L’atteggiamento dei cristiani verso il potere e l’Impero prima di Costantino

di M. Rizzi, relazione al convegno internazionale di studio Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa, 19 aprile 2012 (in Zenit.org).

Le complesse motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e sostenere poi il Cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi […]. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di indagare l’evoluzione dell’atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del potere politico – e specificamente verso quello di Roma – nell’arco di tempo che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.

Anticipando le conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in Occidente, una più puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell’Impero romano; una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in parallelo allo strutturarsi dell’organizzazione ecclesiastica nella forma del mono-episcopato cittadino e, nella pars occidentis dell’Impero, della sua gravitazione su Roma.

Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).
Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).

Al cuore della prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della tassazione.

Nella formulazione paolina del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani («rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»), che nel corso dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del sistema fiscale romano: l’imposta capitaria sulle persone e i patrimoni (phóros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche (télos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta l’obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega dell’autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine (phóbos/timor), dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale (timḗ/honor).

Così, pur indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti geografici e sociali, in accordo con le forme dell’articolazione gerarchica e personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati preposti all’ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro
Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

La riflessione di Paolo, pur ancora nell’orizzonte di un’escatologia imminente, si sforza così di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una parziale modifica del sistema daziario.

Le affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto assoluto – come peraltro l’esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in ciò assai più avveduta di molta esegesi “scientifica” moderna; erano tuttavia destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.

Scrivendo qualche decennio più tardi, l’autore della prima lettera di Pietro riprende letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei cristiani nei confronti dell’autorità, sforzandosi però di collocarle in termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo il basileús dai «governatori inviati da lui», e senza menzionare direttamente le tasse.

Il timore (phóbos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come l’onore (timḗ) vada tributato al basileús; fattore unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell’atteggiamento dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti, che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo, andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto della tassazione – ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla prassi cristiana dei primi secoli.

Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. R – FISCIIVDAICICALVMNIASVBLATA. SC divise da una palma.
Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. Recto: legenda – fisci Iudaici calumnia sublata / s(enatus) c(onsultu). Una palma.

Questa linea di pensiero, che imposta l’atteggiamento cristiano verso il potere attorno all’idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si snoda senza soluzione di continuità dalla fine del I secolo sino alla metà del III, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai Corinzi, che ribadisce il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare ogni implicazione politica del concetto di «regno di Dio» dichiarandone la natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e avvertito.

Questi, nel contesto del dibattito che travagliava le chiese sull’atteggiamento da assumere nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del giudizio; del resto, per Origene, il potere politico viene esercitato nell’ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.

Se, nella prospettiva cristiana, l’esercizio dell’autorità secolare acquisiva in questo modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all’idea di legge naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l’azione, una tale posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei confini dell’Impero (e in questo senso è significativo il protettorato che Costantino proclamerà nei confronti del cristiani residenti al di fuori dei suoi diretti dominii all’indomani dell’accesso al potere anche nella pars orientis dell’Impero).

Soprattutto, a distanza di settant’anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e nella gestione politica dell’Impero (specie delle concrete vicende dell’autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l’estensione universale della cittadinanza avvenuta con la Constitutio Antoniniana e lo stesso avvicinamento delle élites cristiane al potere imperiale nel periodo della ben disposta dinastia severiana.

Sarà solo con l’editto di Serdica del 311, che l’autorità romana, nella persona di Galerio, accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax deorum: «Poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dèi celesti e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (…) in conformità a quanto da noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della res publica e di loro stessi, affinché in ogni modo la res publica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro case».

M. Aurelio Numeriano. Antoniniano, Lugdunum 284 d.C. AR-Æ 3, 41 gr. Obverso: Statua della Pace, stante verso sinistra, reggente un ramo d’olivo nella destra e uno scettro, posto di traverso nella sinistra; legenda: Pax Aug(usti); B, punzonata a sinistra della figura.

Che per di più tra i cristiani dei primi secoli l’ermeneutica delle parole di Paolo non fosse solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo «un uomo giusto» e per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa, perché «conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore (imperator) di tutte le genti», anche se «non conosco l’Impero (imperium) di questo mondo».

Dal canto suo, Donata, una sua compagna, non esita a proclamare «onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio (honorem Caesari quasi Caesari; timor autem Deo)»; la precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice svolgimento ordinato della vita quotidiana: l’assenza di ogni menzione del tributum, la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di riconoscere l’Impero e l’imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.

Proprio nel drammatico contesto dell’ondata persecutoria accesasi intorno all’ultimo quarto del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza, la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai Romani, avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì dominanti.

Nel celebre frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente successivi. La più celebre è legata al cosiddetto “sincronismo augusteo”, ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell’Impero da parte di Augusto e la diffusione al suo interno del Cristianesimo.

Nonostante la storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere un antecedente esplicito di questa posizione nell’opera lucana, sino a spostare molto in avanti – addirittura in epoca adrianea – la redazione degli Atti degli Apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene formulata con nettezza.

Tuttavia, Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente allotria del cristianesimo rispetto all’orizzonte propriamente romano, affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò tutta l’area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di pace e stabilità garantite dall’Impero sino a Nerone e Domiziano, i quali furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e stabilità.

È questa la seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l’associazione tra persecuzione, crisi dell’Impero, morte infamante dei persecutori, che si tradurrà di lì a poco nel tópos storico-letterario De mortibus persecutorum, e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per il superamento dell’originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è però il terzo fattore, ovvero la presentazione del Cristianesimo come “filosofia”, sulle orme di una tradizione che si era avviata Aristide e si prolunga nella seconda generazione degli apologisti cristiani.

Questa identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano, che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto d’importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura repressione anti-filosofica.

Omelia attribuita a Melitone di Sardi. Retro del P.Mich. 5552, con parti del Libro di Enoch. IV secolo d.C. dall’Egitto. University of Michigan, Ann Arbor Library.

In questo modo Melitone, pur riconoscendo l’origine non romana e “barbarica” del Cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un imperatore “filosofo” quale Marco Aurelio diceva – o millantava – di essere.

In termini meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla condizione di sottomissione dell’ecumene all’impero romano emerge anche da una cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l’encomio di Roma di Elio Aristide, afferma che «il mondo è in pace grazie ai Romani, così che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo» e – implicitamente – proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall’Asia a Roma, alle Gallie.

Più rilevante e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell’originaria idea ellenistica della traslatio imperii.

Non ci è purtroppo giunto il trattato di Melitone sull’Apocalisse di Giovanni e il diavolo, che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo, anzi con ogni probabilità il testo, che era alla base delle frenesie escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione apostolica.

