Il diritto di famiglia in età repubblicana: la 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢𝘴 e l’istituto dell’adozione

In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.

 Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.

Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).

L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.

Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).

Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre

Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).

Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).

Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.

Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.

Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).

Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.

Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.

Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.

Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.

L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.

L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.

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Bibliografia:

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L. Capogrossi Colognesi, s.v. patria potestas (diritto romano), in EncDir 32 (1982), 242-249.

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C. Fayer, La famiglia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Parte prima, Roma 1994.

G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.

P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.

Il 𝐷𝑒 𝑎𝑔𝑟𝑖 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero

di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, 𝐿𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐿’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎𝑛𝑎, Milano 2010, 141; 35-39 (in Materiali per il docente).

A Catone risale anche il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero, il trattato De agri cultura. L’opera, formata da una prefazione e da centosettanta brevi capitoli, consiste, in gran parte, in una serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, anche se talora di grande efficacia, che non lascia spazio agli ornamenti letterari né alle riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori, diffuse in tanta parte della successiva trattatistica agricola latina.

Nel De agri cultura Catone vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero. Questi, rappresentato secondo la tradizione nelle vesti del pater familias, deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta, inoltre, a formare i buoni cittadini e i buoni soldati.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Ma il tipo di proprietà che Catone descrive non è più il piccolo appezzamento di terra, la piccola tenuta a conduzione familiare che era la più diffusa forma di insediamento sul suolo in età antico-repubblicana, né ci troviamo di fronte a una bonaria civiltà agricola patriarcale. Da alcuni passi traspare la brutalità dello sfruttamento servile: Catone raccomanda di vendere come un ferrovecchio il servo anziano o malato, e perciò inabile al lavoro. L’attività agricola è ormai un’impresa su vasta scala: il proprietario dovrà avere grandi magazzini – raccomanda l’autore – in cui tenere depositata la merce in attesa del rialzo dei prezzi, dovrà acquistare il meno possibile e vendere il più possibile.

Si colgono qui, nelle loro elementari radici, i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono più gli stessi che la riflessione tardo repubblicana indicherà come costitutivi del mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze e la resistenza alla seduzione dei piaceri mostrano come il rigore catoniano non sia la saggezza pratica del contadino incorrotto e ingenuo, ma rappresenti il risvolto ideologico di un’esistenza genuinamente pragmatica; insomma, trarre dall’agricoltura vantaggi economici, anzi accrescere la produttività del lavoro servile a essa applicato. Lo stile dell’opera è scarno, ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola che volentieri si esprimono in formulazioni proverbiali.

Vita campestre. Mosaico, IV sec. d.C. da Ostia. Detroit, Institute of Arts.

Catone, dunque, è passato alla storia come il paladino del mos maiorum e l’inflessibile difensore della tradizione, contro tutte le spinte al rinnovamento e all’ammorbidimento dei costumi presenti nella società romana a lui contemporanea (e incarnate principalmente da quegli intellettuali che facevano capo alla cerchia degli Scipiones). Se una visione eccessivamente rigida del suo conservatorismo rischia di travisare la corretta interpretazione del pensiero di Catone (nel quale una certa apertura, per esempio verso la cultura greca, fu indubbiamente presente), è comunque pur vero che la sua figura e la sua opera restano l’espressione massima della difesa dei valori morali tradizionali. Questo vale anche per il De agri cultura, nel quale, al di là dell’intento precettistico, emerge una visione ideologica dell’agricoltura (tradizionale e sana attività dell’uomo romano) come l’unica forma di guadagno degna e onesta, attraverso la quale l’aristocrazia romana può mantenersi fedele a quegli ideali etico-politici che costituiscono il fondamento stesso del suo potere. La praefatio rappresenta il manifesto ideologico del vir bonus colendi peritus, cioè del proprietario agricoltore, che per Catone è il cittadino esemplare e il principio di stabilità della res publica. L’utilità e la sicurezza economiche della produzione agricola diretta, contrapposta alle attività affaristiche, si fondono con l’utilità e la stabilità sociali della piccola e media proprietà rurale, fondamento dello Stato e garanzia di conservazione dei valori trasmetti dal mos maiorum.

 

[1] Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiuerunt, furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli: quanto peiorem ciuem existimauerint feneratorem quam furem, hinc licet existimare. [2] Et uirum bonum cum laudabant, ita laudabant bonum agricolam bonumque colonum. Amplissime laudari existimabantur qui ita laudabantur. [3] Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, uerum ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et uiri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque inuidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.

[1] Talora può essere preferibile cercare fortuna nei commerci, se non fosse tanto pericoloso, e anche prestare a usura, se la cosa fosse altrettanto onorevole. I nostri antenati così ritennero e così stabilirono le leggi, che il ladro fosse condannato al doppio, l’usuraio al quadruplo; da qui si può capire quanto peggiore cittadino considerassero l’usuraio rispetto al ladro. [2] E per lodare un uomo degno, lo lodavano così: buon agricoltore, buon colono; chi così veniva lodato, si pensava che avesse ricevuto la massima lode. [3] Il mercante, poi, io lo stimo un uomo attivo e teso alla ricerca del guadagno, anche se, come ho detto prima, è esposto al pericolo e alle disgrazie; [4] ma dagli agricoltori derivano gli uomini più forti e i soldati più valorosi, e nell’agricoltura si consegue un guadagno del tutto onesto, saldissimo e per niente esposto all’invidia, e coloro che sono occupati in questa attività sono il meno soggetti a pensar male.

 

Scena di mercato e di dissodamento del terreno. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

 

L’autore contrappone qui l’agricoltura a due altre possibili forme di guadagno, il commercio e l’usura; se nei confronti dell’usura la condanna, di carattere morale, è totale (egli, rifacendosi probabilmente alla legislazione delle XII Tavole ricorda come per l’usuraio fosse prevista una pena doppia rispetto a quella del ladro), Catone mostra invece una certa apertura nei confronti della mercatura (da intendere prevalentemente come commercio marittimo), un’attività che, con l’ampliarsi delle conquiste romane, stava prendendo sempre più piede e alla quale, probabilmente, lo stesso Catone si dedicò; egli definisce infatti il mercator strenuus studiosusque rei quaerendae, e la sua unica riserva sta nella pericolosità di tale forma di commercio, esposto continuamente ai rischi della sorte. Ma anche l’attività mercantile deve comunque, nell’ottica catoniana, cedere il passo all’agricoltura, il cui elogio è condotto dall’autore sia su basi economiche (essa è quaestus stabilissimus, la forma di guadagno più stabile e sicura), ma anche, e soprattutto, morali: la coltivazione dei campi è l’attività più onesta (nell’epiteto pius si coglie addirittura una sfumatura sacrale!) e meno esposta all’invidia, la base della potenza romana (in quanto è proprio dal ceto agricolo che provengono quei viri fortissimi e milites strenuissimi che hanno fondato il dominio dell’Urbe). Rifacendosi al giudizio dei maiores, Catone celebra l’agricoltura come l’unica attività in grado di formare a 360° il buon cittadino romano; nell’identificazione tout-court del vir bonus con il bonus agricola e bonus colonus (che richiama ovviamente la celebre massima vir bonus colendi peritus) sta il fulcro dell’ideologia catoniana.

La prefatio dell’opera, inoltre, è caratterizzata da una struttura retorica piuttosto elaborata. Certamente l’autore fa ricorso ai mezzi stilistici relativamente semplici della prosa arcaica, che ancora non ha raggiunto il livello di “maturità” dell’età cesariana e augustea. Fra i tratti stilistici arcaici, poi superati nel corso dello sviluppo della prosa latina, è qui particolarmente evidente la tendenza alla ripetizione, come risulta dai seguenti esempi: fenerari… feneratorem… feneratorem; existimarente… existimare… existimabatur… existimo; bonum… bonum… bonum; laudabant… laudabant… laudari… laudabatur; minime… minime.

