Il genere comico attraverso Aristofane

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 409-430.

La commedia: i caratteri generali

Gli agoni comici e le rappresentazioni. | Come i poeti tragici, così anche gli autori comici partecipavano ad agoni nei quali ciascuno presentava la propria opera. A partire dal 486/5 a.C., le gare si tenevano in occasione delle Grandi Dionisie; e successivamente, forse dal 442/1 a.C. in poi, fu istituito anche un secondo agone comico, dall’8 all’11 del mese di Gamelione (metà gennaio-metà febbraio), quando si celebravano le Lenee, o «feste dei torchi», così dette in onore di Dioniso Leneo. Ma mentre le Grandi Dionisie avevano carattere panellenico, alla rappresentazioni teatrali delle Lenee non era ammessa la partecipazione degli stranieri. Le opere di Aristofane presentate in occasione di questa solennità e giunte fino a noi dimostrano che questo particolare influiva sensibilmente sul tono e sugli argomenti delle commedie, che privilegiavano personaggi e avvenimenti più strettamente collegati alla società ateniese e alla vita cittadina. Per esempio, nelle Vespe, il tema fondamentale è quello della mania del protagonista per i processi e i tribunali, una passione che gli altri abitanti dell’Ellade attribuivano scherzosamente a tutti gli Ateniesi; oppure nei Cavalieri, il bersaglio preferito degli strali dell’autore è il demagogo Cleone, in quel periodo figura di punta della politica ateniese, ma anche oggetto di un’accesa polemica; non mancano gli attacchi a personaggi di secondo piano, ben noti ai concittadini, ma non altrettanto ai forestieri, i quali avrebbero perciò incontrato qualche difficoltà a capire le battute e a seguire la trama.

La procedura della gara era molto simile a quella degli agoni tragici. I preparativi iniziavano sei o forse anche nove mesi prima delle celebrazioni delle Dionisie e delle Lenee, sotto la sovrintendenza dell’arconte re, mentre il compito di giudicare le opere in lizza era affidato agli altri arconti. Poiché gli agoni erano organizzati con largo anticipo, è legittimo chiedersi se i poeti presentassero ai giudici testi già completi o soltanto delle bozze, abbastanza estese da permettere di esprimere con sicurezza un verdetto su tutta l’opera.

Attore comico con la maschera di un servo calvo. Statuetta, terracotta, II sec. a.C. da Canino (Italia). London, British Museum.

La questione, in effetti, non è assolutamente oziosa, dal momento che essa ha origine dallo stretto legame del teatro comico con l’attualità politica del tempo: infatti, nello spazio di sei o nove mesi poteva accadere di tutto, potevano verificarsi cambiamenti tali da costringere gli autori ad “aggiornare” le battute e le allusioni riferite a personaggi o fatti, o anche a rendere necessario un adattamento più sostanziale, benché il testo fosse già stato consegnato all’arconte. Ancora una volta, le Vespe e le Rane di Aristofane ci offrono esempi di modifiche dell’ultima ora: quando Cleone, verso la fine del 423 a.C., riuscì a mandare sotto processo lo stratego Lachete, promotore di una tregua annuale con Sparta, Aristofane non poteva passare sotto silenzio un argomento così importante. Poiché la commedia da lui già presentata, le Vespe, doveva andare in scena un mese esatto prima dell’elezione degli strateghi, decisiva per la ripresa delle ostilità o per il prolungamento della tregua e la stabilizzazione della pace, il poeta non si lasciò sfuggire l’occasione per manifestare la propria simpatia per Lachete e il suo odio viscerale per Cleone, inserendovi la scena del processo al cane Labete, il cui nome alludeva chiaramente a quello dello stratego. Nelle Rane, invece, il cambiamento fu determinato da due gravi lutti per il mondo culturale ateniese: la scomparsa di Euripide, avvenuta nell’inverno 407/6 a.C., seguita a breve distanza da quella di Sofocle (406/5 a.C.), il quale, soltanto qualche mese prima, era stato incoronato vincitore alle Grandi Dionisie. Con la sua morte si chiudeva la generazione dei grandi tragediografi dell’età delle Guerre persiane e scomparivano gli educatori di tanti Ateniesi, senza lasciare nessuno che sembrasse degno di prenderne il posto. Perciò, Aristofane, profondo ammiratore di Eschilo e ferocemente critico nei confronti di Euripide, immaginò che Dioniso, il dio del teatro, ritenendo indispensabile sulla terra la presenza di un poeta che inculcasse negli animi valori e ideali ormai pericolosamente indeboliti da gente come Euripide, concedesse all’ombra di Eschilo il privilegio di tornare fra i vivi. A Sofocle, giunto di recente nell’Ade, fu affidato il compito di custodire il trono posto accanto a quello di Plutone, che spettava al miglior poeta tragico, perché Euripide non lo occupasse. In conseguenza di quanto si è detto, insomma, è probabile che i commediografi presentassero al giudizio dell’arconte soltanto le parti corali dell’opera in gara; il magistrato valutava così anche la partitura musicale, dando ai coreuti tempo e modo di imparare musica, canto e danze, mentre all’autore non sarebbe mancata la possibilità di apportare eventuali ritocchi o modifiche al proprio testo.

Pittore di Teseo. Dioniso con tralci di vite su un carro-nave fra due satiri che suonano l’αὐλός. Pittura vascolare da uno σκύφος attico a figure nere, 500-450 a.C. London, British Museum.

Quanto alle modalità di rappresentazione, le cinque commedie prescelte andavano in scena tutte lo stesso giorno, dopo le tetralogie tragiche, alle quali erano riservati i primi tre giorni di festa. Durante la Guerra peloponnesiaca, in particolare, per motivi economici, la tetralogia tragica era messa in scena il mattino; le commedie, ridotte a tre, erano recitate nel pomeriggio. La rappresentazione, che era unica e non prevedeva repliche, avveniva nel teatro di Dioniso Eleutereo, sul pendio meridionale dell’Acropoli di Atene. Purtroppo, non disponiamo di informazioni più dettagliate sulle architetture sceniche e sulla scenografia vera e propria utilizzate per le commedie; tuttavia, abbiamo, come per il teatro tragico, qualche indicazione proveniente dalla pittura vascolare. Talvolta, anche l’analisi dei testi stessi delle commedie ci offre qualche spunto in più, mentre gli antichi studiosi di storia e di tecnica teatrale che ci hanno tramandato notizie più ampie e dettagliate sono tutti di epoca più recente; uno dei più importanti è sicuramente Giulio Polluce, un erudito del II secolo d.C., vissuto al tempo dell’imperatore Commodo.

Possiamo tuttavia affermare, con buona attendibilità, che la scenografia di base della commedia, protrattasi fino all’età ellenistica, era sempre la stessa, salvo il cambiamento di qualche particolare: una facciata scenica con tre aperture, che rappresentavano porte di edifici pubblici o privati, oppure grotte e ambienti naturali di altro genere. Al resto suppliva la fantasia degli spettatori, i quali, per altro, non avvertivano l’esigenza di un maggiore realismo. Dai testi delle commedie di Aristofane si può dedurre che, almeno in certi casi, egli si fosse servito anche di macchine sceniche: il βροντεῖον (la «macchina del tuono»), che consisteva in un otre di cuoio pesante pieno di pietre, appeso a una corda e fatto sbattere contro una lastra di bronzo; la μηχανή («macchina del volo»), una gru regolabile a varie altezze per simulare l’effetto del volo; e l’ἐκκύκλημα («congegno a ruote»), che serviva a rendere visibile agli spettatori l’interno degli edifici rappresentati sulla facciata scenica.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Eppure, più di ogni altro accorgimento scenografico, in età classica, nel teatro comico come in quello tragico, valeva il principio della convenzione scenica, normalmente accettato dal pubblico: perciò, quando all’inizio delle Nuvole Strepsiade, in preda all’insonnia causata dai debiti, chiamava il servo perché gli portasse la lucerna accesa e il libro contabile, le parole del poeta e dell’attore assumevano per gli spettatori il valore di una vera e propria didascalia scenica, ed essi immaginavano la camera da letto del personaggio a notte fonda, rischiarata appena dal fioco lume dello stoppino, anche se il teatro era illuminato dal sole dell’incipiente primavera mediterranea.

Nella commedia attica del V secolo a.C. gli attori erano di solito tre, ma alcune pièces di Aristofane fanno supporre che fosse presente in scena anche un quarto attore, al quale erano riservate solo piccole parti. Contrariamente alla tragedia, che usava una ricca varietà di costumi, gli attori comici indossavano una specie di calzamaglia a maniche lunghe, talora imbottita sulla pancia e sul posteriore, con evidente effetto caricaturale; sopra di essa i teatranti portavano una corta tunica, dalla quale sporgeva talvolta un membro virile di cuoio dalle dimensioni grottesche, forse in memoria dell’antico legame fra commedia e culti fallici. La maschera rappresentava, in modo ulteriormente caricaturale, il personaggio interpretato; verso la fine del V secolo, comunque, l’uso della maschera-ritratto venne meno, sostituita da quella che rappresentava un tipo fisso (donna, giovane, vecchio, fanciulla, servo).

Il coro era composto da ventiquattro elementi, con costumi ispirati al ruolo che veniva loro attribuito (persone di una determinata età o classe sociale, animali, ecc.): il gruppo partecipava in modo dinamico allo svolgimento dell’azione con il canto e con la danza. Quest’ultima, contrariamente alla tragedia, era caratterizzata da ritmi molto vivaci e passi assai diversificati, talora acrobatici, come il κόρδᾶξ, un ballo particolarmente scatenato (molto simile al moderno can-can).

Pittore anonimo. Processione falloforica. Pittura vascolare da una kylix attica a figure nere, c. 550 a.C. Firenze, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana.

I periodi della commedia. | Mentre la tragedia iniziò il suo declino negli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Euripide, la commedia mantenne per molto tempo ancora la sua vitalità, giungendo fino alla metà circa del III secolo a.C., adattandosi ai cambiamenti politici e culturali e seguendo l’evoluzione del costume e della società.

Proprio a causa di questi cambiamenti, gli antichi distinsero, nella storia della commedia, tre fasi: la commedia antica (ἀρχαία), dalle origini fino ai primi decenni del IV secolo a.C., quando ebbe fine l’egemonia ateniese; la commedia “di mezzo” (μέση), che giunge fino al 323 a.C., data che segna convenzionalmente l’inizio dell’età ellenistica; la commedia nuova (νέα), che ha il suo massimo esponente in Menandro e con la quale si arriva fino alla metà del III secolo a.C., in pieno Ellenismo. Quest’ultima fase, poi, ispirò i commediografi latini delle palliatae, così che il genere non scomparve, ma si trasferì in Italia, cambiò lingua e si arricchì di nuove caratteristiche, derivate dal contatto con la civiltà italica e si diffuse, quindi, in tutto il dominio romano. Ovviamente, durante un periodo di tempo così lungo, neppure la struttura della commedia rimase immutata, ma si semplificò e si adattò alle diverse esigenze del pubblico.

Le origini della commedia

Testimonianze e teorie. | Le origini della commedia sono incerte, e, come quelle della tragedia, si fondano su testimonianze antiche, talora discordi e prive di un sicuro fondamento. Aristotele (Poetica IV 1449a, 10), subito dopo aver fornito indicazioni sulle origini del genere tragico, afferma che la commedia ebbe inizio ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα («da quelli che guidavano le processioni falliche che ancor oggi in varie città sono rimaste nell’uso»).

L’usanza a cui allude il filosofo era antichissima e legata al mondo agricolo e pastorale; infatti, le falloforie, processioni rituali in cui si portava in corteo il simulacro dell’organo sessuale maschile, erano destinate a favorire la fertilità della terra e la fecondità del bestiame; al tempo stesso, i poteri apotropaici attribuiti al simbolo fallico allontanavano ogni influsso malefico.

Questa teoria sembrerebbe trovare conferma nel canto fallico riportato in una delle commedie aristofanee, gli Acarnesi (241-279). Il protagonista, Diceopoli, stanco dei disagi e delle miserie causati dal protrarsi della guerra peloponnesiaca, riesce a concludere una pace separata con gli Spartani. Pieno di gioia, festeggia l’avvenimento celebrando le Dionisie Rurali con una processione cui partecipano la figlia, che funge da canefora, portando sul capo un cesto con gli arredi sacri, il servo Xanthia («Il Rosso»), che reca il simbolo fallico, e lo stesso Diceopoli, che intona un canto adeguato al carattere della cerimonia, mentre la moglie assiste il corteo dal tetto della casa.

Dai tempi di Pisistrato, che aveva appoggiato personalmente il culto dionisiaco, ad Atene si celebravano quattro feste in onore del dio, due nei mesi invernali e due all’inizio della primavera, quando si riaprivano le rotte commerciali alla navigazione. Nel mese di Poseideone (dicembre-gennaio) avevano luogo le Dionisie Rurali (o Piccole Dionisie), quelle celebrate da Diceopoli con la sua famiglia; nel mese di Gamelione (gennaio-febbraio) cadevano le Lenee, seguite dalle Antesterie, nel mese di Antesterione (febbraio-marzo), mentre nel mese di Elafebolione (marzo-aprile) si celebravano le Grandi Dionisie, le più importanti, solennizzate anche dagli agoni tragici e comici.

Pittore di Pan. Un’etera porta un fallo. Pittura vascolare da un cratere attico a figure rosse, 470 a.C. ca. Antikensammlung, Berlin.

Le nostre informazioni sulle Piccole Dionisie sono piuttosto scarse, perché si trattava di feste di villaggio, e ogni demo o comunità rurale aveva le proprie, distribuite, come le nostre sagre, nel corso del mese. Gli abitanti dei borghi contadini, attratti dalle occasioni di commercio, di aggregazione sociale e dai divertimenti, si spostavano da una comunità all’altra, partecipando a più di una festività. Secondo Platone (Repubblica V 475d), esistevano persone che seguivano queste manifestazioni per particolari interessi musicali: infatti, vi partecipavano cori che interpretavano canzoni nuove e che costituivano motivo di curiosità e di attrazione per gli intenditori di musica.

Il momento principale della cerimonia era costituito da un corteo in cui si portava in processione il φαλῆς, un organo maschile di grandi dimensioni, a quale si attribuiva il potere di favorire la fecondità della terra e del bestiame, allontanando allo stesso tempo carestie e malattie con i suoi poteri apotropaici.

La pittura vascolare del V secolo a.C. ci ha lasciato numerose raffigurazioni di tali cortei, i quali presentano caratteristiche sostanzialmente uniformi, a parte qualche variante, giustificabile con la diversità del luogo di provenienza.

Oltre alla processione fallica, uno dei passatempi popolari più in voga durante queste solennità era l’ἀσκωλιασμός, una gara fra giovani, che consisteva nel mantenersi in equilibrio il più a lungo possibile a piedi nudi sopra un otre ricolmo, la cui pelle era stata abbondantemente impregnata di olio e grasso: l’otre e il suo contenuto toccavano in premio al vincitore della prova. Durante la festività si facevano anche chiassose sfilate (κῶμοι), ben documentate dalla pittura vascolare, alle quali partecipavano uomini mascherati o travestiti da animali. Per questi motivi e per l’allegria facile e un po’ sfrenata dovuta alle abbondanti libagioni, Aristotele (Poetica IV 1449a, 10) attribuì l’origine della commedia a coloro che guidavano le «processioni falliche», e associò l’etimologia del nome κωμῳδία a κῶμος (Poetica III 1448a, 35).

Pittore Amasi. Dioniso fra i comasti. Pittura vascolare da un’anfora a figure nere, 550-525 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

Alle Dionisie Rurali, celebrate da Diceopoli, benché in formato ridotto, non manca nessuno degli elementi essenziali: vi è infatti la processione, il simbolo fallico e il canto in suo onore. Il corteo è composto dallo stesso Diceopoli, dalla figlia in funzione di canefora, con al schiacciata da offrire al dio (le fanciulle di buona famiglia, riccamente vestite e adrone di tutti i gioielli, partecipavano alle processioni cultuali, recando sul capo i canestri che contenevano i paramenti sacri), e dal servo Xanthia, che porta il simulacro fallico, mentre la moglie del protagonista assiste dall’alto del tetto a terrazza della loro abitazione. L’Acarnese, quindi, intona una canzone gioiosa e un po’ sboccata, in piena armonia con la natura del dio di cui si celebra la festa, esaltando tutti i piaceri della pace, non esclusi quelli sessuali, e augurandosi di essersi liberato per sempre dalle battaglie e dai «Lamachi», così che lo scudo possa rimanere per sempre appeso al chiodo sopra il camino: un’aspirazione, che, almeno, nell’ottica di Aristofane, accomunava tutti i buoni democratici e che era il sogno di quella classe media alla quale andavano, senza riserve, tutte le sue simpatie.

A suffragio della testimonianza aristotelica circa il collegamento tra i canti fallici e la commedia, possiamo citare anche il frammento di uno studioso di antichità, vissuto intorno al 200 a.C., Semos di Delo, riportato a Ateneo nei Deipnosophistae (14, 622c), nel quale si descrivono le processioni falloforiche che si svolgevano in teatro, a opera di attori chiamati “fallofori” o “itifalli”: costoro, inghirlandati e travestiti da ubriaconi, giungevano danzando fino all’orchestra, intonavano un canto in onore di Dioniso e poi si abbandonavano a ogni genere di beffe e di battute salaci nei confronti del pubblico.

Pittore ‘KY’. I comasti in danza. Pittura vascolare da una κύλιξ a figure nere, 575-565 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre..jpg

Sulla base di questa descrizione, alcuni studiosi hanno creduto di poter riconoscere nelle processioni falloforiche anche gli elementi essenziali della parabasi, che, almeno in Aristofane, comprende prima un invito rivolto dal coro agli spettatori perché ascoltino con attenzione; poi, un inno in onore di un dio (non necessariamente Dioniso); e, in seguito, battute beffarde e talora licenziose, analoghe, per spirito e linguaggio, a quelle dei carmina fescennina, che rivelano comuni origini popolari e agresti.

Tuttavia, le teorie fin qui elencate spiegano soltanto l’origine delle parti corali della commedia; rimane il problema, tutt’altro che secondario, dell’origine delle parti drammatiche. A questo proposito, un’utile informazione ci è fornita ancora da Ateneo (Deipnosophistae 14, 621e), il quale riferisce che uno scrittore della Laconia, Sosibio, ricorda che a Sparta, degli attori comici mascherati, chiamati δεικηλῖκται, improvvisavano delle scenette di vita quotidiana, i cui protagonisti erano personaggi come il ciarlatano imbroglione, il ladruncolo di frutta, il medico itinerante di origine straniera, ecc. La notizia sembra confermata da un passo di Senofonte (Anabasi VI 1), in cui si narra che in Tessaglia, nelle città di Enia e di Magnesia, era in uso una danza mimica fatta da due ballerini, dei quali uno faceva la parte del contadino e l’altro del ladro. Da queste forme elementari di mimo si svilupparono in seguito, in ambiente dorico, la farsa megarese, e in ambiente italico la farsa fliacica, così detta perché gli attori erano chiamati φλύακες.

È probabile che, nella commedia, queste forme improvvisate di scenette o di mimi abbiano dato origine ai primi rudimenti del dialogo, mentre le parti corali e, in particolare, la parabasi, sarebbero derivate dai canti fallici. Tuttavia, il problema rimane assai complesso, perché quanto abbiamo detto non è sufficiente a spiegare altri punti oscuri come l’etimologia del termine “commedia”, la natura delle sue connessioni con il culto dionisiaco, la sua origine dorica o attica.

Antimene il pittore. Dioniso su un asino. Anfora attica a figure nere, 520 a.C. ca. Baltimore, Walters Art Museum.

Per quanto concerne il primo argomento, Aristotele (Poetica III 1448a, 35) fornisce due etimologie di κωμῳδία: la prima, che considera la più probabile, si ricollegherebbe a κῶμος, termine con cui si indicava, in attico, l’allegria festosa e un po’ sfrenata dovuta all’ebbrezza, tipica delle processioni rituali in onore di Dioniso; la seconda, invece, si riallaccerebbe al vocabolo dorico κώμη, cioè «villaggio», alludendo così all’ambiente prediletto dagli attori girovaghi per le loro improvvisazioni comiche.

Circa il legame con il culto dionisiaco, rimane certo il rapporto della commedia con gli antichissimi riti di fecondità, dato che Dioniso annovera fra i suoi attributi pure il fallo. Tale connessione spiegherebbe anche l’uso, da parte dei poeti comici, di un linguaggio spesso allusivo o apertamente volgare e osceno; infatti, tale abitudine non si giustifica solo facendo appello a un’applicazione molto larga della παρρησία («libertà di parola»), perché quest’ultima, almeno nella commedia antica, è utilizzata prevalentemente a fini satirici, per una corrosiva dissacrazione della religione, della politica, della filosofia e della vita pubblica e privata di personaggi di spicco o della gente comune.

Nella commedia antica, che è quella che conosciamo meglio attraverso l’opera di Aristofane, gli argomenti di maggiore spicco sono rappresentati dalla politica e dal costume. Perciò, per comprendere bene il pensiero del poeta, le esigenze collettive di cui volle farsi portavoce, la comicità, l’ironia e la carica allusiva delle situazioni e delle battute, è necessaria una conoscenza molto approfondita di personaggi, avvenimenti, orientamenti etici, politici e culturali, che caratterizzavano la vita della πόλις nel momento in cui la commedia fu rappresentata. È necessaria, inoltre, un’assoluta padronanza del non facile linguaggio comico, perché non esiste traduzione che possa davvero rendere pienamente lo spirito di scanzonata allegria tipico di certe parti corali o la polemica aggressiva, sboccata, sanguigna, degli agoni e della parabasi.

La commedia in Sicilia e nella Magna Grecia

Epicarmo. | Nei primi decenni del V secolo a.C. la commedia si sviluppò anche in Sicilia e nella Magna Grecia. Anzi, secondo Aristotele (Poetica III 1448a, 30), il poeta siracusano Epicarmo ne sarebbe stato il precursore. In seguito, tuttavia, la funzione del coro, assente nella variante siciliana, avrebbe costituito un fondamentale elemento di differenza con la commedia attica.

Epicarmo (530-435 a.C. c.) nacque forse a Megara Iblea, ma trascorse la sua lunghissima vita a Siracusa, dove iniziò la carriera poetica negli ultimi anni del VI secolo a.C., legato da profonda amicizia al tiranno Ierone. A Epicarmo sono attribuite più di quaranta commedie, di cui, però, non restano che alcuni titoli. Da essi, comunque, è possibile desumere la predilezione dell’autore per la parodia di argomenti mitologici, di episodi dell’épos omerico e di aspetti e personaggi della realtà quotidiana. Tuttavia, i pochi frammenti rimasti non consentono di intuire quale fosse l’intreccio dell’azione, mentre rivelano che il modo con cui erano trattati i caratteri dei personaggi aveva intenti decisamente caricaturali.

La notizia riferita da Aristotele, secondo cui Epicarmo, insieme a Formide di Siracusa, sarebbe stato il primo commediografo, dovrà essere forse intesa nel senso che Epicarmo fu il primo a collegare con criteri di successione logica e cronologica una serie di scene mimetiche di origine popolare, dando vita a un intreccio compiuto di fatti.