In Ireneo è evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l’elaborazione di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l’accenno alla provenienza dell’Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito sviluppò in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso oriente – e non verso Roma – lo sguardo di chi attende con la persecuzione finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.

Le posizioni di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell’inizio del III secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al Libro di Daniele, con un approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.

La riflessione di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano, laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui vengono cooptati «i più nobili da tutte le nazioni» in vista dell’approntamento dell’esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le altre popolazioni l’impero romano risulta del tutto in linea con i tre precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di associare a sé i migliori tra i non-romani.

Bassorilievo da un sarcofago romano paleocristiano. Frammento con raffigurazione di Daniele nella fossa dei leoni. Calcare, IV secolo d.C. Museo Arqueológico y Etnológico de Córdoba.

Il massiccio ricorso ad una siffatta forma di reclutamento – ancora una volta – si era avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato l’attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo.

In quanto espressione della medesima libido dominandi, l’Impero romano non risulta né migliore né peggiore di quelli che l’hanno preceduto, solo più militarmente più potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l’inevitabile dissoluzione di esso, l’ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio del regnum Dei, l’impero dell’Anticristo, ne riassumerà le specifiche fattezze, a partire dall’esaltazione della propria forza militare. Così, partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico l’ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.

Soprattutto, Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la conseguente frantumazione dell’impero romano in una poliarchia, l’apparizione finale dell’Anticristo tra gli Ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.

Le fila delle riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana, cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente filo-romana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo potrà accadere solo dopo la svolta “universalistica” della Constitutio Antoniniana e l’atteggiamento filo-cristiano di Alessandro Severo.

In Ippolito, invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se non estraneo, rispetto all’Impero, considerato un dato storico di fatto dalla prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo, la cui strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l’originale ri-declinazione dell’opposizione tra monarchia e democrazia nei termini dell’opposizione tra un solo potere romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell’acquisizione e nel mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza) e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione all’éschaton).

Arco di Alessandro Severo
a Thugga/Dougga (od. Téboursouk, Tunisia).

In quegli stessi anni, nell’Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni provenienti dall’oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la costruzione di un’escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall’Apologeticum, infatti, Tertulliano lega l’ormai tradizionale tema della preghiera pro imperatoribus, apertamente ricondotto all’insegnamento della prima lettera di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall’impero romano nell’allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente, ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.

Sono tre gli aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano. Anzitutto, l’abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica della translatio imperii, che vedeva nel potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con il commeatus Romani imperii, pregano per il suo differimento e con ciò stesso contribuiscono alla diuturnitas Romana.

Sarcofago dei due fratelli con scene bibliche. Particolare – Marmo, 325-30 d.C. ca., dal cimitero di Lucina. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.

In secondo luogo, l’oggetto delle preghiere e dell’interesse teologico-politico di Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status Romanus; sempre più, nelle opere successive, esso viene ad assumere un ruolo di «trattenimento» della fine modellato a contrario sulla funzione assegnata nella seconda Lettera ai Tessalonicesi alla misteriosa figura del katéchon, che fino ad allora aveva avuto un significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousía di Cristo.

Indubbiamente, persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di ambiguità, dato che, in ogni caso, l’aeternitas di Roma non trascende la dimensione del saeculum presente; ma viene meno – ed è la terza novità introdotta da Tertulliano – quell’estraneità radicale affermata ad esempio negli Acta martyrum Scillitanorum, sostituita da un atteggiamento di piena condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi, quanto soprattutto negativi: «Quando l’Impero è scosso (concutitur), sono scossi anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche modo ne siamo coinvolti». Questa prima inserzione dei cristiani nell’orizzonte politico dell’Impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre più marcata romanizzazione dell’escatologia occidentale.

Così, il vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati, a suo dire, dall’Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva però una valenza de-escatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso procedimento esegetico, all’identificazione del persecutore dei tempi finali con il Nero redivivus proveniente dall’oriente.

La minacciosa rappresentazione di un re devastatore ex Oriente affonda le radici addirittura nell’epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane – o almeno così ci dice Giustino.

Nel quadro della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica di Vittorino assegna all’Impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il persecutore per antonomasia, ma proprio dall’Impero nella sua forma attuale partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l’intera vicenda cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la cronologia apocalittica alle vicende dell’Impero susseguenti all’invasione persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell’Anticristo per meglio riuscire nel proprio intento.

Scrivendo proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e ultimo libro delle Divinae institutiones, Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità cristiana all’Impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo significativa. Proveniente dall’Africa cristiana, la sua piena adesione al cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l’aveva chiamato Diocleziano e dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il Cristianesimo d’impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono l’epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:

«Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di anni passati dall’inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme complessive risultino un po’ diverse, non sembra che l’attesa sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di Roma è sana e salva.

Quando invero quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà».

Sarcofago «di Giona». Particolare – Giona e la balena. Marmo, 280-300 d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.

Difficile dire se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della svolta di Costantino all’indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientis dell’Impero e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.

È però lo stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo la vittoria su Massenzio: «Considerava l’intero assetto del mondo come un grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (…); dichiarò quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città regale così vessata».

Una simile immagine organica per caratterizzare la res publica non costituisce di per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire della retorica anti-tirannica qui utilizzata. Tuttavia, Eusebio colloca proprio a ridosso di questa decisione l’avvicinamento di Costantino al Cristianesimo che culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo, che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e vescovi.

Accenni indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la «conversione» di Costantino e il suo incontro con un Cristianesimo più disponibile a una possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).

Certo è però che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione, provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest’ultima città, per chiudere il conflitto «anche se tardi» e ristabilire la necessaria concordia. Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell’incontro precedente.

Quantomeno il gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con l’analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum Solis poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi officianti, tra imperatore e vescovi nell’esercizio dell’autorità. Sulla scia delle cosiddette lettere pastorali, l’immagine del governo di questi ultimi sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.

Ma nella Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del III secolo, la funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli, l’autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea costruirà l’ideologia dell’imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in oriente, l’immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del IV secolo.

Bisognerà attendere Agostino e la sua De civitate Dei perché si sciolga, almeno in Occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il Cristianesimo e Roma, mentre l’Impero secolare di quest’ultima viene derubricato a semplice tappa, forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.

La Tabula Banasitana: esempio di integrazione nella cittadinanza

di G. Purpura,  Tabula Banasitana de viritana civitate (180/181 d.C.), in Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori I. Leges, a c.d. G. Purpura, Torino 2012, pp. 625-641.

