cosa da cui provenivano, ma che potessero pure scomporsi, deformarsi o ricomporsi, combinandosi persino con i «simulacri» di altre cose. Per Epicuro, erano proprio questi «simulacri» isolati, deformati, scomposti o scombinati, a provocare nell’uomo le rappresentazioni oniriche, folli e fantastiche. In ogni caso, dunque, le visioni delle persone derivavano da questi cosiddetti «simulacri»: non qualcosa che proveniva dai recessi della mente umana, ma qualcosa che era sempre provocata obiettivamente dall’esterno[25].

Quanto al pensiero, Epicuro lo spiegava in base all’azione dei «simulacri» medesimi, ma in modo assai meno chiaro: in particolare, egli non sapeva giustificare quanto il pensiero avesse di attivo in proprio e quanto di autonomo esso possedesse rispetto alla sensazione. Epicuro ammetteva tuttavia che, insieme al moto psichico prodotto nell’anima dalle percezioni, si producesse anche un altro speciale moto dell’anima, congiunto alla percezione, ma che da essa si potesse in un certo qual modo differenziare. È proprio da quest’ultimo, che si può distinguere dalla percezione, che nasceva l’opinione (δόξα) e, di conseguenza, anche la possibilità di errore.

 

9. La concezione degli dèi e del divino. – In questo universo costituito esclusivamente da atomi, vuoto, movimento di caduta e «declinazione», in questa concezione “fisicistica”, che risolveva ogni cosa in elementari componenti materiali e che negava categoricamente tutto ciò che potesse essere spirituale, non avrebbe potuto sembrare esserci spazio alcuno per la Divinità e per gli esseri divini. Inoltre, Epicuro si propose come uno degli scopi essenziali proprio quello di liberare l’uomo dal timore degli dèi. Pertanto, stando così le cose, ci si aspetterebbe o di sentire Epicuro negarne l’esistenza oppure di sentirlo parlare circa il divino al massimo come di un attributo degli atomi indistruttibili ed eterni; in altri termini, ci si potrebbe attendere, tutt’al più, affermazioni dello stesso tenore di quelle degli antichi Fisici, che facevano coincidere il divino, appunto, con l’ἀρχή (il principio) di tutte le cose. Invece, così non è e la posizione che Epicuro assunse risulta sorprendente: egli, infatti, negò recisamente non già l’esistenza del divino e degli dèi, bensì la loro esistenza quale era comunemente intesa, e contro tali rappresentazioni egli si fece paladino di una nuova concezione, certo eversiva non solo rispetto al modo di immaginare del volgo e dei poeti, ma altresì rispetto al modo di pensare dei filosofi. In effetti, la teologia epicurea restò qualcosa di eccentrico rispetto alla concezione del divino degli altri Greci, pur mantenendo alcuni tratti propri del pensiero ellenico.

La fede popolare aveva ammesso gli dèi per spiegare la vita e le vicende umane, mentre i filosofi li avevano considerati per chiarire il cosmo e la realtà. Quanto ad Epicuro, egli, al contrario, respingeva proprio quelle due motivazioni che costituivano gli assi portanti della credenza negli dèi, ma, al contempo, manteneva salvi alcuni aspetti squisitamente ellenici del pensiero teologico antico: proprio quei caratteri che erano più aporetici. Dalla fede popolare Epicuro trasse l’antropomorfismo, riportandosi al di là di Senofane; dalla concezione filosofica di Aristotele derivò la convinzione dell’impassibilità della divinità – cosa che costituiva, in effetti, una fonte di insuperabili difficoltà.

Come l’interesse di fondo di Epicuro era di carattere etico, così anche la concezione del suo dio era etica: la divinità epicurea, in ultima analisi, era l’ideale della sua stessa etica oggettivato e ipostatizzato. Quei suoi dèi, che vivevano una vita eterna senza preoccupazioni o turbamenti e che godevano di sagge conversazioni in piena amicizia, erano null’altro che la proiezione ideale della vita del «Giardino»: erano come il disegno ingrandito che riproduceva perfettamente i modi e i tratti che la Scuola epicurea additava agli uomini per raggiungere la vita felice.