Le commedie di Epicarmo, nonostante il largo successo, non ebbero imitatori o seguaci in Sicilia, ma alcuni spunti e trovate presenti in esse furono utilizzati dai poeti attici. Inoltre, alcuni tipi umani del suo teatro (il parassita, lo spaccone, ecc.) preludono ad analoghi caratteri della commedia nuova, che avrebbero ispirato gli autori della fabula palliata latina.

Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.

Sofrone. | L’elemento mimico, tipico delle rappresentazioni più antiche, servì da spunto a un poeta della metà del V secolo a.C., più giovane di Epicarmo di una generazione, e contemporaneo a Euripide: Sofrone di Siracusa. Costui diede vita a un nuovo tipo di componimento, che consisteva nella rappresentazione realistica di scene e personaggi della vita di tutti i giorni: il mimo (da μιμέομαι, «imitare»), distinto in maschile e femminile, a seconda dei personaggi interpretati. Sofrone fu il primo a dare dignità letteraria alle improvvisazioni comiche degli attori dorici, trasformandole in brevi scenette, scritte in prosa ritmica e in forma dialogica. Il frammento più esteso che sia pervenuto è costituito da una ventina di versi e appartiene a un mimo femminile, in cui si descrive una cerimonia di magia, forse in onore della dea notturna Hecate[1].  

La commedia attica antica

La fase più antica della commedia attica è nota quasi esclusivamente attraverso le opere di Aristofane: in effetti, dei suoi predecessori si conosce assai poco, oltre alle notizie fornite da Aristotele, ad alcuni titoli e qualche sparuto frammento.

Fra i commediografi antichi si conoscono i nomi di Magnete e Chionide: il primo è ricordato da Aristofane per il suo spirito mordace, che però si attenuò con gli anni; il secondo avrebbe riportato la vittoria nel primo agone comico del 486 a.C. Ai primi decenni del V secolo appartiene anche Ecfantide. Ma la commedia attica antica acquisì il suo aspetto più tipico (la prevalenza della satira politica) soltanto con Cratino (517-420 a.C.), che dominò quasi tutto il secolo con la sua lunga esistenza. Egli conquistò le prime vittorie in età già matura, cioè dopo il 458, e l’ultima risale al 423, anno in cui vinse con la Bottiglia, sbaragliando gli antagonisti (fra cui lo stesso Aristofane, che gareggiava con le Nuvole). Dei frammenti, numerosi ma brevi, di cui si dispone, emerge uno spiccato interesse per la letteratura, in cui predilesse la poesia giambica, e l’attualità. Fra le personalità del suo tempo, dimostrò incondizionata ammirazione per Cimone, mentre non risparmiò pungenti battute nei confronti di altri, compreso Pericle, che non esitò a chiamare «Zeus dalla testa a cipolla», a causa della forma oblunga del suo cranio. L’avversione per il grande statista era anche il tema di una parodia mitologica, composta nel 430/429 e intitolata Dionisalessandro. Un posto certamente particolare merita la Bottiglia (Πυτίνη), forse l’ultima commedia di Cratino: si trattava di una pièce dal contenuto autobiografico, presentata alle Grandi Dionisie del 423 e scritta per difendersi dall’accusa di essere un vecchio ubriacone.

Pittore di Tarporley. Scena comica. Pittura vascolare da un κάλυξ-κρατήρ apulo a figure rosse, 400-390 a.C. c. New York, Metropolitan Museum of Art.

Antiche testimonianze, ricavate quasi tutte da vari capitoli della Poetica aristotelica, informano sull’attività di alcuni commediografi minori, fra i quali l’ateniese Cratete, di cui si ricorda un’opera, che parodiava il mito dell’età dell’oro e aveva per protagonisti degli animali parlanti (come nelle favole di Esopo), e che dimostrava una certa predilezione dell’autore per temi fantastici. Concittadini di Cratete furono Callia e Teleclide, autori fecondi e di un certo successo, ma di cui resta solo qualche titolo.

Negli anni fra il 430 e il 415 a.C. ad Atene fu attivo anche Ferecrate, famoso per la grazia e per la purezza del suo linguaggio. Dai frammenti pervenuti si può dedurre che egli rinunciò alla satira politica e serbò i suoi strali per i cattivi poeti e i musicisti mediocri, rei di aver offuscato il panorama culturale attico. Significativa la satira contro i filosofi cinici, espressa nei Selvaggi, in cui il coro era composto da misantropi che avevano abbandonato la società civile per vivere nutrendosi di soli vegetali (interpretando alla lettera il monito cinico di vivere secondo natura). Invece, nei Minatori il poeta descriveva l’aldilà come un regno felice, in cui i defunti se la spassavano fra ricchi banchetti e belle ragazze. Mentre i Persiani, in cui si faceva anche la parodia dei versi dell’Elettra sofoclea, contenevano un’ironica descrizione del fasto orientale. Con Ferecrate la commedia attica acquistò la varietà di metri tipica anche del teatro aristofanesco.

Pittore di Brygos. Dioniso e i Satiri. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Contemporaneo di Aristofane fu Eupoli, nato ad Atene nel 446 a.C., che debuttò a soli sedici anni come commediografo e continuò poi ininterrottamente la sua attività sino alla sua scomparsa (avvenuta, probabilmente, nel 411, durante la spedizione ateniese nell’Ellesponto). Eupoli fu un artista di grande successo. Poco più anziano di Aristofane, intrattenne con lui rapporti di amicizia per buona parte della giovinezza: forse collaborarono anche, dato che nel 424 ciascuno dei due presentò una commedia dai toni acremente polemici nei confronti del governo di Cleone. In seguito, però, la rivalità artistica ebbe il sopravvento ed essi si denigrarono l’un l’altro con accuse di plagio. Dell’opera di Eupoli sopravvivono alcuni titoli e frammenti, dai quali è possibile dedurre che lo stile del poeta fosse quasi esclusivamente satirico.

Un altro autore dell’epoca fu Platone il Comico, il primo commediografo a intitolare espressamente le sue composizioni con il nome del personaggio preso di mira (Iperbolo, Pisandro, Cleofonte, ecc.). Egli fu anche autore di opere di evasione, parodiando miti molto popolari, come avvenne nella Lunga notte, in cui il poeta rievocava l’incontro fra Zeus e Alcmena, da cui sarebbe nato Eracle (un tema che, più tardi, avrebbe ripreso Plauto nell’Amphitruo).

Struttura e componenti della commedia antica attraverso Aristofane

Prologo. | La commedia antica, a noi nota attraverso i testi di Aristofane, si apriva con il prologo, che, come nella tragedia, informava gli spettatori sull’antefatto o anticipava, talora con notevole ampiezza, le future azioni del protagonista, chiarendone le motivazioni. Esemplare, a questo proposito, il prologo delle Nuvole (1-126), in cui il poeta affida al protagonista stesso il compito di spiegare agli spettatori le cause del suo stato d’animo, informandoli poi sui mezzi di cui intende servirsi per risolvere la situazione.

Nel cuore della notte, Strepsiade, un agiato agricoltore attico, non riesce a dormire, angosciato dal pensiero dei debiti che ha dovuto contrarre per soddisfare la costosa passione di suo figlio Fidippide per i cavalli da corsa. Preoccupato e depresso, Strepsiade ripercorre, con una lunga analessi, tutta la vita trascorsa, da quando egli, giovanotto di campagna, abituato al duro lavoro, al risparmio, agli usi semplici e un po’ rozzi della gente del suo ceto, commise l’errore di sposare una ragazza di città, di famiglia nobile, piena di ambizioni e di pretese, soprattutto circa l’educazione dell’unico figlio. Mentre Strepsiade, disperato, si domanda come farà a restituire i soldi ai creditori, un pensiero consolatore gli si affacci alla mente: esiste in Atene una scuola, chiamata “Pensatoio”, diretta da Socrate, nella quale, dietro compenso, si insegna l’arte di vincere qualunque causa. Con l’animo colmo di sollievo, Strepsiade si abbandona a liete fantasie: passando alla prolessi, egli immagina che suo figlio imparerà da quei maestri il modo di dimostrare ai creditori che non è affatto tenuto a pagare i debiti; così, tutti i suoi problemi saranno finalmente risolti. Esultante e pieno di speranza, Strepsiade chiede a Fidippide di iscriversi subito a quella mirabile scuola di eletti ingegni, ma il ragazzo rifiuta.

Fin dai primi versi, il brano si rivela un’eloquente testimonianza di tutti gli aspetti tipici della vis comica di Aristofane: bisticci di parole non sempre facili da rendere in italiano, perché si fondano prevalentemente sulle assonanze o sulla somiglianza fonica di termini di significato assai diverso fra loro (cfr. al v. 23 l’accenno alla «coppa», la lettera Q, che indicava il numero 90 e con cui venivano marchiati i cavalli di particolare pregio; al v. 52, «Coliadi» e «Genetillidi», i due nomi delle festività in cui era celebrata Afrodite, alla quale era dedicato un santuario sul promontorio Coliade, contengono anche un’intraducibile allusione oscena; al v. 74, il gioco di parole scaturisce sull’affinità di suono fra ἴκτερος, «itterizia», e ἵππερος, «ipperizia», neologismo creato dal poeta, che significherebbe «cavallinite» o «febbre cavallina»); toni paratragici (cfr v. 30, «qual debito mi giunse», in cui l’esclamazione alta e solenne è desunta forse da Euripide); uso dell’ἀπροσδόκητον, un esempio del quale è fornito al v. 37 con l’allusione al δήμαρχος che «punzecchia» Strepsiade fra le coperte e gli impedisce di prender sonno. Ci si aspetterebbe, infatti, che si trattasse di una pulce o di una cimice, ma, poiché il poveretto è assillato dai debiti, è più logico che il suo tormento siano gli ufficiali dei demi, che controllavano la solvibilità dei debitori e la validità delle garanzie da essi fornite; ai vv. 95-96 compare, deformata a fini comici, l’affermazione: «Il cielo è un forno, che sta tutto intorno a noi, e noi siamo il carbone»; la frase è disinvoltamente attribuita al filosofo Ippone, contemporaneo di Pericle. Costui, sostenitore di teorie ateistiche, aveva espresso la convinzione che la volta celeste coprisse il mondo come una cupola; di qui, l’associazione di immagine operata dalla rustica fantasia di Strepsiade con lo πνιγεύς, il forno casalingo di terracotta usato per la cottura della pasta di pane e fornito di un coperchio emisferico.

Pittore di Cotugno. Scena di farsa fliacica con un vecchio. Cratere a campana apulo a figure rosse, c. 370-360 a.C. Malibu, Paul Getty Museum.

Al di là di queste caratteristiche di stile, tipiche della musa aristofanesca, il soliloquio di Strepsiade verte su tre interessanti aspetti di costume: il problema dei debiti, il matrimonio fra persone di ceto diverso, le divergenze nell’educazione dei figli.

Nel mondo antico, in assenza di organizzazioni creditizie vere e proprie, la circolazione di denaro aveva carattere quasi esclusivamente privato. Il sistema legislativo non prevedeva né proteggeva alcuna forma di speculazione sulla ricchezza, così che creditore e debitore potevano contare soltanto sulla fiducia e sull’onestà reciproca; perciò, il prestito veniva considerato una forma di investimento piuttosto rischiosa, benché il debitore dovesse fornire una garanzia adeguata, specialmente per cifre di una certa entità, e gli interessi fossero abbastanza elevati (da 10% al 25-30%) e non soggetto a regolamentazione legale. Il debitore poteva versare alla fine del mese i soli interessi maturati sulla somma presa in prestito, ma il creditore poteva, in qualsiasi momento, pretendere anche la restituzione del capitale, indennizzandosi come meglio credeva in caso di mancato pagamento. Ciò spiega perché Strepsiade si sentisse morire, ogni volta che arrivasse il venti del mese (v. 17): infatti, poiché in Attica il mese era regolato sul ciclo lunare di ventinove o trenta giorni, il poveretto sapeva che, a quella data, gli rimanevano solo pochi giorni alla scadenza.

Pittore di Briseide. Priamo entra nella tenda di Achille. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, 480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

Tormentato da mille ansie, il protagonista tenta di risalire alla fonte dei suoi mali e crede di scoprirla nell’errore di aver sposato una donna di condizione sociale superiore alla sua e abituata a un tenore di vita ben diverso: lui, un campagnolo agiato, ma dai modi rustici e dalle abitudini semplici e grossolane, si è preso una sposa tutta lussi, raffinatezze e pretese, nientemeno che una «nipote di Megacle». Tale precisazione ci permette di ricostruire la genealogia di questa elegante ragazza di città: il nome, infatti, era tipico del γένος degli Alcmeonidi, dal quale, per parte di madre, discendeva anche Pericle. Il padre della sposa di Strepsiade era probabilmente figlio di Megacle e di Cesira, segretario dei tesorieri di Atena nel 428/7 a.C., e vincitore della corsa con la quadriga alle Olimpiadi del 436. Una simile genealogia, accompagnata da tante glorie agonali, spiega l’orgoglio gentilizio della moglie di Strepsiade, trasmesso poi al figlio, insieme con l’abitudine di portare i capelli lunghi, propria dei giovani ateniesi di famiglia ricca e nobile, e con la passione per l’ippica, evidente perfino nell’onomastica dei rampolli delle famiglie altolocate (i nomi con –ippo che infastidiscono tanto il protagonista! Vedi v. 64).

Il matrimonio fra persone di ceto diverso, soprattutto quando la sposa era di rango superiore al marito, era considerato in genere con occhio critico. Qualche intellettuale rigidamente conservatore, come Teognide, aveva addirittura considerato le unioni miste fra ἁγαθοί e κακοί come un intollerabile segno della promiscuità e della decadenza sociale che si erano instaurate dopo la metà del VI secolo a.C., quando l’antica aristocrazia terriera aveva iniziato a essere soppiantata dai nuovi ricchi, detentori di capitali. Negli anni successivi questo atteggiamento si attenuò, ma le perplessità non scomparvero mai del tutto, tanto che il contrasto dovuto al diverso status sociale dei coniugi rimase uno dei temi prediletti dei poeti comici. Un precedente, in realtà, si ha anche nel teatro tragico, a testimonianza dello spirito innovatore di Euripide, che attribuisce al personaggio di Ermione, figlia di Menelao e di Elena, un atteggiamento di sprezzante superiorità nei confronti del marito Neottolemo, della sua famiglia e del suo regno (Andromaca 209-214). Dalla convinzione che una donna altolocata e più ricca dello sposo fosse una vera e propria sciagura, in seguito avrebbe tratto origine una figura del teatro di Plauto, la uxor dotata, amante del lusso, ambiziosa, ribelle, aggressiva, spendacciona, sempre pronta a rinfacciare al coniuge di più modesti mezzi i fasti della casa paterna e le miserie di quella maritale.

Pittore di Cotugno. Scena di farsa fliacica con un’anziana donna. Cratere a campana apulo a figure rosse, c. 370-360 a.C. Malibu, Paul Getty Museum.

In Aristofane, lo scontro fra Strepsiade e consorte si fa più vivo alla nascita del primo e unico figlio, a causa della scelta del nome. Nella società patrilineare greca, il primogenito maschio portava il nome del nonno paterno; perciò, Strepsiade propone per il neonato quello di suo padre, Fidone (che letteralmente vorrebbe dire «Tirchione»). Ma la madre non è assolutamente d’accordo: non essendovi il costume di imporre a un maschio il nome del nonno materno, ella pretende almeno, per suo figlio, un appellativo che termini in –ippo o –ippide, degno del discendente di una nobile schiatta. Il risultato è grottesco: infatti, Fidippide, anch’esso un nome parlante, è ricollegabile etimologicamente, nella sua prima parte, al verbo φείδεσθαι («risparmiare»); perciò, potrebbe essere tradotto con «Tirchippide», come intuì genialmente Ettore Romagnoli.

Ma le interferenze materne non si fermano qui: in spregio della tradizione ateniese, che affidava alla madre l’educazione delle femmine e al padre quella dei maschi, la discendente di Megacle contrappone ai limitati orizzonti dell’esperienza paterna ben altre mete da raggiungere: carri, cavalli, tuniche lunghe e adorne. Dai sogni amorevoli dei genitori per il loro piccino emergono, ancora una volta, due mondi contrapposti: la madre vede il suo Fidippide, ormai giovanotto, guidare il carro vestito della preziosa ξυστίς («lunga tunica») indossata dai nobili partecipanti alla processione sacra delle Grandi Panatenee, la più importante solennità religiosa ateniese, dedicata ad Atena Poliade. Il corteo si svolgeva a conclusione della festa, il ventotto del mese di Ecatombeone (luglio-agosto), data di nascita della dea. Partecipare alla parata che lo accompagnava costituiva di per sé già una patente di nobiltà. Si spiega perciò come mai una Megaclide desiderasse a ogni costo un simile onore per il figlio, il quale, una volta cresciuto, preferì orientarsi verso un avvenire così gratificante, anziché seguire i consigli del padre, che lo avrebbe visto, perfetto duplicato suo e del nonno, vestito di pelli e impegnato a riportare all’ovile un gregge di capre, dopo averle fatte pascolare lungo qualche assolata petraia attica.

Pittore anonimo. Atena e la civetta. Pittura vascolare da un frammento di λήκυθος attico a figure rosse, 460-450 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

Parodo. | Come nel genere tragico, il prologo della commedia era seguito dalla parodo (πάροδος), o canto d’ingresso del coro. Negli spettacoli della fase più antica i due semicori, guidati dal corifeo, esprimevano di solito la propria volontà di esercitare una funzione di sostegno o di opposizione nei confronti del protagonista, aiutandolo o contrastandolo nel raggiungimento dei suoi scopi.

Ecco come si comporta, nelle Vespe (230-247), il coro dei vecchi componenti dell’eliea, l’antico tribunale popolare, istituito da Solone, pronti a venire in soccorso del loro amico Filocleone, che il figlio ha chiuso in casa per impedirgli di partecipare alle sedute:

Il passo rivela, oltre alle consuete peculiarità stilistiche, uno degli aspetti fondamentali della commedia antica: lo stretto legame con la politica e con le vicende passate e presenti della città. In primo luogo, i coreuti, raffigurati come vecchi ultrasettantenni, fanno riferimento alla loro età ormai avanzata, ricordando l’assedio di Bisanzio, a cui avevano partecipato insieme, ai tempi della loro giovinezza. Da Tucidide (I 94), infatti, si apprende che nel 477-476 a.C., quando la città ellespontina era occupata dai Persiani, i Greci inviarono a espugnarla una flotta al comando dello spartano Pausania, della quale facevano parte anche trenta triremi ateniesi. L’allusione alla vecchiaia, oltre a giustificare almeno in parte il carattere bisbetico dei giudici, delineato secondo schemi cari ai comici greci e latini quando descrivevano persone in là con gli anni, fornisce loro l’occasione per rievocare con nostalgia i bei tempi andati e le prodezze della vita militare, secondo un modello divenuto tradizionale dall’omerico Nestore in poi. Tuttavia, nel canto del coro le necessità dell’immediato presente hanno ben presto la meglio sul flusso dei ricordi del passato: bisogna affrettarsi, perché sta per avere luogo il processo contro Lachete, uno stratego ateniese, figlio di Melanopo, del demo di Essone, una delle figure più eminenti della vita politica cittadina, propugnatore della pace. Ancora Tucidide (III 86) informa che nel 427 a.C. costui era stato inviato in Sicilia con la flotta in aiuto agli abitanti di Leontini, senza però ottenere grandi risultati. Rientrato ad Atene, in seguito fu citato in giudizio da Cleone, che lo accusava di frode finanziaria. L’azione giudiziaria a cui alludono gli anziani coreuti delle Vespe ebbe luogo probabilmente nel 422/1 a.C., l’anno stesso in cui andò in scena la commedia.

Degno di nota il fatto che i vecchi, memori delle loro antiche prodezze, considerino anche questo processo come un’impresa di guerra, alla quale devono presentarsi con le provviste per tre giorni, com’era consuetudine fare in qualunque spedizione militare. Solo che, in questo caso, le loro scorte, anziché di cibo, sono di «rabbia tremenda» (ὀργὴν… πονηρὰν) contro il presunto colpevole, di cui si dice che abbia «un alveare» (σίμβλον) pieno di denaro, pronto per essere svuotato del maltolto dai giudici “vespe”. A questo punto, i vecchi coreuti si accorgono dell’assenza di Filocleone, il più agguerrito di loro. Preoccupati per lui, giunti nei pressi di casa sua, si dichiarano pronti a correre in suo aiuto e si domandano che cosa possa essergli capitato, delineando un gusto ritratto dell’eroe in absentia (266-280):

Agone. | Dopo la parodo, la vicenda era rappresentata suddivisa in episodi, corrispondenti ai moderni atti e intercalati dai χορικά («canti del coro»), aventi la stessa funzione degli stasimi nella tragedia. Uno dei momenti più significativi era rappresentato dall’agone (ἀγών), un vivace contrasto fra il protagonista e il suo diretto avversario o fra il protagonista e il coro. Caratterizzato da uno scambio di battute a botta e risposta, con lo stesso schema metrico e lo stesso numero di versi (sizigia epirrematica), esso rappresentava uno dei momenti più importanti nello svolgimento dell’azione: qui il protagonista sbaragliava l’avversario, dando prova di un’eloquenza serrata e aggressiva, dal tono molto libero, in cui coesistevano le argomentazioni sagge e ispirate al buon senso, l’ironia più corrosiva e perfino il «turpiloquio» (αἰσχρολογία) e gli «insulti» (ἐπιρρήματα). Si trattava, per il poeta comico, dell’occasione più adatta per mettere in luce le sue capacità dialettiche, spesso ispirate, con gustosa parodia, ai modi dell’oratoria contemporanea, politica e giudiziaria.

Alle Grandi Dionisie del 423 a.C. erano in gara il giovane Aristofane e il vecchio Cratino, il primo con le Nuvole, il secondo con la Bottiglia. Benché Aristofane considerasse le Nuvole una delle sue commedie più riuscite, la giuria assegnò la vittoria allo sfidante più anziano, il secondo premio si aggiudicò Amipsia, un altro poeta comico abbastanza noto, e soltanto l’ultimo posto fu riservato al giovane commediografo. Aristofane, comunque, seppure amareggiato (l’insuccesso è ricordato nella parabasi delle Vespe, 1043), non si perse d’animo, apportò alcune correzioni al testo e lo mandò nuovamente in scena. Tuttavia, secondo una delle ὑποθέσεις che accompagnano la commedia, il fiasco fu ancora più clamoroso del primo, e le Nuvole non furono più rappresentate. Nella redazione pervenuta, che è quella corretta, Aristofane, lasciati da parte – anche se non del tutto – gli attacchi contro gli uomini politici, si volge a considerare con occhio critico la rivoluzione culturale e morale in atto, attribuita all’insegnamento dei sofisti e a quello di Socrate. Nella sua polemica egli associò piuttosto disinvoltamente al filosofo e ai sofisti anche Euripide, colpevole, a suo avviso, di aver insinuato nell’animo del pubblico, e soprattutto nei più giovani, idee tese a intaccare la morale tradizionale del cittadino ateniese e l’antica, solida struttura della πόλις, fondata sulle virtù dei πρόγονοι («avi»).