La cura stilistica del passo si rivela nell’attenta costruzione in cola paralleli di alcune frasi (per esempio, nel periodo di apertura: mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit; oppure, al par. 4, la sequenza ternaria maximeque pius… stabilissimusque… minimeque invidiosus, con il superlativo al centro fra due aggettivi modificati dagli avverbi in antitesi, maxime e minime) e nella presenza di iterazioni sinonimiche (bonum agricolam bonumque colonum; strenuum studiosumque; periculosum et calamitosum; et viri fortissimi et milites strenuissimi, con omoteleuto). Molto efficace è anche il ricorso a effetti di suono e in particolare all’omoteleuto (cioè la coincidenza nei suoni finali di due parole o cola contigui), che costituisce la vera e propria marca stilistica del passo (sic habuerunt et ita… posiverunt; peiorem civem… feneratorem… furem; quom laudabant, ita laudabant; existimabatur qui ita laudabatur; male cogitantes sunt qui… occupati sunt).

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

Dopo aver dispensato consigli sull’acquisto del podere, ecco l’insediamento del nuovo padrone: i compiti  (officia) del pater familias, minutamente illustrati, lasciano trasparire, al di là della concretezza pratica, la loro portata ideologica (Agr. 2):

 

[1] Pater familias, ubi ad uillam uenit, ubi larem familiarem salutauit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognouit quo modo fundus cultus siet, opera quaeque facta infectaque sie‹n›t, postridie eius diei uilicum uocet, roget quid operis siet factum, quid restet, satisne temperi opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum uini, frumenti aliarumque rerum omnium. [2] Ubi ea cognouit, rationem inire oportet operarum, dierum. Si ei opus non apparet, dicit uilicus sedulo se fecisse, seruos non ualuisse, tempestates malas fuisse, seruos aufugisse, opus publicum effecisse. Ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque reuoca. [3] Cum tempestates pluuiae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lauari, picari, uillam purgari, frumentum transferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, nouos fieri, centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; [4] per ferias potuisse fossas ueteres tergeri, uiam publicam muniri, uepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, uirgas uinciri, spinas runcari, expinsi far, munditias fieri; cum serui ‹a›egrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse. [5] Ubi cognita aequo animo sient qua[u]e reliqua opera sient, curari uti perficiantur. Rationes putare argentariam, frumentariam, pabuli causa quae parata sunt; rationem uinariam, oleariam, quid uenierit, quid exactum siet, quid reliquum siet, quid siet quod ueneat; quae satis accipiunda sient, satis accipiantur; [6] reliqua quae sient, uti compareant. Si quid desit in annum, uti paretur; quae supersint, uti ueneant; quae opus sient locato, locentur; quae opera fieri uelit et quae locari uelit, uti imperet et ea scripta relinquat. Pecus consideret. [7] Auctionem uti faciat: uendat oleum, si pretium habeat; uinum, frumentum quod supersit, uendat; boues uetulos, armenta delicula, oues deliculas, lanam, pelles, plostrum uetus, ferramenta uetera, seruum senem, seruum morbosum, et si quid aliud supersit, uendat. Patrem familias uendacem, non emacem esse oportet.

 

[1] Quando il padrone di casa si reca alla fattoria, dopo aver reso omaggio al lare familiare, faccia il giro del fondo il giorno stesso, se è possibile, altrimenti il giorno successivo. Dopo aver verificato in che modo il terreno sia stato coltivato e quali lavori siano stati compiuti e quali siano stati omessi, il giorno successivo convochi il fattore e chieda quanto lavoro sia stato fatto, quanto ne rimanga, se i lavori siano stati effettuati in tempo, se possano essere portati a termine quelli che restano, e quale quantità si sia raccolta di vino, di grano e di tutti gli altri prodotti. [2] Una volta appurato tutto ciò, deve fare il conto degli operai e delle giornate lavorative. Se il conto del lavoro non gli torna e il fattore sostiene di aver lavorato onestamente per la sua parte, ma che alcuni servi hanno avuto problemi di salute, che il tempo è stato inclemente, che alcuni servi sono scappati, che egli ha dovuto lavorare per conto dello Stato, quando dunque il fattore avrà addotto questi e molti altri motivi a giustificazione, riportarlo al conto dei lavori e degli operai. [3] Nel caso di tempo piovoso, nei momenti di pioggia avrebbe potuto compiersi i seguenti lavori: lavare le botti, spalmarle con la pece, far la pulizia della fattoria, cambiare di posto il grano, portar fuori il letame e ammucchiarlo, mondare le sementi, riparare le corde e farne di nuove; inoltre, sarebbe stato necessario che i servi si aggiustassero le coperte e i mantelli a cappuccio. [4] Nei giorni festivi si sarebbe potuto ripulire le vecchie fosse, provvedere alla manutenzione della strada pubblica, tagliare gli sterpi, zappare l’orto, ripulire il prato, legare le ramaglie, roncare le spine, pestare il farro, far le pulizie generali; in caso di malattia dei servi, non si sarebbe dovuto dar loro porzioni tanto abbondanti. [5] Quando si sarà esaminato con animo sereno quali lavori restino da fare, bisogna farli effettuare; fare il conto del denaro liquido, del grano, di ciò che è stato preparato per il foraggio; fare il conto del vino e dell’olio, che cosa si sia venduto, che cosa si sia riscosso e che cosa ci sia ancora da riscuotere, che cosa ci sia da vendere; se ci sono garanzie affidabili da accettare, le si accettino; si mettano in evidenza le rimanenze. [6] Se manca alcunché per completare l’annata, lo si compri; ciò che avanza, lo si venda; i lavori che è bene dare a cottimo, vengano dati a cottimo; il padrone dia ordine – e lo ponga per iscritto –, quali lavori voglia che si effettuino direttamente e quali voglia che si diano a cottimo. Esamini il bestiame. [7] Faccia una vendita all’asta: venda l’olio, se ha buon prezzo sul mercato; venda il vino e il grano che abbia in eccedenza; venda i buoi vecchi, i capi di bestiame malandati, le pecore malandate, la lana, le pelli, i carri vecchi, gli attrezzi ormai logori, i servi anziani e quelli ammalati, tutto ciò che c’è di superfluo. Il padrone di casa deve essere sempre pronto a vendere, non comprare.

 

Villa romana. Mosaico, IV sec. d.C. Villa di Julius. Tunis, Musée du Bardo.

Nel definire i compiti del proprietario, Catone traccia il profilo ideale del pater familias secondo i canoni etici della tradizione arcaica: sue prerogative sono la pietas, la devozione religiosa che lo spinge appena giunto alla fattoria a rendere omaggio al lare familiare; l’industria, la sollecita operosità manifestata nel recarsi personalmente (possibilmente il giorno stesso del suo arrivo) a controllare lo stato delle coltivazioni e dei lavori nella proprietà. Con cognizione di causa, il pater familias, amministratore oculato dei propri beni, potrà quindi procedere a esaminare nei dettagli il resoconto presentatogli dal fattore. Ogni giornata lavorativa deve corrispondere a un utile in termini di rendimento e di produttività. Quando le condizioni atmosferiche non consentono il lavoro nei campi, la manodopera deve comunque essere impiegata in attività alternative; così come tutta una serie di lavori di manutenzione può essere destinata ai giorni festivi. Il padrone darà a cottimo i lavori che non è possibile o vantaggioso svolgere direttamente; comprerà lo stretto necessario, venderà al miglior offerente i prodotti in eccedenza, nonché l’attrezzatura, il bestiame e i servi (che hanno statuto giuridico di res) malandati.