 

 

 

IV. L’etica epicurea

1. Il piacere come fondamento dell’etica. – La filosofia morale, a partire da Socrate, aveva perfettamente fissato lo statuto dell’etica: essa deve stabilire quale sia l’essenza dell’uomo, quale sia la sua peculiare ἀρετή («virtù»), quale sia il suo specifico bene e, quindi, quale sia il suo migliore modo di vivere per raggiungere questo bene che possa renderlo felice. E, da Socrate ad Aristotele, concordemente, la speculazione morale aveva stabilito che il bene etico dell’uomo altro non è che l’attuazione della sua stessa essenza, la realizzazione completa e perfetta di ciò che egli effettivamente è, e che la felicità si raggiunge sempre e soltanto per questa via della compiuta realizzazione della propria essenza.

Anche Epicuro, dal canto suo, condivideva questa formale impostazione circa l’etica, ormai irreversibilmente acquisita, ma dalla linea socratico-aristotelica egli si distaccò nettamente nella determinazione dell’essenza stessa dell’uomo, cioè nella determinazione del fondamento stesso dell’etica. Da questo punto di vista, egli era del tutto coerente con i principi della sua logica e della sua fisica: come la natura, in generale, era costituita da atomi materiali e da aggregati atomici, così anche la specifica natura dell’uomo era costituita non altro che da ammassi di atomi, quello che formava il corpo e quello che realizzava l’anima (entrambi materiali). Se, dunque, per Epicuro, era materiale persino l’essenza dell’uomo, materiale doveva essere necessariamente anche il suo specifico bene, quel bene che – attuato e realizzato – lo avrebbe reso felice. E quale fosse questo bene, la natura, considerata nella sua immediatezza, lo affermava senza mezzi termini, mediante i sentimenti fondamentali del piacere (ἡδονή) e del dolore (ἀλγηδών) – così come essa rivela ciò che è vero per mezzo della sensazione. Gli esseri viventi, allora, già fin dalla nascita, istintivamente ricercano i piaceri e rifuggono dai dolori[26].

Insomma, principio e fine dell’agire umano doveva essere – a detta di Epicuro – il piacere, perché esso è il vero bene naturale: è ciò che, posseduto, rende davvero felici.

Benjamin West, La scelta di Ercole fra Virtù e Piacere. Olio su tela, 1764. V&A Museum.

 

2. La riforma dell’edonismo cirenaico. – Già i Cirenaici avevano identificato lo scopo del genere umano nel piacere, ma Epicuro intese tale sentimento in un modo del tutto nuovo. In primo luogo, quei filosofi avevano concepito il piacere come un dolce movimento, mentre il dolore come un movimento violento, negando recisamente che l’intermedio stato di quiete – ossia l’assenza di dolore – potesse essere esso stesso un piacere, assomigliando piuttosto – a loro avviso – allo stato del dormiente (cioè a uno stadio di insensibilità). Epicuro, per contro, non solo ammise anche questo tipo di piacere, ma diede ad esso grandissima importanza; anzi, ritenne il piacere catastematico come il supremo e il più genuino fra i piaceri, perché avrebbe corrisposto allo stato di assenza di dolore e di perturbazione, mentre l’altro tipo di piacere avrebbe recato sempre – insieme al movimento – anche turbamento. La distinzione operata da Epicuro è dunque fondamentale, perché implica una netta subordinazione del secondo tipo di piaceri al primo, nella ricerca della felicità. L’assenza del dolore (il piacere catastematico) è il limite supremo che raggiunge il piacere, al di là del quale non può ulteriormente estendersi, perché nell’assenza di dolore il piacere ha raggiunto la sua completezza e perfezione. Rispetto ai Cirenaici, inoltre, Epicuro si differenziava anche per un secondo aspetto assai importante: quelli, infatti, ritenevano che i piaceri fisici fossero superiori a quelli dell’anima e i dolori corporei più gravi di quelli psichici (tant’è vero che – essi argomentavano – i colpevoli di reati erano puniti con pene corporali). Al che Epicuro sagacemente obiettava: «Il corpo soffre solo per il male attuale, mentre l’anima soffre per il male presente, passato e futuro» (fr. 452 U.). In effetti, è un innegabile dato di fatto che la carne goda solo di ciò che è presente, mentre l’anima – attraverso la memoria – goda del piacere passato e possa anche anticipare con l’attesa quello futuro: per questo motivo, a detta di Epicuro, i piaceri dell’animo sono superiori a quelli del corpo.