La tavola bronzea di Banasa, realizzata tra il 180 ed il 181 d.C. e ancora esposta in pubblico dopo il 185[1], fu rinvenuta, nel giugno[2] 1957, abbattuta al suolo in un settore non scavato, nelle vicinanze delle terme, nel foro della colonia della Mauretania Tingitana, in prossimità di un edificio ad abside, che non è certo sia stato la sede della curia cittadina.

Mappa dell'Africa Tingitana (Mauretania)
Mappa dell’Africa Tingitana (Mauretania).

Fu esposta forse in pubblico, non ufficialmente, in un monumento in onore dell’imperatore Marco Aurelio[3], in ringraziamento delle concessioni individuali di cittadinanza, come frequentemente accadeva[4].
Si esibivano infatti in ogni località per ostentazione i provvedimenti imperiali, in questo caso in favore di alcuni maggiorenti della gens degli Zegrensi (l. 32: gentis; l. 16: gentium), stanziata sulle pendici centromeridionali del Rif; benefici che, pur non intaccando gli oneri tributari dei singoli verso l’amministrazione romana (ll. 37/38: sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci), non esimevano dagli obblighi nei confronti della propria gente e pare consentissero il mantenimento delle consuetudini locali (ll. 13 e 37: salvo iure gentis), per non rendere i nuovi cittadini immuni dalle responsabilità locali ed emarginati dalle pratiche correntemente utilizzate in provincia, prima dell’ampia concessione da parte di Caracalla. E dunque si è ritenuto che la Tabula possa contribuire a chiarire la lettura delle controverse ll. 7-9 del P. Giess. 40, 1 e la questione dei rapporti tra diritto romano e consuetudini locali prima e dopo la Constitutio Antoniniana de civitate.
Il testo documenta inoltre l’esistenza a Roma (l. 31), da Augusto in poi (ll. 23-29), del registro ufficiale delle concessioni di cittadinanza, finora noto solo in base a cenni in Plinio[5], fornendoci al contempo l’unica copia di originali provenienti da tale considerevole archivio ufficiale[6].
Nel testo epigrafico, inciso sul recto, sono trascritti tre documenti:

  • Copia di una epistula (ll. 1-13) degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero a Coiedio Massimo, governatore della Mauretania Tingitana tra il 161 e il 168/9 d.C.[7], in risposta a un libello allegato a una epistula, sollecitante la cittadinanza in favore di Giuliano, lo Zegrense, concessa con la clausola salvo iure gentis, al medesimo, alla moglie Ziddina e ai quattro figli (Giuliano, Massimo, Massimino e Diogeniano), indicati con le rispettive età.
  • Copia di un’altra epistula (ll. 14-21), collegata alla prima, degli imperatori Marco Aurelio e Commodo a Vallio Massimiano, governatore della medesima provincia nel 177 d.C. in risposta a un libello del figlio del primo Giuliano, anche lui di nome Giuliano, segnalato per i suoi meriti dal precedente governatore, Epidio Quadrato, sollecitante la concessione della cittadinanza per la moglie Faggura e i figli. Anche tale beneficio è concesso con la clausola salvo iure gentis, previa indicazione dell’età di ciascuno per l’inserimento nel registro ufficiale a Roma.
  • Estratto dal registro ufficiale (ll. 22-53) dei nuovi cittadini romani (descriptum et recognitum ex commentario civitate romana donatorum) con i nomi di dodici autorevoli signatores, funzionari e giuristi componenti del consilium principis, datato il 6 luglio 177 (ll. 30-31), che consente di retrodatare la seconda epistula alla prima metà dell’anno. Nella copia del registro tenuto a Roma da Augusto in poi, rilasciata su richiesta (per libellum) di Aurelio Giuliano, avallata con lettera (suffragante … per epistulam) da Vallio Massimiano, e autenticata il medesimo giorno, nel medesimo luogo, dal funzionario dell’ufficio competente, il liberto Asclepiodoto (ll. 29 e 40)[8], sono menzionati i nomi e le rispettive età della moglie e dei quattro figli (Giuliana, Massima, Giuliano e Diogeniano), precisando con burocratica pignoleria che la concessione è stata effettuata, salvo iure gentis, ma sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci.

Sul verso furono incise per prova settantasei lettere, senza alcun ordine costante. La Tabula conservata nel Museo delle Antichità di Rabat in Marocco, dunque, non solo consente di seguire passo a passo tutta la procedura utilizzata nel II sec. d.C. per concedere la cittadinanza romana a singoli individui[9], ma offre l’indicazione dell’esatto significato da attribuire alle due clausole di salvaguardia inserite nella concessione per evitare due possibili conseguenze dell’acquisto della cittadinanza che sembrano riecheggiare nelle danneggiate ll. 7-9 del P. Giess. 40, 1[10]: l’assorbimento del ius gentis dell’aspirante civis nel diritto di Roma e la cessazione degli obblighi fiscali in quanto peregrino[11].
In riferimento alla prima (salvo iure gentis), contestando l’identificazione del ius gentis come “diritto della tribù” proposta dagli editori[12] e manifestando la difficoltà di connettere l’idea del ius a entità politiche di riferimento, come i popoli nomadi o semi-nomadi della Mauretania, o di tradurre pedissequamente gens con tribù, è stata pure avanzata l’ipotesi dell’esistenza di un foedus tra Roma e gli Zegrenses, che avrebbe reso costoro di fatto estranei alla giurisdizione del governatore provinciale[13]. L’opinione prevalente comunque non esita a valutare il riferimento come relativo alle consuetudini ancestrali, giustificandone l’insistenza alla luce della peculiare condizione giuridica dei gentiles della Tingitana, privi di uno specifico status civitatis, ma non di un proprio ius gentis[14]. Per non rendere “stranieri nella propria terra” i beneficati che senza la suddetta clausola di salvaguardia avrebbero dovuto utilizzare solo il diritto romano, si consentiva anche l’impiego sussidiario delle consuetudini locali.
In rapporto all’inserzione da parte del burocrate della cancelleria a Roma della seconda clausola di salvaguardia (sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci), che tutelava questa volta soprattutto gli interessi dell’amministrazione romana e locale, poiché assicurava la persistenza ‘fiscale’ del rapporto tra Roma e l’ex-peregrino, si è osservato che in tal modo si evitava il pericolo del formarsi di una sorta di élite, dotata di immunità rispetto ai vincoli giuridico-politici della comunità locale di appartenenza, che avrebbe potuto incidere negativamente sulla stabilità delle province, necessaria soprattutto nei territori di confine[15].
Ancora una volta veniva assicurata così la “conservazione dell’affidabilità giuridica e della responsabilità nei rapporti tra privati dell’ex-peregrino, dal punto di vista della sua comunità di provenienza e cioè, nel caso della Tabula Banasitana, la tribù degli Zegrenses”[16].
La ricostruzione di tale situazione in Mauretania, pochi anni prima della Constitutio Antoniniana de civitate, non può che riflettersi sulla controversa valutazione della portata di essa, delle sue conseguenze, del dibattuto problema della cd. doppia cittadinanza, quella d’origine e la romana, che J. Mélèze-Modrzejewski per primo ha correttamente valutato, non in termini di un improponibile contrasto, ma di inclusione l’una nell’altra[17].
Alla luce del testo della Tabula Banasitana, si è dunque proposto di integrare la lacunosa espressione della l. 9 del P. Giess. 40, 1 (… χωρ[…] τῶν [..]δειτικίων), non riferendola alla celebre esclusione dei dediticii (… χωρ[ὶς] τῶν [δε]δειτικίων), bensì come (… χωρ[ὶς] τῶν [αδ]-δειτικίων)[18].
L’acuta proposta di Oliver, che non è comunque l’unica possibile[19], potrebbe essere interpretata come riferentesi ai vantaggi fiscali che normalmente si aggiungevano alla concessione della cittadinanza (additicia beneficia), in tutto equivalendo all’espressione “sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci” della Tabula Banasitana, o potrebbe essere intesa, come propone Marotta, salvaguardante “quei regolamenti addizionali o supplementari che concedevano specifiche esenzioni dai iura (dikaia) ricordati (se accettiamo quest’ipotesi ricostruttiva) alla l. 9” dello stesso P. Giess. 40, 1[20]. In tal modo, nel 212 d.C., nessuno sarebbe stato escluso dalla concessione della cittadinanza, come dichiara lo stesso papiro, ma sarebbero stati mantenuti gli obblighi delle civitates e delle altre comunità dell’Impero (i politeúmata della l. 8), così come sarebbero stati salvaguardati privilegi e immunità concessi, ad esempio, ai veterani e alle loro famiglie[21].