Pietas, industria e parsimonia appartengono al modello etico della società agraria arcaica, ma qui il pater familias non è più il padrone del piccolo podere che lavora con le proprie mani (come il dittatore Cincinnato, che abbandonò l’aratro per servire la res publica e all’aratro tornò dopo la guerra), ma un latifondista, un imprenditore a capo di un’efficiente azienda agricola. Il mos maiorum che Catone strenuamente difende mostra già evidenti segni di anacronismo rispetto alla realtà della società romana del suo tempo.

Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.

Nell’elencare i doveri della fattoressa, moglie del contadino, Catone tratteggia l’ideale della matrona pudica e pia, riservata e parsimoniosa, completamente dedita al lavoro e alla cura della casa. Agr. 143 è un documento interessante sulla condizione femminile nell’antica Roma, che ci presenta l’immagine della donna arcaica e tradizionale, radicata nel mos maiorum e nella mentalità contadina della civiltà romana.

 

[1] Vilicae quae sunt officia curato faciat; si eam tibi dederit dominus uxorem, esto contentus; ea te metuat facito; ne nimium luxuriosa siet; vicinas aliasque mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat; ad coenam ne quo eat neve ambulatrix siet; rem divinam ni faciat neve mandet qui pro ea faciat iniussu domini aut dominae: scito dominum pro tota familia rem divinam facere. [2] Munda siet: villam conversam mundeque habeat; focum purum circumversum cotidie, priusquam cubitum eat, habeat. Kal., Idibus, Nonis, festus dies cum erit, coronam in focum indat, per eosdemque dies lari familiari pro copia supplicet. Cibum tibi et familiae curet uti coctum habeat. Gallinas multas et ova uti habeat. Pira arida, sorba, ficos, uvas passas, sorba in sapa et piras et uvas in doliis et mala struthea, uvas in vinaciis et in urceis in terra obrutas et nuces Praenestinas recentes in urceo in terra obrutas habeat. Mala Scantiana in doliis et alia quae condi solent et silvatica, haec omnia quotannis diligenter uti condita habeat. Farinam bonam et far suptile sciat facere.

 

[1] Cura che la fattoressa attenda ai suoi doveri; se il padrone te l’ha data in moglie, sii contento di lei; fa’ sì che ella ti rispetti. Non sia troppo amante del lusso. Frequenti il meno possibile le vicine o altre donne e non le riceva in casa né presso di è; non vada a pranzo fuori da nessuna parte, non sia bighellona. Non faccia sacrifici agli dèi e non incarichi nessuno di farne in sua vece senz’ordine del padrone o della padrona; ricordi che i sacrifici, li fa il padrone a nome di tutti i suoi. [2] Sia pulita; tenga la fattoria ben spazzata e linda; tenga il focolare ben pulito spazzandolo tutto all’intorno ogni giorno prima di andare a dormire. Alle Calende, alle Idi, alle None, inoltre, nei giorni di festa collochi una corona sul focolare e negli stessi giorni faccia un’offerta al lare familiare, in proporzione alle disponibilità. Abbia cura di tener sempre pronto il cibo per te e per tutti i servi della casa. [3] Abbia molte galline e abbondanza di uova; abbia in dispensa pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe sotto sapa, pere, grappoli d’uva in giara, piccole cotogne, grappoli d’uva conservati in vinaccia e in orci, interrati, e noci prenestine fresche conservate in vaso, interrate; abbia, infine, diligentemente in provvista ogni anno mele scanziane in dogli e altre specie di mele adatte alla conservazione e anche specie selvatiche. Sappia preparare farina buona e semola fine.

Dea Madre con i frutti nella piega della veste. Statua, II sec. da Alesia. Alise-Sainte-Reine, Musée Alesia.

La virtù fondamentale della donna sposata era la pudicitia, a Roma divinizzata e resa oggetto del culto matronale: all’altare della dea Pudicitia in origine potevano accostarsi esclusivamente le univirae, «le matrone di specchiata castità e unite al primo e unico marito» (nulla nisi spectatae pudicitiae matrona et quae uni uiro nupta fuisset ius sacrificandi habebat, Liv. X 23, 9); un ideale di fedeltà sentita come vincolo oltre la morte. La matrona doveva essere pia (rispettosa dei propri doveri verso la famiglia e verso i suoi culti religiosi), domiseda (restava, cioè, a guardia della casa, affidata alle sue cure di economa parsimoniosa, senza andare in giro per feste e banchetti), lanifica (dedita alle opere del telaio: confezionava personalmente le vesti per sé e per gli altri membri della famiglia), votata a uno stile di vita semplice e sobrio, secondo quell’ideale di frugalitas che caratterizzava la società agraria arcaica in opposizione al lusso del modello urbano, già ampiamente diffuso ai tempi di Catone.

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Scienza e tecnica nella prima età imperiale

di G.B. CONTE, Erudizione e discipline tecniche, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 324-330.

Alla scienza, nell’antichità, non era attribuito un valore autonomo. Infatti, era considerata un momento dell’indagine filosofica. La ricerca scientifica era un mero supporto alla visione generale del mondo prospettata dal filosofo e lo studio della natura serviva per liberare l’uomo da paure e superstizioni, come dimostrano le Naturales quaestiones di Seneca, un’opera nella quale la connessione stretta tra scienza e filosofia è particolarmente evidente. A maggior ragione non godeva di grande apprezzamento la ricerca tecnologica, in quanto sia la scienza applicata sia tutto ciò che aveva attinenza con il lavoro manuale era di competenza delle classi subalterne, dei «meccanici», che non potevano aspirare in alcun modo a raggiungere il prestigio riservato ai ceti dominanti.

Tuttavia, nella letteratura latina esiste una solida, ancorché esigua, tradizione di opere scientifiche, concepite con intento didascalico, in forma enciclopedica e rivolte a un pubblico di media cultura. Lo scopo di questi manuali era quello di fornire un’informazione il più possibile ampia, puntuale, precisa su tutti gli argomenti che il buon pater familias avrebbe dovuto conoscere. In generale, il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che – sul modello di quella filosofica di Aristotele – rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a che una vera e propria prosa scientifica non si formasse, contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico, cui aveva già fatto ricorso, per esempio, Lucrezio.

Saturnia Tellus. Bassorilievo, marmo, 9 a.C., dall’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Tra il 27 e il 23 a.C. Marco Vitruvio Pollione, che era stato ufficiale del genio sotto Cesare e addetto alla costruzione di macchine da guerra e che in tempo di pace aveva svolto la professione di architetto (egli stesso ricorda di aver progettato e costruito la basilica nel foro di Fano), pubblicò un trattato De architectura in dieci libri, dedicato ad Augusto, il quale gli aveva garantito una pensione, permettendogli così di mettere a frutto la sua cultura e la sua esperienza tecnica, componendo l’opera con cui voleva guadagnarsi la fama presso i posteri. Probabilmente non a caso il trattato comparve negli stessi anni in cui il princeps si era proposto un vasto programma di rinnovamento dell’edilizia pubblica sia a Roma sia nel resto dell’impero. Il I libro tratta dei luoghi adatti alle costruzioni, il II dei materiali da impiegare, il III e il IV degli edifici sacri, il V degli edifici amministrativi e pubblici in genere, il VI e il VII delle abitazioni private, l’VIII dell’idraulica, il IX degli orologi solari e il X di meccanica (cioè della costruzione di gru, ordigni idraulici e bellici). La tradizione ha privato, però, l’opera di Vitruvio dei disegni che – per sua stessa dichiarazione – la corredavano.