 

3. La gerarchia dei piaceri e la saggezza. – La posizione che Epicuro aveva assunto nei confronti del piacere implicava che il piacere stesso non potesse mai essere – necessariamente – un male, giacché male era solo il dolore. Ma un’altra conclusione si era imposta: la funzione di regia nella vita morale non era già esercitata dal piacere come tale, bensì dalla ragione, dal ragionamento, dal calcolo applicato ai piaceri, per stabilire quali fra essi producessero altri piaceri ancora, e quali comportassero invece dolori e quindi quali fossero davvero utili e quali veramente dannosi. Allora, il calcolo delle utilità, il giudizio che dissipa errori e la giusta valutazione dei piaceri da che cosa avrebbero dovuto dipendere? Epicuro non aveva dubbi: essi dipendevano dalla φρόνησις («saggezza»)[27].

Ma si vedano quali sono i concreti suggerimenti circa la valutazione dei desideri e dei piaceri e a proposito del giudizio di elezione degli stessi da parte di Epicuro. Innanzitutto, occorre distinguere tre grandi classi di piaceri:

  • piaceri naturali e necessari;
  • piaceri naturali, ma non necessari;
  • piaceri non naturali e non necessari.

Solo i primi sono da seguire, mentre i secondi e soprattutto i terzi sono sempre accompagnati da dolori[28].

E come è netta la distinzione fra questi piaceri, così altrettanto decisivo e infallibile è il criterio di scelta fra questi piaceri stessi: per Epicuro, bisognava scegliere sempre e solo piaceri catastematici o stabili, che si riducono ad assenza di dolore, e piaceri dell’animo, che si riducono a mancanza di turbamento nello spirito.

Se così stanno le cose, allora la gente dovrebbe accontentarsi di soddisfare sempre il primo tipo di desideri e di piaceri, dovrebbe limitarsi per quanto attiene ai secondi e non dovrebbe mai cedere ai terzi. E qui Epicuro manifestò una forte presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata molteplicità dei piaceri. Infatti, fra quelli del primo gruppo (cioè quelli naturali e necessari) egli pose unicamente piaceri strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo, gli unici che veramente possano giovare, in quanto capaci di sottrarre il dolore del corpo (per esempio, il mangiare quando si ha fame, il bere quando si ha sete, il riposare quando si è stanchi, e simili). D’altra parte, egli escluse da questo gruppo il piacere erotico: «L’amplesso non giova mai: c’è da contentarsi che esso non nuoccia»[29].

Fra i piaceri della seconda categoria, egli poneva tutti quei desideri e voluttà che costituiscono le variazioni superflue dei piaceri naturali: mangiare bene, bere bevande raffinate, vestire in modo ricercato e così via. Infine, nel terzo gruppo, Epicuro poneva i piaceri «vani», nati cioè dalle vane opinioni degli uomini, quali sono tutti i piaceri legati al desiderio di ricchezza, potenza, fama, onori e simili.

I desideri e i piaceri del primo gruppo sono gli unici che vanno sempre e comunque soddisfatti, perché da natura hanno un preciso limite, che consiste appunto nell’eliminazione del dolore: ottenuto ciò, il piacere non cresce ulteriormente. Quelli del secondo gruppo, invece, non hanno più il medesimo limite, perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo l’intensità del piacere e possono provocare un notevole danno. Quelli del terzo gruppo, infine, non leniscono assolutamente il dolore corporeo e per giunta arrecano sempre turbamento all’anima.

Bisogna, dunque, sfrondare i propri desideri, riducendoli a quel primo nucleo essenziale: così ne verrà ricchezza e felicità copiose, perché per procurarsi quei piaceri l’uomo basta a se stesso, e in questo bastare a se stessi (αὐτάρκεια) stanno la più grande ricchezza e la massima felicità. Ecco, in proposito, due eloquenti massime epicuree: «A chi non basta il poco, nulla basta» e «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta»[30].

 

Guillaume Seignac, Il risveglio di Psiche. Olio su tela, 1904.

 

4. L’assolutezza del piacere. – Chiunque ponga nel piacere il bene supremo e la felicità è fatalmente tormentato dalle seguenti cose: 1) l’incalzare del tempo che divora e porta via il piacere; 2) la minaccia del dolore che può sempre sopraggiungere; 3) l’agguato della morte. Epicuro ha, pertanto, cercato di elevare attorno al piacere delle barriere che lo tutelassero da tali insidie e, a differenza di altri edonisti, a suo modo, è riuscito nel proprio intento, proprio grazie alla sua concezione della totale superiorità del piacere catastematico sul piacere in movimento: infatti, quest’ultimo è strutturalmente coinvolto nella corsa contro il tempo, inceppa incessantemente nei mali ed è messo in scacco dalla morte[31].