Tabula Banasitana. Bronzo, 180-181 d.C. da Banasa (Marocco), Musée archéologique de Rabat.
Tabula Banasitana. Bronzo, 180-181 d.C. da Banasa (Marocco), Musée archéologique de Rabat.

Testo:
Exemplum epistulae Imperatorum nostrorum An[toni-]
ni et Veri Augustorum ad Coi((i))edium[22] Maximum:
li((i))bellum Iuliani Zegrensis litteris tuis iunctum legimus, et
quamquam civitas romana non nisi maximis meritis pro-
5  vocata in<dul>gentia principali gentilibus istis dari solita sit,
tamen cum eum adfirmes et de primoribus esse popularium
suorum, et nostris rebus prom<p>to obsequio fidissimum, nec
multas familias arbitraremur aput Zegrenses paria poss((
i))[e] de offic<i>is suis praedicare quamquam plurimos
cupiamus ho-
10 nore a nobis in istam domum conlato ad aemulationem Iuliani
excitari, non cunctamur et ipsi Ziddinae uxori, item
liberis Iuliano, Maximo, Maximino, Diogeniano, civitatem
romanam salvo iure gentis, dare.
Exemplum epistulae Imperatorum Antonini et Commodi
Augg(ustorum)[23]
15 ad Vallium Maximianum:
legimus libellum principis gentium Zegrensium animadvertimusq(
ue) quali favore Epidi Quadrati praedecessoris tui iuvetur; proinde
et illius testimonio et ipsius meritis et exemplis[24] quae
allegat permoti, uxori filiisq(ue) eius civitatem romanam, sal-
20 vo iure gentis, dedimus. Quod in commentarios nostros referri
possit, explora quae cui((i))usq(ue) aeta((ti))s sit, et scribe nobis.
Descriptum et recognitum ex commentario civitate romana
donatorum divi Aug(usti) et Ti(beri) Caesaris Aug(usti), et C(aii)
Caesaris, et divi Claudii,
et Neronis, et Galbae, et divorum Aug(ustorum) Vespasiani et Titi
et Caesaris
25 Domitiani, et divorum Aug(ustorum) Ner<v>ae et Trai((i))ani
Parthici, et Trai((i))ani
Hadriani, et Hadriani Antonini Pii, et Veri Germanici Medici
Parthici Maximi et Imp(eratoris) Caesaris M(arci) Aurelii
Antonini Aug(usti) Germanici
Sarmatici, et Imp(eratoris) Caesaris L(ucii) Aureli Commodi
Aug(usti) Germanici Sarmatici,
quem protulit Asclepiodotus lib(ertus), id quod i(nfra)
s(criptum) est.
30 Imp(eratore) Caesare L(ucio) Aurelio Commodo Aug(usto) et
M(arco) Plautio Quintilio co(n)s(ulibus),
p(ridie) non(as) Iul(ias), Romae.
Faggura uxor Iuliani principis gentis Zegrensium ann(orum) ς[25]
XXII,
Iuliana ann(orum) ς VIII, Maxima ann(orum) ς IV, Iulianus
ann(orum) ς III, Diogenianus
ann(orum) ς II, liberi Iuliani s(upra) s(cripti).
35 Rog(atu) Aureli Iuliani principis Zegrensium per libellum suffragante
Vallio Maximiano per epistulam, his civitatem romanam dedimus,
salvo iure gentis, sine diminutione tributorum et vect <i>galium
populi et fisci.
Actum eodem die, ibi, isdem co(n)s(ulibus)
40 Asclepiodotus lib(ertus), recognovi.
Signaverunt:
M(arcus) Gavius M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Gallicanus[26]
M(arcus) Acilius M(arci) f(ilius) Gal(eria tribu) Glabrio
T(itus) Sextius T(iti) f(ilius) Vot(uria tribu) Lateranus
45 C(aius) Septimius C(aii) f(ilius) Qui(rina tribu) Severus
P(ublius) Iulius C(aii) f(ilius) Ser(gia tribu) Scapula Tertullus[27]
T(itus) Varius T(iti) f(ilius) Cla(udia tribu) Clemens
M(arcus) Bassaeus M(arci) f(ilius) Stel(latina tribu) Rufus
P(ublius) Taruttienus P(ubli) f(ilius) Pob(lilia tribu) Paternus
50 [………. Tigidius …………………………………………. Perennis]
Q(uintus) Cervidius Q(uinti) f(ilius) Arn(ensi tribu) Scaevola
Q(uintus) Larcius Q(uinti) f(ilius) Qui(rina tribu) Euripianus
T(itus) Fl(avius) T(iti) f(ilius) Pal(atina tribu) Piso.