Pittore di Berlino. Coro di Satiri. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 540 a.C. Berlin, Staatliche Museen.

Le beffe dei commediografi a danno dei filosofi non erano cosa nuova, visto che Ippone di Reggio, un intellettuale fisico dell’età di Pericle, aveva subito i pungenti attacchi di Cratino. Quanto a Socrate, non fu risparmiato neppure da altri autori, più o meno tutti coevi di Aristofane, come Eupoli e Amipsia. Da parte loro, Socrate (fra l’altro, amico e ammiratore di Euripide) e gli altri esponenti della cultura filosofica non facevano mistero del loro disprezzo per la commedia, che giudicavano povera di contenuti, frivola e grossolana. Tuttavia, a ben guardare, il vero soggetto delle Nuvole aristofanee non è la satira contro la filosofia o contro Socrate, in quanto persona, ma contro il nuovo modello di educazione sostenuto dalla sofistica.

L’accusa principale mossa ai sofisti derivava dall’importanza data all’eloquenza come mezzo di persuasione nell’ambito della vita politica. Tale convinzione fece sì che la retorica acquistasse sempre più spazio nell’educazione dei giovani, tanto da divenirne una parte essenziale, con le sue regole, le sue scuole e i suoi maestri. Ciò diede adito anche alle degenerazioni dell’eloquenza, favorendo l’affermarsi di personaggi discutibili, i quali, desiderosi di fama, ma soprattutto di denaro, si vantavano di insegnare l’arte di difendere qualunque causa, di rendere la parola un’arma temibile più forte di qualunque legge o principio istituzionale. In conseguenza di ciò, parve a molti, fra cui anche Aristofane, che i concetti morali e civici sui quali si era fondata fino ad allora l’istruzione perdessero il loro carattere di stabilità e di universalità, indeboliti da un insidioso relativismo. Contemporaneamente, la speculazione filosofica e il progressivo ampliarsi della scienza rendevano più fragile l’impalcatura mitologica sulla quale si reggeva la religione ufficiale.

Aristofane si rese conto con preoccupazione che questa crisi dei valori tradizionali coincideva con un periodo molto difficile per Atene, impegnata già da alcuni anni nel duro conflitto con Sparta. Perciò, non solo volle additare quelle che, secondo lui, erano le cause di un deleterio cambiamento, ma volle anche proporre il rimedio, che consisteva, in ultima analisi, nel rivolgere lo sguardo al passato, al buon tempo antico e ai suoi ideali considerati incrollabili.

Aristofane. Busto, copia romana in marmo di I secolo, da Villa Medici (Roma). Firenze, Museo degli Uffizi.

A questo scopo, l’autore inserì nelle Nuvole un celebre e vivacissimo ἀγών («scontro verbale») fra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto, mettendo di fronte, come due antagoniste, l’educazione tradizionale e quella dei tempi nuovi. Affidando in ragazzi al γραμματιστής, che insegnava loro a leggere e a scrivere, al κιθαριστής, che faceva apprendere i primi rudimenti della musica, e al παιδοτρίβης, il maestro di ginnastica, che si occupava della loro formazione fisica, l’educazione tradizionale faceva dei giovani cittadini disciplinati, modesti, moralmente corretti e valorosi, perché tutti gli insegnamenti, pur con le loro specifiche diversità, tendevano a questo: così fu istruita la generazione dei combattenti di Maratona (μαραϑωνόμαχοι), prova evidente dell’efficacia di quella παιδεία.

Ma il Discorso Ingiusto, sfrontato e blasfemo, può contribuire a distruggere fisicamente e moralmente la gioventù, incoraggiando la malizia ed eliminando ogni inibizione. Il capolavoro creato da simili insegnamenti, rafforzati da quelli dei cattivi poeti (il sofistico Euripide, con le sue donne scostumate e i suoi eroi straccioni e piagnucolosi, non aveva forse preso il posto del patriottico Eschilo, dalla fede incorrotta e dall’epica grandiosità?), è Fidippide, che, laureato alla scuola di Socrate, bastona il padre e la madre e dimostra, con sciolta dialettica, che la ragione è dalla sua parte.

Purtroppo, nonostante tutta la sua buona volontà, Aristofane non riuscì a salvare la gioventù del suo tempo, i cui migliori esponenti si raccoglievano proprio intorno a Socrate, mentre la figura del poeta-educatore stava per scomparire per sempre. Per circa un secolo, gli intellettuali greci si sarebbero espressi in prosa – come Platone, Isocrate, Senofonte, Demostene –; in seguito, è vero, sarebbero sorte altre forme di poesia, ma ben lontane, nei contenuti e nelle idee, da quelle alle quali Aristofane guardava con tanta nostalgia, convinto che la «natura» degli Ateniesi sarebbe rimasta sempre la stessa e che la responsabilità del loro peggioramento fosse da attribuire soltanto a cattivi metodi educativi.

Dopo un primo rifiuto, il giovane Fidippide si lascia convincere dal padre Strepsiade e si reca alla scuola di Socrate. Qui lo apostrofano il Discorso migliore e il Discorso peggiore. Nell’agone fra i due si può probabilmente cogliere la parodia di un celebre apologo del sofista Prodico di Ceo, in cui si racconta che una volta Eracle, mentre stava riflettendo sull’orientamento da dare alla propria vita, fu richiamato da due donne, che incarnavano l’una la Virtù e l’altra la Dissolutezza; ciascuna di loro aveva cercato di sedurlo e di conquistarlo alla propria causa con abilità dialettica, proprio come i due Discorsi fanno con Fidippide (Nuvole 961-1082 passim):

 Parabasi. | Dopo l’agone aveva luogo la parabasi, o «sfilata» (da παραβαίνειν, «lasciare il proprio posto», «sfilare»), l’elemento più caratteristico della commedia attica antica, analogo all’attuale passerella: i componenti del coro, deposti la maschera e i costumi scenici, passavano in mezzo agli spettatori, rivolgendo loro ogni genere di battute molto libere o intavolando discussioni sugli argomenti più disparati, tanto che la parabasi poteva assumere un carattere epirrematico tale da renderla molto simile all’agone. È tuttora dubbio fra gli studiosi quale fosse l’originaria collocazione di questo momento nella struttura drammatica; tuttavia, nelle opere aristofanee la parabasi si trova sempre verso la metà dello spettacolo e rappresenta un momento di pausa nello svolgimento dell’azione: il poeta, servendosi della voce del corifeo, era libero di affrontare temi diversi, collegati perlopiù a personaggi o a fatti di attualità.

Secondo le informazioni lasciate da Efestione, un metricologo del II secolo d.C., nella sua forma più completa, la parabasi constava di sette parti (tre anastrofiche e quattro a struttura strofica): la prima era il κομμάτιον («pezzettino»), durante la quale il coro salutava gli attori che uscivano di scena; seguiva poi la παράβασις vera e propria, la «passerella» dei coreuti, di norma recitata in versi anapestici; l’ultima parte astrofica era detta πνῖγος («stretta»), in cui si riprendevano, di solito in forma esortativa, i concetti espressi nella parte anapestica. A questo punto aveva inizio la sezione strofica, detta sizigia epirrematica, che comprendeva un’ode, un epirrema, un’anti-ode e un anti-epirrema: le prime due parti, cantate e danzate dal coro, contenevano solitamente invocazioni alla Musa e agli dèi e, talvolta, battute ironiche e canzonatorie all’indirizzo di qualche personalità in vista. L’epirrema e l’anti-epirrema, in tetrametri trocaici di numero variabile, ma sempre divisibile per quattro, avevano contenuti diversi: i capi dei due semicori discutevano di politica, di attualità, davano consigli agli spettatori, esprimevano programmi di contenuto “serio”, morale, religioso, civico; oppure si proponevano di beffare o di lodare i personaggi della vita pubblica.

In questa forma, la parabasi compare negli Acarnesi, nei Cavalieri, nelle Vespe e negli Uccelli; nelle altre commedie di Aristofane essa appare manchevole di qualche parte, oppure è del tutto assente (come nelle Ecclesiazuse e nel Pluto).

Pittore Cleofone. Scena di coro ditirambico. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 450-400 a.C. Copenhagen, Nationalmuseet.

Nell’ambito della produzione aristofanesca, meritano particolare attenzione le parabasi dei Cavalieri e della Pace, perché contengono interessanti indicazioni sui poeti comici più antichi e sulle innovazioni apportate da Aristofane stesso ai contenuti e allo stile della commedia. Il poeta presentò i Cavalieri alle Lenee del 424 a.C., quando era poco più che ventenne (si suppone, infatti, che fosse nato nel 445/4 a.C.), riportando il primo premio con questa pièce caratterizzata da un pungente satira politica contro Cleone, uomo di punta dei democratici radicali, che volevano a ogni costo la continuazione della guerra a oltranza. Il fatto che l’opera fosse stata premiata appare significativo per due ragioni: da un lato, ciò dimostra l’ammirazione per il coraggio del giovanissimo autore, che non aveva esitato ad attaccare in modo così diretto e aggressivo un personaggio tanto influente; dall’altro, si volle riconoscergli anche il merito di aver dato vita a un genere di comicità nuova e più raffinata rispetto a quella dei suoi pur illustri predecessori.

La parabasi dei Cavalieri. | La parte anapestica (cioè la parabasi vera e propria) dei Cavalieri presenta due argomenti di particolare interesse: una breve storia della commedia antica prima di Aristofane e alcuni cenni autobiografici sulla carriera del poeta esordiente, espressi attraverso una serie di metafore desunte dalla vita di mare. Per quanto riguarda la storia del teatro comico antecedente e le vicende degli autori che ne furono protagonisti, Aristofane insiste sulla volubilità del pubblico, pronto a crearsi degli idoli, ma altrettanto rapido anche nell’abbatterli e nel dimenticarli: Magnete, Cratino e Cratete sono state le vittime più illustri della capricciosa mutevolezza degli spettatori. Un tempo osannati e popolarissimi, sono stati ormai dimenticati da tutti, anche se furono poeti di notevole valore.

Di Magnete, vincitore degli agoni comici intorno al 470 a.C., Aristofane ricorda le grandi capacità mimetiche dimostrate in alcune sue commedie, in cui l’autore stesso recitava «emettendo per voi tutti gli accenti, suonando la lira, agitando le ali, parlando in lidio, ronzando, tingendosi di verde come le rane»; ma tali doti non bastarono a salvarlo dall’oblio. Cratino, paragonato a un fiume in piena, tanto era l’impeto con il quale si imponeva a tutti gli antagonisti, fu, per un certo tempo, il poeta preferito nei simposi, tanto che in tali riunioni non si sentiva cantare altro che «Dorò dai sandali di fico» e «Artefici d’inni ben costruiti», parole con cui iniziavano due odi degli Eunidi, una delle sue composizioni più popolari. La prima di esse doveva essere un’ironica tirata contro la corruzione dilagante in città, visto che il nome Dorò ricorda chiaramente il termine δῶρον («dono»; ma anche «tangente», «bustarella»), mentre l’epiteto «sandali di fico» allude ai sicofanti, spie e ricattatori di denaro, il cui nome si ricollegava appunto a «fico» (σῦκον). Della seconda non si sa molto, ma, accennando all’ambiente simposiale, Aristofane fornisce comunque un’indicazione preziosa, consentendo di capire meglio come avvenisse la diffusione dei testi al di là dei canali ufficiali: il simposio, infatti, aveva carattere privato, ma in esso i vari generi di poesia avevano sempre goduto di grande favore; dal momento che, oltre ai lirici, erano assai apprezzati anche gli autori teatrali, era normale che i partecipanti recitassero o ascoltassero recitare passi di poesia tragica o comica, come era accaduto con le odi di Cratino. Eppure, ciononostante, nemmeno questo poeta sopravvisse al suo mito; e, testimonianza vivente dell’incostanza del pubblico, offriva nei suoi ultimi anni un triste spettacolo di miseria, quando ormai era diventato vecchio «come Conno»[2]. Al contrario, secondo Aristofane, Cratino avrebbe dovuto godere di onori, agi e rispetto, in memoria della sua arte di un tempo: soprattutto, afferma il poeta con un arguto ἀπροσδόκητον, il vecchio commediografo avrebbe dovuto «bere» nel Pritaneo[3]. Fra le antiche glorie del teatro comico, solo Cratete ebbe un po’ più di fortuna, alternando momenti di fama e di oscurità.

Pittore di Berlino. Coro di attori travestiti da animali. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 540 a.C. Berlin, Staatliche Museen.

La lunga considerazione sul destino degli autori delle generazioni passate serve ad Aristofane per introdurre la parte autobiografica del brano: se egli stesso, da giovane, ha esitato a farsi avanti in prima persona, il motivo è da ricercarsi nelle sue riflessioni sulla mutevolezza del favore del pubblico e sulla caducità delle glorie artistiche. Egli ha voluto prepararsi bene, saggiando le proprie forze, visto che anche nella vita marinara non si può pretendere di mettersi subito al timone senza aver fatto prima l’esperienza del remo. Con questa metafora, il commediografo allude al proprio tirocinio poetico, durante il quale egli collaborò con altri autori, senza far comparire direttamente il proprio nome. Questo periodo durò fino al 427 a.C., l’anno in cui rappresentò i Banchettanti, affidati alla regia di Callistrato. Infine, nel 424 a.C., vennero i Cavalieri, di cui Aristofane fu autore e regista[4].

Il protagonista dei Cavalieri è Demos (il «popolo»), che, a causa dell’età avanzata, non è più completamente lucido di cervello ed è divenuto bisbetico, insopportabile e mezzo sordo. Uno dei suoi servi, un Paflagone disonesto e scaltro, approfitta della debolezza del padrone per usargli contro ogni sorta di lusinghe, per derubarlo poi a man salva. Due servitori fedeli, invece, cercano invano di aprire gli occhi al vegliardo, aiutati dai rappresentanti della classe equestre, gente di sani principi, che hanno in odio gli imbrogli del Paflagone. Tuttavia, i loro sforzi sembrerebbero destinati a fallire, se essi non fossero illuminati dalle parole di un oracolo, il quale predice che il Paflagone potrà essere sconfitto ed estromesso, solo quando si troverà un individuo peggiore di lui. I due servi fedeli, così, iniziano un’attenta e meticolosa ricerca: alla fine, trovano un salsicciaio ambulante che sembra possedere tutte le carte in regola per la sostituzione. Allora, lo convincono a seguirli e a cercare di soppiantare il Paflagone nelle simpatie di Demos. Fra i due avviene un violento scontro verbale, nel quale, per la prima volta, il Paflagone ha la peggio. A questo punto, l’azione è interrotta dalla parabasi, nella quale Aristofane spiega al suo pubblico perché si sia finalmente deciso a presentare una commedia come autore e quali siano le novità della sua arte (507-550):

La parabasi della Pace. | La Pace fu presentata alle Grandi Dionisie del 421 a.C., in un momento politico assai delicato per Atene. L’anno precedente, nella battaglia di Anfipoli, erano caduti i due sostenitori più accesi del conflitto, l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida. Questo aprì la via alle trattative, concluse con la pace di Nicia proprio nel 421.

La commedia, con la sua struttura bipartita, rispecchia in modo abbastanza evidente questa situazione. Nella prima parte, la pace appare il sogno di un intero popolo, incarnato nella figura del vignaiolo Trigeo, che agogna di riprendere la placida vita di sempre. Nella seconda parte, dopo che il sogno si è realizzato, la comicità scaturisce dal contrasto fra la gioia dei pacifisti e la delusione dei guerrafondai, ridotti in miseria dalla scomparsa del commercio delle armi. Come di consueto, le due parti sono separate dalla parabasi, anche se, in questo caso, il brano in anapesti offre al poeta la possibilità di una riflessione autobiografica e artistica. In quest’occasione, Aristofane dimostra una profonda consapevolezza del valore culturale e civico della sua funzione di poeta. È vero che un autore che approfitta della parabasi per cantare le proprie lodi dovrebbe essere buttato fuori dal teatro dai rabduchi, ma qualche volta si può fare un’eccezione, se il commediografo se lo merita veramente, per la sua novità e per il suo coraggio.

Un tempo le composizioni comiche si accontentavano di una comicità grossolana, affidata al carattere e ai lazzi di una galleria di personaggi ben noti al pubblico: lo schiavo pigro, ladro e imbroglione, perennemente affamato; il campagnolo sempliciotto, che rivela però un acume inatteso e notevole capacità di iniziativa nel difendere quel poco che ha; il ghiottone e l’ubriacone, spesso incarnati in un’unica figura (quella di Eracle!), i cui gagliardi appetiti, in contrasto con lo scarso intelletto, erano fonte inesauribile di comicità; lo spaccone, spesso un atleta o un soldato, sempre pronto a magnificare le proprie gesta, uscendo poi sconfitto da qualunque situazione; il padre di famiglia severo e geloso del patrimonio, alle prese con un figlio scapestrato; lo straniero goffo, che non sa parlare o non capisce la lingua locale. Tutti questi caratteri compaiono puntualmente nelle opere di Aristofane: i servi sono presenti in quasi tutte le sue commedie, con le caratteristiche testè ricordate; il tipo del campagnolo è egregiamente rappresentato sia da Trigeo nella Pace sia da Diceopoli negli Acarnesi; l’Eracle nelle Rane e negli Uccelli non vien mai meno alla sua fama; Lamaco, l’eroe dal manto scarlatto e dell’elmo a tre cimieri, è il “Capitan Fracassa” degli Acarnesi; nelle Nuvole, Strepsiade e Fidippide offrono un esempio di contrasto generazionale che si ripete, rovesciato, nelle Vespe; lo Scita delle Tesmoforiazuse, lo Pseudoartabano degli Acarnesi, con il loro linguaggio incomprensibile o il loro greco comicamente storpiato, rappresentano il linguaggio esotico fuori posto nella realtà cittadina e oggetto di antipatia o dileggio. Ma se questi erano i presupposti, allora in che cosa consisteva la millantata novità di Aristofane?

Cefisodoto il Vecchio. Irene e Pluto. Statua, copia romana in marmo da originale del 375 a.C. ca dall’Agorà di Atene. München, Glyptothek.

In primo luogo, il poeta ampliò e arricchì l’intreccio, pur conservando i meccanismi più consolidati: lo scontro fra i personaggi, l’organizzazione di un progetto, la sua realizzazione o il suo fallimento, il viaggio in luoghi lontani dalla realtà comune, il capovolgimento del vivere quotidiano, il travestimento, il banchetto. Tuttavia, su questo consueto canovaccio si innestano scene e situazioni varie e movimentate, personaggi delineati con grande arguzia e finezza psicologica. Anche la lingua e lo stile rivelano il segno di una geniale capacità innovativa; infatti, pur conservando alcuni aspetti più grossolani e popolareschi, che costituivano un’attrazione per il pubblico meno colto, Aristofane si orientò decisamente verso modi diversi e più raffinati, come la parodia tragica, epica e lirica, la commistione fra realtà e metafora, l’umorismo surreale, ecc., il tutto con risultati di grande efficacia e finezza. Questi nuovi strumenti della composizione e dello stile furono sostenuti dal profondo impegno del poeta, desideroso che la propria arte contribuisse al miglioramento non solo culturale, ma anche morale, della sua città.

Tale è lo scopo della satira politica e di costume, con cui Aristofane non esitò ad attaccare le personalità più in vista, il cui comportamento appariva, però, assai discutibile, anticipando di qualche secolo quello spirito che avrebbe spinto Orazio ad affermare che nulla vieta ridentem dicere verum («di dire la verità ridendo», Satire I 1, 24).

Nella Pace l’oggetto degli strali di Aristofane è soprattutto il demagogo Cleone, paragonato prima a uno dei mostri abbattuti da Eracle, la terribile idra pluricefala; di costui si dice che viva immerso in un disgustoso fetore di cuoio marcio (una chiara allusione alla professione di conciatore di pelli esercitato da Cleone prima di darsi alla politica!) e difeso da «minacce limacciose» (che richiamano alla mente la palude di Lerna, dimora dell’idra). In un altro momento, l’odiato demagogo è descritto come una creatura mostruosa composita, che nessuno aveva mai osato affrontare. Se nei Cavalieri Cleone, noto per la sua eloquenza violenta e aggressiva, era stato paragonato a Tifone, qui egli riunisce in sé tutti gli aspetti più orridi e ripugnanti: i suoi occhi sono sfrontati come quelli della sua amante Cinna (ricordata anche nelle Vespe come una famigerata donna di malaffare); è pronto a succhiare il sangue come Lamia (un demone mostruoso, il cui nome era usato come spauracchio per bambini, dei quali si raccontava divorasse le carni); per di più, si dice che Cleone puzzi come una foca, il cui fetore era già stato dichiarato insostenibile da Menelao, costretto a nascondersi sotto la pelle di uno di questi simpatici animali per interrogare Proteo, il vecchio del mare (Odissea IV 441-442).

Il vignaiolo Trigeo, il protagonista della Pace, stanco della guerra come tutti gli agricoltori attici, decide di recarsi al cospetto di Zeus per chiedergli di porre fine al conflitto. Salito in groppa a un gigantesco scarabeo stercorario, Trigeo giunge in cima all’Olimpo. Ma, ricevuto da Hermes, viene a sapere da lui che Pace non potrà mai più tornare sulla Terra, perché Polemos (la guerra) l’ha rinchiusa in una profondissima caverna. Inoltre, egli e il suo fedele servo Cidemo (il tumulto) si apprestano a distruggere le città della Grecia, ad una ad una, pestandole in un enorme mortaio. Per fortuna, quando i due si accingono all’operazione, si accorgono di aver smarrito il pestello; ciononostante, pur non riuscendo a trovarne uno, decidono di fabbricarselo da sé. Approfittando della loro momentanea assenza, Trigeo, con l’aiuto del coro, riesce a liberale Pace e a tornare con lei fra i mortali. A questo punto dell’azione, il poeta inserisce la parabasi: Aristofane tesse l’elogio della propria opera, nella quale, per primo, ha avuto il coraggio di fare dell’esplicita e diretta satira politica (Pace 734-761).

L’esodo. | La commedia si chiudeva quindi con l’esodo, cioè l’«uscita» di scena del coro, di solito dando vita a un chiassoso corteo (κῶμος), a cui partecipavano tutti i componenti. L’atmosfera festosa, spesso sottolineata da una diretta apostrofe agli spettatori, costituì l’archetipo per la conclusione della commedia latina. Talora, l’azione si concludeva con un lieto evento: per esempio, le nozze del protagonista. In questo caso il κῶμος era sostituito da un imeneo.

Pittore di Perseo. Erma con uccello, altare e focolare. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. 460 a.C. Berlin, Staatliche Museum.

Al termine degli Uccelli, il matrimonio di Pistetero con Regina, paragonato a quello di Zeus con Hera, ne offre un esempio (1722-1765):


[1] L’argomento ricompare, circa due secoli dopo, nelle Incantatrici di Teocrito, un poeta siracusano di età ellenistica, che ebbe certamente presente la composizione di Sofrone. Certamente, a questi si ispirò un altro autore ellenistico, contemporaneo di Teocrito, Eroda, celebre per i suoi mimi.

[2] Questi era stato un famoso citarista, maestro di Socrate, che, dopo anni di successi e di vittorie negli agoni musicali (fu incoronato anche a Olimpia), era caduto in disgrazia, tanto che il suo nome divenne proverbiale come termine di paragone dispregiativo.