Nella concezione dell’autore, l’architettura era vista, in senso quasi aristotelico, come imitazione dell’ordine provvidenziale della natura. Perciò, Vitruvio richiedeva al suo architetto ideale il possesso di una cultura ricca e varia, quasi del tipo di quella che già Cicerone esigeva per l’oratore (il paragone non è peregrino, perché il modello del De oratore è effettivamente presente al pensiero vitruviano). Specialmente nei proemi, di grande interesse per la comprensione dello statuto delle discipline tecniche a Roma, Vitruvio insisteva sul fatto che l’architetto non dovesse essere solo uno specialista, ma doveva possedere una vasta cultura generale: la conoscenza dell’acustica era richiesta per la costruzione dei teatri, quella dell’ottica per l’illuminazione degli edifici, quella della medicina per l’igiene delle aree edificabili. Ma la preparazione enciclopedica che Vitruvio auspicava per l’architetto ideale, che gli avrebbe consentito di risolvere brillantemente qualsivoglia problema tecnico, faceva perno sostanzialmente sulla filosofia. Appare evidente, dai proemi di Vitruvio, l’esigenza di conferire all’architetto il prestigio sociale e culturale che gli antichi di solito negavano ai rappresentanti delle discipline tecniche e la giustificazione dell’architettura di fronte al pubblico è ricercata attraverso una connessione costante alla filosofia, che si risolve, però, in una subordinazione (almeno sul piano programmatico). L’ossequio alla filosofia, che Vitruvio proclama nei proemi, incide, in realtà, piuttosto scarsamente sulla trattazione vera e propria, dove la concreta esperienza dell’architetto è ovviamente predominante. La differenza tra le parti proemiali e quelle didascaliche dell’opera vitruviana si rispecchia anche nello stile: le prime fanno uso piuttosto abbondante di ornamenti retorici, mentre nelle seconde il periodare è asciutto e disadorno, e la lingua non si perita ad ammettere volgarismi e tecnicismi di origine greca.

Giacomo Grigolli, Ritratto di Vitruvio. Busto, marmo, 1878. Verona, Protomoteca della Biblioteca Civica.

Un diverso modo di conferire dignità alle discipline tecniche era quello di collocarle all’interno di una complessiva enciclopedia dedicata alle artes, come aveva fatto Varrone nei suoi Disciplinarum libri IX. Fu la strada scelta da Aulo Cornelio Celso, vissuto in età tiberiana, il quale fu autore di un vasto manuale enciclopedico, che trattava di ben sei artes: agronomia, medicina, arte militare, retorica, filosofia e giurisprudenza. Dell’opera sopravvivono solo gli otto libri relativi alla medicina (i libri VI-XIII dell’opera completa). La trattazione di Celso è estremamente chiara ed efficace, tanto da aver fatto supporre ad autorevoli studiosi della medicina antica che egli fosse un medico di professione; la questione, molto dibattuta, non ha ancora trovato una soluzione: Celso si serve sicuramente di fonti greche, ma la sua disquisizione presenta molte caratteristiche tipicamente romane, che inducono a credere che egli non fosse un semplice compilatore.

Rivelando notevoli doti di equilibrio e di spirito critico, l’autore evita infatti di addentrarsi nelle controversie dogmatiche delle scuole mediche greche e cerca di mantenere una posizione equidistante fra quelli che, utilizzando categorie moderne, si potrebbero definire «empiristi» e «razionalisti»: si trattava dei due opposti indirizzi che ancora al suo tempo si affrontavano alacremente, gli uni volti a indagare le «cause occulte» delle malattie e quindi propensi all’anatomia e alla vivisezione, gli altri limitantisi alla considerazione delle cause evidenti, sotto la guida dell’esperienza, e rivolti a curare più che a comprendere. Le doti di sobrietà e di equilibrio, unitamente a quelle, molto notevoli, dello stile (Quintiliano, in seguito, avrebbe giudicato Celso scrittore di discreta eleganza, e la tradizione umanistica lo avrebbe collocato fra i migliori prosatori latini) hanno contribuito a fare, nei secoli, la fortuna dei De medicina.

Medico che visita un giovane paziente. Rilievo, marmo. Getty Museum.

Di poco posteriore a Celso fu un altro scrittore, Scribonio Largo, il quale si occupò, a differenza di lui, esclusivamente di medicina. Si sa che visse al tempo di Claudio. Di lui rimane solo un libro di ricette (Compositiones), scritto senza pretese letterarie, unicamente per fini pratici. Invece, sotto il nome di Antonio Musa, medico di Augusto e di Orazio, rimane uno scritto intitolato De herba vettonica (ma si tratta di un’opera di età più tarda).

Fra le discipline tecnico-scientifiche, l’agronomia occupava una posizione di privilegio: data la tradizione di proprietari terrieri degli aristocratici romani, membri illustri della classe senatoria, come Catone e Varrone, non avevano disdegnato di scrivere di questo argomento. D’altra parte, infatti, quello romano era un popolo originariamente agricolo e la terra aveva da sempre rappresentato un elemento di sicurezza economica per chi l’avesse posseduta, garantendo profitti più elevati e ritenuti più sicuri rispetto a quelli derivanti da altre attività.

Un trattato ancora più impegnativo (De re rustica) fu pubblicato da Lucio Giunio Moderato Columella, contemporaneo di Seneca e originario di Gades in Hispania. Poco si sa, tuttavia, del suo ambiente sociale di provenienza, ma un’iscrizione di Taranto (CIL IX, 235 = ILS 2923 = AE 2000, 357) lo presenta come tribuno della legio VI Ferrata, di stanza in Syria: il tribunato nelle legioni costituiva spesso per l’aristocrazia provinciale il modo migliore di iniziare la carriera militare, politica o civile al di fuori della propria patria. Preso domicilio a Roma, o nei dintorni, Columella si dedicò prevalentemente alla pratica e allo studio dell’agricoltura.

Contadino intento alla mietitura. Bassorilievo, marmo, da Buzenol (Belgio).

Il suo trattato, dunque, ebbe due redazioni: della prima rimane solo il libro De arboribus, mentre si possiede interamente la seconda, molto più vasta, in dodici libri. Columella tratta successivamente della coltivazione dei campi, degli alberi, della vite, dell’allevamento degli animali di grossa taglia e di quelli da cortile, dell’allevamento delle api, della coltivazione degli orti e del mantenimento dei giardini, dei doveri del fattore e della fattoressa. Il libro X (De cultu hortorum) è in esametri: ciò rappresenta un omaggio dell’autore alla tradizione delle Georgiche virgiliane, e insieme il tentativo di colmare un vuoto lasciato consapevolmente da Virgilio che, nel VI libro del suo poema didascalico, dopo aver accennato brevemente ai giardini, lamentando la mancanza di spazio, aveva lasciato ad altri il compito di trattarne in maniera più accurata.

Columella scrive in una prosa limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono di fattura discreta; le fonti sono quelle consuete: gli scrittori di agricoltura greci e latini, da Senofonte a Catone e a Varrone, mentre è spesso presente, anche nelle parti in prosa, il ricordo di Virgilio. Ma predominante è l’esperienza personale dell’autore. L’opera di Columella si apre con il riconoscimento di una vasta crisi dell’agricoltura italica, le cui cause sono da ricercarsi nel disinteresse dei proprietari, nell’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, nella mancanza di una seria preparazione scientifica in materia. Ciò ha determinato una deficienza ormai strutturale dell’agricoltura in Italia, portando alla supremazia di alcune province nell’esportazione di prodotti d’eccellenza, come vino e olio.