Sesterzio di Bronzo. Roma 192 d.C. Verso – Personificazione dell’Africa ed Ercole (PROVID.ENTIAE.AVG)
M. Aurelio Commodo Antonino Augusto. Sestertius, Roma 177-192 d.C. Æ 32,08 g. Rovescio: personificazione dell’Africa, stante, verso destra, che porta un’elaborata acconciatura guarnita con una pelle di elefante, e un leone prostrato ai suoi piedi. Impugna un sistro e porge un covone di grano a Ercole (Commodo?) rivolto a sinistra. Sul bordo la legenda: Provid·entiae·Aug(ustae); in exergo: S(enatus)·c(onsulto).

Traduzione (da Migliario, Gentes foederatae, cit., 457 ss.):
Copia della lettera dei nostri imperatori, gli Augusti
Antonino e Vero, a Coedio Massimo:
abbiamo letto la petizione di Giuliano Zagrense allegata alla tua lettera e,
benché non rientri nel costume abituale donare la cittadinanza romana
a tali uomini delle tribù, a meno che dei meriti eccezionali non suscitino
la benevolenza imperiale, tuttavia, dal momento che tu attesti che
il richiedente è uno dei più eminenti del suo popolo, e che, uomo
di assoluta fedeltà, aderisce alla nostra causa senza esitazioni, e giacché
siamo del parere che non molti gruppi famigliari degli Zegrensi possono
vantare meriti comparabili con i suoi – per quanto noi desideriamo che,
visto l’onore concesso alla casata di Giuliano, parecchi siano incitati
a imitarlo – non esitiamo a donare a lui, a sua moglie Ziddina, nonché
ai loro figli Giuliano, Massimo, Massimino e Diogeniano, la cittadinanza
romana, senza che ciò pregiudichi il diritto vigente per il suo popolo.
Copia della lettera degli imperatori Antonino e Commodo Augusti
a Vallio Massimiano: abbiamo letto la petizione del capo della tribù
degli Zegrensi e abbiamo preso atto di quale favore egli goda da parte
del tuo predecessore Epidio Quadrato; pertanto, mossi sia dalle attestazioni
di stima di costui, sia dalle azioni meritevoli di quello, qui
documentate dagli allegati, concediamo a sua moglie e ai suoi figli la
cittadinanza romana, fatto salvo il diritto vigente per il suo popolo,
ma affinché tale provvedimento possa essere inserito nei nostri registri,
informati di quale sia l’età di ciascuno di loro, e scrivicelo.
Estratto, descritto e collazionato dal registro elencante coloro che
hanno ottenuto la cittadinanza romana – dal divino Augusto, da Tiberio
Cesare Augusto, da Gaio Cesare, dal divino Claudio, da Nerone,
da Galba, dai divini Augusti Vespasiano e Tito, da Domiziano Cesare,
dai divini Augusti Nerva, Traiano Partico, Traiano Adriano, Adriano
Antonino Pio e Vero Germanico Medico Partico Massimo, dall’imperatore
Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto Germanico Sarmatico
e dall’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo Augusto Germanico
Samtatico – che il liberto Asclepiodoto ha prodotto, e che viene trascritto
qui di seguito.
Sotto il consolato dell’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo
Augusto e di Marco Plauzio Quintillo, alla vigilia delle none di luglio,
a Roma.
Faggura, moglie di Giuliano, capo della tribù degli Zegrensi, di anni
ventidue; Giuliana, di anni otto, Massima, di anni quattro, Giuliano, di
anni tre, Diogeniano, di anni due, figli del suddetto Giuliano.
Dietro richiesta di Aurelio Giuliano, capo degli Zegrensi, avanzata
tramite domanda scritta, con l’appoggio espresso per lettera di Vallio
Massimiano, noi concediamo loro la cittadinanza romana, fatto salvo il
diritto vigente per il loro popolo, e senza sgravio delle tasse e dei tributi
dovuti al popolo romano e al fisco imperiale.
Fatto il giorno medesimo, ivi, sotto gli stessi consoli.
Io, Asclepiodoto liberto, l’ho collazionato.
Hanno sottoscritto:
Marco Gavio Squilla Gallicano, figlio di Marco, della tribù Popillia;
Marco Acilio Glabrio, figlio di Marco, della tribù Galeria;
Tito Sestio Laterano, figlio di Tito, della tribù Voturia;
Gaio Settimio Severo, figlio di Gaio, della tribù Quirina;
Publio Giulio Scapula Tertullo, figlio di Gaio, della tribù Sergia;
Tito Vario Clemente, figlio di Tito, della tribù Claudia;
Marco Basseo Rufo, figlio di Marco, della tribù Stellatina;
Publio Taruttieno Paterno, figlio di Publio, della tribù Publilia;
[Sesto Tigidio Perenne, figlio di ?, della tribù ?];
Quinto Cervidio Scevola, figlio di Quinto, della tribù Amensis;
Quinto Larzio Euripiano, figlio di Quinto, della tribù Quirina;
Tito Flavio Pisone, figlio di Tito, della tribù Palatina.

Tabula Banasitana. Apografo realizzato da Sergio Giannobile
Tabula Banasitana. Apografo realizzato da Sergio Giannobile.

[1] Pubblio Taruttieno (o Tarrutenio) Paterno e Sesto Tigidio Perenne, menzionati insieme nella Tabula (ll. 49-50), furono membri del consilium principis in qualità di prefetti del pretorio correggenti tra il 180 ed il 181, ma il primo fu coinvolto nella congiura di Lucilla tra la fine del 181 e la metà del 182, e dunque dopo questa data non avrebbe potuto più essere menzionato, il secondo travolto e dannato nel 185 (cfr. G. Firpo, La congiura di Lucilla: alle origini dell’opposizione senatoria a Commodo, Fazioni e Congiure nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Contributi dell’Istituto di Storia Antica dell’Università Cattolica di Milano, 25, Milano 1999, 237-262), è stato dalla Tabula intenzionalmente eraso (cfr. W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la Cancellerie romaine: La Tabula Banasitana, Ètude de diplomatique, Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres (CRAI), 1971, 486 = W. Seston, Scripta varia, Roma 1980, 103) e ciò non può essere avvenuto che dopo il 185 d.C.

[3] H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40, 1, I-II, (Diss. 1972), Köln 1976, 87-8.