[3] Dato che ai personaggi di riguardo era offerto il pranzo a spese pubbliche nel Pritaneo, un edificio monumentale collocato alle pendici dell’Acropoli, ci si aspetterebbe che a Cratino fosse piuttosto dato da «mangiare»; ma siccome egli aveva fama di essere particolarmente amante del vino, Aristofane non si risparmia questa frecciata.

[4] La metafora del rematore allude alla prima fase, quella delle collaborazioni, componendo i testi per gli altri; poi, divenuto «ufficiale di prua» (il più alto grado dopo il capitano), Aristofane rappresentò commedie scritte interamente da lui, ma con la regia di altri; finalmente, ricco di una ben consolidata esperienza, poté «mettersi al timone» e debuttare felicemente come autore e regista, sperando che il pubblico lo apprezzasse, concedendo una corona alla sua fronte resa «luminosa» da una precoce calvizie.

Senofane di Colofone

di G. REALE, Il pensiero antico, Milano 2001, 34-36 [testo rielaborato, con bibl. ampliata].

La tematica cosmologica, che aveva caratterizzato la speculazione ionica e in parte quella pitagorica, si trasformò notevolmente con Senofane (Ξενοφάνης). Tradizionalmente costui è stato considerato il fondatore della Scuola eleatica, ma questa è ormai una tesi storiografica superata e i moderni studi tendono a staccare decisamente il Colofonio dai filosofi di Elea. Senofane nacque infatti nella ionica Colofone, probabilmente intorno al 570 a.C. Dai suoi frammenti si ricava che verso i venticinque anni egli dovette emigrare dalla madrepatria (gli studiosi hanno pensato verosimilmente che ciò sia accaduto verso il 545 a.C. a causa della presa del potere nella città di Arpago in nome di re Ciro). Dalla Ionia, dunque, egli passò prima in Sicilia e poi in Italia meridionale, ma continuò per tutta la vita a vagare, cantando le proprie composizioni poetiche. Morì assai vecchio (forse raggiunse e superò i cent’anni!). Fra le sue numerosissime composizioni spiccavano le Elegie e i Silli (Σίλλοι, poesie satiriche). Il pensiero propriamente filosofico forse era contenuto in un poema dottrinale, che viene menzionato nelle fonti antiche con il titolo Della natura (Περὶ ϕύσεως), al quale sono stati assegnati nell’edizione Diels-Kranz diversi frammenti pervenuti. Alcuni studiosi moderni hanno, però, dubitato dell’esistenza di un simile poema dottrinale; può darsi che tale dubbio sia un eccesso di ipercritica.

Anonimo, Senofane di Colofone. Incisione da Thomas Stanley, The History of Philosophy…, 1655.

Il tema di fondo sviluppato nei carmi di Senofane è costituito soprattutto dalla critica a quella concezione degli dèi che era stata fissata in modo paradigmatico da Omero e da Esiodo e che era propria della religione tradizionale e dell’uomo greco in genere. Il filosofo individuò a perfezione l’errore di fondo da cui scaturirono tutte quante le assurdità che erano connesse a tale concezione: questo errore consisteva nell’antropomorfismo, cioè nella convinzione che gli dèi in genere dovessero avere aspetto, forme, sentimenti, tendenze del tutto simili a quelli degli uomini, e solamente più maestosi, più vigorosi, più possenti e, quindi, con differenze puramente quantitative e non qualitative. Al che egli obiettò che «se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani o potessero dipingere e compiere quelle opere che gli uomini fanno con le mani, i cavalli plasmerebbero immagini degli dèi simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi, e riprodurrebbero i corpi degli dèi simili all’aspetto che ha ciascuno di essi» (F 21 B 15 D.-K., ἀλλ’ εἰ χεῖρας ἔχον βόες ‹ἵπποι τ’› ἠὲ λέοντες / ἢ γράψαι χείρεσσι καὶ ἔργα τελεῖν ἅπερ ἄνδρες, / ἵπποι μέν θ’ ἵπποισι βόες δέ τε βουσὶν ὁμοίας / καί ‹κε› θεῶν ἰδέας ἔγραφον καὶ σώματ’ ἐποίουν / τοιαῦθ’ οἷόν περ καὐτοὶ δέμας εἶχον ‹ἕκαστοι›).

Leone. Statua, marmo pentelico, IV sec. a.C. da una tomba del Ceramico. Pireo, Museo Archeologico.

Insomma, secondo Senofane, gli immortali non hanno e non possono avere sembianze umane; ma meno ancora è pensabile che essi abbiano costumi umani e, soprattutto, che commettano azioni illecite e nefande, come raccontano i miti (F 21 B 16 D.-K.). È altresì impossibile che gli dèi nascano, perché, se nascessero, necessariamente dovrebbero pure morire; ed è anche impossibile che un dio si muova e se ne vada errando da un posto all’altro, come gli dèi di Omero (F 21 B 11; 14; 26 D.-K.). Infine, i vari fenomeni celesti e terrestri, che le credenze popolari identificavano con le varie divinità, andrebbero spiegati come fenomeni puramente naturali, come, per esempio, l’arcobaleno, che si credeva essere la dea Iris (F 21 B 32 D.-K.). Ecco che la filosofia, a breve distanza dalla sua nascita, mostrava già tutta la sua forza innovatrice: venne a squarciare credenze secolari ritenute saldissime, ma solo perché consustanziale nel modo di pensare e sentire tipicamente ellenico, contestando qualsiasi validità alle medesime; in breve, insomma, rivoluzionò interamente il modo di vedere dell’uomo antico. Dopo le critiche mosse da Senofane, l’uomo occidentale non avrebbe più potuto concepire il divino secondo forme e misure umane.

Ma se le categorie di cui disponeva il Colofonio erano sufficienti per far crollare le fondamenta della concezione antropomorfica degli dèi, erano peraltro insufficienti per determinare positivamente il concetto di divinità stessa. Dopo aver negato con argomenti del tutto adeguati che il divino potesse essere concepito in forme umane, Senofane giunse ad affermare che il dio è il cosmo. Occorreva, però, una ben più lunga elaborazione di categorie speculative perché si giungesse a concepire la divinità non solo come altro dall’uomo, ma altresì come altro dal cosmo.

Pittore della Gigantomachia di Parigi, Poseidone colpisce con il tridente e schiacchia con l’isola di Nisiro il gigante Polibote. Pittura vascolare su kylix attica a figure rosse, 500-450 a.C. Paris, Cabinet des Medailles.

Il F 21 B 23 D.-K. suona così: εἷς θεός, ἔν τε θεοῖσι καὶ ἀνθρώποισι μέγιστος, / οὔτι δέμας θνητοῖσιν ὁμοίιος οὐδὲ νόημα («Un dio, sommo tra gli dèi e gli uomini, né per figura né per pensiero simile ai mortali»). Molto probabilmente il suo significato originario doveva essere il seguente: «L’universo […] è uno, dio, sommo fra gli dèi e gli uomini, né per figura né per pensiero simile ai mortali». Se così fosse, allora il dio di cui parlava Senofane sarebbe un dio-cosmo, che non esclude ma ammette altri dèi o enti divini (siano essi parti o forze del cosmo medesimo, oppure altre cose che dagli scarsi frammenti non si riesce a determinare). E se il dio di Senofane è un dio-cosmo, ben si comprendono le altre affermazioni del filosofo su di lui, assai famose: «Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode» (F 21 B 24 D.-K., οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει); e ancora: «Ma senza fatica, con la forza della mente tutto fa vibrare» (F 21 B 25 D.-K., ἀλλ’ ἀπάνευθε πόνοιο νόου φρενὶ πάντα κραδαίνει). E si capisce anche come vada intesa la negazione del movimento che già si è letta: «Sempre nel medesimo punto egli rimane senza muoversi affatto, né a lui s’addice aggirarsi ora in un posto ora in un altro» (F 21 B 26 D.-K., αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν / οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι).

Tutte affermazioni, queste, che, in base al parametro di lettura che si è indicato, si commentano e spiegano perfettamente: il vedere, udire e pensare, così come la forza che tutto fa vibrare, sono attribuiti al dio, anziché in dimensione umana, in dimensione cosmologica. Dunque, Senofane non era un monoteista, perché parlava tranquillamente di «un dio» e di «dèi», tanto al singolare quanto al plurale, anche perché nessun Greco mai percepì un’antitesi fra monoteismo e politeismo; non era uno spiritualista, perché la sua divinità era il cosmo, e la categoria dello spirituale era al di là dell’orizzonte della sua riflessione.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

Senofane non concepì una fisica nel senso degli Ionici né, meno che mai, una fisica delle apparenze in senso parmenideo. Egli pose, come testimoniano alcuni frammenti, la terra come principio del tutto: «Tutto deriva dalla terra e tutto nella terra finisce» (F 21 B 27 D.-K., ἐκ γαίης γὰρ πάντα καὶ εἰς γῆν πάντα τελευτᾶι); in altri egli parlò, invece, di terra e di acqua insieme: «Tutti dalla terra e dall’acqua siamo nati» (F 21 B 33 D.-K., πάντες γὰρ γαίης τε καὶ ὕδατος ἐκγενόμεσθα). Sembra che Senofane con terra (o con terra e acqua) abbia voluto spiegare solamente l’origine degli esseri terrestri e non l’universo intero: pertanto, il suo principio è altra cosa rispetto al principio (ἀρχή) degli Ionici, che intendeva giustificare tutte le cose. D’altra parte, se egli negava che il cosmo fosse nato, mutasse e si muovesse, non era contrario all’idea che i singoli elementi del cosmo nascessero, si muovessero e mutassero; perciò, la sua fisica non può essere assolutamente identificata con la fisica delle apparenze di Parmenide.

Il Colofonio, inoltre, espresse alcune idee morali di alto valore e, in particolare, affermò, combattendo i pregiudizi del suo tempo, la netta superiorità di quelli che oggi si direbbero “valori spirituali”, quali la virtù, l’intelligenza, la sapienza, rispetto ai valori puramente vitali, quali la forza fisica degli atleti. Da quelli la città poteva trarre certamente ordinamenti migliori e felicità maggiore che non da questi (F 21 B 2 D.-K.), ma erano ideali che, per quanto belli, non erano fondati filosoficamente con una riflessione generale sull’uomo stesso: riflessione, questa, che si sarebbe poi vista puntualmente ripresa da Parmenide e da altri filosofi presocratici.

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Gli dèi omerici

di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.

Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.

Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.

Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.

La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.

La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.

“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.

Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.

Il culto di Mithra nella Commagene

di RIES J., Il culto di Mithra nella Commagene, in Opera omnia, vol. VII/1, Religioni del Vicino Oriente Antico, Il culto di Mithra dall’India vedica ai confini dell’Impero romano, trad. it. NANINI R., rev. COSI D.M., Milano 2013, pp. 193-203*.

 

1. Il Mithra ellenistico nella Commagene

La Commagene

Cominciamo la nostra ricerca sulla diffusione del culto di Mithra soffermandoci innanzitutto sulla Commagene, antica Provincia siriaca del regno seleucide. La Commagene, situata tra la Cilicia e l’Eufrate, ai piedi del Tauro, con capitale Samosata, venne integrata nell’Impero seleucide. Il nome Commagene è un adattamento greco del mesopotamico Kummuh. Questa regione ha una lunga tradizione culturale: la Commagene si trovava infatti ai confini tra l’Iran, la Mesopotamia, il paese degli Hurriti e quello degli Ittiti. Nel 162 a.C. il governatore della provincia, Tolomeo, si pone a capo di una rivolta e trasforma la Provincia in un regno indipendente. Nella Provincia della Commagene, che rappresentava un trait d’union tra il mondo iranico e il mondo anatolico, negli ultimi decenni sono state fatte importanti scoperte relative al culto di Mithra. Vanno innanzitutto ricordati i numerosi sovrani che portano il nome teoforo Mitridate. Nel regno del Bosforo il re Mitridate fu designato dall’imperatore Claudio, nel 41 a.C., come successore di Tolomeo. Nel regno dei Parti troviamo Mitridate I Filelleno dal 171 al 138 a.C. e Mitridate VI il Grande dal 123 all’86 a.C., colui che conquistò l’Armenia e istituì rapporti diplomatici con Roma nel 92[1].

Carta dell’Asia minore sudorientale (da WALDMAN H., Die kommagenischen Kultreformen unter König Mithradates I. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos I., Brill, Leiden 1973).

Nella Commagene il culto di Mithra divenne un culto regale nel corso dei secoli precedenti alla nostra era. La documentazione è vasta[2]. Dörner descrive una serie di scoperte: statue, rilievi, iscrizioni. In esse ritroviamo l’incontro tra le tradizioni greche e quelle iraniche, in particolare in alcune iscrizioni e statue in cui figurano quattro nomi divini, quelli di Apollo, Mithra, Helios ed Hermes.

Sembra certo che l’iscrizione (OGIS 383 = IGLSyr 1 1 = CIMRM 32) di Nemrut Dağı (in cui compaiono le quattro divinità appena nominate) fu fatta incidere da Antioco I, re della Commagene dal 69 al 38 a.C. Un bassorilievo ci mostra il dio Mithra che stringe la destra del re in segno di alleanza e di protezione. Dörner ha ritrovato ad Arsameia del Ninfeo, sul fianco meridionale di Eski-Kale, i resti di un santuario. Per alcuni si tratterebbe addirittura di un antico mitreo, il più antico tra tutti quelli conosciuti, cosa che ci ricondurrebbe ai misteri di Mithra celebrati nella Commagene nel I secolo a.C. Non lontano dai resti individuati da Dörner sorge un monumento eretto da Antioco I a gloria di suo padre Mitridate I, sul quale troviamo una allusione a Mithra. Bisogna però ricordare che Dörner stesso, così come numerosi altri studiosi, non accoglie l’ipotesi del mitreo.

Queste testimonianze del I secolo a.C. documentano soltanto il culto di Mithra come culto regale: non si tratta della celebrazione dei misteri. Significativa è la rappresentazione delle immagini in cui Mithra compare di fronte al sovrano. Si vedano la statua della dexiosis (il darsi la mano destra) tra Mithra e Antioco I di Commagene a Nemrut Dağı (tav. VI) e quella di Mitridate Callinico nello hierothesion di Arsameia del Ninfeo (tav. V), «Études mithraiques», 1978. Siamo nel I secolo a.C.[3] Queste scoperte ci hanno fatto conoscere il culto regale di Mithra nella Commagene. Si tratta del culto organizzato da re Mitridate I Callinico e da suo figlio Antioco I. I documenti sono di due tipi, dal momento che abbiamo le iscrizioni su stele e quelle su rocce:

Dall’altra parte abbiamo alcuni monumenti cultuali, gli hierothesia, di cui dovremo parlare più a lungo.

Queste recenti e importanti scoperte gettano nuova luce sul culto del Mithra ellenistico. R. Turcan riassume così la situazione:

Nell’Asia minore dei diadochi le dinastie di origine iranica (alcune delle quali rivendicavano una eredità achemenide) favorirono le prime contaminazioni greco-orientali che stavano aprendo la strada dell’Occidente a un mitraismo ellenizzato. Il nome teoforo Mitridate o Mitradate, assunto dai re del Ponto, d’Armenia e della Commagene, attesta che essi veneravano in Mithra il garante divino della loro autorità. Le monete di Mitridate I, re dei Parti (171-138), portano sul rovescio una figura d’arciere paragonabile all’Apollo delle tetradracme seleucidi; nell’Impero ellenizzato degli Arsacidi lo si identificava con Mithra[4].

Antioco I di Commagene. Testa, pietra calcarea, seconda metà I sec. a.C. da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia). Gaziantep, Museo Archeologico Nazionale.

La testimonianza di Plutarco

a) La Cilicia

Nel 67 a.C. Pompeo inaugura contro i pirati che infestavano il Mediterraneo un’azione destinata a mettere fine alle loro scorrerie contro i rifornimenti di grano, inviando squadre militari in diversi settori, ma riservando a sé la Cilicia, noto covo dei pirati. La campagna ha successo: dopo tre mesi regna la calma. La Cilicia, situata nella parte sudorientale dell’Anatolia, è l’antico territorio di Kizzuwatna del periodo ittita. Dopo la fine dell’Impero ittita cade nelle mani degli Assiri, in seguito dei Cimmeri. Sotto la dominazione persiana è unita alla satrapia di Cappadocia. Alessandro la occupa entrandovi da settentrione. La Cilicia è fiancheggiata a oriente dalla catena del Tauro, luogo montagnoso e poco abitato, che rappresentava il covo ideale per i pirati, i quali da oriente, attraverso la pianura e il corso dei fiumi, avevano facile accesso al mare.

b) La notizia di Plutarco

Nella Vita di Pompeo di Plutarco incontriamo un breve accenno al mitraismo. Ecco alcuni passi del ventitreesimo capitolo:

La potenza dei pirati che nacque in Cilicia ebbe un’origine tanto più pericolosa quanto meno era nota all’inizio. I servizi che resero a Mitridate durante la sua guerra contro i Romani ne aumentarono la forza e l’audacia … Facevano anche sacrifici barbari che erano in uso a Olimpia e celebravano misteri segreti, tra cui quelli di Mithres, conservatisi fino ai nostri giorni, che avevano fatto conoscere per primi.

Che cosa si può dedurre da questa notizia di Plutarco? Seguiamo la storia degli studi. In Les mystères de Mithra[5], Fr. Cumont afferma:

Se si presta fede a Plutarco … i Romani sarebbero stati iniziati ai suoi misteri dai pirati di Cilicia vinti da Pompeo nel 67 a.C. Questa informazione non ha nulla di inverosimile: sappiamo, per esempio, che la comunità ebraica stabilitasi trans Tiberim era composta in gran parte dai discendenti dei prigionieri che lo stesso Pompeo aveva portato con sé dopo la presa di Gerusalemme (63 a.C.). Grazie a questa particolare circostanza è dunque possibile che a partire dalla fine della Repubblica il dio persiano abbia trovato alcuni fedeli nella variegata plebe della capitale. Ma confondendosi nella folla delle confraternite che praticavano riti stranieri, il piccolo gruppo dei suoi adoratori non attirava l’attenzione. Lo yazata partecipava così al disprezzo di cui erano oggetto gli Asiatici che lo veneravano. L’azione dei suoi seguaci sulla massa della popolazione era praticamente nulla, tanto quanto quella delle comunità buddhiste nell’Europa moderna.

Cumont, dunque, accetta il fatto che i pirati di Cilicia abbiano introdotto, nel 67 a.C., i misteri di Mithra a Roma e ipotizza che il culto sia stato sostanzialmente ignorato a Roma nelle sue prime fasi di sviluppo. Ernest Will adotta, per interpretare questo testo, un approccio più sfumato[6]. Egli distingue due problemi: la data di formazione dei misteri e il luogo in cui si realizza questo evento. Per quanto riguarda la cronologia, Will utilizza anch’egli Plutarco, che allude all’esistenza del culto in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., ma cita anche la testimonianza del poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio), nato a Napoli verso il 46 d.C., che attorno al 65 comincia a scrivere un poema epico, La Tebaide, portato a termine nel 90 circa. In questo poema Stazio descrive l’immagine della tauroctonia (Theb.  I 719-720), dimostrando la penetrazione del culto a Roma alla metà del I secolo della nostra era. Questa indicazione, afferma Will, corrisponde alla realtà, dal momento che è appunto sotto i Flavi, tra il 70 e il 100 d.C., che i ritrovamenti archeologici dimostrano la diffusione del culto. Questo dato, accostato alla testimonianza di Stazio, attesta dunque la diffusione del culto di Mithra a Roma alla fine del I secolo. Will utilizza il testo di Plutarco, che ci fa risalire all’inizio del I secolo a.C., come testimonianza del lungo periodo di incubazione durante il quale ebbero luogo la guerra di Armenia di Nerone e la guerra giudaica, guerre che implicarono numerosi spostamenti di truppe da Roma all’Asia. Il secondo problema è quello della nascita dei misteri, che, afferma Will, presuppone una regione e un’epoca in cui gli elementi persiani erano ancora vivi:

L’Asia minore e soprattutto la sua pane orientale apparivano, alla fine dell’epoca ellenistica, particolarmente propizie. Basti ricordare, a questo proposito, i tentativi dei reucci della Commagene della stessa epoca (I secolo a.C.) di assicurare il proprio potere e il proprio prestigio richiamandosi sia alla Grecia che alla Persia: essi si fecero raffigurare faccia a faccia con Mithra. Centocinquant’anni dopo, l’ora della Persia era passata e l’Iran dei Pani non suscitava più nei Romani paura o ammirazione profonda. La verosimiglianza è dunque più favorevole al testo di Plutarco. Ma anche lo studio dell’iconografia – che è l’unica altra nostra risorsa – fornisce argomenti che vanno nella stessa direzione[7].

Will guarda dunque con molto favore alla testimonianza di Plutarco sulla presenza dei misteri di Mithra in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., a condizione che si pensi alla Cilicia orientale, che ai suoi occhi si rivela come «la probabile culla del culto misterico», soprattutto per via delle scoperte archeologiche, delle monete, di un’iscrizione di Anazarba e della presenza dei Magi in questa regione.

Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).

E.D. Francis[8] osserva che alcuni studiosi hanno ricavato dalla notizia di Plutarco l’idea che il mitraismo avrebbe raggiunto Roma proprio grazie all’operazione militare di Pompeo. Ma in realtà Plutarco non fornisce la data dell’arrivo a Roma di questi misteri. E parla del rito utilizzando il generico termine teletai. Inoltre, afferma Francis, non è certo che Pompeo abbia portato con sé a Roma i pirati, se teniamo conto di una nota di Servio alle Georgiche di Virgilio, che afferma: Pompeius enim victis piratis Cilicibus partim ibidem in Graecia, partim in Calabria agros dedit.

Per comprendere appieno il testo di Plutarco, afferma Francis, bisogna tenere presente che con il termine teletai Plutarco intende riferirsi non alle origini dei misteri, bensì a un contesto del tutto tradizionale. Francis pensa che le teletai (riti, cerimonie di iniziazione) siano da interpretare come una sorta di patto di protezione: avremmo così un’allusione all’adozione da parte dei pirati di una religion of robbers, un culto di banditi che, nella versione romana, diverrà poi un culto di soldati. Questo culto di banditi si sarebbe fondato sopra un patto di fratellanza, posto sotto la protezione di Mithra. E si può ipotizzare che questi banditi stringessero il loro patto nel profondo delle grotte. Le cerimonie del patto dei banditi sarebbero evidentemente riservate agli uomini: le donne ne sono escluse. Il culto mitraico dei pirati sarebbe stato, dunque, segnato dal rispetto di un patto stretto per combattere in vista della vittoria. Quando Roma adotterà i misteri di Mithra, questi riti di iniziazione si modificheranno profondamente.

Dopo aver analizzato la notizia di Plutarco, Vermaseren[9] si rivolge allo storico Appiano, il quale ci informa, nel II secolo d.C., che furono i sopravvissuti dell’esercito sconfitto del re Mitridate Eupatore a iniziare i pirati ai misteri. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.C.), nell’88 ordinò il massacro di tutti i Romani d’Asia. Nel 66 fu definitivamente sconfitto da Pompeo sull’Eufrate. Mitridate, come indica chiaramente il suo nome, era un fedele di Mithra. Come i suoi predecessori, aveva accolto nel suo esercito soldati provenienti da ogni parte dell’Asia.

