ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
da F. PESANDO, L’Eubea, in E. GRECO (ed.), La città greca antica: istituzioni, società e forme urbane, Roma 1999, 99-102 [con modifiche].
Le testimonianze archeologiche confermano sempre più un precoce sviluppo dell’isola di Eubea agli albori dell’età geometrica. Presso il moderno villaggio di Lefkandi, in località Toumba (toponimo greco simmetrico del termine arabo tell, cioè collina artificiale), agli inizi degli anni Ottanta, è stata infatti messa in luce una ricca necropoli organizzata intorno a un gigantesco edificio interrato immediatamente dopo la sua costruzione, databile tra il 1000 e il 950 a.C.
Necropoli di Toumba (Lefkandi, Eubea). Planimetria a disegno in Antonaccio 2002, 18, da Kalligas 1988, 231.
Questo edificio si configura come un palazzo funerario, strutturato sul modello dell’abitazione più importante dell’epoca, cioè la residenza di un basiléus; delle regge di quel periodo – archeologicamente note solo da scarsi resti, ma in parte ricostruibili sulla base di numerosi riferimenti in Omero – l’edificio di Toumba riproduce l’articolazione canonica (m 45×10).
Heroon di Lefkandi. Veduta assonometrica (Popham-Sackett 1993).
La forma scelta per la costruzione presenta il lato corto di fondo absidato, preceduto da due vasti ambienti, corrispondenti a quelli che nell’architettura domestica erano il pròdromos (vestibolo, spesso dotato di un portico di legno compreso fra le ante) e il mègaron (la sala del focolare, utilizzata per tutte le cerimonie ufficiali del sovrano); nella stanza absidata, occupata nell’edificio di Toumba da grandi pithoi (recipienti) destinati alle offerte funebri, occorre riconoscere la sede del thàlamos (la stanza nuziale). Rimane incerto se l’edificio sia sorto come palazzo funerario o se, dopo aver funzionato come vera e propria reggia, sia stato trasformato in sepolcro (heroon) solo in seguito alla scomparsa del basilèus che vi aveva dimorato. In ogni caso, entrambe le ipotesi sono destinate a restare senza verifica, poiché secondo un triste destino cui sono spesso soggette le scoperte archeologiche, il mègaron fu quasi completamente distrutto dalla ruspa manovrata dal proprietario del terreno.
Heroon di Lefkandi. Planimetria in De Waele 1998, 381.
L’altissimo rango del personaggio sepolto nel palazzo funerario di Toumba emerge dalla tipologia delle sepolture e dalla straordinaria qualità degli oggetti in esse ritrovati. Due le deposizioni scoperte, una femminile a inumazione e una maschile a incinerazione; accanto alle due tombe venne ritrovata anche una grande fossa contenente i resti di quattro cavalli, tutti provvisti di morsi. Nella tomba maschile le ceneri del defunto, avvolte in una stoffa secondo una ritualità funeraria ben nota da Omero, vennero collocate in un’anfora di bronzo di fabbricazione cipriota e con orlo decorato da una teoria di leoni, vecchia di un secolo rispetto all’età in cui venne sepolto il basilèus; se nulla di preciso possiamo dire riguardo alle modalità con cui essa giunse in Eubea, la sua presenza indica comunque la ricchezza dei contatti fra quest’isola e aree geografiche situate anche a considerevole distanza, e ci lascia forse intravedere i contorni di quell’ideologia del dono fra re che costituisce un tratto caratteristico della civiltà omerica. Al corredo maschile appartenevano inoltre una spada, un rasoio, una cote e alcuni elementi in ferro, segno che il possesso e la lavorazione di questo metallo erano ancora sentiti come estremamente importanti nella società dell’epoca.
Sepolture dall’heroon di Lefkandi. Ricostruzione a disegno da Domínguez 2005, 212.
Molto ricca era anche la sepoltura femminile: la donna era abbigliata in modo particolarmente raffinato, con al collo una collana d’oro e due dischi di bronzo inseriti nell’abito funerario in corrispondenza del seno, mentre accanto alla testa era deposto un coltello di ferro con la punta rivolta verso l’alto. Impressionanti sono le analogie riscontrabili fra queste sepolture e i riti funerari eroici descritti dall’epica omerica; a quei riti riconducono infatti la presenza dei cavalli immolati, la cremazione dell’uomo, segno distintivo dell’eroe, l’uso di avvolgere le ceneri del defunto in un tessuto prezioso e, infine, l’inumazione della donna, nella quale la caratteristica più singolare è costituita dalla presenza del coltello collocato all’altezza del collo.
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, gli scopritori riconoscono nell’inumazione femminile la possibile testimonianza di un’autoimmolazione: la donna si sarebbe comportata come una suttee della tradizione induista e come molte «eroine tragiche» ricordate dalla tradizione mitica greca (per esempio, Soph. Trach. 718-720; Euripid. Supp. 1019-1021). Tuttavia, la forma del suicidio scelto (per lacerazione, come suggerirebbe la presenza del coltello) non è quella tipica della sfera femminile, che prevede in genere lo strangolamento per impiccagione (su questo punto cfr. Loraux 1988). Ciò che invece sembra evocare questa deposizione è il sacrificio umano compiuto presso le tombe degli eroi. Molto esplicitamente Omero ricorda che nel corso dei funerali di Patroclo, oltre ai cavalli e ai cani, vennero uccisi dodici giovani troiani; ma il paragone più stringente con quanto documentato dal palazzo funerario di Toumba è fornito da brani tragici e da fonti mitografiche tarde in cui viene descritta la morte di Polissena, la più giovane fra le figlie di Priamo sgozzata da Neottolemo sul tumulo di Achille come parte dell’onore che spettava al grande eroe acheo dopo la conquista di Troia (Euripid. Ecub. 534-541; 557-567; Apollod. Epit. V 23).
Pittore del Gruppo Tirrenico. Sacrificio di Polissena. Anfora attica a figure nere, c. 570-550 a.C. dall’Italia. London, British Museum.