Mercato ortofrutticolo e seminatura dei campi. Rilievo, dal Belgio. Luxembourg, Musée Luxembourgeois

Nelle pagine introduttive, l’autore critica il fatto che non vi siano scuole e maestri per agricoltori, a differenza di quanto avviene per le altre arti e professioni, pur essendo l’agricoltura la più bella e la più nobile delle attività. Ma la formazione dell’agricoltore perfetto pare un compito impossibile, tanto vaste e varie sono le competenze necessarie. A soluzione del problema, Columella sembra affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica quale quella che Cicerone aveva prospettato per l’oratore (non a caso i trattati ciceroniani sono frequentemente richiamati da Columella) o quella che Vitruvio richiedeva per il suo architetto. Il diffondersi, nelle varie discipline, di questo ideale enciclopedico è prova della persistente necessità della loro subordinazione alla filosofia, che sembra la via obbligata attraverso la quale esse devono passare per acquisire dignità e, paradossalmente, statuto autonomo.

Il richiamo, frequente nelle pagine di Columella, alle figure idealizzate degli antichi proprietari terrieri, che dividevano la propria vita fra la cura dei campi e l’attività politica, può far credere che la preferenza dell’autore vada al piccolo podere, il cui proprietario possa facilmente e direttamente controllare; una conferma di ciò sembrerebbe potersi trovare nella frequente critica all’assenteismo dei proprietari latifondisti. In realtà, anche se Columella non dà indicazioni esplicite sulle dimensioni del suo podere ideale, dal complesso dell’opera si evince che i suoi precetti sono per la massima parte rivolti a proprietà di grande estensione. Ciò risulta chiaro, per esempio, dalla sezione I 6 dedicata all’estensione della villa e delle sue parti, in cui vengono descritti sia i locali destinati ai servi e alla lavorazione e alla conversazione dei prodotti, sia quelli, rigorosamente distinti, destinati alla residenza del proprietario; a tal proposito viene elencata tutta una serie di commoda che avrebbe fatto gridare allo scandalo i Romani di antico stampo, di cui pure Columella tesse l’elogio. Il richiamo alla prisca moralità non è, probabilmente, solo di maniera: una contraddizione non dissimile da quella che si riscontra in Columella affiorava, forse con maggiore consapevolezza da parte dell’autore, anche in Vitruvio, che, mentre continuava a privilegiare l’antico modello del cittadino parsimonioso, forniva indicazioni per la costruzione delle sontuose dimore dei ricchi romani. Columella si rivela realisticamente consapevole del fatto che per richiamare in campagna i proprietari inurbati – il mezzo migliore di incrementare la produzione era, infatti, individuato nel sottoporla alla sorveglianza diretta del dominus, che avrebbe dovuto effettuare frequenti soggiorni nei propri poderi – non sarebbe bastata l’esortazione moralistica, ma sarebbe stato più opportuno provvedere le villae agricole di tutte le comodità offerte da un palazzo cittadino.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Columella era fautore di una tendenza che proponeva la massima intensificazione e realizzazione dell’attività agricola, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda; perciò, sincera appare, nell’opera, una certa ostilità verso il latifondo, abbandonato e trascurato dai ricchi proprietari, e sempre più improduttivo. Al contrario, si rivelano acute le sue proposte di organizzazione del lavoro dei servi, sottoposti al ferreo controllo che avrebbe dovuto essere esercitato dal villicus. Tuttavia, il rimedio proposto dall’autore era largamente utopistico: più realisticamente Plinio il Vecchio si sarebbe reso conto del fatto che, finché fosse perdurato il predominio della manodopera servile, sarebbe stata impossibile ogni effettiva razionalizzazione della produzione agricola; i servi, privi d’iniziativa e disinteressati al lavoro, non avrebbero mai lavorato al massimo delle proprie energie.

Si capisce come, nel momento in cui il dominio di Roma andava estendendosi fino ad abbracciare gran parte del mondo conosciuto, e anche terre fino ad allora ignote, la geografia acquistasse sempre più importanza, sia per fini pratici sia per intenti celebrativi: infatti, proprio a partire dall’età augustea, si assiste a un fiorire di testi assai vasti, complessi, quasi monumentali, che trattavano degli argomenti più disparati, offrendo una vera e propria sintesi del sapere dell’epoca. Il benessere diffuso, inoltre, consentiva a intellettuali, eruditi e tecnici di attendere ai propri interessi culturali e scientifici, con l’assenso del princeps cui le opere erano dedicate. Dal canto suo, l’imperatore vedeva nella letteratura tecnico-scientifica un ulteriore strumento di propaganda del buon governo. Quanto alla geografia, se ne era già occupato Varrone, il quale vi aveva dedicato pure opere specifiche, come fa pensare, per esempio, il titolo De ora maritima citato da Servio. Dai pochi frammenti che si conservano è possibile supporre che nei libri di geografia Varrone fondesse il taglio erudito e antiquario, a lui consueto, con l’attenzione ad aspetti più pratici, come, per esempio, le distanze fra i vari luoghi.

Anche di Cornelio Nepote sono tramandate notizie di carattere geografico, ma della sua opera in questo ambito, si sa molto poco.

M. Vipsanio Agrippa. Testa, bronzo, fine I sec. a.C.

Si occupò della materia uno dei personaggi politici più importanti dell’età augustea, Marco Vipsanio Agrippa, nientemeno che comandante supremo dell’esercito di Ottaviano, suo genero (ne sposò la figlia Giulia) e suo coetaneo (essendo nato, come lui, nel 63 a.C.). Agrippa, mosso certamente anche da finalità egemoniche, compose una gigantesca carta geografica del mondo allora conosciuto. Questa carta era accompagnata da commentarii – non è chiaro se fossero pubblicati a parte o anche riportati in calce alla carta stessa – i quali fornivano dati sull’estensione dei diversi territori, sulle distanze tra i luoghi, ecc. Quando, nel 12 a.C., Agrippa scomparve, Augusto in persona si premurò che l’opera del genero fosse portata a compimento e sistemata in una porticus, appositamente costruita nel Campo Marzio. Plinio il Vecchio, nella sezione della Naturalis historia dedicata alla geografia (altra testimonianza di quanto fosse importante questa scienza), cita con sommo rispetto Varrone e Agrippa.

Una generazione prima di Plinio, sotto il principato di Caligola o di Claudio, si colloca il primo autore latino che si possa definire, per quel che si sa, un geografo “puro”, e la cui opera sia interamente pervenuta. Si tratta di Pomponio Mela, spagnolo di Tingentera, del quale si possiede una Chorogràphia («Descrizione dei luoghi») in tre libri.

Rimini sulla Tabula Peutingeriana, esemplare del XII-XIII secolo di una carta delle principali vie dell’Impero romano.

Nella premessa alla sua Chorogràphia l’autore si lamenta che gli argomenti di cui si accinge a parlare non lascino spazio a uno stile elevato e al dispiegarsi dell’eloquenza. Questo «complesso d’inferiorità» sembra comune a molta parte della prosa tecnica latina, la quale si caratterizza proprio per la ricerca costante di uno stile più alto e spesso ricco di arcaismi, in contrasto con la prosaicità del contenuto. Lo stile di Mela, per esempio, si ispira principalmente a quello di Sallustio, e abbonda in arcaismi e ricercatezze linguistiche.

Sul piano contenutistico, la Chorogràphia descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo, che segue in senso antiorario partendo dalle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), dove fa ritorno alla fine della descrizione.

L’autore non sembra affatto interessato agli aspetti più specificamente “tecnici” della sua disciplina: in lui, infatti, mancano cifre e dati, nonostante si riveli ottimo conoscitore delle fonti greche e latine. Mela è mosso piuttosto da interessi etnografici, e la sua facundia si dispiega soprattutto quando si trova a parlare di regioni lontane o poco conosciute; in quel caso, si lascia anche spesso trasportare dal gusto per i dettagli fiabeschi e meravigliosi.