In Cilicia, la montuosa patria dei pirati, esistono diversi monumenti dedicati a Mithra. Ad Anazarba è stato scoperto recentemente un altare dedicato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di Zeus-Helios-Mithra. Il dio era venerato anche a Tarso, la capitale, come provano alcune monete dell’imperatore Gordiano III che portano l’effigie dell’uccisore del toro[10].

I pirati, ai quali a volte si erano uniti personaggi importanti, veneravano Mithra nella loro comunità. Soltanto gli uomini erano ammessi al culto. È dunque probabile che, dopo la loro disfatta, i pirati abbiano portato Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì[11].

Secondo Vermaseren, a Roma non abbiamo alcun monumento relativo a Mithra prima della fine del I secolo d.C. Soltanto alla fine del I secolo della nostra era Mithra comincia la sua marcia trionfale nell’Impero romano[12].

Questo primo paragrafo ci ha consentito di porre in modo chiaro il problema del Mithra ellenistico. All’inizio del secolo Cumont scriveva: «Si può affermare in generale che Mithra è sempre rimasto escluso dal mondo ellenistico». Oggi questa affermazione va presa con molta cautela, in particolare dopo le importanti scoperte della Commagene. Dobbiamo spingere più a fondo le nostre indagini e chiederci soprattutto se i documenti archeologici ed epigrafici della Commagene ci forniscono elementi capaci di documentare il passaggio dal culto regale di quella regione al culto misterico dell’Impero romano.

 

2. Il culto regale della Commagene

Hierothesion

Incontriamo il termine hierothesion in diverse iscrizioni, come quelle di Karakush e di Arsameia sull’Eufrate. Il vocabolo ha un significato del tutto particolare nella Commagene. È presente anche a Nemrut Dağı, sulla terrazza in cima alla montagna. Lo studio di H. Waldmann ci permette di chiarire diversi aspetti: il termine serve soltanto a designare un santuario funebre, un santuario regale in cui si rende un culto dinastico oppure un culto ai sovrani defunti e divinizzati[13].

Ricostruzione assiometrica della tomba-tempio di Antioco I di Commagene sul Nemrut Dağı.

Lo hierothesion di Nemrut Dağı

A Nemrut Dağı avremmo così un santuario che celebra i sovrani defunti della dinastia. Mitridate I Callinico è il primo re di una nuova dinastia che fa riferimento da una parte a Dario il Grande e dall’altra ad Alessandro Magno. Due sono le serie di divinità: Mithra-Apollo e Helios-Hermes. Si tratta di una riforma cultuale di carattere sincretistico.

Waldmann pubblica il testo greco ricostruito e la traduzione tedesca del nomos, cioè dell’ordinanza cultuale promulgata da Antioco I[14]. Eccone alcuni dei passi principali. «Il grande re Antioco, dio, il Giusto, Epifanio, amico dei Romani e dei Greci, figlio del re Mitridate Callinico e della regina Laodicea, dea … ». Il sovrano nomina gli dèi ai quali consacra il suo regno: «Così, come vedi, ho eretto a questi dèi immagini davvero degne: quella di Zeus Oromasdes, quelle di Apollo-Mithra-Helios-Hermes, quelle di Artagnes, Eracle, Ares… ». Alla riga 123 comincia il nomos, la legge. Il re designa un sacerdote incaricato del culto degli dèi e degli antenati divinizzati. Il giorno dell’apoteosi degli dèi e del sovrano, costui deve vestirsi con abiti sacerdotali persiani; dovrà fare offerte di incenso e di piante aromatiche e deporre sugli altari cibi e brocche di vino. Tutti gli alimenti saranno distribuiti tra i presenti. Tutti gli ieroduli consacrati al servizio degli dèi non saranno mai ridotti in schiavitù. I villaggi consacrati a questi dèi non saranno mai proprietà di nessuno. A tutti coloro che si conformeranno piamente alle decisioni del re saranno propizi gli dèi di Macedonia, di Persia e della Commagene.

 

Lo hierothesion di Arsameia del Ninfeo

Abbiamo una lunga iscrizione in cui Antioco afferma che questo hierothesion è stato creato da suo padre, Mitridate Callinico, per gli dèi e perché vi sia deposto il suo bel corpo, passato in vita di vittoria in vittoria. Descrive poi la città di Arsameia, costruita su due collinette simili al petto di una ninfa che esce dal fiume Ninfeo. Poi ritroviamo i soliti elementi: la fondazione di un culto in onore degli dèi e dei sovrani defunti, gli incarichi dei sacerdoti, degli ieroduli e dei fedeli.

Un’altra lastra di pietra, spezzata ma che ha potuto essere ricostruita, porta al recto la dexiosis di Antioco con Mithra, al verso un’iscrizione votiva di Antioco in onore di Mithra-Helios e Apollo-Hermes. Un sacerdote è incaricato di questo culto divino. Comunque, afferma Waldmann, non si tratta di un culto misterico. n culto viene celebrato all’aria aperta, con la folla dei fedeli che partecipa al pasto rituale. Non siamo in presenza di un culto iniziatico, ma di un culto mitraico di carattere regale e pubblico. La presenza di una grotta scavata nella roccia ha fatto pensare a un mitreo, ma in realtà essa era semplicemente la camera funeraria del sovrano. Si veda la lunga discussione in Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen, nella seconda parte del volume, Die Hierothesia[15]. Waldmann propone infine un’altra osservazione importante. L’iconografia ci mostra che Mitridate I Callinico non ha soltanto parlato di belle immagini degli dèi, ma le ha anche realizzate. Lo studioso si chiede se questo culto regale della Commagene, nel quale Mithra assume un ruolo di primo piano, non sia all’origine del culto mitraico che si diffonderà nei secoli seguenti. Waldmann non risponde positivamente, a causa della mancanza di prove. Ma la questione è di un certo rilievo.

Antioco I di Commagene. Testa colossale, pietra calcarea, 64-32 a.C. ca. dallo Hierothesion, Nemrut Daği.

Il culto regale della Commagene e Mithra

  1. Ciò che stupisce in questo culto, afferma J. Gagé[16], è l’associazione tra sovrano e dio: il re si assicura l’uguaglianza con gli dèi, come dimostra la dexiosis. Ciò che stupisce ulteriormente è l’equivalenza affermata tra i nomi iranici e i nomi greci delle principali divinità: Zeus = Oromasdes, Eracle = Artagnes, Helios = Hermes, Mithra = Apollo. Abbiamo qui una doppia tetrade, che si ricollega ad Ares = Eracle-Artagnes. Gagé[17] sottolinea il fatto che Mithra, «il più prossimo al re tra questi dèi, è detto anche Apollo e in fondo non è realmente diverso da Helios-Hermes». C’è una tendenza al sincretismo delle entità divine. Jonas impiega il termine «teocrasia» per definire la tendenza al sincretismo nei nomi divini.
  2. Il culto. Secondo Gagé, al sincretismo delle entità divine corrispondono le norme prescrittive di origine persiana imposte agli osservanti del culto. L’esame archeologico del monumento di Nemrut Dağı mostra il fascio di rami (baresman) nella casa di Mithra. Si tratta del rituale mazdeo del culto del fuoco. Il sacerdote deve vestire l’abito persiano per gli atti di culto da celebrare in occasione delle feste. I sacerdoti godono di diversi privilegi. Nella celebrazione del sacrificio abbiamo offerte e vittime animali e infine la condivisione del pasto sacro.
  3. Le motivazioni psicologiche e morali. Il documento regale di fondazione del culto del sovrano insiste sulla purezza morale dei suoi protagonisti. Il re è portatore dell’eusebeia, la pietà religiosa, che è una virtù regale. La perennità del culto viene enunciata con enfasi. Alcuni autori hanno persino ritenuto che si trattasse di una continuazione dello zervanismo, con il culto di Zervan-Aion.

Quello che manca, però, è l’iniziazione di tipo misterico. Su questo punto Dörrie, Gagé e Waldmann sono d’accordo. Non si tratta di un culto misterico, bensì di un culto regale, un culto dei sovrani. I sacerdoti sono Magi. Ne era convinto Cumont, che collocava nella Cappadocia i Magi e li identificava con questi sacerdoti della Commagene.

Gagé, invece, non è di questa opinione: non si tratta di Magi, ma di sacerdoti nazionali, regali, ben contenti di conservare le loro rendite e i loro privilegi all’ombra di una dinastia nazionale. Questi sacerdoti erano tuttavia molto vicini ai Magi e il culto di Mithra sviluppò alcune delle dottrine che saranno riprese nei misteri mitraici successivi. L’astrologia, in ogni caso, era già presente in questo culto.

 

3. La dexiosis mitraica

L’esame della documentazione archeologica della Commagene ci mostra una serie di immagini in cui il sovrano stringe la mano destra a una divinità, in particolare al dio Mithra[18].

La dexiosis della Commagene secondo Waldmann

Gli autori hanno interpretato in modo differente questa scena, che nella Commagene troviamo molto diffusa. Per alcuni si tratta di un gesto di saluto del sovrano e del dio. Ma, si chiede Waldmann, chi saluta e chi viene salutato? È il dio che saluta il re o è il re che accoglie il dio? Dörrie pensa, invece, che questa dexiosis sia da mettere in relazione all’astrologia: gli dèi si avvicinano (come le stelle, come i pianeti) e salutano il sovrano, la stella regale. Waldmann ritiene di trovare la spiegazione nelle righe 61-63 di Nemrut Dağı. «L’antichissima dignità degli dèi l’ho presa come compagna di una giovane fortuna». Antioco tratta dunque gli dèi in modo attivo, associandoli alla propria sorte. È lui ad avere l’iniziativa. Va persino più lontano: esso era una dignità arcaica a un elemento nuovo, come risulta dalle righe 24-27: «Quando ho ripreso la sovranità paterna ho stabilito il regno, sottomesso al mio trono sulla base della mia pietà, come residenza comune di tutti gli dèi». Waldmann insiste piuttosto su un altro fatto. Non è Antioco ad aver introdotto il culto, bensì Mitridate I Callinico, suo padre. È costui, quindi, che ha accolto nel suo regno, come residenti ufficiali, le divinità di Persia e di Macedonia. Non si tratta, per il sovrano, di prendere il posto degli dèi, ma di portarli nel suo regno. Waldmann ritiene, interpretando le iscrizioni delle stele, che il re della Commagene distingua due nature divine (Gottum), quella degli dèi e la propria: rivendica per sé una virtù, l’eusebeia; utilizza per sé il termine dikaios, ponendosi così nell’ambito della giustizia; sottolinea il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni ha sempre fatto la volontà degli dèi; evita accuratamente ogni possibile confusione tra gli dèi e se stesso; nei documenti iconografici della dexiosis non si pone mai nella condizione di poter essere identificato con gli dèi, ma si presenta come il re divino; pone i propri santuari sotto la protezione degli dèi e non sotto la propria protezione, per quanto divina. Per Waldmann in questi casi non abbiamo a che fare con una apoteosi: la dexiosis non è una divinizzazione del sovrano. Il re è divino e si mostra come tale al suo popolo. In quanto re divino, nella sua epifania divina, instaura nel suo regno un nuovo culto. Questo culto è reso agli dèi di Grecia e di Persia, ma con una predilezione per la teologia astrale, dal momento che le divinità astrali assumono un ruolo assai importante. In tale culto il ruolo di Mithra è centrale. Fondamentale, in ogni caso, è l’elemento della dexiosis tra il re e la divinità, tra il re e Mithra[19].

Antioco I di Commagene stringe la mano ad Eracle. Bassorilievo, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

Dextrarum junctio: la dexiosis

Disponiamo di una ragguardevole sintesi della nostra documentazione sulla dexiosis grazie a uno studio di M. Le Glay, La dexiosis dans les mystères de Mithra[20]. L’autore ha analizzato la documentazione di numerosi monumenti antichi, greci e cristiani. La dextrarum junctio è stata interpretata in modi differenti: come simbolo della fides o come il gesto degli sposi che si uniscono in matrimonio. Oggi sappiamo che questo gesto non appartiene né al rituale né alla simbologia del matrimonio, ma è divenuto, nel mondo cristiano, signum concordiae.

Nell’iconografia mitraica abbiamo soprattutto due episodi raffigurati sui bassorilievi cultuali collocati intorno alla scena della tauroctonia:

  • La scena dell’alleanza tra Mithra e il Sole: Mithra e il Sole si danno la mano destra, di solito al di sopra di un altare, «e questo conferisce al loro gesto un valore particolarmente sacro»[21]. «E questa dextrarum junctio è rappresentata con particolare frequenza tra il pannello che mostra il Sole inginocchiato ai piedi di Mithra e quello che ricorda il pasto sacro dei due personaggi»[22].
  • La scena dell’apoteosi: «Quando Mithra prende posto sul carro del Sole che deve condurlo fino al soggiorno celeste degli dèi, il Sole gli tende la sua destra, che il giovane dio stringe, a sua volta, con la mano destra. Questa seconda dexiosis non ha evidentemente lo stesso significato della prima».

I due episodi occupano un posto particolare nel mito e nella liturgia mitraici. Ciascuno di essi conclude una diversa serie iconografica: la serie breve termina con l’alleanza; la serie lunga con l’apoteosi e il banchetto, che seguono logicamente la scena dell’alleanza.

Per comprendere la dexiosis:

  • L’importanza del giuramento nelle società antiche. Dumézil e Boyancé hanno sottolineato l’importanza della fides, della devotio e del giuramento nella società romana.
  • La pax deorum in Occidente, la sottomissione e l’assoggettamento degli uomini agli dèi è uno degli aspetti fondamentali di questa realtà.
  • Il giuramento assume in tutte le religioni misteriche e iniziatiche un ruolo particolare: nel culto dionisiaco, nei culti alessandrini, l’Isismo e l’Osirismo.
  • Nel culto di Mithra il giuramento è proprio al centro del «gesto» divino e del rito di iniziazione dei fedeli. Questo giuramento solenne, di cui parla Tertulliano, è un sacramentum. «Colui che partecipa al mistero imita i gesti di Mithra, che tendendo la destra secondo l’uso persiano conclude il patto e ratifica il proprio giuramento».

La mano destra detiene la potenza ed esprime la volontà. In Oriente, a Roma, nella Bibbia, la destra è simbolo di potenza e di supremazia. In Siria la simbologia della mano è il segno della presenza di Dio. Da qui l’importanza della mano per gli dèi del tuono: è la mano a reggere il fulmine. Le mani votive ritrovate in Siria rimandano al culto di Giove Dolicheno. La mano divina dispensa potenza.

La mano è presente nella simbologia semitica, frigia, greca, romana e cristiana. Come in Oriente, la simbologia della potenza della mano destra si ritrova anche a Roma: potenza, protezione, benedizione. La mano destra è segno di impegno. A Roma la mano è associata alla dea Fides. P. Boyancé ha criticato una interpretazione esclusivamente giuridica di Fides, per segnalare alcuni suoi aspetti morali, sociali e religiosi[23]. Giove è Dius Fidius, e Fides, onnipresente a Roma, risulta una sorta di complemento di Dius Fidius. Nel rito della mano velata Le Glay vede un’esigenza di purezza assoluta e di rispetto della potenza divina. Le Glay si chiede se, in definitiva, Fides non sia proprio la dea dell’impegno.

Mitra (destra) stringe la mano ad Antioco I di Commagene (sinistra). Bassorilievo su stele, pietra calcarea, seconda metà del I sec. a.C. ca., dal settore occidentale dello Hierothesion di Antioco, Nemrut Dağı.

Dextrarum junctio: è il gesto che lega le potenze. La fides crea un legame, testimonia l’impegno. Boyancé ha indicato la stretta relazione tra le destre allacciate e la fides.

Così, la stretta di due mani destre evocata da tanti testi e raffigurata su tanti rovesci di moneta va compresa in tutti i casi come il segno, la testimonianza di un impegno volontario e reciproco. O meglio, essa stessa crea il legame.

Molti sono gli esempi di impegno di questo genere: impegno frutto dell’accordo che risulta da un trattato tra un vincitore e un vinto; impegno di alleanza e concordia che può risultare da un trattato; impegno di accoglienza, di ospitalità; accordo di fedeltà e di omaggio; impegno suggellato da un giuramento.

Che conclusioni trame?, si chiede Le Glay.

Che la mano destra, essendo insieme quella della potenza e quella dell’impegno, con la dexiosis crea tra gli uomini legami di ogni tipo, certamente di natura giuridica e morale, ma di essenza profondamente religiosa; legami che generalmente implicano una protezione volontaria e leale da una parte e una sottomissione volontaria e leale dall’altra[24].

Così trasposta all’ambito religioso, la dexiosis risulta ancora più importante.

 

La dexiosis nel mitraismo

a) Il parallelo dei culti orientali

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Le Glay propone la descrizione di diversi documenti. Innanzitutto la stele degli dèi palmireni trovata a Roma: Aglibol, dio lunare che indossa un’uniforme militare romana, stringe la mano al dio Malakbel, dio della fertilità, in costume palmireno. Questo gesto si ritrova a Palmira e ad Apamea: Le Glay vede qui un riferimento alla fecondità, ma anche alla salvezza, con un dio che rinasce ogni anno. Sull’altare del Campidoglio, sulle quattro facce, sono visibili le quattro fasi del sole: crescita, apogeo, declino, rinascita.

La dexiosis, gesto di introduzione: questo è il significato della scena nel culto dionisiaco. Le Glay descrive e analizza le immagini di un altare funerario di epoca imperiale. Dioniso riporta dall’Acheronte sua madre Semele e la conduce in cielo.

E la dextrarum junctio di Dioniso e di Semele mi pare dunque, sulla stele funeraria dei Musei Vaticani, evocare in realtà l’introduzione nell’aldilà beato, promesso ai misti, come normale conseguenza del loro impegno[25].

b) La dexiosis mitraica

La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Mithra, il dio tauroctono, sconfigge le forze del male. Il Sole porta rinascita e salvezza. La dexiosis sta dunque a significare l’alleanza, l’impegno, il patto. Siamo nel contesto della fecondità. Il pasto sacro è segno dell’alleanza in vista della fecondità. La dexiosis nell’apoteosi di Mithra. Mithra sale e prende posto nel carro del Sole. È l’apoteosi, che prefigura l’accoglimento dell’iniziato. Con la dexiosis il Pater accoglie il nuovo iniziato, che stringe a sua volta la mano agli altri.

La dexiosis, unione di due mani destre che detengono la potenza ed esprimono la volontà, da un lato suggella l’impegno definitivo del miste con la divinità, creando con il dio e tra i misti un legame fraterno e indissolubile garantito dal giuramento, e dall’altro costituisce in fin dei conti un pegno certo di salvezza[26].

In sintesi, la dexiosis ha il valore di un giuramento con doppio impegno: dexiosis come impegno di tacere sul segreto della rivelazione e come impegno di fedeltà al contratto. È l’ingresso del miste nella milizia del dio Mithra, simbolo e garante del contratto. Il sacramentum, il giuramento, è di capitale importanza. Segno del giuramento e della fedeltà è il tatuaggio sacro, la sphragis, realizzato per mezzo di aghi acuminati. Una volta che il giuramento è prestato e l’impegno suggellato, il miste riceve la rivelazione. «Al miste il Pater dirà (i discorsi sacri)». Con questi riti si costituisce la comunità fraterna (syndexis, di quelli che si danno la mano) del mitreo, la comunità di coloro che sono salvati. Attorno alla dexiosis si svolgono così tre cerimonie liturgiche mitraiche.

In conclusione, Le Glay si domanda: «Si può constatare, nel passaggio dal rituale vedico al rituale dell’epoca imperiale romana, un arricchimento del significato e del valore della dexiosis?»[27]. E risponde:

È difficile da dire. Ciò che sembra certo è che in epoca romana la dexiosis finisce per essere molto più che il gesto del giuramento. E che con il suo triplice significato di gesto di introduzione, di alleanza e di fratellanza, avente sia valore di impegno, di patto concluso con la divinità da un lato e con i misti dall’altro, e di garanzia del segreto, condizione primaria e fondamentale della vita comunitaria fraterna, di cui ha significato la Inductio, essa si trova al cuore delle relazioni che governano principalmente la natura stessa e la vita delle religioni misteriche. E, a quanto sembra, del mitraismo in particolare, dato il posto senza eguali che essa occupa nei misteri di Mithra. Innanzitutto per le relazioni che crea con la divinità, relazioni di natura complessa (di sottomissione, di omaggio, di alleanza e di mutua fiducia), sicché in questo modo l’impegno e il patto culminano nell’unione mistica dell’apoteosi. In seguito, nei rapporti di carattere giuridico e morale di segreto e di fratellanza[28].

E infine Le Glay pone una questione molto pertinente:

Non starebbe forse in questo duplice soddisfacimento delle preoccupazioni e delle esigenze dei Romani, la cui formazione li portava a una attenzione particolare agli aspetti giuridici e le cui aspirazioni li orientavano al misticismo, una delle ragioni profonde del successo di cui godette in Occidente la religione di Mithra negli ambienti romani e romanizzati?[29]

Mitra nell’atto della dexiosis. Bassorilievo frammentario, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).

4. Conclusioni

La nostra ricerca ci ha consentito, dunque, di mettere insieme una certa quantità di informazioni. Nel mondo ellenistico il dio Mithra non è sconosciuto. Le indicazioni di Plutarco su un culto mitraico di carattere iniziatico in Cilicia, nell’ambiente dei pirati, a partire dalle scoperte nella Commagene non risultano più massi erratici. Nella stessa epoca e in regioni molto vicine si parla egualmente di Mithra. Plutarco ci porta in Cilicia; le scoperte archeologiche ci portano nella Commagene. Sono scoperte importanti, poiché troviamo un culto di Mithra, culto pubblico, culto regale, con un sacerdozio e un rituale.

Questo culto pubblico ·e regale d’Asia minore fa riferimento a riti persiani, mazdei, a un sacerdozio che fa pensare ai Magi, dunque ai Medi, a divinità iraniche ma anche a divinità greche. L’ellenismo si manifesta, dunque, in modo netto. Mithra occupa un posto importante in questo culto regale, culto che, del resto, fa appello all’astrologia, che è presente ovunque, così come sarà presente nei misteri diffusi in Occidente. Esiste un luogo di culto, ma non sembra che si tratti di un mitreo, dal momento che i riti vengono celebrati all’aria aperta. n santuario si chiama hierothesion, un termine che sembra indicare piuttosto un culto regale di carattere funerario, un culto dei sovrani. La vasta documentazione iconografica ed epigrafica scoperta nella Commagene attirerà ancora, certamente, l’attenzione degli studiosi.

Accanto alle questioni legate al culto, alle corrispondenze geografiche e cronologiche, agli elementi del rituale, ci pare rilevante la questione della dexiosis mitraica. Troviamo la dexiosis nella liturgia mitraica e nell’iconografia dei misteri di Mithra: il Sole e Mithra che si danno la destra. Nella Commagene troviamo una dexiosis del tutto simile: il sovrano-dio dà la destra a Mithra, che è anche Helios.