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Riferimenti bibliografici:
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Una tradizione storiografica, formatasi e perfezionatasi in un lungo periodo di tempo, pone sul 𝑚𝑜𝑛𝑠 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑢𝑠 il nucleo primario attorno al quale si sarebbe poi sviluppata Roma (Pʟᴜᴛ. 𝑅𝑜𝑚. 9, 4; Dɪᴏɴ. Hᴀʟ. 𝐴𝑛𝑡. 𝑅𝑜𝑚. I 88, 2; Aᴘᴘ. 𝑅𝑒𝑔. FF 1-9). Compreso entro un originario 𝑝𝑜𝑚𝑒𝑟𝑖𝑢𝑚 (da 𝑝𝑜𝑠𝑡+𝑚𝑜𝑒𝑟𝑖𝑢𝑚, “dietro le mura”, un confine sacrale e immaginario che delimitava la città dall’esterno), il colle era dunque considerato fin dagli albori dell’abitato come uno spazio consacrato e fortificato.
Così in epoca imperiale Tacito (Tᴀᴄ. 𝐴𝑛𝑛. XII 24, 1) avrebbe ricostruito il tracciato della città primitiva sul Palatino:
Igitur a foro boario […] sulcus designandi oppidi coeptus ut magnam Herculis aram amplecteretur; inde certis spatiis interiecti lapides per ima montis Palatini ad aram Consi, mox curias ueteres, tum ad sacellum Larum.
«Dal mercato dei buoi […] si cominciò a segnare il solco dei limiti della città, fino a comprendere il grande altare di Ercole; in un tempo successivo, a partire da quel punto si posero a intervalli cippi di pietra lungo le pendici del Palatino fino all’altare di Conso, e più tardi fino alle Curie Vecchie, quindi fino al sacello dei Lari».
L’area così delimitata da quattro vertici sarebbe stata identificata come 𝑅𝑜𝑚𝑎 𝑄𝑢𝑎𝑑𝑟𝑎𝑡𝑎, realizzata da Romolo stesso con l’uso dell’aratro.
Il “Muro di Romolo” (Studio Inklink).
La tradizione conserva, inoltre, anche il nome di alcune porte più antiche: 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛𝑎 (𝑜 𝑅𝑜𝑚𝑎𝑛𝑢𝑙𝑎), verso il Foro, 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑀𝑢𝑔𝑜𝑛𝑖𝑎, verso la Velia, e 𝑃𝑜𝑟𝑡𝑎 𝐼𝑎𝑛𝑢𝑎𝑙𝑖𝑠.
A questa tradizione storiografica l’archeologia ha portato sia in passato sia in tempi più recenti alcune singolari conferme: l’abitato antico, ricostruibile grazie ai solchi e ai fori dei pali di fondazione delle capanne sul tufo dell’altura, e i resti di fortificazione alle pendici nord-occidentali del colle. Quest’ultima scoperta, avvenuta grazie alle campagne di scavo condotte da Andrea Carandini negli ultimi decenni del XX secolo, ha avuto una vasta eco mondiale e le notizie relative al cosiddetto “muro di Romolo” hanno occupato uno spazio considerevole nella stampa nazionale e internazionale. Sulle scoperte del Palatino esistono due interpretazioni opposte: una prima, che si potrebbe definire “minimalista”, che rilegge i resti come relativi alla fortificazione dell’antico abitato (il più importante nucleo di quella che sarebbe stata in seguito la città); e una seconda, più “estrema”, avanzata dagli stessi scavatori, i quali riconoscono nell’opera la prova esauriente di un atto di fondazione urbana: una conferma, praticamente, della storicità della leggenda.
La tradizione storiografica romana e greca, che riassume e sintetizza la narrazione delle origini, sancirebbe così l’importanza del 𝑚𝑜𝑛𝑠 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑢𝑠 nella formazione dell’Urbe. Sul piano geografico, non potrebbe effettivamente trovarsi un luogo più adatto di questo colle per un insediamento stabile: l’altura era morfologicamente meno accidentata e impervia rispetto al 𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑖𝑢𝑚, per esempio; ma, al tempo stesso, più arretrato rispetto al Tevere. Non stupisce dunque che nelle memorie leggendarie (e, a quanto è sembrato, archeologiche) del colle risalgano a ben più addietro della già mitica età romulea. Nonostante numerose incertezze, aporie e lacune, il quadro demografico precedente l’età urbana nell’area di Palatino, Velia e Foro è confermato dall’evidenza archeologica.
Palatino, mura romulee. Porta Mugonia (sezione ricostruttiva, in A. CARANDINI, 2007).
Particolare importanza hanno avuto nella ricostruzione i rinvenimenti nell’area del Foro romano, pure limitati a una zona molto circoscritta. Qui, insieme a resti di abitato, è noto un sepolcreto in uso dal IX secolo fino alla prima metà circa dell’VIII, quando cessarono le sepolture di individui adulti: l’area sarebbe stata in seguito utilizzata come insediamento, mentre la “città dei morti” sarebbe stata trasferita sull’Esquilino. Mentre l’abitato del Palatino andava sviluppandosi, il settore nord-occidentale della città sarebbe stato occupato, stando alla tradizione, dai Sabini e dal loro re Tito Tazio. Proprio dall’accordo tra i due capi, Romolo e Tazio, si sarebbe poi sviluppata l’Urbe vera e propria. La tradizione restituisce, dunque, l’immagine di una comunità sorta con una notevole componente “geminata”, latina e sabina (elemento, sovente scartato dalla critica moderna). La questione della “sabinità” della Roma più antica è tuttavia molto forte nella tradizione arcaica: tra i 𝑟𝑒𝑔𝑒𝑠 dopo Romolo si sarebbero alternati esponenti delle due stirpi.
Quello che la leggenda tramanda in maniera più o meno favolistica può forse essere compreso in una prospettiva storica più complessa, che rende probabile una graduale immissione di elementi sabini sul territorio latino.
di RIES J., Il culto di Mithra nella Commagene, in Opera omnia, vol. VII/1, Religioni del Vicino Oriente Antico, Il culto di Mithra dall’India vedica ai confini dell’Impero romano, trad. it. NANINI R., rev. COSI D.M., Milano 2013, pp. 193-203*.