Justus Perthes, Orbis Terrarum secundum Pomponium Melam, in W.H. Schoff, The Periplus of the Erythraean Sea. Travel and Trade in the Indian Ocean, London-Bombay-Calcutta 1912, p. 100

A Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Tiberio, i manoscritti assegnano un corpus di ricette culinarie diviso in dieci libri – in realtà, formatosi con l’apporto di varie stratificazioni successive al IV secolo – che prende il titolo di De re coquinaria. Il nucleo apiciano di questa raccolta, derivato probabilmente, a sua volta, da due diverse opere (una sulle salse e una sull’elaborazione completa di alcuni piatti) non è facilmente ricavabile dalla massa composita di ricette che è pervenuta, dovuta a un maldestro compilatore tardoantico che dimostra di conoscere assai poco la terminologia tecnica e, in generale, la materia culinaria.

Alla base del De re coquinaria stanno opere di carattere medico (spesso, infatti, le ricette sono fornite in funzione delle loro proprietà dietetiche o come medicinali per disfunzioni dell’apparato digerente) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di qualsiasi eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità in una lingua spesso pedestre; ma dietro questa totale semplicità si scorge pur sempre l’attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti, la cui punta estrema può essere riassunta con la stessa paradossale conclusione dell’autore: «A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia».

Gatto che azzanna un anatra. Uccelli, pesci e conchiglie. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il lupo e l’agnello: la sopraffazione del più forte (Phaedr. I 1)

da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 42-44.

Quella che segue è la più famosa favola di Fedro e il più noto apologo teriomorfo della letteratura occidentale. Si tratta di uno dei testi che meglio riassume il messaggio complessivo dell’autore ed esemplifica la legge del più forte. La favola apre, quasi programmaticamente, la raccolta: nel dialogo concitato di cui si compone, si fronteggiano la logica della forza e quella della verità, personificate rispettivamente dal lupo e dall’agnello. Lo scontro è impari. E dopo un momento di disorientamento del lupo, che sembra accusare il colpo infertogli dall’evidenza del vero (repulsus… ueritatis uiribus, v. 9), la ragione del più forte ha il sopravvento sulle patetiche argomentazioni della verità, in violazione di ogni diritto (iniusta nece, v. 13). Insomma, l’apologo mostra che ogni tentativo di ricorrere alla giustizia è vano contro i prepotenti: l’innocenza non tutela il mite, se il prepotente vuole nuocergli.

Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, KB, KA 16, fol. 62r. Il lupo e l’agnello.

 

Ad riuum eundem lupus et agnus uenerant

siti conpulsi; superior stabat lupus

longeque inferior agnus. Tunc fauce improba

latro incitatus iurgii causam intulit.

«Cur», inquit, «turbulentam fecisti mihi

aquam bibenti?» Laniger contra timens:

«Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?

A te decurrit ad meos haustus liquor».

Repulsus ille ueritatis uiribus:

«Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi».

Respondit agnus: «Equidem natus non eram».

«Pater hercle tuus» ille inquit «male dixit mihi»;

atque ita correptum lacerat iniusta nece.

Haec propter illos scripta est homines fabula,

Qui fictis causis innocentes opprimunt.

 

Erano giunti a uno stesso ruscello un lupo e un agnello,

sferzati dalla sete; più a monte stava il lupo

e a valle, basso basso l’agnello. Allora, spinto da una fame

insaziabile, il ladrone mise innanzi un pretesto di lite.

«Perché», disse, «mentre bevevo, mi intorbidasti

l’acqua?». E il lanigero, di contro, sbigottito:

«Scusami, o lupo, come posso fare ciò che lamenti?

Da te l’acqua scorre ai miei sorsi».

Contrariato dall’energia della verità, quello fece:

«Sei mesi fa parlasti male di me».

Rispose l’agnello: «Veramente, non ero ancora nato».

«Beh, per Ercole, tuo padre sparlò alle mie spalle»;

e così, abbrancatolo, lo fece a pezzi iniquamente.

Questa è una favola scritta per quegli uomini,

che vessano gli innocenti con falsi pretesti.

 

Come accade quasi sempre nella favola esopica, i protagonisti del racconto sono animali che rappresentano, sotto il velo dell’allegoria, vizi e virtù umane. Il lupo e l’agnello, per esempio, simboleggiano rispettivamente l’uomo forte e prepotente e l’uomo debole, mite e indifeso. L’ambientazione del racconto è scarna, quasi inesistente: nessuna descrizione e nessun aggettivo caratterizzano il riuus presso il quale si svolge l’azione.

Fedro persegue la breuitas dello stile, con la quale fa risaltare le lapidarie sententiae dei personaggi. La sintassi è molto semplice, ma il lessico è usato con estrema attenzione: nella favola si possono rintracciare termini afferenti al campo semantico della giustizia e del diritto, usati in forma “negativa” (improba, latro, causam, iniusta). Si osservi, inoltre, la funzione metaforica dell’antitesi tra gli aggettivi superior e inferior: la posizione dei due contendenti rispetto al ruscello, infatti, rispecchia i rapporti di forza esistenti tra i due. L’allitterazione che lega gli appellativi con i quali il lupo e l’agnello sono definiti (latro-laniger) mette in evidenza la contrapposizione la violenza dell’uno e l’innocenza dell’altro.

Il lupo fa un uso prevaricatorio della parola, che diviene strumento di distorsione della realtà prima ancora che un’esplicita intimidazione; mentre l’agnello protesta con cauta cortesia le proprie valide giustificazioni (quaeso, equidem).

T. Claudio Nerone Giulio Cesare Augusto. Asse, Bilbilis, 31 d.C. Æ 13,18 g. R. Mun(icipium) Augusta Bilbilis Ti. Cesare v(el) L. Aelio Seiano intorno a co(n)s(ulibus) racchiuso in una corona d’alloro.

Fin dall’antichità, alcuni commentatori hanno ritenuto che nel personaggio del lupo Fedro intendesse raffigurare Seiano. Allo stesso modo, anche in altre fabulae sono stati individuati riferimenti, difficilmente dimostrabili, a personaggi e avvenimenti della prima età imperiale: ancora a Tiberio e a Seiano sarebbero riconducibili rispettivamente il travicello e il serpente della favola I 2, così come l’aquila e la cornacchia che le suggerisce il modo di uccidere la tartaruga nella favola II 6. Oggi gli studiosi reputano improbabile che Fedro potesse permettersi delle allusioni così scoperte, se si pensa che l’età di Tiberio fu un periodo di processi per lesa maestà, un’epoca in cui anche solo suscitare sospetti di voler contestare il potere imperiale era pericoloso.

Perciò, gli studiosi si sono chiesti se davvero la persecuzione di Seiano nei confronti di Fedro fosse da imputare a un reato d’opinione: il processo di cui il poeta parla potrebbe essergli stato intentato per un reato comune, cosa che spiegherebbe come mai la sorte dell’autore non si sia risollevata dopo la caduta del regime di Seiano. D’altra parte, la breuitas del libro II delle Fabulae rispetto agli altri ha fatto pensare che alcuni suoi testi siano stati tolti perché censurati.

Il tema della persecuzione subita in prima persona e dell’impossibilità di difendersi è, in ogni caso, molto presente nell’opera di Fedro.

 

Le favole di Fedro

in Piazzi F., Giordano Rampioni A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 300-304.

L’autore e le opere.