Le scoperte della Commagene, il rituale e l’iconografia della dexiosis sembrano dare nuovo slancio a questo ambito degli studi mitraici. In una nota pubblicata alla fine del suo articolo, Le Glay segnala una serie di pubblicazioni recenti su questi aspetti, in particolare quelle di Gonda sul dio Mitra vedico e sul significato della mano destra nel rituale vedico. Egli affronta anche il problema della dexiosis nella Commagene, senza tuttavia prendere personalmente posizione.

Nelle scoperte della Commagene non abbiamo forse l’anello mancante che collega il dio Mitra dell’India, il dio Mithra iranico e il dio Mithra dei misteri dell’Impero romano? n fatto di porre la questione è forse già una risposta. Lo studio dei documenti della Commagene ci ha consentito di notare l’importanza dell’ellenizzazione del culto di Mithra. Nei documenti nella Commagene dell’India avevamo visto il dio sovrano Mìthra del mondo indoiranico. Un dio sovrano che ritroviamo in Iran, dove il suo culto si conforma all’evoluzione della religione iranica. Siamo in effetti in presenza di una iranizzazione del culto, nella quale assumono evidentemente un ruolo capitale i Magi e lo zervanismo. Forse non bisogna trascurare l’importanza dei Männerbünde, i gruppi guerrieri specificamente iranici. Nella Commagene ci troviamo di fronte a una terza tappa del culto di Mithra: la sua ellenizzazione.

In questa tappa il culto di Mìthra rimane un culto ufficiale. Diventa un culto regale, un culto dei sovrani. In questo culto troviamo tuttavia alcuni elementi religiosi, come la dexiosis, che saranno importanti nella quarta e ultima tappa del culto di Mithra: i misteri mitraici o la romanizzazione di Mithra.

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Note:

* Le cult de Mithra en Commagène, in J. RIES, Le culte de Mithra en Orient et en Occident, coll. « Information et Enseignement » 10, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1979, pp. 115-126.

[1] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen unter Konig Mithradates l. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos 1., Brill, Leiden 1973, XXXVIII tavole e una carta.

[2] F.K. DÖRNER, Mithras in Kommagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques. Actes du 2me Congrès international, Téhéran, du 1er au 8 septembre 1975, «Acta Iranica» 17, Édition Bibliothèque Pahlavi, Téhéran-Liège 1978, pp. 123-134; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Iran and Greece in Commagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 187-200.

[3] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., e F. DÖRNER, Arsameia am Nymphaios. Die Ausgrabungen im Hierothesion des Mithradates Kallinikos, von 1953-1956, coll. «lstanbuler Forschungen» 23, Verlag Gebr. Mann, Berlin 1963.

[4] R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, PUF, Paris 1968, pp. 106-107.

[5] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, Lamertin, Bruxelles 1899, 19133, pp. 35-36

[6] E. WILL, Origine et nature du mithriacisme, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 527-536.

[7] Ibid., p. 528.

[8] E.D. FRANCIS, Plutarch’s Mithraic Pirates, «Mithraic Studies», I, Manchester 1975, pp. 207-210.

[9] M.J. VERMASEREN, Mithra, ce dieu mystérieux, Sequoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 23.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 24.

[12] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, cit., p. 31.

[13] H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., pp. 132-141.

[14] Ibid., pp. 62-77.

[15] lbid., pp. 51-141.

[16] J. GAGÉ, Basileia, les Césars, les Rois d’Orient et les Mages, Les Belles Lettres, Paris 1968, pp. 144-146.

[17] Ibid., p. 144.

[18] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., tav. VIII, stele di Selik; tav. XXI, terrazza di Nemrut Dağı, la dexiosis re-Eracle; tav. XXII, la dexiosis re-Zeus e re-Mithra; tav. XXXI, Mitridate-Eracle.

[19] Ibid., pp. 197-202.

[20] M. LE GLAY, La dexiosis dans les mystères de Mithra, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 279-304.

[21] Ibid., p. 280.

[22] Ibid.

[23] P. BOYANCÉ, Études sur la religion romaine, École Française de Rome, Rome 1972. Cfr. Fides et le serment, pp. 92-103, 296, 299, 300.

[24] M. LE GLAY, La dexiosis…, cit. p. 296.

[25] Ibid., p. 299.

[26] Ibid., p. 300.

[27] Ibid., p. 302.

[28] Ibid., pp. 302-303.

[29] Ibid., p. 303.

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Bibliografia complementare:

FR.K. DÖRNER, Arsameia am Flusse Nymphaios. Eine neue kommagenische Kultstätte, «Bibliotheca Orientalis», 9, 1952, pp. 93ss.

H. DÖRRIE, Der Königskult des Antiochos von Kommagene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Vandenhoeck &. Ruprecht, Göttingen 1964.

R. MERKELBACH, Der kommagenische Königskult, in ID., Mithras, Hain, Königstein/ Ts. 1984, pp. 50-73 [tr. it. Mitra, coll. «Nuova Atlantide», ECIG, Genova 19982]. Cfr. anche Bildteil, pp. 261-395. Vasta documentazione mitraica commentata dall’autore.

TH. REINACH, La dynastie de Commagène, «Revue des études grecques», 3, 1890, pp. 362-380.

B. YAMAN, Nemrut Dagi, Commagena, Minyatür, lstanbul s.d. (edizione francese). Bella documentazione a colori. 126 pp.

Callimaco di Cirene

di I. BIONDI, Callimaco, in Storia e antologia della letteratura greca. 3. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, pp. 155-167.

 

 

 

 

Callimaco: la voce più significativa della poesia ellenistica

 

Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.

 

Callimaco nacque a Cirene, colonia greca di Thera, a nord della Grande Sirte, negli anni fra il 315 e il 310 a.C., da famiglia aristocratica. I suoi si vantavano di discendere dal fondatore stesso della città, un figlio di Polimnesto, il quale aveva mutato il proprio nome, Aristotele, in quello di Batto, che nel dialetto libico locale significava «sovrano». Il padre di Callimaco portava lo stesso nome dell’antico capostipite; e proprio negli anni in cui nacque il poeta, la famiglia godeva di grande fama e prosperità grazie all’appoggio di Ofella, generale del re Tolemeo I, che nel 322 a.C. aveva conquistato Cirene. È probabile che Callimaco abbia trascorso a Cirene gli anni della giovinezza e vi abbia completato la prima fase della propria formazione culturale; verso il 290 o il 285 a.C. (nessuna delle due date è certa!), egli lasciò la città per trasferirsi ad Alessandria, dove, verso il 270 a.C., ebbero inizio la sua vita a corte e la sua attività nella Bibliotheca, destinata a continuare fino alla sua morte.

Il poeta ebbe così a disposizione il materiale raro ed erudito che tanto lo appassionava e che lasciò un’impronta indelebile in tutta la sua produzione; gli anni dal 270 al 245 a.C. furono forse i più fecondi della sua vita. Il poeta continuò a godere del favore di Tolemeo II Filadelfo, che governò l’Egitto fino al 246 a.C. e, in seguito, di Tolemeo III Evergete, sposo di Berenice, figlia di Megas e originaria di Cirene, dalla quale Callimaco ottenne una particolare protezione. In questo periodo (246-245 a.C.) il poeta ebbe modo di conoscere un altro grande intellettuale del suo tempo, Apollonio Rodio, con il quale intrattenne un rapporto assai complesso e, a quanto sembra, anche polemico. La data della scomparsa di Callimaco ci è sconosciuta, ma non dovrebbe essere di molto posteriore al 244 a.C.

 

Tolomeo III Evergete. Busto, copia romana in marmo da originale ellenistico di III sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

La tradizione dei testi

 

La maggior parte della vastissima opera di Callimaco è andata perduta; degli scritti eruditi rimangono solo pochi frammenti, mentre ci è giunta completa – a parte qualche trascurabile lacuna – la raccolta dei sei Inni (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Per i lavacri di Pallade, A Demetra). Ciò fu dovuto a un anonimo grammatico che li inserì, verso il VI secolo d.C. (o, secondo altri, nel X secolo), in una raccolta che iniziava con gli inni omerici. L’Anthologia Palatina, compilata intorno alla metà dell’XI secolo, ci ha conservato sessantatré epigrammi (cinque derivano da altre fonti), che, pur non rappresentando l’intera produzione callimachea in questo genere, ne sono comunque un significativo esempio. Per gli Aitia, i Giambi, l’Ecale e altri componimenti abbiamo a disposizione un congruo numero di papiri, alcuni dei quali sono posteriori di pochi anni alla morte del poeta, mentre altri giungono fino al VII secolo d.C.

L’opera poetica di Callimaco fu anche oggetto di commenti grammaticali e storici da parte di un valido studioso della poesia ellenistica, Teone di Artemidoro, vissuto sotto il principato di Augusto e di Tiberio. Al suo lavoro si aggiunse, verso la fine del I secolo, quello di Epafrodito; da questi commenti derivano le διηγήσεις («argomenti», «riassunti») delle opere del poeta, contenute nel Papiro Milanese 18, che risale al II secolo. A questa tradizione si affianca quella indiretta, proveniente dagli scritti di dotti bizantini come Areta e Costantino Cefala (entrambi del X secolo) e Michele Choniates (fine del XII secolo), allievo di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, ai quali la produzione poetica callimachea era ben nota. La perdita della tradizione diretta può essere spiegata come conseguenza del bellum Latinum (IV Crociata) e del barbaro saccheggio che devastò Costantinopoli nel 1204, distruggendo l’esemplare o i pochi esemplari delle opere del poeta fino ad allora sopravvissuti.

 

P. Oxy. XI, 1362 (II sec.). Pagina manoscritta del fr. 178 Pf. dagli Aitia di Callimaco.

 

Opere di erudizione e di critica

 

Il vastissimo insieme delle opere erudite di Callimaco, andato quasi completamente perduto, può essere in parte ricostruito nelle linee e nei contenuti essenziali attraverso l’elenco dei titoli, tramandatoci dal lessico Suda. Possiamo così distinguere un gruppo di opere a carattere geografico (Sui fiumi dell’Europa, Sui fiumi dell’ecumene), forse ricollegabili con la polemica che divise Callimaco e Apollonio Rodio a proposito dell’itinerario seguito dagli Argonauti nel loro viaggio di ritorno. Una paradossografia, il primo testo di questo genere giunto fino a noi, che contiene la descrizione delle «cose strane e meravigliose» (παράδοξα καί θαυμάσια) del Peloponneso, dell’Italia e di tutta la terra. Un gruppo di opere di interesse naturalistico, che però rivela anche intenti nomenclatorii e storici (Sugli uccelli, Sui venti, Sui nomi dei mesi per popoli e per città, Sulla fondazione di isole e città). In un ambito più strettamente letterario, la massima testimonianza dell’erudizione di Callimaco furono i Pinakes (πίνακες τῶν ἐν πάσῃ παιδείᾳ διαλαμψάντων καὶ ὧν συνέγραψαν, «registri» o «tavole di tutti coloro che si distinsero in ogni settore della cultura e di ciò che scrissero»), una monumentale bibliografia ragionata, a carattere enciclopedico, di tutti i principali scrittori in lingua greca, suddivisa in vari settori, a seconda del genere. Nell’ambito delle varie sezioni, che erano almeno dieci (lirica, tragedia, filosofia, ecc.), gli autori erano catalogati in ordine alfabetico; ogni nome era accompagnato da una sintetica biografia (ampliata in seguito da Ermippo di Smirne), seguita dai titoli delle opere, corredati, quando era possibile, dall’incipit di ciascun testo. Allo stesso genere apparteneva anche un’altra opera, una «lista» (ἀναγραφή) di tutti i poeti drammatici, disposti in ordine cronologico, che si fondava forse su un analogo lavoro di Aristotele, le Didascalie. Tutti questi scritti, frutto delle ricerche di Callimaco nella Biblioteca di Alessandria, contribuirono a conferire anche alla sua poesia un carattere di straordinaria preziosità culturale e formale, che sarebbe poi divenuto elemento peculiare dell’intera letteratura ellenistica.

 

 

Gli Aitia: struttura e contenuti

 

I quattro libri degli Aitia, l’opera principale di Callimaco, rappresentano anche la testimonianza più completa e significativa della sua poesia e della sua poetica, che, nei secoli successivi, avrebbe avuto vasta risonanza nella letteratura latina. L’opera comprende un numero notevole di componimenti in distici elegiaci (finora ne sono stati identificati una quarantina), nei quali si narrano le «cause» (αἴτια) di miti, riti sacri, festività, eventi storici o ritenuti tali, appartenenti alla cultura del mondo ellenico o, più genericamente, a quella dell’area mediterranea. Quasi certamente, i due libri inziali furono composti in periodi diversi dal III e dal IV, che presentano differenti caratteristiche e sembrano perciò appartenere alla fase più matura, o addirittura tarda, della produzione di Callimaco.

Il I libro, dopo un’elegia autobiografica a carattere introduttivo (Elegia contro i Telchini), in cui Callimaco espone i punti chiave della sua poetica, contiene la descrizione dell’incontro del poeta con le Muse e il racconto di una di esse, Clio, su riti sacrificali in uso a Paro e sulla nascita delle Cariti. Trattando poi dei sacrifici in onore di Apollo, che si celebravano ad Anafe, un’isola del Mare Cretico, Callimaco vi inserisce una breve digressione, dedicata al viaggio degli Argonauti, di ritorno dalla Colchide a Iolco. La narrazione diverge in modo significativo da quella di Apollonio Rodio (Argonautiche IV); e non è escluso che proprio da ciò abbia avuto origine la polemica fra i due, di cui parlano le fonti antiche (se pure ci fu veramente). In seguito, Callimaco paragona i riti di Anafe a quelli di Lindos in onore di Eracle. Anche in questo caso, Apollonio Rodio (Argonautiche I, 1218-1220) appare in disaccordo con Callimaco nel descrivere il personaggio di Eracle; il poeta di Cirene, tuttavia, riconfermò in seguito le proprie scelte nell’Inno ad Artemide (vv. 159-161). Sempre nel I libro, Callimaco descrive anche la storia di Lino e Corebo, un mito poco noto di origine argiva, l’origine del culto di Diana Leucadia, quella dell’offerta espiatoria ad Aiace e gli avvenimenti connessi con la fondazione di Mallos, antichissima città della Cilicia.

Clio. Mosaico delle Nove Muse (dettaglio). Rodi, Palazzo dei Gran Maestri di Rodi.

Il contenuto del II libro, a causa della perdita delle διηγήσεις, i brevi «riassunti» delle varie composizioni in esso raccolte, ci è meno noto; esso comprendeva, in una successione che non conosciamo, le elegie sulla fondazione di alcune città della Sicilia, la storia di Busiride, il crudele re egizio ucciso da Eracle, e quella di Falaride, tiranno di Agrigento.

Il III libro, nella sistemazione definitiva, si apriva con l’Epinicio per Berenice, in cui era esposto l’αἴτιον dell’istituzione dei Giochi Nemei da parte di Eracle, che confermava la volontà di Callimaco di trattare l’impresa dell’eroe in toni diversi dall’epos. Seguivano poi gli αἴτια delle Tesmoforie, feste in onore di Demetra, quelli riguardanti il sepolcro di Simonide, e i miti delle fonti di Argo, dell’ospite di Isindo, di Artemide Ilitia, di Frigio e di Euticle di Rodi.

Il IV libro, che iniziava con un’invocazione del poeta alle Muse, comprendeva una serie di sedici αἴτια, di cui non ci è giunto quasi altro che l’incipit. L’ultimo di essi trattava un episodio del mito argonautico; in questo modo, l’intera opera si chiudeva con una struttura ad anello, riallacciandosi al già ricordato episodio del I libro. In seguito, però, probabilmente nello stesso periodo in cui inserì all’inizio degli Aitia l’Elegia contro i Telchini e all’inizio del III libro l’Epinicio per Berenice, Callimaco pose a chiusura dell’opera la Chioma di Berenice, che pure aveva avuto una tradizione autonoma come elegia celebrativa.

Un certo numero di frammenti, quasi tutti brevi e non sempre ben leggibili, come pure l’αἴτιον sul culto di Peleo e quello sugli Iperborei, non hanno ancora trovato sistemazione definitiva all’interno dell’opera.

La struttura di base degli Aitia sembra essere un colloquio del poeta con le Muse; egli, infatti, racconta di essere stato trasportato in sogno in Beozia, sul monte Elicona, là dove un tempo Esiodo, intento a pascolare il suo gregge, aveva incontrato anch’egli le Muse (Teogonia, vv. 22 sgg.). Qui il giovane Callimaco avrebbe conversato con le dee presso la fonte Castalia, interrogandole sui più svariati argomenti e facendo tesoro delle risposte ottenute dalle figlie di Zeus, divine depositarie di ogni memoria. Il motivo del sogno, esplicito riferimento all’opera esiodea, ebbe poi fortuna anche nella letteratura latina, tanto che fu ripreso da Ennio nei proemi del I e del VII libro degli Annales.

Accanto all’espediente narratologico del colloquio con le Muse, ben evidente nel I e del II libro, compaiono però altri accorgimenti per introdurre nuovi temi: una diretta apostrofe al protagonista dell’αἴτιον, accompagnata da un invito al racconto; un dialogo a domanda e risposta, tecnica che forse compare qui per la prima volta in un’opera in versi; una conversazione fra amici a simposio; il monologo di un oggetto che racconta la propria storia, come accade anche nella tradizione epigrammatica. Infine, soprattutto nel III e nel IV libro, il poeta sembra abbandonare ogni preoccupazione di organicità narrativa e si limita a una semplice giustapposizione degli episodi, come accade con l’Epinicio per Berenice, che apre il III libro, e con la Chioma di Berenice, che conclude il IV.

 

Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.

 

 

La poetica di Callimaco

 

La Chioma di Berenice, forse la più nota fra le composizioni di Callimaco, ci è giunta solo parzialmente nell’originale greco; possiamo disporre però della sua “versione” latina, composta da Catullo (Carmen LXVI) in distici elegiaci e tradotta nel 1803 da Ugo Foscolo. Lo spunto per la Chioma fu offerto a Callimaco da un evento accaduto poco dopo l’ascesa al trono di Tolemeo III Evergete, nel 244: appena assunto il potere, il sovrano dovette abbandonare l’Egitto per prendere parte a una campagna militare in Siria. In quell’occasione la sposa del re, Berenice, appartenente alla casa regale di Cirene, fece voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua bellissima chioma, se il marito fosse tornato sano e salvo. Così, al rientro di Tolemeo, la regina mantenne la promessa e offrì i suoi capelli nel tempio di Arsinoe-Afrodite. Tuttavia, dopo qualche tempo, la chioma recisa della donna scomparve dal santuario e l’astronomo di corte, Conone, credette di identificarla in un nuovo gruppo di stelle da lui osservato, a cui diede appunto il nome di “Chioma di Berenice”. In questo modo, egli intendeva significare che gli dèi avevano voluto compensare, oltre all’amore coniugale, anche la pietas religiosa della regina, con il καταστερισμός (la «trasformazione in astro») dei suoi riccioli. Nella composizione di Callimaco è la chioma stessa a parlare, fiera dell’onore accordatole dagli dèi, ma anche rattristata per essere stata per sempre separata dal capo regale di Berenice. La bella sposa di Tolemeo era infatti solita prendersi grande cura dei suoi capelli, cospargendoli di preziosi profumi; ma come avrebbero potuto opporsi, le morbide ciocche della regina, al taglio crudele del ferro?

 

τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ’ οὔρεα τοῖα σιδή[ρῳ

εἴκουσιν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος,

γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφηναν

50       πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφρασαν ἐργασίην.

ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεσκον ἀδε[λφεαί,

καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος

ἵετο κυκλώσας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης,

ἵππο[ς] ἰοζώνου Λοκρίδος Ἀρσινόης,

55  ἤ[λ]ασε δὲ πνοιῇ με, δι’ ἠέρα δ’ ὑγρὸν ἐνείκας

Κύπρ]ιδος εἰς κόλπους      ἔθηκε

 

      Cosa faremo noi trecce, se monti sì grandi cedono

al ferro? Possa perire la stirpe dei Càlibi,

che, mala pianta, sorgente da terra, lo rivelarono

50       per primi, e mostrarono l’arte dei magli!

Da poco, recisa di fresco, mi rimpiangevan le chiome sorelle,

ed ecco il fratello di Memnone l’Etiope

si slanciava ruotando le ali screziate, vento ferace,

destriero della Locride Arsinoe, cinta di viole:

55  con il soffio mi [spinse], e, portandomi per l’umido aere,

mi pose nel grembo di Cipride (…)[1]

 

Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice). Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.

 

La raffinata eleganza del brano citato, la grazia gentile dell’omaggio che non ha niente di ostentato né di servile, la preziosità dei riferimenti eruditi (il vento leggero «fratello di Memnone l’Etiope» è Zefiro, i «monti sì grandi» sono i massicci dell’Athos, attraverso cui Serse fece scavare un canale, per permettere il passaggio alla sua flotta da guerra, nel 480 a.C.) ci offrono un’eloquente testimonianza dello stile di Callimaco e di quella poetica alla quale egli rimase fedele per tutta la vita, a noi nota attraverso i numerosi accenni presenti in varie opere. Da questo punto di vista, ci appare particolarmente significativa l’elegia autobiografica che Callimaco, ormai vecchio, premise, in forma di prologo, al I libro degli Aitia. In essa il poeta respinge le critiche che sono state mosse alla sua arte, bollando gli avversari con il nome di “Telchini”, i maligni demoni figli di Ponto, il mare, e di Gea, la terra, il cui sguardo era carico di un potere malefico, che furono fulminati da Zeus per aver cercato di rendere sterile l’isola di Rodi, bagnandola con l’acqua infernale dello Stige.

Callimaco si difende dalle accuse dei suoi avversari, che gli rinfacciano, per velenosa invidia di non essere mai stato capace di affrontare composizioni poetiche veramente impegnative, ma di essersi limitato a “giocare” con i versi, come un ragazzo, benché la sua età sia ormai più che matura. Ma egli può addurre a suo sostegno la più autorevole delle testimonianze, quella del dio stesso della poesia, che gli è stato prodigo di consigli fin dal momento in cui il poeta si accinse per la prima volta a scrivere, dopo aver appoggiato la tavoletta sulle ginocchia. Il particolare non è privo di importanza; infatti, al poema di vasto respiro, non sostenuto da un’adeguata cura formale e destinato all’ascolto, si sostituisce la composizione di breve dimensione, perfetta nel suo nitore, destinata alla lettura e al giudizio di un pubblico scelto per sensibilità e cultura; doctus non meno dell’autore, come lo definiranno i poeti latini che, a partire da Catullo, assimilarono a fondo la lezione di Callimaco. Quest’ultimo ribadì i concetti-base della sua poetica anche in altre opere; leggiamo, ad esempio, l’epigramma XXVIII:

 

ἐχθαίρω τὸ ποίημα τὸ κυκλικόν, οὐδὲ κελεύθωι

χαίρω τίς πολλοὺς ὧδε καὶ ὧδε φέρει,

μισέω καὶ περίφοιτον ἐρώμενον, οὐδ᾽ ἀπὸ κρήνης

πίνω· σικχαίνω πάντα τὰ δημόσια.

 

 

    Odio il poema ciclico, né una strada

mi piace che molti porti qui e lì.