1. Il Mithra ellenistico nella Commagene
La Commagene
Cominciamo la nostra ricerca sulla diffusione del culto di Mithra soffermandoci innanzitutto sulla Commagene, antica Provincia siriaca del regno seleucide. La Commagene, situata tra la Cilicia e l’Eufrate, ai piedi del Tauro, con capitale Samosata, venne integrata nell’Impero seleucide. Il nome Commagene è un adattamento greco del mesopotamico Kummuh. Questa regione ha una lunga tradizione culturale: la Commagene si trovava infatti ai confini tra l’Iran, la Mesopotamia, il paese degli Hurriti e quello degli Ittiti. Nel 162 a.C. il governatore della provincia, Tolomeo, si pone a capo di una rivolta e trasforma la Provincia in un regno indipendente. Nella Provincia della Commagene, che rappresentava un trait d’union tra il mondo iranico e il mondo anatolico, negli ultimi decenni sono state fatte importanti scoperte relative al culto di Mithra. Vanno innanzitutto ricordati i numerosi sovrani che portano il nome teoforo Mitridate. Nel regno del Bosforo il re Mitridate fu designato dall’imperatore Claudio, nel 41 a.C., come successore di Tolomeo. Nel regno dei Parti troviamo Mitridate I Filelleno dal 171 al 138 a.C. e Mitridate VI il Grande dal 123 all’86 a.C., colui che conquistò l’Armenia e istituì rapporti diplomatici con Roma nel 92[1].
Carta dell’Asia minore sudorientale (da WALDMAN H., Die kommagenischen Kultreformen unter König Mithradates I. Kallinikos und seinem Sohne Antiochos I., Brill, Leiden 1973).
Nella Commagene il culto di Mithra divenne un culto regale nel corso dei secoli precedenti alla nostra era. La documentazione è vasta[2]. Dörner descrive una serie di scoperte: statue, rilievi, iscrizioni. In esse ritroviamo l’incontro tra le tradizioni greche e quelle iraniche, in particolare in alcune iscrizioni e statue in cui figurano quattro nomi divini, quelli di Apollo, Mithra, Helios ed Hermes.
Sembra certo che l’iscrizione (OGIS 383 = IGLSyr 1 1 = CIMRM 32) di Nemrut Dağı (in cui compaiono le quattro divinità appena nominate) fu fatta incidere da Antioco I, re della Commagene dal 69 al 38 a.C. Un bassorilievo ci mostra il dio Mithra che stringe la destra del re in segno di alleanza e di protezione. Dörner ha ritrovato ad Arsameia del Ninfeo, sul fianco meridionale di Eski-Kale, i resti di un santuario. Per alcuni si tratterebbe addirittura di un antico mitreo, il più antico tra tutti quelli conosciuti, cosa che ci ricondurrebbe ai misteri di Mithra celebrati nella Commagene nel I secolo a.C. Non lontano dai resti individuati da Dörner sorge un monumento eretto da Antioco I a gloria di suo padre Mitridate I, sul quale troviamo una allusione a Mithra. Bisogna però ricordare che Dörner stesso, così come numerosi altri studiosi, non accoglie l’ipotesi del mitreo.
Queste testimonianze del I secolo a.C. documentano soltanto il culto di Mithra come culto regale: non si tratta della celebrazione dei misteri. Significativa è la rappresentazione delle immagini in cui Mithra compare di fronte al sovrano. Si vedano la statua della dexiosis (il darsi la mano destra) tra Mithra e Antioco I di Commagene a Nemrut Dağı (tav. VI) e quella di Mitridate Callinico nello hierothesion di Arsameia del Ninfeo (tav. V), «Études mithraiques», 1978. Siamo nel I secolo a.C.[3] Queste scoperte ci hanno fatto conoscere il culto regale di Mithra nella Commagene. Si tratta del culto organizzato da re Mitridate I Callinico e da suo figlio Antioco I. I documenti sono di due tipi, dal momento che abbiamo le iscrizioni su stele e quelle su rocce:
La stele di Adiyaman (SEG 26,1623 = ZPE 20 [1976], 213), che ci mostra una vera e propria riforma cultuale compiuta da Mitridate I Callinico, che si pone miticamente come discendente della dinastia persiana e di quella macedone, perfettamente nello spirito dell’ellenismo.
La stele di Samostata (OGIS 404 = IGLSyr 1 52, Add. IGLSyr II, p. 381 = SEG 7, 47): questa iscrizione, realizzata da re Antioco, figlio di Mitridate I Callinico, presenta Antioco come re divino e afferma che il sovrano ha fatto erigere le statue di Zeus-Oromasdes, di Apollo-Mithra-Helios-Hermes e di Artagnes-Eracle-Ares.
Dall’altra parte abbiamo alcuni monumenti cultuali, gli hierothesia, di cui dovremo parlare più a lungo.
Queste recenti e importanti scoperte gettano nuova luce sul culto del Mithra ellenistico. R. Turcan riassume così la situazione:
Nell’Asia minore dei diadochi le dinastie di origine iranica (alcune delle quali rivendicavano una eredità achemenide) favorirono le prime contaminazioni greco-orientali che stavano aprendo la strada dell’Occidente a un mitraismo ellenizzato. Il nome teoforo Mitridate o Mitradate, assunto dai re del Ponto, d’Armenia e della Commagene, attesta che essi veneravano in Mithra il garante divino della loro autorità. Le monete di Mitridate I, re dei Parti (171-138), portano sul rovescio una figura d’arciere paragonabile all’Apollo delle tetradracme seleucidi; nell’Impero ellenizzato degli Arsacidi lo si identificava con Mithra[4].
Antioco I di Commagene. Testa, pietra calcarea, seconda metà I sec. a.C. da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia). Gaziantep, Museo Archeologico Nazionale.