Di Fedro si conosce solo ciò di cui lui stesso informa nel proemio del libro III della sua raccolta di Fabulae in versi. Il disinteresse per questo genere “minore”, poco considerato in quanto espressione dello spirito realistico e popolare, non contribuì alla notorietà dell’autore. Neppure il nome è certo, nei manoscritti ora è Phaeder ora Phaedrus. Nato intorno al 15 a.C. in Thracia (o in Macedonia), forse fatto prigioniero da giovane, fu a Roma come schiavo e poi liberto di Augusto. Nella capitale ricevette un’istruzione letteraria, dal momento che egli stesso racconta di aver frequentato una scuola e di avervi studiato Ennio. Attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio, Fedro subì un processo intentatogli da Seiano, il potente ministro di Tiberio, forse offeso da allusioni colte in alcune favole, sebbene il poeta avesse protestato la propria innocenza: «Io non ce l’ho con questo o quell’altro, ma descrivo la vita e i costumi». A seguito della condanna, egli patì umiliazioni e povertà; cercò protettori potenti, ma invano, se, ormai vecchio, fu costretto a sollecitare un estremo aiuto per sopravvivere: «Finché di questa età declinante resta ancora qualcosa, c’è spazio per un tuo aiuto. Più tardi, consumato dalla vecchiaia, la tua generosità non servirà più, quando il bene che mi farai non potrà più essere utile e la morte reclamerà il suo tributo» (III, epil. 15-19).

 

Uomo che foraggia un asino. Mosaico, VI secolo, dal Palatium Magnum (Costantinopoli). Istanbul, Museo dei Mosaici del Palazzo.

 

Fedro scomparve verosimilmente sotto il principato di Claudio. È probabile che le circostanze della vita, in particolare il processo, ne abbiano influenzato l’arte: infatti, «il punto di partenza è nel sapore personale che la favola di Fedro indubbiamente ha: l’autore preme nell’interpretazione del racconto con i suoi sentimenti e le sue situazioni, si direbbe che fatica a non scoprirsi»[1].

I cinque libri di favole in senari giambici (come i dialoghi delle commedie) rappresentano la raccolta più antica di favole “esopiche” pervenuta. Pur dichiarando di dipendere da Esopo, Fedro attinse anche da sillogi di apologhi di età ellenistica. Il I e il II libro, in particolare, furono pubblicati sicuramente prima del 31 a.C., mentre gli altri tre furono composti negli ultimi anni del principato tiberiano e in parte, forse, sotto Claudio. Dell’opera restano novantatré favole tramandate da codici medievali, più una trentina scoperta dall’umanista Niccolò Perotti, dette fabulae novae (Appendix Perottina, pubblicata in coda alle edizioni di Fedro solo agli inizi dell’Ottocento). Delle favole si conservano anche numerose parafrasi in prosa, in particolare nella raccolta Romulus o Aesopus Latinus (IV-V secolo), popolarissima, durante il Medioevo: si tratta di una silloge introdotta da due false lettere, una attribuita a Esopo e l’altra a un certo Romolo, che la indirizza al figlio, affermando di aver tradotto quelle favole dal greco.

Leone. Mosaico, II-III sec. d.C. da St.-Colombe. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

Secondo una tradizione antica, infatti, il πρώτος εὑρετής, cioè il «primo inventore» del genere sarebbe stato il quasi mitico Esopo, schiavo frigio o tracio vissuto nel VI secolo a.C., dall’aspetto deforme, gobbo, balbuziente. La raccolta pervenuta sotto il suo nome comprende circa quattrocento testi, consistenti in brevi narrazioni con personaggi tratti dal mondo animale, provviste di una «morale» normalmente introdotta dalla formula: ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι… («Il racconto dimostra che…»).

A Esopo furono attribuiti anche molti racconti che correvano senza nome. Il genere favolistico fu praticato anche da Esiodo (per esempio, l’apologo dello sparviero e dell’usignolo nelle Opere e i giorni) e da Archiloco; il filosofo peripatetico Demetrio Falereo (IV-III sec. a.C.) sarebbe stato probabilmente l’autore di una prima rielaborazione del corpus esopico.

Nella letteratura latina spunti favolistici si colgono nelle commedie plautine, nelle Saturae di Ennio (l’allodola e i pulcini, Gell. II 29), in quelle di Lucilio (la volpe e il leone malato) e in quelle di Orazio (il topo di città e il topo di campagna, II 6, 79 ss.). In particolare, Orazio ricorda la diffusione di aniles… fabellas (le «favole della nonna») raccontate ai bambini.

Quello della fabula è un genere umile e antiepico, consistente in un breve racconto i cui protagonisti sono per lo più animali, che incarnano tipi fissi umani come le maschere della commedia (il lupo ingordo, la volpe furba, l’asino sottomesso, ecc.). Nel mondo antico la favola non aveva una collocazione letteraria, sebbene la narrativa popolare avesse radici molto remote già nelle civiltà orientali e in Egitto. Lo stesso termine fabula era generico e comune a ogni forma di finzione, incluse le rappresentazioni sceniche (leggenda, romanzo, commedia, tragedia, ecc.). Dal punto di vista testuale, comunque, la favola era essenzialmente una breve narrazione. Oggi, invece, fabula è un termine tecnico della critica letteraria e della narratologia, che designa la successione cronologica degli avvenimenti di una trama, indipendentemente dall’intreccio in cui li ha disposti l’autore.

Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V... curante Petro Burmanno, Leiden, 1745
Incisione dal Phaedri, Aug. Liberti, Fabularum Aesopiarum libri V… curante Petro Burmanno, Leiden, 1745.

 

I contenuti delle fabulae.

Nei testi di Fedro il carattere popolare è particolarmente evidente negli spunti umoristici, nell’ambientazione, nell’ideologia rassegnata espressa nella «morale», che, posta in apertura (promythion) o in chiusura (epimythion) della composizione, fornisce la chiave autoriale di lettura. Come si ricava dai prologhi che precedono ciascun libro, le finalità della fabula sono le stesse del genere satirico d’impronta oraziana: l’intrattenimento (risum movere) e l’educazione morale del lettore (prudenti vitam consilio monere). Riguardo a quest’ultima finalità, le virtù elogiate sono quelle necessarie ai ceti umili per la loro sopravvivenza: l’astuzia che compensi la debolezza e soprattutto la rassegnata capacità di piegarsi alla legge del più forte, considerata immutabile: «Quando i potenti litigano, ci rimettono sempre i poveracci» (I 30, 1); «Quando cambia il regime, per i poveri non cambia nulla, solo il nome del padrone (nomen domini)» (I 15, 1). Com’è detto nell’apologo delle rane (I 2), cercare un re migliore porta a ritrovarsi un governo peggiore del precedente. Per i poveracci non c’è riscatto, neppure dopo la morte: «Chi è nato disgraziato non solo passa la vita nella sventura, ma anche dopo la morte è perseguitato dalla triste sorte» (IV 1).

L’acquiescenza nei confronti dell’assetto sociale esistente tocca il culmine nella celebre favola del lupo e dell’agnello, che insegna come il più forte trovi sempre il modo di legalizzare la propria posizione di vantaggio.

Tigre che assale un vitello. Pannello, opus sectile, IV sec. d.C. dalla Basilica di Giunio Basso. Roma, Musei Capitolini.

 

Il fatto che anche l’autore sia un umile, un «diverso», impone precauzioni per non urtare la suscettibilità dei ceti dominanti. Di qui il ricorso al procedimento allegorico, per cui vizi tipicamente umani sono rappresentati da una colorita galleria di animali usati come «maschere», come «tipi» con tratti psicologici fissi e ricorrenti (il leone prepotente, il lupo cattivo e sleale, la volpe furba, l’agnello timido, ecc.). Il travestimento di derivazione esopica consentiva di esprimere verità poco gradite ai potenti in una sceneggiatura straniata, al riparo da facili ritorsioni (ma così non fu per Fedro): «Egli [Esopo] adombrò nelle favole i propri sensi, ed eluse / ogni ragione di critica con scherzose finzioni. / Di quel viottolo io ne ho fatto una strada, ne ho, di favole, immaginate di più nuove, di quelle che egli ha lasciate, / scelte che si confacessero, certune, al triste mio caso» (III prol. 36-44).