Hanno uguale piacere non solo per quanto riguarda la qualità (e fin qui non fa difficoltà il pensare che, di fronte alla squisitezza qualitativa di un piacere, un dio eterno quale è concepito da Epicuro e un uomo mortale godano e gioiscano allo stesso modo, appunto perché la durata finita o infinita non cambia la qualità), ma proprio per quanto riguarda la quantità: e questo è uno dei punti più audaci della dottrina epicurea, che occorre comprendere a fondo.

Epicuro, in sostanza, negava che un’esistenza infinita potesse rendere il piacere maggiore non solo in qualità ma anche in quantità: la durata nel tempo non incrementa in alcun modo il piacere. Com’è possibile? Basta individuare quale sia il «limite» del piacere: esso è l’eliminazione del dolore (ἀπονία). In altri termini, il piacere aumenta fino a quando il bisogno sia stato spento e il dolore tolto; allora, il piacere tocca il suo culmine estremo, oltre il quale non può più crescere. È la natura stessa del piacere catastematico che impone queste conclusioni: se esso consiste nella mancanza di dolore, è chiaro che nessuna aggiunta e nessun incremento siano pensabili al non provar più dolore. Dunque, il piacere catastematico, quando ci sia e finché ci sia, è pieno e totale, ha valenza assoluta ed è infinito[32].

 

5. La relatività del dolore. – Come può questa valenza assoluta del piacere, che Epicuro proclamava, non essere irrimediabilmente compromessa dai dolori, dai quali nessuno – proprio in quanto mortale – è mai al riparo? Se è lieve, il male fisico è sempre sopportabile e non è mai tale da offuscare la gioia dell’anima; se, invece, è acuto, passa presto; e, se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale era considerata da Epicuro uno stato di assoluta insensibilità[33].

E i mali dell’anima? Essi non sono altro che quelli prodotti dalle fallaci opinioni e dagli errori della mente umana; e contro di essi tutta la filosofia di Epicuro si presenta come il più efficace rimedio e il più sicuro antidoto.

 

6. La morte non è nulla per l’uomo. – E la morte? La morte è un male solo per chi nutre false opinioni su di essa, sentenziava Epicuro. Poiché l’uomo è un composto di anima in un agglomerato corporeo, la morte non è altro che la dissoluzione di tali assembramenti atomici. E, in questa dissoluzione, gli atomi si dileguano per ogni dove, la coscienza e la sensibilità cessano totalmente e così dell’uomo non restano che macerie che si disperdono – ossia nulla. Quindi, la morte non è paurosa di per sé, perché al suo sopravvenire gli esseri umani non sentono più nulla; né è paurosa per un suo «dopo», in quanto dell’uomo non resta più alcunché, dissolvendosi totalmente la sua anima così come il suo corpo; neppure, infine, essa toglie nulla alla vita che si è trascorsa, perché – come si è visto – all’assoluta perfezione del piacere non è necessario l’eterno. Il più terribile dei mali, ossia la morte, per Epicuro non è niente per l’uomo, dal momento che, quando uno non c’è più, la morte non esiste, e quando essa sopravviene l’uomo non è più. Essa non ha alcun significato per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più.

Tenendo conto di quanto si è appena precisato, non ci si deve più stupire se Epicuro identificasse la virtù con il piacere o, comunque, se la considerasse la virtù solamente in funzione del piacere e come strumento per garantirlo[34].

Nicolas-Rene Jollain, La morte di Giacinto.

 

7. La svalutazione della politica e l’esaltazione della vita appartata. – Ogni forma di edonismo e di utilitarismo è sempre anche una forma di individualismo egoistico, e tale era anche la posizione di Epicuro. Anzi, in lui l’individualismo era particolarmente accentuato, oltre che dalle premesse teoretiche del suo sistema, anche da due ulteriori fattori di notevole importanza: l’esperienza del crollo della πόλις, della Città-Stato, interpretazione vigorosamente ribadita anche da Aristotele, il quale nell’uomo vedeva l’animale politico nella dimensione della πόλις. Ora, proprio il fallimento storico di quest’ultima e delle istituzioni ad essa connesse comportava eo ipso la perdita di credibilità delle ricostruzioni teoretiche di Platone e di Aristotele, apparendo esse, ormai, non altro che l’indebita idealizzazione di un dato storico contingente. E poiché le forme politiche successive alla Città-Stato, ossia l’impero di Alessandro e le monarchie ellenistiche, si mostrarono quanto mai instabili, così Epicuro credette di trovare in tutto questo la controprova della validità di quelle conclusioni individualistiche che i principi della sua fisica e della sua etica logicamente imponevano.