La testimonianza di Plutarco
a) La Cilicia
Nel 67 a.C. Pompeo inaugura contro i pirati che infestavano il Mediterraneo un’azione destinata a mettere fine alle loro scorrerie contro i rifornimenti di grano, inviando squadre militari in diversi settori, ma riservando a sé la Cilicia, noto covo dei pirati. La campagna ha successo: dopo tre mesi regna la calma. La Cilicia, situata nella parte sudorientale dell’Anatolia, è l’antico territorio di Kizzuwatna del periodo ittita. Dopo la fine dell’Impero ittita cade nelle mani degli Assiri, in seguito dei Cimmeri. Sotto la dominazione persiana è unita alla satrapia di Cappadocia. Alessandro la occupa entrandovi da settentrione. La Cilicia è fiancheggiata a oriente dalla catena del Tauro, luogo montagnoso e poco abitato, che rappresentava il covo ideale per i pirati, i quali da oriente, attraverso la pianura e il corso dei fiumi, avevano facile accesso al mare.
b) La notizia di Plutarco
Nella Vita di Pompeo di Plutarco incontriamo un breve accenno al mitraismo. Ecco alcuni passi del ventitreesimo capitolo:
La potenza dei pirati che nacque in Cilicia ebbe un’origine tanto più pericolosa quanto meno era nota all’inizio. I servizi che resero a Mitridate durante la sua guerra contro i Romani ne aumentarono la forza e l’audacia … Facevano anche sacrifici barbari che erano in uso a Olimpia e celebravano misteri segreti, tra cui quelli di Mithres, conservatisi fino ai nostri giorni, che avevano fatto conoscere per primi.
Che cosa si può dedurre da questa notizia di Plutarco? Seguiamo la storia degli studi. In Les mystères de Mithra[5], Fr. Cumont afferma:
Se si presta fede a Plutarco … i Romani sarebbero stati iniziati ai suoi misteri dai pirati di Cilicia vinti da Pompeo nel 67 a.C. Questa informazione non ha nulla di inverosimile: sappiamo, per esempio, che la comunità ebraica stabilitasi trans Tiberim era composta in gran parte dai discendenti dei prigionieri che lo stesso Pompeo aveva portato con sé dopo la presa di Gerusalemme (63 a.C.). Grazie a questa particolare circostanza è dunque possibile che a partire dalla fine della Repubblica il dio persiano abbia trovato alcuni fedeli nella variegata plebe della capitale. Ma confondendosi nella folla delle confraternite che praticavano riti stranieri, il piccolo gruppo dei suoi adoratori non attirava l’attenzione. Lo yazata partecipava così al disprezzo di cui erano oggetto gli Asiatici che lo veneravano. L’azione dei suoi seguaci sulla massa della popolazione era praticamente nulla, tanto quanto quella delle comunità buddhiste nell’Europa moderna.
Cumont, dunque, accetta il fatto che i pirati di Cilicia abbiano introdotto, nel 67 a.C., i misteri di Mithra a Roma e ipotizza che il culto sia stato sostanzialmente ignorato a Roma nelle sue prime fasi di sviluppo. Ernest Will adotta, per interpretare questo testo, un approccio più sfumato[6]. Egli distingue due problemi: la data di formazione dei misteri e il luogo in cui si realizza questo evento. Per quanto riguarda la cronologia, Will utilizza anch’egli Plutarco, che allude all’esistenza del culto in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., ma cita anche la testimonianza del poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio), nato a Napoli verso il 46 d.C., che attorno al 65 comincia a scrivere un poema epico, La Tebaide, portato a termine nel 90 circa. In questo poema Stazio descrive l’immagine della tauroctonia (Theb. I 719-720), dimostrando la penetrazione del culto a Roma alla metà del I secolo della nostra era. Questa indicazione, afferma Will, corrisponde alla realtà, dal momento che è appunto sotto i Flavi, tra il 70 e il 100 d.C., che i ritrovamenti archeologici dimostrano la diffusione del culto. Questo dato, accostato alla testimonianza di Stazio, attesta dunque la diffusione del culto di Mithra a Roma alla fine del I secolo. Will utilizza il testo di Plutarco, che ci fa risalire all’inizio del I secolo a.C., come testimonianza del lungo periodo di incubazione durante il quale ebbero luogo la guerra di Armenia di Nerone e la guerra giudaica, guerre che implicarono numerosi spostamenti di truppe da Roma all’Asia. Il secondo problema è quello della nascita dei misteri, che, afferma Will, presuppone una regione e un’epoca in cui gli elementi persiani erano ancora vivi:
L’Asia minore e soprattutto la sua pane orientale apparivano, alla fine dell’epoca ellenistica, particolarmente propizie. Basti ricordare, a questo proposito, i tentativi dei reucci della Commagene della stessa epoca (I secolo a.C.) di assicurare il proprio potere e il proprio prestigio richiamandosi sia alla Grecia che alla Persia: essi si fecero raffigurare faccia a faccia con Mithra. Centocinquant’anni dopo, l’ora della Persia era passata e l’Iran dei Pani non suscitava più nei Romani paura o ammirazione profonda. La verosimiglianza è dunque più favorevole al testo di Plutarco. Ma anche lo studio dell’iconografia – che è l’unica altra nostra risorsa – fornisce argomenti che vanno nella stessa direzione[7].
Will guarda dunque con molto favore alla testimonianza di Plutarco sulla presenza dei misteri di Mithra in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., a condizione che si pensi alla Cilicia orientale, che ai suoi occhi si rivela come «la probabile culla del culto misterico», soprattutto per via delle scoperte archeologiche, delle monete, di un’iscrizione di Anazarba e della presenza dei Magi in questa regione.
Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).
E.D. Francis[8] osserva che alcuni studiosi hanno ricavato dalla notizia di Plutarco l’idea che il mitraismo avrebbe raggiunto Roma proprio grazie all’operazione militare di Pompeo. Ma in realtà Plutarco non fornisce la data dell’arrivo a Roma di questi misteri. E parla del rito utilizzando il generico termine teletai. Inoltre, afferma Francis, non è certo che Pompeo abbia portato con sé a Roma i pirati, se teniamo conto di una nota di Servio alle Georgiche di Virgilio, che afferma: Pompeius enim victis piratis Cilicibus partim ibidem in Graecia, partim in Calabria agros dedit.