[4] Come nel caso dell’iscrizione di Ombos, posta l’8 novembre del 212 d.C. da Marco Aurelio Mela, in ringraziamento a Caracalla.

[5] Plinio, Epistole 10, 5-7; 10-11; E. Volterra, La Tabula Banasitana (a proposito di una recente pubblicazione), BIDR, 77, 1974, 414 e s.; E. Migliario, Nota in margine alla Tabula Banasitana, AA.VV., Miscillo Flamine. Studi in onore di C. Rapisarda, Trento 1997, 226 ss.; A.N. Sherwin-White, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, JRS, 63, 1973, 89 ss.; C. Giachi, La Tabula Banasitana: cittadini e cittadinanza ai confini dell’impero, Atti del Seminario Internazionale “Civis/civitas. Cittadinanza politico – istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna”, Siena – Montepulciano (10–13 luglio 2008), 2008, 75.

[6] F. Millar, Epigrafia, Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984, 110-111, il quale sottolinea il fatto che molti interrogativi suscitati dal documento sono al momento senza risposta: l’esatta storia e natura, l’organizzazione e la funzionalità, la collocazione e la mobilità di un archivio di tale importanza e mole.

[7] H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40, 1, II, cit., 381 nt. 222.

[8] Diversamente E. Volterra, op. cit., 410 ritiene l’estratto “presentato” da un liberto. Sul significato tecnico dell’espressione “recognovi” cfr. A.N. Sherwin-White, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, JRS, 63, 1973, 90; N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), Iura, 28, 1977 (pubbl. 1980), 40-94 = Ius e Techne. Scritti Palazzolo, I, Torino 2008, 193 e s.

[9] E. Volterra, op. cit., 412 ss. In realtà, nel dossier epigrafico locale figurano solo le copie delle risposte imperiali e dell’estratto del registro ufficiale, ma non delle richieste e delle relative lettere di accompagnamento con suffragationes dei governatori, che avrebbero potuto completare il dossier ed essere conservate nell’archivio centrale a Roma.

[10] Il “…μένοντος…” potrebbe corrispondere a “…salvo…”, il “…χωρὶς…” a “…sine…”.

[11] C. Giachi, La Tabula Banasitana: cittadini e cittadinanza ai confini dell’impero, Atti del Seminario Internazionale “Civis/civitas. Cittadinanza politico – istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna”, Siena – Montepulciano, 10–13 luglio 2008, 2008, 80.

[12] W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la cancellerie romaine, cit., 479 = W. Seston, Scripta varia, cit., 96; diversamente E. Volterra, op. cit., 436 ss.

[13] E. Migliario, Gentes foederatae. Per una riconsiderazione dei rapporti romano-berberi in Mauretania Tingitana, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 396, ser. IX, vol. X, fasc. 3, Roma 1999, 450 ss.

[14] V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III). Una sintesi, Torino 2009, 73.

[15] C. Giachi, La Tabula Banasitana, cit., 83; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 92.

[16] C. Giachi, l.c.; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 112 ss.

[17] J. Mélèze-Modrzejewski, La regle du droit dans l’Égypte romaine, Proceedings of the twelfth Intern. Congress of Papyrology (Ann Arbor, 1968), Toronto 1970, 317 – 377. Cfr. infra la Constitutio Antoniniana de civitate.

[18] J.H. Oliver, Text of the Tabula Banasitana, A.D. 177, AJPh, 93, 1972, 336-340; P.A. Kuhlmann, Die Giessener literarischen Papyri und die Caracalla-Erlasse. Edition, Übersetzung und Kommentar, Berichte und Arbeiten aus der Universitätsbibliotek und Universitätsarchiv Giessen, 46, Giessen 1994, 234 ss.; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 114 e 120; contra K. Buraselis, Theía Doreá, Das göttlichkaiserliche Geschenk. Studien zur Politik der Severer und zur Contitutio Antoniniana, Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 2007, 6 nt 15

[19] Ad es. ghenteilikín, facendo riferimento al problema dei tria nomina dei novi Aurelii (P. Jouguet, La vie municipale l’Égypte romaine, Parigi 1911, 354 ss.) o apoleitikín, escludendo coloro che erano privi di ogni cittadinanza prima della concessione (R. Böhm, Studien zur Civitas Romana II: eine falsche Lesart bei Aelius Aristides, in Roman 65, Aegyptus, 43, 1963, 54 ss.; contra E. Kalbfleisch, v. Heichelheim, JEA 26, 1940, 16 nt. 2). Cfr. V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 113 e 120.

[20] V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 114.

[21] Cfr. ad es. le Epistulae Octaviani Caesaris de Seleuco navarcha; l’Edictum Octaviani triumviri de privilegiis veteranorum; o l’Edictum Domitiani de privilegiis veteranorum.

[22] Questa, ed altre caratteristiche ortografiche, come la diplé delle ll. 32-34, si ritiene che rivelino che la Tabula Banasitana è copia di un originale emanato dalla cancelleria imperiale. Cfr. W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la cancellerie romaine, cit., 478 = W. Seston, Scripta varia, Roma 1980, 95; H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40, 1, cit., II, 380 nt. 219.

[23] L’interruzione della linea a tal punto non è registrata nell’editio princeps e la svista è stata seguita da molti, ma non in ILMaroc 94; edizione seguita da E. Migliario, Gentes foederatae, cit., 454 e da V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 80.

[24] Anche in tal punto l’editio princeps registra una interruzione della linea che invece nella Tabula si constata solo dopo la successiva parola “quae”. Dalla ripetizione dell’errore si discosta ILMaroc 94; edizione correttamente seguita da E. Migliario, l.c. e V. Marotta, l.c.

[25] Segno della diplé, indicante una semplice abbreviazione, e non più o meno (circiter); cfr. R. Marichal, De l’usagé de la “diplè” dans les inscriptions et les manuscrits latins, Paleographica diplomatica et archivistica. Studi in onore di G. Battelli, I, Roma 1979, 63-69.

[26] M(arcus) Gau[i]us M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Ga[l]licanus (Seston, Euzennat); M(arcus) Gav[i]us M(arci) f(ilius) Pob(lilia) Squilla Ga[l]licanus (Marotta). Ma, sia la “i” di “Gavius”, che la “l” di “Gallicanus” sono nella Tabula evidenti. Gallicano fu console nel 150 d.C.; Glabrione nel 152; Laterano nel 154; Severo nel 160; Scapula Tertullo nel 160/6; Vario Clemente ex-ab epistulis; Basseo Rufo ex-prefetto del pretorio; Taruttieno Paterno prefetto del pretorio prima del 179, sino al 182; Tigidio Perenne prefetto del pretorio dal 180/1, sino al 185, Q. Cervidio Scevola giurista e prefetto dei vigili nel 175, di Q. Larcio Euripiano non si conosce la carica e Fl. Pisone fu prefetto dell’annona nel 179.