Non sopporto un amante vagabondo, né dalla pubblica fonte

bevo: schifo ogni bene comune[2].

 

La metafora della κρήνη, la «fontana pubblica», richiama, per contrasto, un’altra immagine: quella della sorgente purissima, limpida e remota, che la massa non può contaminare:

 

105     ὁ Φθόνος Ἀπόλλωνος ἐπ᾽ οὔατα λάθριος εἶπεν

‘οὐκ ἄγαμαι τὸν ἀοιδὸν ὃς οὐδ᾽ ὅσα πόντος ἀείδει’.

τὸν Φθόνον ὡπόλλων ποδί τ᾽ ἤλασεν ὧδέ τ᾽ ἔειπεν·

‘Ἀσσυρίου ποταμοῖο μέγας ῥόος, ἀλλὰ τὰ πολλά

λύματα γῆς καὶ πολλὸν ἐφ᾽ ὕδατι συρφετὸν ἕλκει.

110     Δηοῖ δ᾽ οὐκ ἀπὸ παντὸς ὕδωρ φορέουσι μέλισσαι,

ἀλλ᾽ ἥτις καθαρή τε καὶ ἀχράαντος ἀνέρπει

πίδακος ἐξ ἱερῆς ὀλίγη λιβὰς ἄκρον ἄωτον’.

 

 

105     L’Invidia furtiva all’orecchio disse ad Apollo:

«Non apprezzo il poeta che non canta neanche quanto il mare».

Apollo l’Invidia col piede scacciò, e disse così:

«Grande è il flutto del mare d’Assiria, ma spesso

sozzure di terra e molto fango sull’acqua trascina.

110     Ma a Deò non da ogni dove recano acqua le api,

ma quella che pura e incontaminata zampilla

da sacra sorgiva, piccola stilla, è l’offerta migliore»[3].

 

Il tono deciso dei testi fin qui citati testimonia assai bene l’asprezza della polemica che divideva i letterati di Alessandria e che li spingeva a un dissidio intellettuale senza esclusione di colpi. Un ulteriore documento di questo acceso scontro fra eruditi proviene da un commento antico al prologo degli Aitia, in cui si elencano addirittura i nomi di alcuni dei personaggi contro cui erano diretti gli strali di Callimaco; e probabilmente anche l’Ibis, un poemetto andato perduto, notissimo ai poeti romani e soprattutto a Ovidio, che forse lo ebbe come modello per la sua omonima composizione, altro non era che un virulento attacco contro Apollonio Rodio. Tale almeno era l’opinione comune dei grammatici antichi, che però non siamo in grado di verificare, a causa delle scarsissime notizie in nostro possesso.

Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco (dettaglio), 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.

 

Ma l’atteggiamento polemico di Callimaco non riguardava solamente l’accurato labor limae formale, da lui ritenuto indispensabile e che non sarebbe stato possibile in scritti di vasta mole; l’erudizione e la novità dovevano risaltare con brillante evidenza nella scelta, oltre che nella trattazione dei contenuti. È questa la «fonte intatta», il «sentiero non calpestato da alcuno» a cui il poeta allude più volte, per sottolineare l’originalità delle sue composizioni. In quest’ottica, egli affrontò spesso l’arduo compito di superare e di rovesciare tradizioni poetiche ormai ben consolidate e rese insigni da grandi nomi, compreso quello di Omero, utilizzando la tecnica dell’oppositio in imitando, tanto ardita quanto geniale. Ne abbiamo un esempio nell’Epinicio per Berenice, che ci è giunto grazie a due diversi ritrovamenti papiracei, pubblicati uno nel 1941 e l’altro nel 1977. Il tono generale della lirica ricorda Pindaro, un autore con cui Callimaco condivideva sia l’alto concetto di sé che quello dell’originalità della propria arte; inoltre, il poeta tebano aveva anche esaltato, nella Pitica IV, il trionfo di Arcesilao, un sovrano che aveva svolto un ruolo preminente nell’antica storia di Cirene, patria amatissima di Callimaco.

Il nucleo centrale dell’epinicio callimacheo trattava il mito di fondazione dei giochi Nemei da parte di Eracle. Ma il poeta si rifiutò di celebrare la parte più nota della vicenda, l’uccisione del leone, figlio di Ortro e di Echidna, che l’eroe dovette strangolare con le mani nude, perché la terribile belva era invulnerabile. Secondo il suo gusto, Callimaco rifuggì dai toni epici e si soffermò invece a descrivere il soggiorno di Eracle presso Molorco, l’umile campagnolo che avrebbe voluto sacrificare il suo unico montone per onorare degnamente l’ospite; e frugando con sguardo attento e curioso nelle zone più inesplorate di un’illustre tradizione (l’accoglienza di Molorco a Eracle ha il suo archetipo in quella di Eumeo a Odisseo, nel XIV libro dell’Odissea), il poeta celebrò, insieme all’αἴτιον delle solennità panelleniche, anche l’ingegnosa abilità con cui il pastore costruiva le trappole per i topi, flagello delle sue magre provviste.

Leone. Statua, marmo bianco pario, 400-390 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Allo stesso modo, nel III libro degli Aitia, Callimaco si accinse a narrare la storia dell’antico e nobile γένος degli Acontiadi, collegato alle più remote vicende della città di Iuli, nell’isola di Ceo. Ben presto, però, la fantasia del poeta fu attratta, più che da una ricostruzione erudita, ma forse un po’ arida, dal piacere di raccontare una bella e drammatica storia d’amore, coronata, dopo molte peripezie, dall’immancabile lieto fine: la vicenda di Acontio e Cidippe.

La favola gentile fu trattata da Callimaco con la consueta originalità. Egli non si dedicò tanto a un preciso racconto dei fatti, quanto alla descrizione di ciò che più attraeva la sua fantasia: la straordinaria bellezza dei due protagonisti, la passione immediata e profonda di Acontio, la malattia oscura e crudele di Cidippe, la gioia del sogno d’amore finalmente coronato. A conclusione del racconto, il poeta, desideroso di garantirne ai suoi lettori la veridicità, citò anche la sua fonte, l’opera di Xenomede, uno studioso del V secolo a.C., autore di una storia locale dell’isola di Ceo; in questo modo, Callimaco volle dare risalto non solo alla sua capacità creativa, ma anche alla sua attenta fatica di ricercatore erudito, evidente, per altro, in ogni momento della narrazione.

 

 

I Giambi

 

Sotto questo titolo sono raccolti tredici componimenti in dialetto ionico, caratterizzato da alcuni dorismi, nei quali Callimaco sperimentò vari tipi di versi giambici. Il contenuto e le occasioni delle singole liriche sono assai vari e anche la cronologia non è sempre ben determinabile. Tuttavia, la raccolta trova un motivo di unità nella sua struttura ad anello, poiché la prima e l’ultima composizione hanno come protagonista Ipponatte e sono scritte in giambi scazonti (coliambi), il metro di cui l’antico giambografo del VI secolo fu ritenuto inventore. Nel giambo I, Callimaco immagina infatti che Ipponatte, ritornato dal regno dei morti, perduto ormai interesse alla «guerra» contro Bupalo, il suo odiato avversario, si rivolga ai letterati del Serapeo, perennemente in discordia fra loro, per esortarli alla modestia e alla concordia, con l’edificante storia della coppa di Baticle. Costui, uomo di grandi ricchezze, in punto di morte consegnò al proprio figlio Anfalce una coppa d’oro con l’incarico di consegnarla al più saggio fra i sette sapienti. Il giovane offrì allora il prezioso oggetto a Talete, che, però, lo mandò a Biante, ritenendolo più meritevole. Biante, a sua volta, ne fece dono a Periandro e così via, finché l’ultimo, Cleobulo di Lindos, restituì la coppa a Talete, che la consacrò ad Apollo Didimeo. In questo modo, ciascuno dei sette diede prova di un’umiltà e di un senso della misura che sembrano essere scomparse del tutto dal cuore dei letterati moderni, perennemente rosi dall’orgoglio e dall’invidia.

Anche il giambo II, che ha forma di favola esopica, affronta il tema della polemica letteraria. In esso si narra che un tempo anche gli animali avevano avuto da Zeus il dono della favella; ma poiché ne abusarono con sfacciata petulanza, il dio, irritato, li rese muti e aggiunse le loro voci a quelle che gli uomini già possedevano; per questo motivo Filtone si esprime come un cane ed Eudemo come un asino. Purtroppo, la mancanza di più ampie notizie su questi due personaggi ci impedisce di appurare con certezza la loro identità e di comprendere a fondo il senso dell’ironia di Callimaco.

Banchetto sul fiume. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

 

Il giambo III ha carattere morale e contiene un’aspra critica contro la corruzione dei tempi e degli uomini, che preferiscono il denaro alla virtù; di carattere analogo è il giambo V, in cui si rimprovera il comportamento scorretto e violento di un maestro di scuola nei confronti dei suoi allievi.

Il giambo IV riprendeva un tema antichissimo, quello della contesa fra piante. Un esempio di questo tipo di favola compare già nella letteratura assiro-babilonese: ne sono protagonisti la palma e il tamerisco, che, in un vivace battibecco, esaltano ciascuno le proprie qualità. In Callimaco, che afferma di narrare una favola lidia, i contendenti sono l’alloro e l’olivo, che rivendicano ciascuno per sé il primato assoluto; la parte finale del componimento, gravemente mutila, ci impedisce di comprenderne la conclusione.

Da quanto si è detto fin qui, appare evidente come, al di là della forma metrica, la poesia giambica di Callimaco abbia assai poco in comune con l’antico carattere di questo genere letterario; un’ulteriore testimonianza ci viene fornita dagli altri componimenti della raccolta, in cui il poeta trattò argomenti del tutto estranei al giambo tradizionale.

Il giambo VI, ad esempio, è una descrizione (ἔκφρασις) della statua crisoelefantina di Zeus Olimpio, opera di Fidia; i giambi VII, VIII, X e XI hanno invece carattere eziologico: nel VII, la statua stessa di Hermes illustrava una forma particolare del culto del dio, onorato in Tracia con l’appellativo di Perpheraios; nell’VIII si spiegava l’origine di una gara di corsa, attribuendone l’istituzione agli Argonauti; il X narrava le vicende dell’eroe Mopso, per spiegare il motivo per cui, in Panfilia, Afrodite veniva onorata con il sacrificio di un cinghiale. Il rito, infatti, traeva origine dalla promessa fatta da Mopso di offrire alla dea il primo animale che avrebbe ucciso a caccia. Nell’XI, Callimaco ricostruiva l’αἴτιον di un’espressione proverbiale.

Il giambo IX riprende i temi moraleggianti del III e del V, mentre nel XII, classificabile come poesia d’occasione, Callimaco, per festeggiare la bambina dell’amico Leonte, giunta al suo settimo giorno di vita, descrive i doni offerti dagli dèi alla piccola Ebe, la dea della giovinezza, figlia di Era e di Zeus, nella stessa circostanza. Particolarmente significativo è quello di Apollo: il dio della musica e della poesia compone infatti un canto in onore della fanciulla, sicuro che il trascorrere del tempo distruggerà i doni di tutti gli altri dèi, ma non il suo, che è il più bello perché è destinato a durare per sempre. Con queste parole, Callimaco riprende il tema dell’eternità della poesia, già trattato dai lirici del VI secolo (da Saffo, soprattutto), che passerà poi, con largo successo, nella letteratura latina: il celebre incipit oraziano Exegi monumentum aere perennius (Odi III 30) ne è forse l’esempio più noto.

Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.

 

Questa varietà di contenuti, in contrasto con le consuetudini ormai consolidate, dovette attirare qualche critica a Callimaco da parte di altri letterati, che avrebbero preferito una più tradizionale unità di argomenti. Ce lo dimostra il giambo XIII, in cui il poeta si difese dall’accusa di πολυείδεια, presentando l’«eterogeneità» dei temi come un pregio e non come un difetto e confermandone la legittimità con l’esempio di Ione di Chio, un versatile poeta amico di Sofocle, vissuto fra il 490 e il 421 a.C., autore di tragedie, ma anche di componimenti epici, elegiaci, lirici e filosofici. Come abbiamo già detto, nel giambo XIII, l’ultimo della raccolta, compariva di nuovo il personaggio di Ipponatte; ma le lacune del testo ci impediscono di comprenderne con chiarezza il motivo e la funzione. Con questa sua produzione, Callimaco iniziò un nuovo genere letterario, detto σπουδογέλοιον, «seriocomico»; la critica moderna lo ha giudicato assai significativo, non solo perché ci offre un’ulteriore dimostrazione del multiforme ingegno del poeta, ma anche perché esso ebbe una notevole risonanza nella letteratura latina. Infatti, nonostante l’affermazione di Quintiliano satura…tota nostra est (Institutio oratoria X 1, 93), si è ormai giunti alla convinzione che Callimaco abbia contribuito, insieme ai giambografi del VI secolo a.C. e alla commedia antica, a offrire temi e modelli alla poesia satirica latina e al genere letterario della satura, che da lui assimilò il carattere composito dei contenuti e la tendenza a esprimere concetti di elevata e perfino severa moralità con piglio disinvolto e faceto.

 

Serapide. Tavola, affresco, II-III sec. d.C. dall’Egitto.

 

 

Le poesie liriche

 

Callimaco compose anche un certo numero di poesie liriche, in cui compaiono, ancor più accentuate, quelle caratteristiche di raffinatezza formale e di ricercata varietà del metro che già si notano nella produzione giambica. A quanto pare, egli non le raccolse in un corpus a parte, distinto dalle altre opere; perciò, nel volumen che servì a un ignoto grammatico del I secolo come fonte per le διηγήσεις del Papiro Milanese 18, queste liriche sono inserite dopo gli Aitia e i Giambi.

La prima di esse era composta in endecasillabi faleci, il metro che diverrà così caro a Catullo; ne rimangono soltanto l’incipit e l’argomento, dal quale si può comprendere che il poeta cantava la storia delle donne dell’isola di Lemno, assassine dei loro uomini.

La seconda lirica era intitolata Παννυχίς, «festa notturna», ed era composta in un metro asinarteto spesso usato da Euripide, formato da un dimetro giambico unito a un verso itifallico; l’argomento ci informa che, nella parte centrale, il carme trattava le vicende dei Dioscuri e di Elena.

La terza composizione, della quale rimangono interi poco più di venti versi, era la già ricordata Apoteosi di Arsinoe, scritta poco dopo la morte della sposa di Tolemeo II Filadelfo, avvenuta nel 270 a.C. In essa il poeta dava ancora una volta prova di rara erudizione, usando un metro anapestico piuttosto inconsueto, l’archebuleo; il contenuto era caratterizzato da toni alti e patetici, soprattutto nella descrizione del lutto che aveva colpito le città d’Egitto per la morte della regina.

Arsinoe II con le fattezze di Iside-Selene. Busto, marmo, III secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Nel quarto carme, di cui restano circa dieci versi, in pentametri coriambici catalettici, Callimaco cantava il mito di Branco, un bellissimo pastorello di Mileto amato da Apollo, che aveva avuto dal dio il dono della profezia, trasmesso poi a tutti i suoi discendenti, la casta sacerdotale dei Branchidi.

A questi quattro componimenti lirici se ne possono aggiungere alcuni altri, di varia estensione, dei quali è rimasta traccia nei reperti papiracei e nella tradizione indiretta. Uno di essi, intitolato Γραφεῖον («Lo stilo», con cui si incidevano le parole sulla superficie cerata delle tavolette), era composto in distici elegiaci e, a quanto ci è dato sapere, trattava dello stile pungente e aggressivo della poesia satirica di Archiloco.

 

Berenice II. Alessandria d’Egitto, post 241 a.C. ca. Emidramma, AV 2, 13 g. Obverso: ΒΕΡΕΝΙΚΗΣ-ΒΑΣΙΛΙΣΣΗΣ, cornucopia, diadema e stella (simbolo dei Dioscuri).

 

 

L’Ecale

 

Questo poemetto in esametri è la prima testimonianza sicura di un nuovo genere letterario, l’epillio (ἐπύλλιον). Prima di Callimaco, il termine fu usato da Aristofane con il valore di «piccolo verso» e, in seguito, dal retore Ateneo, nel III secolo d.C., con il significato di «poemetto epico» di breve lunghezza, in cui predominano aspetti descrittivi o contenuti amorosi, piuttosto che storie di dèi e di eroi. Con questo tipo di composizione, Callimaco volle dimostrare la possibilità di una poesia diversa e più adatta ai mutati gusti del pubblico, scegliendo un argomento poco noto e sviluppandolo con grande perizia formale, oltre che con la consueta originalità e autonomia dalla tradizione. Il poemetto, che in origine doveva constare di un migliaio di versi (forse anche meno), ci è noto attraverso numerosi frammenti di varia estensione e attraverso le διηγήσεις del già citato Papiro Milanese 18. In esso Callimaco raccontava un’impresa di Teseo, la cattura del Toro di Maratona.

Sfuggito alle insidie di Medea, la terribile maga della Colchide divenuta moglie di Egeo, allora re di Atene, Teseo era tenuto sotto strettissima sorveglianza dal genitore, che temeva per la sua vita. L’eroe, però, eluso il controllo del padre, si mise in viaggio per affrontare il Toro di Maratona, un animale gigantesco e feroce che desolava la regione. Sorpreso dalla sera e da un violento temporale, Teseo fu costretto a chiedere ospitalità in un casolare, appartenente a una vecchia contadina, Ecale. Ella accolse cortesemente l’eroe e lo ricolmò di affettuose premure, offrendogli il meglio delle sue povere provviste. Dopo aver trascorso la notte in piacevole conversazione, l’eroe ripartì al sorgere dell’alba. In seguito, catturato e domato il terribile toro, Teseo ritornò dalla sua ospite per ringraziarla e per rassicurarla sul felice esito dell’impresa. Purtroppo, Ecale nel frattempo era morta; a Teseo, addolorato per la sua scomparsa, non restò che onorarne la memoria dando alla località il nome di Ecale e fondandovi un tempio dedicato a Zeus Ecalesio, con una festività annuale, in cui aveva luogo una gara di corsa.

Il poemetto, che ha carattere eziologico, testimonia l’erudizione di Callimaco non solo nella scelta dell’argomento, ma anche nei sottili collegamenti che legano il mito di Teseo a quello di Eracle, trattato nell’Epinicio per Berenice. Sappiamo infatti che per gli antichi le due figure di Eracle, di origine dorica, e di Teseo, l’eroe attico per antonomasia, erano contrapposte e complementari, come dimostra anche il fatto che si dicessero l’uno nato da Zeus, il dio del cielo, e l’altro da Poseidone, il signore del mare. Fra le fatiche di Eracle è compresa la cattura del toro di Creta; ma l’animale, una volta raggiunta l’Ellade, sfuggì all’eroe o fu liberato da lui, trovando dimora nelle campagne di Maratona, dove poi fu nuovamente catturato, questa volta da Teseo. Inoltre, il racconto dell’ospitalità offerta a Eracle da Molorco, che rappresenta una digressione descrittiva nella struttura dell’epinicio, appare molto simile, come intenti e come toni, al brano dell’epillio in cui Callimaco si sofferma a descrivere il povero casolare di Ecale, i vari utensili domestici, i rustici ma gustosi cibi da lei imbanditi all’eroe; un mondo semplice e sereno, contemplato con nostalgia dal cittadino di una grande e raffinata metropoli, che però rimpiange talvolta un genere di vita duro e povero, ma di più umana misura.

La “Vecchia mercantessa” (Old Market Woman). Dettaglio del volto. Statua, copia romana di età Giulio-Claudia da originale ellenistico di II sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Oltre all’Ecale, Callimaco aveva composto anche un altro epillio in esametri, la Galatea, di cui restano un frammento e la διήγησις. In esso, il poeta narrava il mito della Nereide Galatea e di suo figlio Galato, capostipite del popolo dei Galati, gli stessi che, nel 278 a.C., si spinsero fino all’Ellesponto, con un’impresa che colpì vivamente i contemporanei e che avrebbe potuto fornire al poeta lo spunto per la sua opera. Se così fosse, la Galatea sarebbe da considerare una delle opere giovanili di Callimaco.

 

 

Gli Inni

 

Dell’opera di Callimaco fanno parte anche sei inni, di varia estensione, metro e lingua; i primi quattro, infatti, furono composti in esametri e in dialetto epico ionico; il quinto è in distici elegiaci, con una coloritura dorica di carattere spiccatamente letterario, che richiama assai da vicino il linguaggio di un altro grande poeta ellenistico, Teocrito. Callimaco si servì dello stesso dialetto anche nell’ultimo inno, che, però, è in esametri. Tali deviazioni dagli aspetti tradizionali del genere non devono però stupirci, perché non fanno altro che confermare un carattere della poetica callimachea, la πολυείδεια, a cui abbiamo prima accennato. Gli Inni devono essere considerati composizioni letterarie, non cultuali; e se anche alcuni di essi, come il primo, il terzo e il quarto, conservano un’impostazione che richiama l’innografia omerica, essi furono destinati certo alla recitazione, forse in ambiente simposiale. Ciò si può dedurre dalla struttura del secondo, del quinto e del sesto, che hanno carattere espositivo, con un narratore che si rivolge al pubblico, durante lo svolgimento di un rito. Questa particolarità ha indotto alcuni studiosi a stabilire un raffronto con Teocrito, tentando di ricavarne anche delle indicazioni per la datazione, che si rivela però un problema piuttosto difficile. È certo infatti che gli Inni vennero composti in un arco di tempo assai lungo; elementi interni ad essi ci permettono di stabilire che il più antico è l’inno A Zeus, databile forse fra il 283 e il 280 a.C., mentre il più tardo è quello Ad Apollo, che potrebbe risalire al periodo fra il 258 e il 247 a.C. Un accenno all’invasione dei Galati (274 a.C.) e all’apoteosi di Tolemeo Filadelfo, scomparso nel 246, ci sono utili per datare l’inno A Delo; per gli altri tre, purtroppo, non abbiamo indicazioni sufficienti.

Il contenuto degli Inni presenta un’evidente fusione di antico e di nuovo; insieme a tracce della remota tradizione rapsodica compaiono aspetti tipici della cultura ellenistica: alla celebrazione degli dèi si affianca quella del sovrano, considerato come il protagonista di sfarzose cerimonie di gusto più orientale che greco; il mondo divino è descritto con una certa vena umoristica, che ha dei precedenti in Omero (Odissea VIII 266 sgg.), come il racconto boccaccesco ante litteram degli amori di Ares e Afrodite, sorpresi da Efeso, imprigionati in una rete ed esposti al ludibrio degli altri dèi. Ma in Callimaco compare anche il gusto per la descrizione precisa e concreta, per il particolare prezioso o quotidiano, assolutamente assente nella tradizione più antica; di conseguenza, la vita degli dèi si colora, nei versi nel nostro poeta, di toni molto più umani e “borghesi”, mentre sarebbe inutile cercarvi sentimenti di autentica religiosità, ormai estranei al mondo alessandrino.

Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Recto: Testa diademata e barbata di Zeus-Ammone, voltata a destra.