Per comprendere appieno il testo di Plutarco, afferma Francis, bisogna tenere presente che con il termine teletai Plutarco intende riferirsi non alle origini dei misteri, bensì a un contesto del tutto tradizionale. Francis pensa che le teletai (riti, cerimonie di iniziazione) siano da interpretare come una sorta di patto di protezione: avremmo così un’allusione all’adozione da parte dei pirati di una religion of robbers, un culto di banditi che, nella versione romana, diverrà poi un culto di soldati. Questo culto di banditi si sarebbe fondato sopra un patto di fratellanza, posto sotto la protezione di Mithra. E si può ipotizzare che questi banditi stringessero il loro patto nel profondo delle grotte. Le cerimonie del patto dei banditi sarebbero evidentemente riservate agli uomini: le donne ne sono escluse. Il culto mitraico dei pirati sarebbe stato, dunque, segnato dal rispetto di un patto stretto per combattere in vista della vittoria. Quando Roma adotterà i misteri di Mithra, questi riti di iniziazione si modificheranno profondamente.
Dopo aver analizzato la notizia di Plutarco, Vermaseren[9] si rivolge allo storico Appiano, il quale ci informa, nel II secolo d.C., che furono i sopravvissuti dell’esercito sconfitto del re Mitridate Eupatore a iniziare i pirati ai misteri. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.C.), nell’88 ordinò il massacro di tutti i Romani d’Asia. Nel 66 fu definitivamente sconfitto da Pompeo sull’Eufrate. Mitridate, come indica chiaramente il suo nome, era un fedele di Mithra. Come i suoi predecessori, aveva accolto nel suo esercito soldati provenienti da ogni parte dell’Asia.
In Cilicia, la montuosa patria dei pirati, esistono diversi monumenti dedicati a Mithra. Ad Anazarba è stato scoperto recentemente un altare dedicato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di Zeus-Helios-Mithra. Il dio era venerato anche a Tarso, la capitale, come provano alcune monete dell’imperatore Gordiano III che portano l’effigie dell’uccisore del toro[10].
I pirati, ai quali a volte si erano uniti personaggi importanti, veneravano Mithra nella loro comunità. Soltanto gli uomini erano ammessi al culto. È dunque probabile che, dopo la loro disfatta, i pirati abbiano portato Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì[11].
Secondo Vermaseren, a Roma non abbiamo alcun monumento relativo a Mithra prima della fine del I secolo d.C. Soltanto alla fine del I secolo della nostra era Mithra comincia la sua marcia trionfale nell’Impero romano[12].
Questo primo paragrafo ci ha consentito di porre in modo chiaro il problema del Mithra ellenistico. All’inizio del secolo Cumont scriveva: «Si può affermare in generale che Mithra è sempre rimasto escluso dal mondo ellenistico». Oggi questa affermazione va presa con molta cautela, in particolare dopo le importanti scoperte della Commagene. Dobbiamo spingere più a fondo le nostre indagini e chiederci soprattutto se i documenti archeologici ed epigrafici della Commagene ci forniscono elementi capaci di documentare il passaggio dal culto regale di quella regione al culto misterico dell’Impero romano.
Incontriamo il termine hierothesion in diverse iscrizioni, come quelle di Karakush e di Arsameia sull’Eufrate. Il vocabolo ha un significato del tutto particolare nella Commagene. È presente anche a Nemrut Dağı, sulla terrazza in cima alla montagna. Lo studio di H. Waldmann ci permette di chiarire diversi aspetti: il termine serve soltanto a designare un santuario funebre, un santuario regale in cui si rende un culto dinastico oppure un culto ai sovrani defunti e divinizzati[13].
Ricostruzione assiometrica della tomba-tempio di Antioco I di Commagene sul Nemrut Dağı.
Lo hierothesion di Nemrut Dağı
A Nemrut Dağı avremmo così un santuario che celebra i sovrani defunti della dinastia. Mitridate I Callinico è il primo re di una nuova dinastia che fa riferimento da una parte a Dario il Grande e dall’altra ad Alessandro Magno. Due sono le serie di divinità: Mithra-Apollo e Helios-Hermes. Si tratta di una riforma cultuale di carattere sincretistico.
Waldmann pubblica il testo greco ricostruito e la traduzione tedesca del nomos, cioè dell’ordinanza cultuale promulgata da Antioco I[14]. Eccone alcuni dei passi principali. «Il grande re Antioco, dio, il Giusto, Epifanio, amico dei Romani e dei Greci, figlio del re Mitridate Callinico e della regina Laodicea, dea … ». Il sovrano nomina gli dèi ai quali consacra il suo regno: «Così, come vedi, ho eretto a questi dèi immagini davvero degne: quella di Zeus Oromasdes, quelle di Apollo-Mithra-Helios-Hermes, quelle di Artagnes, Eracle, Ares… ». Alla riga 123 comincia il nomos, la legge. Il re designa un sacerdote incaricato del culto degli dèi e degli antenati divinizzati. Il giorno dell’apoteosi degli dèi e del sovrano, costui deve vestirsi con abiti sacerdotali persiani; dovrà fare offerte di incenso e di piante aromatiche e deporre sugli altari cibi e brocche di vino. Tutti gli alimenti saranno distribuiti tra i presenti. Tutti gli ieroduli consacrati al servizio degli dèi non saranno mai ridotti in schiavitù. I villaggi consacrati a questi dèi non saranno mai proprietà di nessuno. A tutti coloro che si conformeranno piamente alle decisioni del re saranno propizi gli dèi di Macedonia, di Persia e della Commagene.
Abbiamo una lunga iscrizione in cui Antioco afferma che questo hierothesion è stato creato da suo padre, Mitridate Callinico, per gli dèi e perché vi sia deposto il suo bel corpo, passato in vita di vittoria in vittoria. Descrive poi la città di Arsameia, costruita su due collinette simili al petto di una ninfa che esce dal fiume Ninfeo. Poi ritroviamo i soliti elementi: la fondazione di un culto in onore degli dèi e dei sovrani defunti, gli incarichi dei sacerdoti, degli ieroduli e dei fedeli.