[27] Anche in questo caso la seconda “l” di Tertullus, data per integrata (Tertul[l]us), appare invece chiaramente tracciata nella Tabula.

La «green card» dell’imperatore

di R.A. Staccioli, in Archeo. Attualità nel passato. Mensile, anno XXII, n° 11, nov. 2006, pp. 106-109.

 

Fante ausiliario batavo (I sec. d.C.). Illustrazione di A. Gagelmann.

 

Nell’antica Roma, ci volevano venticinque e più anni di «onorato servizio» perché, al momento del congedo, un «provinciale» (o peregrinus, cioè «forestiero»), arruolatosi volontariamente nell’esercito, durante l’impero, ottenesse la «cittadinanza», diventando civis Romanus. Almeno fino agli inizi del III secolo della nostra era: esattamente, fino al 212 d.C., quando Caracalla, con un suo editto, fece diventare «cittadini» tutti gli abitanti liberi dell’impero.

Straordinario documento di quell’uso sono i cosiddetti «diplomi militari», ritrovati numerosi nelle località che furono sedi, spesso secolari, di presidi e di forti lungo i confini del mondo romano: al Vallo di Adriano, in Scozia; lungo il Reno e il Danubio, in Germania, Austria, Ungheria, e nei Balcani; nel Vicino Oriente, in Egitto e in Africa settentrionale.
Ma andiamo con ordine. La procedura del congedo comportava in linea di massima – anche se non necessariamente – due momenti distinti. In un primo tempo, il comandante di una determinata unità di stanza in una qualsiasi provincia, a chi ne avesse fatto richiesta – e lo meritasse, non solo per averne maturato i tempi – rilasciava un attestato di buona condotta. Più esattamente, un «certificato di congedo onorevole» (tabula honestæ missionis).
Che non era scritto su un «foglio» di fragile papiro e nemmeno di più consistente, ma pur sempre caduca pergamena, bensì inciso su una ben più robusta e duratura «tavoletta» di bronzo. Il testo era simile a quello riportato, a titolo d’esempio, nel volume di Yann Le Bohec, L’esercito romano (NIS, Roma, 1993):

 

ILS 9060 = AE 1906, 22 = AE 1906, +171 = AE 1907, +90; Egitto, Al-Fayyum, 122 d.C. ca.

M(arco) Acilio Aviola et Pansa co(n)s(ulibus) | pridie nonas Ianuarias | T(itus) Haterius Nepos, praef(ectus) Aeg(ypti) | L(ucio) Valerio Nostro equiti | alae Vocontiorum turma | Gaviana emerito| honestam| missionem dedit. || [L(ucio) V]alerio s(upra) s(cripto) e(merito) h(onestam) m(issionem) | prid(ie) non(as).

«Sotto il consolato di Marco Acilio Aviola e di Marco Pansa, il giorno prima delle None di Gennaio, Tito Haterio Nepote, prefetto dell’Egitto, ha accordato un onorevole congedo a Lucio Valerio Nostro, cavaliere dell’ala dei Voconzi, dello squadrone di Gavio, che ha completato il suo servizio // Al suddetto Lucio Valerio, meritevole di congedo onorevole, il giorno prima delle None».

 

In un secondo tempo, poteva essere rilasciato – ma stavolta dalle autorità «centrali» e in nome dell’imperatore – il vero e proprio diploma, che, con il suo nome, derivato dal greco, allude a qualcosa di «doppio». In effetti esso consisteva in una coppia di laminette di bronzo, tenute insieme da uno o due lacci passanti attraverso fori appositamente predisposti, e chiuse a libretto. Un medesimo testo era inciso di seguito, orizzontalmente, sulle due facce interne, e quindi nascoste, di entrambe le tavolette e, in caratteri minuti sulla faccia esterna, e quindi visibile, di una delle due, in modo che l’interessato potesse averlo sempre a disposizione. Sulla faccia esterna dell’altra laminetta, invece, erano riportati i nomi dei sette testimoni che, come prescritto dalla procedura romana, avevano assistito alla «chiusura» delle laminette e all’imposizione dei sigilli, da parte dell’ufficiale incaricato delle operazioni, contro ogni possibile alterazione del testo. In caso di contestazione o controversie legali, il diploma era pronto per essere portato dinanzi a un giudice o a un funzionario abilitato, il quale, rotti i sigilli, poteva accertarsi dell’esatto tenore del documento.

Il testo dei «diplomi» era, grosso modo, sempre lo stesso, redatto secondo una forma stereotipa, adattata caso per caso, che comprendeva una decina di elementi. Nell’ordine si succedevano il nome dell’imperatore che elargiva la concessione, l’elenco delle unità militari interessate al provvedimento (che era sempre collettivo), la provincia di guarnigione e il comandante del relativo esercito, la menzione dei meriti e il genere di privilegi concessi, la data, i nomi dei beneficiari, il luogo d’affissione del decreto (che era atto pubblico).
Ma ecco un esempio di diploma (RMD 1, 6 = Chiron 1977, 291 = AE 1977, 722; Moesia Superior, Kostolac, 96 d.C. ca.), come riportato nel volume già citato:

 

Imp(erator) Caesar divi Vespasiani f(ilius) Domitianus | Augustus Germanicus pontifex maximus | tribunic(ia) potestat(e) XV imp(erator) XXII co(n)s(ul) XVII | censor perpetuus p(ater) p(atriae) | equitibus et peditibus qui militant in ala | praetoria et cohortibus decem I Lusitano|rum et I Cretum et I Montanorum et I Cili|cum et I Flavia Hispanorum milliaria | et II Flavia Commagenorum et IIII Rae|torum et V Hispanorum et VI Thracum | et VII Breucorum civium Romanorum | quae sunt in Moesia superiore sub Cn(aeo) Aemilio Cicatricula Pompeio Longino | qui quina et vicena plurave stipendia | meruerunt item dimissis honesta mis|sione emeritis stipendiis quorum | nomina subscripta sunt ipsis liberis pos|terisque eorum civitatem dedit et conubi|um cum uxoribus quas tunc habuissent cum est civitas iis data aut si caelibes es|sent cum iis quas postea duxissent dumta|xat singuli singulas; a(nte) d(iem) III Idus Iulias | T(ito) Prifernio Paeto Q(uinto) Fabio Postumino co(n)s(ulibus) | cohort(is) VI Thracum cui prae(e)st | Claudius Alpinus | pediti | Dolenti Sublusi f(ilio) Besso | et Valenti f(ilio) eius | descriptum et recognitum ex tabula | aenea quae fixa est Romae in muro | post templum divi Aug(usti) ad Minervam || Q(uinti) Aemili Soterichi | C(ai) Iuli Vitalis | Q(uinti) Pompei Homeri | P(ubli) Atimi Amerimni | P(ubli) Corneli Alexandri | L(uci) Pulli Trophimi | Q(uinti) Carrinati Quadrati.