L’inno I, A Zeus, sembra riprendere, all’inizio, schemi tradizionali, narrando la nascita e l’infanzia di Zeus con forme e linguaggio di stampo epico, a cui si unisce però la tendenza a digressioni descrittive del tutto nuove. Così, quando il poeta racconta come Rea, dopo aver partorito Zeus, cercasse invano dell’acqua per purificarsi e per lavare il neonato, la sua attenzione si sofferma a lungo, con erudizione, ma anche con vivo realismo, sull’arido paesaggio dell’Arcadia, che non ha ancora ricevuto dal grembo di Gea il dono delle acque. Prima che Rea colpisca con lo scettro il fianco sassoso del monte, per farne scaturire le impetuose fiumane prigioniere nelle viscere della terra, l’occhio del poeta coglie tutti i particolari dell’ambiente desolato dalla calura: i lecci dalle chiome disseccate dalla siccità, i segni lasciati dalle ruote dei carri nella polvere delle vie, le petraie assolate popolate di serpi, il viandante sitibondo che cerca ansiosamente un filo d’acqua, ignorando che, sotto i suoi piedi, nel seno profondo della terra, ne scorrono rapinosi torrenti. La dimensione temporale del racconto è quella arcaica del mito; ma la descrizione del paesaggio prende spunto da un’esperienza concreta, che ci richiama alla mente l’ardente estate mediterranea già descritta da Esiodo e da Alceo. Ma l’infanzia di Zeus, allattato dalla capra Amaltea e affidato da Rea alle Ninfe, fu di breve durata; divenuto precocemente adulto, il giovane dio spartì con giustizia il potere con i suoi fratelli maggiori e assegnò a tutti gli altri dèi il controllo sulle attività umane, riservando per sé solo il compito di proteggere i re, «perché non c’è niente di più divino dei sovrani, stirpe di Zeus» (Inni I, 79-80). A questo punto, all’esaltazione della potenza di Zeus si ricollega l’omaggio a Tolemeo Filadelfo, esempio terreno di regalità, che il dio supremo ha voluto subito mettere alla prova, per saggiarne le capacità. Quest’allusione, prima di qualunque tono servile o bassamente adulatorio, permette di datare l’inno con una certa sicurezza al 283 o al 282 a.C., quando Tolemeo, appena salito al trono, dovette fronteggiare la ribellione provocata dai suoi fratelli maggiori e quando forse Callimaco non era ancora stato accolto a corte; si tratterebbe perciò del più antico fra gli Inni.

 

Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. British Museum.

L’inno II, Ad Apollo, può invece essere considerato il più tardo della raccolta, perché è databile agli anni in cui Cirene ritornò sotto il potere dei Tolemei, con le nozze fra Berenice e Tolemeo III Evergete. In esso, Callimaco, dopo aver esaltato il dio e i suoi benefici nei confronti dell’umanità, secondo gli schemi dell’innologia sacra, lo celebra con l’epiteto Κάρνειος, che il poeta considera «avito», perché tipico della città di Cirene, fondata dal suo antenato Batto proprio per volere del dio. Ma oltre a questa allusione alle glorie di famiglia, l’inno contiene un altro importante accenno autobiografico, che abbiamo già preso in esame: la scena finale in cui l’Invidia, che sussurra all’orecchio di Apollo calunnie contro il poeta, viene sdegnosamente allontanata dal dio con un calcio; il tono è analogo a quello dell’Elegia contro i Telchini, che, come abbiamo visto, appartiene agli anni senili del poeta.

 

Statua di Artemide. Bronzo, IV secolo a.C. ca. Museo Archeologico del Pireo.

L’inno III, Ad Artemide, è uno dei più estesi e anche dei più vari nel contenuto, tanto da sembrare privo di unità; ma questa caratteristica, presente anche negli Aitia, ci fa supporre che Callimaco abbia scelto deliberatamente tale struttura, nel desiderio di sperimentare una nuova tecnica narrativa, applicandola a un genere letterario così antico. L’inno è databile solo approssimativamente al periodo centrale dell’attività di Callimaco (forse dopo il I libro degli Aitia). Fra i passi degni di nota per l’erudizione, possiamo ricordare un accenno al mito di Eracle e Teodamante, in polemica con il modo in cui l’aveva trattato Apollonio Rodio, e uno sfogo di preziosa dottrina nella parte finale del componimento, in cui compare un elenco di luoghi e personaggi legati al culto di Artemide, forse un po’ troppo lungo e monotono per il nostro gusto. Al contrario, ci attraggono per la loro grazia e la loro perfezione formale alcune scenette, in cui il poeta descrive con una straordinaria freschezza l’infanzia di Artemide. All’inizio, il poeta ci mostra la dea, ancora bambina, mentre cerca di convincere il padre ad accontentare i suoi desideri, standogli seduta sulle ginocchia e accarezzandogli il volto, e, anche se questo padre è Zeus, il dio supremo ci appare come un qualunque genitore affettuoso, schiavo delle moine della figlioletta e assolutamente incapace di rifiutarle qualche cosa (Inni III, 4-40). D’altra parte, che Artemide sia una bambina decisa e capace di ottenere tutto ciò che vuole, lo dimostra il suo comportamento di fronte ai Ciclopi che devono fabbricarle l’arco e le frecce. Ben lontana dall’essere spaventata dai mostruosi giganti monocoli, che le altre dee minacciano di chiamare per intimorire i loro figli quando fanno i capricci, la piccola si arrampica sulle ginocchia poderose di uno di essi, Bronte, e aggrappandosi con le manine al folto pelo che copre il petto del Ciclope, ne strappa un ciuffo lasciandogli per sempre una chiazza depilata al centro del torace (Inni III, 72-86). In questo modo, Callimaco offre un magistrale esempio del gusto alessandrino, temperando la solennità del tema con un garbato umorismo; ne è riprova la scena in cui Eracle, perennemente affamato, esorta la futura cacciatrice a non perdere tempo con piccole prede, ma a dedicare la sua attenzione soltanto a cinghiali e a tori, suscitando così il riso di tutti gli dèi, che ben conoscono il formidabile appetito del fortissimo eroe (Inni III, 144-157).

 

Guerriero galata. Statuetta, terracotta, 200 a.C. ca. dall’Egitto.

L’inno IV, A Delo, il più ampio di tutti, riprende all’inizio un tema già trattato nell’inno omerico Ad Apollo Delio. In esso si narra che, quando Latona stava per partorire, nessuna delle terre voleva accoglierla, per timore della vendetta di Hera, gelosa della rivale. Questa parte iniziale del mito offre a Callimaco l’opportunità per un’ampia digressione geografica, che evoca agli occhi del lettore un vasto quadro di paesaggio, delineato con grande novità espressiva, oltre che con profonda erudizione. Infine, Latona, disperatamente in cerca di un rifugio che il mondo intero sembra negarle, giunge all’isola di Cos; e qui avviene il più straordinario dei miracoli: Apollo, ancora chiuso nel seno materno, fa sentire la sua voce profetica, dando così prova di una precocità superiore a quella di qualunque altro dio. Prima di Callimaco, il tema della precocità divina era stato trattato solo nell’inno omerico A Hermes, ben noto e assai apprezzato dai lettori ellenistici. In questo modo, il poeta entrò in competizione con il suo illustre modello e se ne distaccò, sviluppando l’argomento in modo completamente diverso. Apollo, infatti, consiglia alla madre di non fermarsi a Cos, perché non è conveniente che egli venga alla luce in quell’isola, che pure è fertile e bella; «ma un altro dio le Moire destinano a lei [sc. a Cos], / eccelsa prole di dèi Salvatori» (Inni IV, 165-166), che governerà fino all’estremo Occidente, dove a sera riposano i cavalli del Sole. La profezia di Apollo continua alludendo all’invasione dei Celti, designati qui con il nome di “Galati”, che la Grecia dovette fronteggiare intorno al 280 a.C. Questi popoli, emigrati verso sud in cerca di nuove terre, attaccarono dapprima la Macedonia, uccisero in battaglia il re Tolemeo Cerauno e dilagarono poi nel cuore dell’Ellade. Le loro orde giunsero in prossimità del santuario di Delfi, probabilmente con l’intenzione di spogliarlo dei ricchissimi doni votivi; ma furono respinti dagli Etoli. Questo accenno permette una datazione abbastanza precisa dell’inno; e l’invenzione poetica della profezia apollinea a proposito dell’isola di Cos, mentre contribuisce, in quanto parola divina, a dare un tono di ineludibile verità al presagio della futura grandezza di Tolemeo, ne attenua al tempo stesso il tono evidentemente encomiastico.

 

Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

L’inno V, Per i lavacri di Pallade, è scritto in distici elegiaci e non presenta alcun elemento interno che possa permettere una collocazione cronologica anche approssimativa. Oltre ad avere una metrica inconsueta per un inno, questo componimento è anche un esempio di poesia «mimetica», una forma innovativa portata a perfezione da Callimaco e da Teocrito, che conferisce all’inno la struttura di un discorso diretto, pronunciato dai protagonisti di un cerimonia rituale. In questo caso, il poeta rievoca la festa annuale di Pallade Atena ad Argo, durante la quale la statua della dea viene posta su un carro e portata a bagnarsi nelle acque del fiume Inaco. La voce narrante è quella di un banditore sacro, che invita le devote e dà loro istruzioni per il rito. Poiché l’apparizione della statua della dea rappresenta un’autentica epifania, nessun occhio maschile si deve posare sul suo simulacro, immerso nel bagno rituale; perciò, affinché nessun uomo sia tentato di cedere a una curiosità sacrilega, l’araldo narra il mito di Tiresia.

Un giorno, Pallade e la ninfa tebana Cariclo, sua inseparabile compagna e madre di Tiresia, vollero trovare sollievo alla calura pomeridiana, bagnandosi nelle fresche acque della fonte Ippocrene; Tiresia raggiunse quel luogo sacro per dissetarsi:

 

75    Τειρεσίας δ᾽ ἔτι μῶνος ἁμᾶ κυσὶν ἄρτι γένεια

περκάζων ἱερὸν χῶρον ἀνεστρέφετο·

διψάσας δ᾽ ἄφατόν τι ποτὶ ῥόον ἤλυθε κράνας,

σχέτλιος· οὐκ ἐθέλων δ᾽ εἶδε τὰ μὴ θεμιτά.

 

 

Ma ancora Tiresia solo coi cani, la guancia appena da barba

scurita, si aggirava per il luogo sacro;

mosso da sete indicibile giunse alle acque della fonte,

sciagurato: e, senza volerlo, vide la proibita visione[4].

 

Pallade Atena, adirata, alza un grido; una tenebra improvvisa, profonda come la notte, cade sugli occhi di Tiresia, che rimane immobile e muto. Ma sua madre Cariclo, disperata per il destino del figlio, invoca pietà dalla dea, che le ha finora dimostrato affetto e amicizia. Atena, pur senza mutare la legge irrevocabile che condanna alla cecità l’uomo che posi gli occhi su una nudità divina, si lascia impietosire e promette a Cariclo che suo figlio sarà compensato della perdita della vista con il dono della profezia. I suoi occhi mortali saranno ciechi per sempre, ma egli avrà la capacità di comprendere il misterioso linguaggio dei segni mandati dagli dèi, vivrà una vita lunghissima e conserverà le sue capacità di veggente anche dopo la morte.

L’inno, dunque, sviluppa anche il tema eziologico, caro a Callimaco; ma quello che maggiormente colpisce la nostra attenzione è la straordinaria capacità di suggestione che emana dai versi centrali dell’inno: la profonda calma meridiana, l’acqua della fonte, la quiete suprema che domina la montagna evocano nella fantasia del lettore un paesaggio carico di sacro mistero, in cui il sovrumano silenzio prelude a un’epifania divina, inviolabile dall’occhio umano. L’avventura di Tiresia è delineata in pochissimi versi, con tratti di una sobrietà scarna e stupendamente efficace: la visione involontaria, il grido di Pallade, l’improvvisa notte che piomba sugli occhi del giovane, suggellandovi per sempre l’immagine della dea; poi, l’immobilità di Tiresia e il suo silenzio, che lo assimilano all’incanto del paesaggio. Dopo questo momento di altissima poesia, l’inno riprende il suo ritmo più discorsivo e disteso, fino al commiato finale, quando la statua della dea, terminata la cerimonia, si appresta a far ritorno nel tempio, in mezzo alla schiera delle sue fedeli.

 

Iside-Demetra con spiga e scettro. Stele con rilievo, III-II sec. a.C. ca. dal Tempio di Iside. Dione, Museo Archeologico.

L’inno VI, A Demetra, è anch’esso un saggio di poesia «mimetica»; come nel precedente, la voce narrante è quella di un addetto alla cerimonia sacra, che si rivolge alle fedeli della dea, in attesa di celebrare le Tesmoforie dopo un giorno di digiuno rituale. Dopo il preludio, in cui si indicano alle donne le prescrizioni da seguire, mentre aspettano che giunga la processione della dea, il narratore inizia il racconto delle affannose peregrinazioni di Demetra in cerca di sua figlia Persefone, rapita da Hades. Ma la triste rievocazione delle pene della dea si chiude quasi subito: tutta la parte centrale dell’inno, che non è fra i più estesi, è dedicata al mito di Erisictone, l’eroe tessalo, figlio di re Triopa, che, per aver tentato di abbattere un bosco sacro a Demetra, fu punito da lei con una fame insaziabile. Il giovane intendeva usare il legname degli alberi consacrati per costruirsi una sala da banchetto nel suo palazzo; ma non appena ebbe vibrato il primo colpo d’ascia contro il tronco di un altissimo pioppo, la pianta emise un doloroso grido, che giunse alle orecchie della dea. Demetra, allora, assunte le sembianze di un’anziana sacerdotessa, cercò di distogliere Erisictone dal suo proposito; ma l’eroe la trattò con prepotenza e disprezzo, minacciando di colpirla con l’ascia, se avesse continuato a importunarlo. Allora Demetra riprese il suo vero, terribile aspetto e condannò il giovane sacrilego a essere tormentato implacabilmente dalla fame e dalla sete.

A questo punto, la funzione eziologica dell’inno sarebbe già compiuta, perché la punizione di Erisictone si ricollega, per contrasto, al digiuno rituale delle fedeli della dea, ormai giunta al termine. Ma Callimaco sente ancora il bisogno di dare libero sfogo alla sua fantasia e alla sua straordinaria capacità fabulatoria; il poeta, così sobrio e incisivo nel narrare l’avventura di Tiresia, cede qui al piacere del racconto. Erisictone è un principe di sangue reale e i suoi familiari non vorrebbero che il suo stato recasse loro disonore agli occhi dell’intera città; perciò, tentano in ogni modo di tener nascosta la sua terribile disgrazia, adducendo le più varie giustificazioni per le assenza del principe.

L’insaziabile voracità di Erisictone lo spingerà, dopo aver divorato tutte le scorte della reggia, a elemosinare il cibo per strada, rendendo così manifesta a tutti la sua terribile punizione.

Callimaco descrive la pena dell’eroe senza suscitare alcun senso di orrore religioso, ma inserendola nel contesto quotidiano di una realtà familiare, in cui essa crea umanissimi sentimenti di disagio e di vergogna. L’inno si chiude con un’invocazione a Demetra, perché conceda alle sue fedeli abbondanza e felicità.

 

Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Obverso: ΠΤΟΛEMAIOY- BAΣΙΛΕΩΣ, Aquila stante verso sinistra, sopra un fascio di saette, una cornucopia e il diadema reale.

 

Gli Epigrammi

La produzione poetica di Callimaco comprende anche un corpus di oltre sessanta epigrammi di vario argomento e di diversa estensione (dal monodistico, formato da due soli versi – un esametro e un pentametro – alla breve elegia), di cui non è possibile stabilire una cronologia interna, benché alcuni di essi contengano riferimenti storici o autobiografici. In base all’argomento trattato, essi possono essere suddivisi in quattro categorie: epigrammi funerari, votivi, erotici e letterari. Grazie a essi, Callimaco occupò una posizione di preminenza nell’ambito della prima generazione dei poeti appartenenti alla cosiddetta scuola ionico-alessandrina, per lo stile raffinato, la grazia elegante, la capacità di esprimere sia il pathos sincero che l’omaggio garbato, senza cadere mai in toni lacrimevoli o servili.

Gli epigrammi più interessanti per noi sono forse quelli letterari, in cui compaiono accenni alla poetica dell’autore, che arricchiscono e completano quelli presenti in altre opere. Grazioso e significativo, a questo proposito, l’epigramma I, Anthologia Palatina VII, 89, che ha come protagonista Pittaco, uno dei sette sapienti già ricordati nel giambo I. Il saggio vegliardo, mentre siede tranquillo in una piazzetta nella quale alcuni bambini giocano con le trottole, vene interrogato da un giovanotto in procinto di sposarsi. Poiché gli sono state offerte due possibilità, quella di unirsi a una ragazza ricca e di condizione sociale superiore alla sua, e quella di prendere in moglie una fanciulla di rango più modesto e di mezzi pari a quelli del futuro marito, il giovane vorrebbe conoscere l’opinione di Pittaco, prima di impegnarsi con l’una o con l’altra. Ma, mentre il saggio sta per rispondere, uno dei bambini, vedendo che un suo compagno sta per colpirgli la trottola, gli grida: τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα («Prendi quella alla tua portata!». Pittaco, allora, invita il giovane a considerare le parole del fanciullo come la risposta giusta ai suoi dubbi. Lo spirito della favoletta è simile a quello dei Giambi; e la critica è concorde nel riconoscere in essa un’ulteriore riconferma delle scelte letterarie e stilistiche di Callimaco, ben consapevole di ciò che si adattava maggiormente alla sua vena poetica.

Alla categoria degli epigrammi letterari di contenuto encomiastico appartiene il LI, scritto probabilmente dopo il 246 a.C., quando si celebrarono le nozze fra Tolemeo III Evergete e Berenice, figlia di Megas. Alludendo a una statua che raffigurava la giovane e bella sovrana, Callimaco afferma, con elegante omaggio cortigiano, che le Cariti ormai non sono più tre, ma quattro e senza la quarta «neanche le Cariti stesse sarebbero Cariti».

La stessa sorridente finezza toglie ogni senso del dramma alle sofferenze d’amore e riduce il rapporto fra innamorati a un gioco di schermaglie e di ripicche, in cui il rifiuto o l’abbandono possono causare malinconia, ma non certo profonde crisi esistenziali. Ne è esempio l’epigramma LXIII, dedicato a una ragazza di nome Conopio («Zanzaretta»), che sa essere pungente e dispettosa come il suo nome:

 

 

οὕτως ὑπνώσαις, Κωνώπιον, ὡς ἐμὲ ποιεῖς

κοιμᾶσθαι ψυχροῖς τοῖσδε παρὰ προθύροις.

οὕτως ὑπνώσαις, ἀδικωτάτη, ὡς τὸν ἐραστὴν

κοιμίζεις, ἐλέου δ᾽ οὐδ᾽ ὄναρ ἠντίασας.

5      γείτονες οἰκτείρουσι, σὺ δ᾽ οὐδ᾽ ὄναρ. ἡ πολιὴ δὲ

αὐτίκ᾽ ἀναμνήσει ταῦτά σε πάντα κόμη.

 

 

        Che tu dorma, Conopio, il sonno che a me

fai dormire presso questo gelido atrio!

Che tu dorma, perfidissima, come il tuo amante

fai dormire, e neanche in sogno ottengo pietà!

5      I vicini si commuovono, e tu neanche in sogno! Ma grigia

la chioma presto ti rammenterà di tutto ciò[5].

Ragazza in fuga. Parte della decorazione acroteriale, pietra locale, dalla Casa Sacra di Eleusi.

 

Il tema è quello del παρακλαυσίθυρον (il «lamento dell’amato presso la porta chiusa»), caro ai poeti erotici alessandrini e destinato a grande fortuna nella poesia lirica latina. La raffinatezza formale, evidenziata dall’insistito gioco delle anafore (vv. 1 e 3, 4-5), dà alla breve lirica un tono di elegante intellettualismo, assolutamente privo di dramma. Anche l’accenno finale all’inesorabile vicinanza della vecchiaia – un topos in questo genere di letteratura – esprime qui soltanto una ripicca un po’ stizzosa, unica possibilità di rivincita dell’amante respinto, non certo l’angosciosa premonizione della caducità della gioventù, della bellezza, dell’amore e della vita stessa, che rende così intense le poesie di Mimnermo.

Ma questa poesia tanto leggera e sorridente può anche trovare le espressioni più pure e intense di una mestizia raccolta e dignitosa, come accade in alcuni epigrammi sepolcrali, a cui la brevità conferisce un più profondo senso di composto dolore:

 

Δωδεκέτη τὸν παῖδα πατὴρ ἀπέθηκε Θίλιππος

ἐνθάδε, τὴν πολλὴν ἐλπίδα, Νικοτέλην.

 

 

        Dodicenne il bambino ha qui deposto il padre Filippo,

la sua grande speranza, Nicotele[6].

 

 

 

 

Una fortuna grandissima, dall’antichità ai giorni nostri

 

Dopo Omero e Menandro, Callimaco è forse il poeta greco che ha avuto più fortuna, dall’antichità ai giorni nostri. Nella letteratura latina arcaica, Ennio si ispirò al proemio degli Aitia per comporre quello degli Annales, in cui, con evidente riferimento al testo callimacheo, narra che Omero gli apparve in sogno sul monte Parnaso. Anche il genere letterario dell’epillio, ripreso da Mosco, un poeta siracusano della seconda metà del II secolo a.C., ebbe una straordinaria fortuna: i maggiori fra i poetae novi, come Elvio Cinna, Licinio Calvo e lo stesso Catullo (Carmen LXIV) si ispirarono a esso; a Catullo appartiene anche la già ricordata versione della Chioma di Berenice.

In età augustea, il poeta elegiaco Properzio considerò titolo d’onore essere definito «il Callimaco romano» e anche Orazio, Ovidio (il personaggio di Bauci, Metamorphoseon VIII, 620 sgg. si ispira a quello di Ecale) e lo stesso Virgilio si rifecero speso a temi della poesia e della poetica callimachee; perfino la Ciris, poemetto di non sicura attribuzione, che apparterrebbe agli anni giovanili di Virgilio, risente di questa influenza. Dell’importanza di Callimaco per comprendere a fondo tono e contenuto della satira latina si è già parlato.

Tuttavia, ancora più notevole della sua influenza diretta di questo autore, fu quella esercitata per molti secoli dal suo canone stilistico: della subtilitas callimachea e delle sue continue esortazioni al labor limae fecero tesoro non solo la letteratura latina, ma anche la letteratura italiana rinascimentale e neoclassica. Agnolo Poliziano, nella Giostra, e Ugo Foscolo, nelle Grazie, ebbero senza dubbio presenti il testo e lo stile del poeta cirenaico che, in tempi più vicini a noi, non mancò di ispirare anche Pascoli (Poemi conviviali) e D’Annunzio (Alcyone) con la sua elegante preziosità, frutto di erudizione e di attenta ricerca filologica.

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Note:

[1] Callim. Aitia IV, fr. 110 Pf., 47-56, tr. G.B. D’Alessio.

[2] Callim. epigr. XXVIII, tr. G.B. D’Alessio.

[3] Callim. hymn. II, 105-112, tr. G.B. D’Alessio.

[4] Callim. hymn. V, 75-78, tr. G.B. D’Alessio.

[5] Callim. epigr. LXIII, tr. G.B. D’Alessio.

[6] Callim. epigr. XIX, tr. G.B. D’Alessio.