Un’altra lastra di pietra, spezzata ma che ha potuto essere ricostruita, porta al recto la dexiosis di Antioco con Mithra, al verso un’iscrizione votiva di Antioco in onore di Mithra-Helios e Apollo-Hermes. Un sacerdote è incaricato di questo culto divino. Comunque, afferma Waldmann, non si tratta di un culto misterico. n culto viene celebrato all’aria aperta, con la folla dei fedeli che partecipa al pasto rituale. Non siamo in presenza di un culto iniziatico, ma di un culto mitraico di carattere regale e pubblico. La presenza di una grotta scavata nella roccia ha fatto pensare a un mitreo, ma in realtà essa era semplicemente la camera funeraria del sovrano. Si veda la lunga discussione in Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen, nella seconda parte del volume, Die Hierothesia[15]. Waldmann propone infine un’altra osservazione importante. L’iconografia ci mostra che Mitridate I Callinico non ha soltanto parlato di belle immagini degli dèi, ma le ha anche realizzate. Lo studioso si chiede se questo culto regale della Commagene, nel quale Mithra assume un ruolo di primo piano, non sia all’origine del culto mitraico che si diffonderà nei secoli seguenti. Waldmann non risponde positivamente, a causa della mancanza di prove. Ma la questione è di un certo rilievo.
Antioco I di Commagene. Testa colossale, pietra calcarea, 64-32 a.C. ca. dallo Hierothesion, Nemrut Daği.
Il culto regale della Commagene e Mithra
Ciò che stupisce in questo culto, afferma J. Gagé[16], è l’associazione tra sovrano e dio: il re si assicura l’uguaglianza con gli dèi, come dimostra la dexiosis. Ciò che stupisce ulteriormente è l’equivalenza affermata tra i nomi iranici e i nomi greci delle principali divinità: Zeus = Oromasdes, Eracle = Artagnes, Helios = Hermes, Mithra = Apollo. Abbiamo qui una doppia tetrade, che si ricollega ad Ares = Eracle-Artagnes. Gagé[17] sottolinea il fatto che Mithra, «il più prossimo al re tra questi dèi, è detto anche Apollo e in fondo non è realmente diverso da Helios-Hermes». C’è una tendenza al sincretismo delle entità divine. Jonas impiega il termine «teocrasia» per definire la tendenza al sincretismo nei nomi divini.
Il culto. Secondo Gagé, al sincretismo delle entità divine corrispondono le norme prescrittive di origine persiana imposte agli osservanti del culto. L’esame archeologico del monumento di Nemrut Dağı mostra il fascio di rami (baresman) nella casa di Mithra. Si tratta del rituale mazdeo del culto del fuoco. Il sacerdote deve vestire l’abito persiano per gli atti di culto da celebrare in occasione delle feste. I sacerdoti godono di diversi privilegi. Nella celebrazione del sacrificio abbiamo offerte e vittime animali e infine la condivisione del pasto sacro.
Le motivazioni psicologiche e morali. Il documento regale di fondazione del culto del sovrano insiste sulla purezza morale dei suoi protagonisti. Il re è portatore dell’eusebeia, la pietà religiosa, che è una virtù regale. La perennità del culto viene enunciata con enfasi. Alcuni autori hanno persino ritenuto che si trattasse di una continuazione dello zervanismo, con il culto di Zervan-Aion.
Quello che manca, però, è l’iniziazione di tipo misterico. Su questo punto Dörrie, Gagé e Waldmann sono d’accordo. Non si tratta di un culto misterico, bensì di un culto regale, un culto dei sovrani. I sacerdoti sono Magi. Ne era convinto Cumont, che collocava nella Cappadocia i Magi e li identificava con questi sacerdoti della Commagene.
Gagé, invece, non è di questa opinione: non si tratta di Magi, ma di sacerdoti nazionali, regali, ben contenti di conservare le loro rendite e i loro privilegi all’ombra di una dinastia nazionale. Questi sacerdoti erano tuttavia molto vicini ai Magi e il culto di Mithra sviluppò alcune delle dottrine che saranno riprese nei misteri mitraici successivi. L’astrologia, in ogni caso, era già presente in questo culto.
3. La dexiosis mitraica
L’esame della documentazione archeologica della Commagene ci mostra una serie di immagini in cui il sovrano stringe la mano destra a una divinità, in particolare al dio Mithra[18].
La dexiosis della Commagene secondo Waldmann
Gli autori hanno interpretato in modo differente questa scena, che nella Commagene troviamo molto diffusa. Per alcuni si tratta di un gesto di saluto del sovrano e del dio. Ma, si chiede Waldmann, chi saluta e chi viene salutato? È il dio che saluta il re o è il re che accoglie il dio? Dörrie pensa, invece, che questa dexiosis sia da mettere in relazione all’astrologia: gli dèi si avvicinano (come le stelle, come i pianeti) e salutano il sovrano, la stella regale. Waldmann ritiene di trovare la spiegazione nelle righe 61-63 di Nemrut Dağı. «L’antichissima dignità degli dèi l’ho presa come compagna di una giovane fortuna». Antioco tratta dunque gli dèi in modo attivo, associandoli alla propria sorte. È lui ad avere l’iniziativa. Va persino più lontano: esso era una dignità arcaica a un elemento nuovo, come risulta dalle righe 24-27: «Quando ho ripreso la sovranità paterna ho stabilito il regno, sottomesso al mio trono sulla base della mia pietà, come residenza comune di tutti gli dèi». Waldmann insiste piuttosto su un altro fatto. Non è Antioco ad aver introdotto il culto, bensì Mitridate I Callinico, suo padre. È costui, quindi, che ha accolto nel suo regno, come residenti ufficiali, le divinità di Persia e di Macedonia. Non si tratta, per il sovrano, di prendere il posto degli dèi, ma di portarli nel suo regno. Waldmann ritiene, interpretando le iscrizioni delle stele, che il re della Commagene distingua due nature divine (Gottum), quella degli dèi e la propria: rivendica per sé una virtù, l’eusebeia; utilizza per sé il termine dikaios, ponendosi così nell’ambito della giustizia; sottolinea il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni ha sempre fatto la volontà degli dèi; evita accuratamente ogni possibile confusione tra gli dèi e se stesso; nei documenti iconografici della dexiosis non si pone mai nella condizione di poter essere identificato con gli dèi, ma si presenta come il re divino; pone i propri santuari sotto la protezione degli dèi e non sotto la propria protezione, per quanto divina. Per Waldmann in questi casi non abbiamo a che fare con una apoteosi: la dexiosis non è una divinizzazione del sovrano. Il re è divino e si mostra come tale al suo popolo. In quanto re divino, nella sua epifania divina, instaura nel suo regno un nuovo culto. Questo culto è reso agli dèi di Grecia e di Persia, ma con una predilezione per la teologia astrale, dal momento che le divinità astrali assumono un ruolo assai importante. In tale culto il ruolo di Mithra è centrale. Fondamentale, in ogni caso, è l’elemento della dexiosis tra il re e la divinità, tra il re e Mithra[19].