Dunque, la vita politica era, per le ragioni dette, sostanzialmente innaturale: essa, infatti, comportava, conseguentemente, continui dolori e turbamenti, compromettendo l’ἀπονία e l’ἀταραξία e, quindi, quanto di più prezioso l’uomo possa avere – vale a dire la felicità. Infatti, quei piaceri che dalla vita politica molti si ripropongono, erano pure illusioni per Epicuro: dall’attività pubblica gli uomini si aspettano potenza, fama e ricchezza, che sono, in realtà, desideri e piaceri innaturali e non necessari, ingannevoli miraggi. Alla luce di ciò, ben si comprende l’invito di Epicuro: «Liberiamoci dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica»[35]. A suo avviso, la vita pubblica non arricchisce l’uomo, ma lo disperde e lo dissipa: per questo l’Epicureo si apparterà e vivrà in disparte dalle folle: «Vivi nascosto» (fr. 551 U.) suona il celebre comandamento epicureo! Solo in questo rientrare e rimanere in sé può essere trovata la pace dell’anima (l’ἀταραξία), il bene supremo: «La corona dell’imperturbabilità è senza paragone superiore alla corona dei grandi imperi» (fr. 556 U.).

È chiaro, pertanto, che la giustizia cessa di essere un valore assoluto, come voleva Platone, ma si riduce alla relazione di utilità; da tale premessa deriva la seguente conclusione: «L’ingiustizia non è di per sé un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo»[36].

Così la πολιτεία da realtà morale dotata di validità assoluta diventa istituzione relativa, nata dal semplice contratto in vista dell’utile; anziché fonte e coronamento dei supremi valori etici, diviene semplice mezzo di tutela dei valori vitali, condizione necessaria – sì – alla vita morale, ma tutt’altro che sufficiente.

 

8. L’amicizia. – Il «Giardino» di Epicuro era nato per creare uomini che prendessero pienamente coscienza di essere individui, e che imparassero a capire che ogni salvezza potesse venire non da altro che da se medesimi. Fra questi individui l’unico legame che poteva essere ammesso come valido era l’amicizia, la quale era concepita quale libero rapporto capace di unire chi in modo identico sentisse, pensasse e vivesse. Nell’amicizia, dunque, nulla sarebbe stato imposto dall’esterno e in modo innaturale, e, perciò, nulla avrebbe violato l’intimità dell’individuo; nell’amico l’Epicureo vedeva quasi un altro se stesso.

Anche l’Accademia platonica aveva coltivato l’amicizia, ma in modo diversissimo: l’amicizia doveva essere il mezzo che più agevolmente aiutasse a costituire lo Stato, che era il fine ultimo. Epicuro la trasformò, invece, da un mezzo a un fine o – se si vuole – dato che l’amicizia stessa non sfuggiva del tutto alla legge dell’utilità, la considerò quale mezzo per realizzare pienamente l’individuo.

Va detto che, in effetti, nulla, nel contesto dell’etica epicurea, aveva senso se non in funzione del piacere e dell’utile. Tuttavia, Epicuro avrebbe voluto riconoscere all’amicizia un qualche privilegio, scrivendo: «Ogni amicizia è desiderabile di per sé, anche se ha avuto il suo inizio dall’utilità»[37]. Dunque, l’amicizia muove dall’utile, ma, una volta sviluppatasi, diviene un bene per sé, perché dava piacere. Insomma, prima si ricerca l’amicizia per conseguire determinati vantaggi estranei ad essa e poi, una volta nata, diventa essa stessa fonte di piacere e, perciò, fine. Epicuro poteva allora ben affermare quanto segue: «Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia»[38]. E poteva addirittura affermare: «L’amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia reciproca»[39]. Essa, infatti, è il coronamento e il suggello della felicità del saggio.

Pittore Epeleo. Due giovani presso un louterion. Pittura vascolare su una kylix attica a figure rosse, 510 a.C. ca. Walters Art Museum.