La componente proiettiva, evidenziata da La Penna, è ribadita in queste ultime parole. Le favole, sebbene propongano in forma decontestualizzata un caso esemplare, di valore universale («Il mio intento è mostrare la vita e i costumi della gente», 43), adombrano la triste esperienza personale dell’autore e dei diseredati come lui. Di qui il tono amaro e risentito, diverso da quello sereno e distaccato dagli apologhi esopici.

È da notare che il pessimismo del vinto, l’atteggiamento rinunciatario, l’acquiescenza e il fatalismo nei confronti del potere in Fedro derivavano, certo, dalle sue umili origini, ma riflettevano anche uno stato d’animo diffuso a quel tempo, favorito dalla propaganda imperiale: «Durante il principato si diffuse l’accettazione fatalistica dello status quo, che gli imperatori cercarono di sfruttare a proprio vantaggio, presentandosi come messi della provvidenza e rappresentanti di Giove in terra» (P. Fedeli).

Il punto di vista è sempre quello delle classi subalterne, alle quali per la prima volta viene data una voce. I ceti umili erano anche al centro della favolistica esopica, popolata, quando i personaggi erano umani, da schiavi, pescatori, taglialegna, carbonai. Fedro conosceva bene la condizione servile: servitus obnoxia /… quae volebat non audebat dicere («I servi assoggettati… non osavano dire quel che volevano» (43).

Coccodrillo. Mosaico, I sec. d.C. Cardiff, National Museum of Wales.

In questo concedere la parola alle classi disagiate sta il carattere oggettivamente eversivo dell’opera di Fedro. Tuttavia, non sono del tutto chiari i motivi che avrebbero indotto Seiano a punire duramente l’autore, il cui messaggio non solo non era rivoluzionario ma era conservatore, in quanto predicava la resa incondizionata a una realtà, considerata come del tutto “naturale”, che vedeva «i potenti sempre più potenti, gli umili sempre più oppressi, i cattivi sempre più cattivi». «Non c’è nessuna ragione di credere che Fedro aspirasse a un regime migliore di quello imperiale» (A. La Penna). La consapevolezza dell’ingiustizia non si tradusse mai in uno scatto di ribellione, ma solo nell’invito ad affinare le armi della sopravvivenza tipiche dei diseredati (l’astuzia, la risposta fulminea e mordace), a ricercare il minor danno, a conseguire un’autosufficienza morale attraverso la rinuncia alle ricchezze. E in questa ricorrente esortazione alla saggezza è forse da cogliere l’influsso della «filosofia popolare» diatribica e cinica. Eppure, evidentemente, anche la denuncia generica («Non è mio intento bollare i singoli», 43), questo farsi timido portavoce degli oppressi, era una colpa dal punto di vista dei detentori del potere: Palam muttire plebeio piaculum est («Per uno della plebe, criticare apertamente è sacrilegio», 64). Come l’avvertenza, nelle didascalie di un film, che ogni riferimento a fatti e personaggi reali è casuale, non impedisce che chi ha la coscienza sporca si senta chiamato in causa, così gli innocenti ioci di Fedro irritarono chi sapeva di essere incorso nei comportamenti censurati: «Se qualcuno, per suo sospetto, attribuirà a sé l’universale, stupidamente rivelerà la propria colpa» (43).

 

 

Il modello, lo stile.

Fedro doveva essere consapevole della novità della sua opera. Egli dichiarava, certo, il proprio debito verso Esopo per quanto attiene alla materia e al genere, ma rivendicava la propria originalità: «Questa [l’assunzione del genere favolistico] è la sola eredità per me, tra noi non c’è invidia, ma gara. Plaudendo il Lazio questa impresa mia, con la Grecia vieppiù si paragoni» (II epil. 6-9). Fedro si vantava di avere rivestito la prosa della tradizione esopica in versi senari (polivi versibus senariis), ma la novità riguardava anche le res, i contenuti. Nel prologo del II libro (vv. 11 ss.) egli annuncia temi propri, aggiunti a quelli esopici: le sue favole sono «esopiche, ma non di Esopo» (Aesopias, non Aesopi), perché egli ne ha composte di più, e anche con argomenti nuovi (… pluris fero / usus vetusto genere sed rebus novis), non solo quelli legati al folklore, ma anche quelli della cronaca e dell’attualità romane. Sono certamente originali gli aneddoti con protagonisti umani, che svolgono soggetti novellistici celebri, come quello della matrona di Efeso, trattato con arte ben più scaltrita da Petronio, o il racconto di Tiberio e del servo zelante.

Servi che versano il vino. Mosaico pavimentale, II-III secolo, da Dougga. Musée du Bardo.

Con Fedro la favola acquisì per la prima volta nella letteratura latina dignità d’arte. L’autore difese con energia il valore poetico dei propri ioci in base ai canoni ellenistici della varietas e della brevitas: «Certo, al modo d’Esopo mi atterrò sempre con ogni cura; ma se poi, per amor di varietà, mi piacesse di aggiungere qualche aneddoto, prendetelo, lettori, in buona parte, purché abbia il pregio della brevità» (II prol. 9).

Soprattutto la concisione – un principio costitutivo della favola, ma anche della poetica di Orazio (di cui Fedro imita le satire) e della scuola atticista – caratterizza la lingua di Fedro. È la lingua viva della conversazione quotidiana, ma depurata, resa elegante dalla ricerca di urbanitas. La forma è limpida e piana, equidistante dalla volgarità e dalla gonfiezza barocca, adatta alla natura semplice e schematica della favola. Questo equilibrio di stile ha fatto pensare a Terenzio.

I dialoghi, i cui interlocutori spesso personificano principi etici contrastanti, sono agili e serrati. Costruiti con frasi brevi ed efficaci in uno stile medio non sciatto, con qualche punta aulica in funzione parodica, rivelano una vena apprezzabile di realismo comico.

Corvo su vaso. Affresco, 100 a.C. ca., da Pompei.

Mira a nobilitare l’espressione il frequente uso dell’astratto, come il corvi deceptus stupor («la stupidità gabbata del corvo»), la servitus obnoxia («la servitù soggetta»), la decepta aviditas del cane che porta la carne attraverso il fiume, la colli longitudo della gru. Ma un simile procedimento aggrava il principale difetto delle fabulae, che consiste proprio nell’astrattezza un po’ fredda e scolastica della rappresentazione. In esse non si vedono caratteri umani studiati psicologicamente e materiati di umanità – come, per esempio, i due topi della citata favola oraziana – ma solo vizi umani in veste animale. L’astrazione congiunta all’assillo della sintesi scolorisce il racconto, rendendolo povero, schematico, privo di un respiro narrativo: «Quasi tutto ciò che non è essenziale all’azione e all’interpretazione viene trascurato: il racconto viene a mancare quasi sempre di autonomia» (A. La Penna).

Fedro fu ignorato dai contemporanei e più volte espresse la propria amarezza per il fatto che le proprie fabulae non abbiano ottenuto il successo sperato. Seneca considerava la favola teriomorfa un genere privo di imitatori romani (intemptatum Romanis ingeniis opus, Ad Pol. 8, 27) e Quintiliano non lo citava nel paragrafo dedicato alle Aesopi fabellae. Fedro è ricordato solo da Marziale (III 20, 5), che considerava provocatori (improbos) i suoi versi scherzosi (iocos), ma il passo è molto discusso. A Fedro si riallacciò tutta la favolistica medievale, da Roman de Renard (XII secolo) alle Fables (1668-1694) di Jean de La Fontaine. Il culmine della fortuna fu toccato nel Settecento: la semplicità della lingua unita all’intenzione pedagogica garantì a Fedro il successo nelle scuole.

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[1] A. La Penna, Introduzione a Fedro, Favole, Torino 1968, p. xvii.