Antioco I di Commagene stringe la mano ad Eracle. Bassorilievo, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).
Dextrarum junctio: la dexiosis
Disponiamo di una ragguardevole sintesi della nostra documentazione sulla dexiosis grazie a uno studio di M. Le Glay, La dexiosis dans les mystères de Mithra[20]. L’autore ha analizzato la documentazione di numerosi monumenti antichi, greci e cristiani. La dextrarum junctio è stata interpretata in modi differenti: come simbolo della fides o come il gesto degli sposi che si uniscono in matrimonio. Oggi sappiamo che questo gesto non appartiene né al rituale né alla simbologia del matrimonio, ma è divenuto, nel mondo cristiano, signum concordiae.
Nell’iconografia mitraica abbiamo soprattutto due episodi raffigurati sui bassorilievi cultuali collocati intorno alla scena della tauroctonia:
La scena dell’alleanza tra Mithra e il Sole: Mithra e il Sole si danno la mano destra, di solito al di sopra di un altare, «e questo conferisce al loro gesto un valore particolarmente sacro»[21]. «E questa dextrarum junctio è rappresentata con particolare frequenza tra il pannello che mostra il Sole inginocchiato ai piedi di Mithra e quello che ricorda il pasto sacro dei due personaggi»[22].
La scena dell’apoteosi: «Quando Mithra prende posto sul carro del Sole che deve condurlo fino al soggiorno celeste degli dèi, il Sole gli tende la sua destra, che il giovane dio stringe, a sua volta, con la mano destra. Questa seconda dexiosis non ha evidentemente lo stesso significato della prima».
I due episodi occupano un posto particolare nel mito e nella liturgia mitraici. Ciascuno di essi conclude una diversa serie iconografica: la serie breve termina con l’alleanza; la serie lunga con l’apoteosi e il banchetto, che seguono logicamente la scena dell’alleanza.
Per comprendere la dexiosis:
L’importanza del giuramento nelle società antiche. Dumézil e Boyancé hanno sottolineato l’importanza della fides, della devotio e del giuramento nella società romana.
La pax deorum in Occidente, la sottomissione e l’assoggettamento degli uomini agli dèi è uno degli aspetti fondamentali di questa realtà.
Il giuramento assume in tutte le religioni misteriche e iniziatiche un ruolo particolare: nel culto dionisiaco, nei culti alessandrini, l’Isismo e l’Osirismo.
Nel culto di Mithra il giuramento è proprio al centro del «gesto» divino e del rito di iniziazione dei fedeli. Questo giuramento solenne, di cui parla Tertulliano, è un sacramentum. «Colui che partecipa al mistero imita i gesti di Mithra, che tendendo la destra secondo l’uso persiano conclude il patto e ratifica il proprio giuramento».
La mano destra detiene la potenza ed esprime la volontà. In Oriente, a Roma, nella Bibbia, la destra è simbolo di potenza e di supremazia. In Siria la simbologia della mano è il segno della presenza di Dio. Da qui l’importanza della mano per gli dèi del tuono: è la mano a reggere il fulmine. Le mani votive ritrovate in Siria rimandano al culto di Giove Dolicheno. La mano divina dispensa potenza.
La mano è presente nella simbologia semitica, frigia, greca, romana e cristiana. Come in Oriente, la simbologia della potenza della mano destra si ritrova anche a Roma: potenza, protezione, benedizione. La mano destra è segno di impegno. A Roma la mano è associata alla dea Fides. P. Boyancé ha criticato una interpretazione esclusivamente giuridica di Fides, per segnalare alcuni suoi aspetti morali, sociali e religiosi[23]. Giove è Dius Fidius, e Fides, onnipresente a Roma, risulta una sorta di complemento di Dius Fidius. Nel rito della mano velata Le Glay vede un’esigenza di purezza assoluta e di rispetto della potenza divina. Le Glay si chiede se, in definitiva, Fides non sia proprio la dea dell’impegno.
Mitra (destra) stringe la mano ad Antioco I di Commagene (sinistra). Bassorilievo su stele, pietra calcarea, seconda metà del I sec. a.C. ca., dal settore occidentale dello Hierothesion di Antioco, Nemrut Dağı.
Dextrarum junctio: è il gesto che lega le potenze. La fides crea un legame, testimonia l’impegno. Boyancé ha indicato la stretta relazione tra le destre allacciate e la fides.
Così, la stretta di due mani destre evocata da tanti testi e raffigurata su tanti rovesci di moneta va compresa in tutti i casi come il segno, la testimonianza di un impegno volontario e reciproco. O meglio, essa stessa crea il legame.
Molti sono gli esempi di impegno di questo genere: impegno frutto dell’accordo che risulta da un trattato tra un vincitore e un vinto; impegno di alleanza e concordia che può risultare da un trattato; impegno di accoglienza, di ospitalità; accordo di fedeltà e di omaggio; impegno suggellato da un giuramento.
Che conclusioni trame?, si chiede Le Glay.
Che la mano destra, essendo insieme quella della potenza e quella dell’impegno, con la dexiosis crea tra gli uomini legami di ogni tipo, certamente di natura giuridica e morale, ma di essenza profondamente religiosa; legami che generalmente implicano una protezione volontaria e leale da una parte e una sottomissione volontaria e leale dall’altra[24].
Così trasposta all’ambito religioso, la dexiosis risulta ancora più importante.