 

9. Il quadrifarmaco e l’ideale del saggio. – Epicuro ha fornito dunque agli uomini il quadruplice rimedio nel modo veduto: ha mostrato, innanzitutto, che sono vani i timori per gli dèi e per l’aldilà; in secondo luogo, che è assurda la paura della morte, la quale non è nulla; in terzo luogo, che il piacere, quando lo si intenda correttamente, è a disposizione di tutti; infine, che il male o è di breve durata, oppure è facilmente sopportabile. L’uomo che sappia applicare a se medesimo questo quadruplice farmaco acquista la pace dello spirito e la felicità, che nulla e nessuno possono intaccare. Divenuto così, totalmente padrone di sé, il saggio di nulla può ormai temere, nemmeno i più atroci mali e addirittura nemmeno le torture: «Il saggio sarà felice anche fra i tormenti» (fr. 601 U.).

È evidente che questa è una metafora paradossale per dire che il saggio è assolutamente imperturbabile e di questo Epicuro stesso diede dimostrazione quando, fra gli spasmi del male che lo portava a morte, scrivendo a un amico l’ultimo addio, proclamava la vita dolce e felice.

E così Epicuro ritenne di poter dire, forte della sua ἀταραξία, che il saggio potesse contende in felicità perfino con gli dèi: se si toglie l’eternità, Zeus non possiede di più del saggio (fr. 602 U.). Epicuro si pose come una delle voci più autentiche della sua epoca: il suo pensiero e la sua vita divennero paradigma. Il successo che egli riscosse nell’arco di cinque secoli ne è la controprova!

Epicuro. Testa, marmo. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

 

 

V. Seguaci e successori di Epicuro

L’Epicureismo non ebbe una storia paragonabile a quella delle altre Scuole ellenistiche, nel senso che non ebbe una vera e propria evoluzione di pensiero, non vide sviluppi dottrinali né svolgimenti concettuali degni di rilievo. Epicuro non solo propose la propria dottrina, ma in qualche modo la impose, con disciplina fermissima.

Pertanto, nel «Giardino», non si accesero discussioni e non scoppiarono conflitti di idee. I discepoli e i seguaci di Epicuro si limitarono a ripeterne e ad esplicarne il verbo o, al massimo, ad approfondirne e a completarne certi aspetti. Le polemiche con le Scuole avversarie, in linea di massima, non portarono ad accomodamenti eclettici né ad ammissioni di principi o corollari di pensatori esterni.

I capisaldi del sistema epicureo divennero dogmi da apprendere e da difendere a spada tratta: quasi come verità di religione. E così si spiega perché, mentre vi furono varie fasi della Stoà (una antica, una media e una nuova), nonché varie fasi dello Scetticismo (quella pirroniana, quella accademica e quella neopirroniana), non vi fu, invece, se non un ciclo unico e dottrinalmente unitario nella storia del «Giardino». Dai testi di Epicuro al poema di Lucrezio alle iscrizioni murali di Diogene di Enoanda (cioè dalla fine del IV secolo a.C. al II secolo d.C.) restò fondamentalmente immutato lo spirito vivificatore degli scritti epicurei, immutata la fede e identiche rimasero le articolazioni teoretiche.

Discepoli di Epicuro – prima ancora della fondazione della Scuola ad Atene – furono Metrodoro e Polieno di Lampsaco. Metrodoro, in particolare, si segnalò soprattutto come grande polemista (come attestano gli stessi titoli delle sue opere). I due allievi morirono prima del maestro e, pertanto, il suo successore alla direzione del «Giardino» fu Ermarco di Mitilene, che scrisse contro Platone e contro Aristotele. Si distinsero in quel periodo anche Leonteo di Lampsaco, Colote e Idomeneo.

I successivi scolarchi epicurei, dei quali si sa molto poco, furono, in ordine, Polistrato, Ippoclide, Dionigi, Basilide, Protarco di Bargilia, Apollodoro, soprannominato «il Tiranno del Giardino» (che si dice che abbia scritto oltre quattrocento libri), Zenone di Sidone, Fedro e Patrone (Zenone e Fedro furono personalmente conosciuti e ascoltati da Cicerone).