«L’Imperatore Cesare Domiziano Augusto Germanico, figlio del Divo Vespasiano, pontefice massimo, avente potestà tribunizia per la quindicesima volta, essendo stato acclamato imperator per la ventiduesima volta ed essendo console per la diciassettesima volta, censore perpetuo e padre della patria, ai cavalieri e ai fanti che prestano servizio nell’ala praetoria e nelle dieci cohortesI Lusitanorum, I Cretum, I Montanorum, I Cilicum, I Flavia Hispanorum milliaria, II Flavia Commagenorum, III Raetorum, V Hispanorum, VI Thracum, VII Breucorum – dei cittadini romani, che si trovano in Moesia Superior[1] sotto il comando di Gneo Emilio Cicatricola Pompeo Longino e che hanno militato per venticinque anni[2] o più, come pure a quelli che hanno avuto un congedo onorevole dopo il servizio e i cui nomi sono scritti di seguito, a loro, ai loro figli e ai loro discendenti [l’imperatore] ha concesso la cittadinanza e il diritto di matrimonio con le spose che dovessero avere nel momento in cui la cittadinanza è stata loro attribuita o, per quelli che fossero celibi, con le spose che prenderanno in seguito, a condizione che ciascuno non sposi che una donna. Emesso il quarto giorno prima delle Idi di Luglio, sotto il consolato di Tito Prifernio Peto e di Quinto Fabio Postumino (= 12 luglio 96 d.C.). A Dolente Besso, figlio di Sublusio, fante della cohors VI Thracum, comandata da Claudio Alpino, e al figlio Valente; trascritto e riconosciuto conforme alla tavola di bronzo che è stata affissa a Roma, sulla parete dietro il Tempio del Divo Augusto, presso la statua di Minerva, // da Quinto Emilio Soterichio, Gaio Giulio Vitale, Quinto Pompeo Omero, Publio Atimo Amerinno, Publio Cornelio Alessandro, Lucio Pullo Trofimo e Quinto Carrinato Quadrato».

 

La frase finale è di particolare interesse, giacché c’informa che il diploma era la copia – o meglio, l’«estratto» – un documento originale esposto a Roma in un luogo pubblico: dapprima sul Campidoglio, «sulla base della statua del pretore Quinto Marcio Re, dietro il Tempio di Giove Ottimo Massimo», oppure «sul basamento dell’Altare della gens Iulia»; poi, a partire dall’anno 90, in muro post templum divi Augusti ad Minerva, come nel caso che s’è appena visto: un luogo, quest’ultimo, ai piedi del Campidoglio, più o meno corrispondente all’odierna piazza della Consolazione. Ciò significa che tutto faceva capo a Roma. Cioè che a Roma dovevano giungere, da ogni angolo dell’impero, tutte le informazioni relative ai congedi, a cominciare dagli elenchi dei soldati. Che a Roma, una volta redatto e «pubblicato» il documento ufficiale, venivano preparate anche le «copie» personalizzate. Infine, che da Roma quelle «copie» erano inviate a destinazione fino agli estremi confini dell’impero (dove infatti i diplomi – oltre un centinaio – sono stati ritrovati) per essere consegnate agli interessati, appositamente convocati.
È appena il caso di sottolineare come, per adempiere con rapida e perfetta esecuzione a tutte queste incombenze, fosse necessaria una burocrazia, centrale e periferica, estremamente ben organizzata ed efficiente (e un altrettanto organizzato ed efficiente servizio postale di corrieri a cavallo). Tutto questo dovette ripetersi per migliaia e migliaia di volte, nell’arco di almeno due secoli, visto ch’è stato calcolato come nel pieno periodo imperiale i congedati fossero ogni anno attorno ai quindicimila.

Diploma militare per L. Funisolano Vettoniano (CIL XVI 30). Tabula, bronzo, fine I sec. d.C. da Bad Deutsch-Altenburg (Carnuntum).

 

Quanto a questi, si trattava di uomini maturi ed esperti, ultraquarantenni, orgogliosi del loro passato, fiduciosi nell’avvenire, che, lasciando il servizio militare, potevano rientrare nella loro terra d’origine o andarsene da qualche altra parte (come quel marinaio della flotta del Tirreno che da Capo Miseno si trasferì nella non lontana Pompei, visto che in una di quella città fu ritrovato, nel 1874, un «decreto di congedo» emanato il 5 aprile dell’anno 71: pochi anni prima dell’eruzione!).
Ma più spesso succedeva che essi rimanessero nel luogo dove avevano lungamente militato, mettendovi casa con la famiglia che, non di rado, in quello stesso luogo, con una donna del posto, s’erano già formata e dove, magari, insieme agli altri benefici, avevano ricevuto un appezzamento di terreno, al posto della prevista «liquidazione» in denaro. Diventati così proprietari fondiari – e coltivatori diretti – i congedati incrementavano la popolazione di quei «borghi» che in genere si formavano nei pressi dei forti delle grandi unità militari alle quali i congedati stessi rimanevano in qualche modo legati, non solo sentimentalmente, ma anche concretamente – e proficuamente – con prestazioni, forniture e servizi di vario genere. Fino a che quegli stessi «borghi», anche grazie a loro, non finivano col trasformarsi in centri abitati di rilievo, molti dei quali sono stati all’origine di città tuttora esistenti, in Germania, in Inghilterra, in Spagna: da Bonn a Chester a Léon.
Non si può concludere senza osservare come la pratica del congedo – così strutturata e caratterizzata – abbia dato un contributo notevole alla romanizzazione (e all’urbanizzazione) di tante regioni periferiche dell’impero, specie in Occidente.
E come l’esercito sia stato lungamente, per il mondo romano, una sorta di «macchina di produzione di cittadini»: quasi una «riserva», inesauribile, alla quale attingere con tranquilla regolarità. E non senza garanzie di … buona riuscita.

 

*********************************************************************

[1] Nei Balcani, tra le odierne Serbia e Bulgaria.

[2] Lett.: che hanno meritato di ricevere venticinque anni, o più, di stipendio.