Nella seconda metà del I secolo a.C. il «Giardino» ad Atene era ormai morto: dopo Patrone, infatti, non si hanno più notizie di altri scolarchi e si sa che il terreno su cui sorgeva l’istituto era stato venduto; ciononostante, il verbo epicureo si era ormai da tempo diffuso, sia in Oriente sia in Occidente. Ma proprio lì, e precisamente a Roma, che l’Epicureismo avrebbe trovato la sua seconda patria, soprattutto per merito del poeta Lucrezio, che avrebbe saputo cantarlo con la più alta e commossa poesia.

***

Note:

[1] Epicuro nacque a Samo nell’Olimpiade 109, cioè intorno al 341 a.C. (cfr. Diog. X 14). Suo padre Nicocle era ateniese e si era recato a Samo come colono. A diciotto anni Epicuro venne ad Atene per l’efebato (qualcosa che ricorda, per certi aspetti, il moderno servizio militare). Reggeva allora l’Accademia Senocrate ed egli, verosimilmente, Xenocraten audire potuit (Cic. nat. deor. I 26, 72). Prima di giungere ad Atene, però, Epicuro si era già accostato alla filosofia e aveva frequentato le lezioni di un maestro platonico di nome Panfilo (Diog. ibid.); ma certamente l’incontro decisivo dovette essere quello con Nausifane, filosofo atomista, che gli dischiuse gli orizzonti di Democrito, e di cui si dirà ulteriormente nel testo. In seguito all’espulsione dei coloni ateniesi da Samo, Epicuro passò a Colofone (Diog. X 1) e quindi a Mitilene e a Lampsaco (Diog. X 15). La nuova visione della vita dovette già essere chiara a Epicuro, a Mitilene e a Lampsaco, dove insegnò per cinque anni (Diog. ibid.). Intorno al 307/6 a.C. si trasferì, dunque, ad Atene (Diog. X 1) e fondò il «Giardino». Morì nella Olimpiade 127, cioè intorno al 270 a.C. (Diog. X 15). Epicuro fu scrittore fecondissimo: Diogene lo dice autore di circa trecento libri (cfr. X 26 sgg., con l’elenco dei titoli delle opere notevoli). Di questa imponente produzione è rimasto, però, ben poco: tre lettere (ad Herodotum, ad Menoeceum, ad Pythoclen), una raccolta di sentenze (Kύριαι δόξαι = Massime capitali), conservate da Diogene, una seconda raccolta di detti (Gnomologium Vaticanum), e frammenti vari, alcuni dei quali tratti dai papiri di Ercolano.

[2] Diog. 10, 122.

[3] Diog. 10, 132.

[4] Cfr. frr. 242-243 U.

[5] Cfr. Kύριαι δόξαι 23-24; fr. 251 U.

[6] Cfr. fr. 247 U.

[7] Cfr. fr. 36 U.

[8] Cfr. fr. 255 U.

[9] Cfr. Diog. 10, 75 s.

[10] Cfr. fr. 128 s. U.

[11] Cfr. fr. 274 U.

[12] Diog. 10, 38: πρῶτον μὲν ὅτι οὐδὲν γίνεται ἐκ τοῦ μὴ ὄντος.

[13] Cfr. ibid. 10, 39.

[14] Ibid. 10, 39: τὸ πᾶν ἐστι σώματα καὶ κενόν, «il tutto è costituito da corpi e da vuoto».

[15] Ibid. 10, 39-41.

[16] Cfr. ibid. 10, 40 s.

[17] Cfr. ibid. 10, 42-56.

[18] Cfr. ibid. 10, 58-59.

[19] Cfr. Diog. 10, 67.

[20] Ibid. 10, 61.

[21] Ibid. 10, 133 s.

[22] Cfr. ibid. 10, 45; 88 s.

[23] Cfr. ibid. 10, 63.

[24] Cfr. ibid. 10, 46.

[25] Cfr. ibid. 10, 48-51.

[26] Cfr. fr. 397 U.

[27] Cfr. Diog. 10, 130-132.

[28] Cfr. Kύριαι δόξαι 29.

[29] Cfr. fr. 62 U.

[30] Vd. fr. 473 U. e Gnom. Vat. 68.

[31] Cfr. Kύριαι δόξαι 19.

[32] Cfr. ibid. 20.

[33] Cfr. Gnom. Vat. 4.

[34] Cfr. Diog. 10, 124 s.

[35] Cfr. Gnom. Vat. 58.

[36] Cfr. Kύριαι δόξαι 34.

[37] Gnom. Vat. 23.

[38] Kύριαι δόξαι 27.

[39] Gnom. Vat. 52.