La dexiosis nel mitraismo
a) Il parallelo dei culti orientali
La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Le Glay propone la descrizione di diversi documenti. Innanzitutto la stele degli dèi palmireni trovata a Roma: Aglibol, dio lunare che indossa un’uniforme militare romana, stringe la mano al dio Malakbel, dio della fertilità, in costume palmireno. Questo gesto si ritrova a Palmira e ad Apamea: Le Glay vede qui un riferimento alla fecondità, ma anche alla salvezza, con un dio che rinasce ogni anno. Sull’altare del Campidoglio, sulle quattro facce, sono visibili le quattro fasi del sole: crescita, apogeo, declino, rinascita.
La dexiosis, gesto di introduzione: questo è il significato della scena nel culto dionisiaco. Le Glay descrive e analizza le immagini di un altare funerario di epoca imperiale. Dioniso riporta dall’Acheronte sua madre Semele e la conduce in cielo.
E la dextrarum junctio di Dioniso e di Semele mi pare dunque, sulla stele funeraria dei Musei Vaticani, evocare in realtà l’introduzione nell’aldilà beato, promesso ai misti, come normale conseguenza del loro impegno[25].
b) La dexiosis mitraica
La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Mithra, il dio tauroctono, sconfigge le forze del male. Il Sole porta rinascita e salvezza. La dexiosis sta dunque a significare l’alleanza, l’impegno, il patto. Siamo nel contesto della fecondità. Il pasto sacro è segno dell’alleanza in vista della fecondità. La dexiosis nell’apoteosi di Mithra. Mithra sale e prende posto nel carro del Sole. È l’apoteosi, che prefigura l’accoglimento dell’iniziato. Con la dexiosis il Pater accoglie il nuovo iniziato, che stringe a sua volta la mano agli altri.
La dexiosis, unione di due mani destre che detengono la potenza ed esprimono la volontà, da un lato suggella l’impegno definitivo del miste con la divinità, creando con il dio e tra i misti un legame fraterno e indissolubile garantito dal giuramento, e dall’altro costituisce in fin dei conti un pegno certo di salvezza[26].
In sintesi, la dexiosis ha il valore di un giuramento con doppio impegno: dexiosis come impegno di tacere sul segreto della rivelazione e come impegno di fedeltà al contratto. È l’ingresso del miste nella milizia del dio Mithra, simbolo e garante del contratto. Il sacramentum, il giuramento, è di capitale importanza. Segno del giuramento e della fedeltà è il tatuaggio sacro, la sphragis, realizzato per mezzo di aghi acuminati. Una volta che il giuramento è prestato e l’impegno suggellato, il miste riceve la rivelazione. «Al miste il Pater dirà (i discorsi sacri)». Con questi riti si costituisce la comunità fraterna (syndexis, di quelli che si danno la mano) del mitreo, la comunità di coloro che sono salvati. Attorno alla dexiosis si svolgono così tre cerimonie liturgiche mitraiche.
In conclusione, Le Glay si domanda: «Si può constatare, nel passaggio dal rituale vedico al rituale dell’epoca imperiale romana, un arricchimento del significato e del valore della dexiosis?»[27]. E risponde:
È difficile da dire. Ciò che sembra certo è che in epoca romana la dexiosis finisce per essere molto più che il gesto del giuramento. E che con il suo triplice significato di gesto di introduzione, di alleanza e di fratellanza, avente sia valore di impegno, di patto concluso con la divinità da un lato e con i misti dall’altro, e di garanzia del segreto, condizione primaria e fondamentale della vita comunitaria fraterna, di cui ha significato la Inductio, essa si trova al cuore delle relazioni che governano principalmente la natura stessa e la vita delle religioni misteriche. E, a quanto sembra, del mitraismo in particolare, dato il posto senza eguali che essa occupa nei misteri di Mithra. Innanzitutto per le relazioni che crea con la divinità, relazioni di natura complessa (di sottomissione, di omaggio, di alleanza e di mutua fiducia), sicché in questo modo l’impegno e il patto culminano nell’unione mistica dell’apoteosi. In seguito, nei rapporti di carattere giuridico e morale di segreto e di fratellanza[28].
E infine Le Glay pone una questione molto pertinente:
Non starebbe forse in questo duplice soddisfacimento delle preoccupazioni e delle esigenze dei Romani, la cui formazione li portava a una attenzione particolare agli aspetti giuridici e le cui aspirazioni li orientavano al misticismo, una delle ragioni profonde del successo di cui godette in Occidente la religione di Mithra negli ambienti romani e romanizzati?[29]
Mitra nell’atto della dexiosis. Bassorilievo frammentario, pietra calcarea, 64-38 a.C. c. dal Sito I dello Hierothesion, da Arsameia del Ninfeo (od. Eski-Katha, distretto di Katha, Provincia di Adiyaman, Turchia).
4. Conclusioni
La nostra ricerca ci ha consentito, dunque, di mettere insieme una certa quantità di informazioni. Nel mondo ellenistico il dio Mithra non è sconosciuto. Le indicazioni di Plutarco su un culto mitraico di carattere iniziatico in Cilicia, nell’ambiente dei pirati, a partire dalle scoperte nella Commagene non risultano più massi erratici. Nella stessa epoca e in regioni molto vicine si parla egualmente di Mithra. Plutarco ci porta in Cilicia; le scoperte archeologiche ci portano nella Commagene. Sono scoperte importanti, poiché troviamo un culto di Mithra, culto pubblico, culto regale, con un sacerdozio e un rituale.
Questo culto pubblico ·e regale d’Asia minore fa riferimento a riti persiani, mazdei, a un sacerdozio che fa pensare ai Magi, dunque ai Medi, a divinità iraniche ma anche a divinità greche. L’ellenismo si manifesta, dunque, in modo netto. Mithra occupa un posto importante in questo culto regale, culto che, del resto, fa appello all’astrologia, che è presente ovunque, così come sarà presente nei misteri diffusi in Occidente. Esiste un luogo di culto, ma non sembra che si tratti di un mitreo, dal momento che i riti vengono celebrati all’aria aperta. n santuario si chiama hierothesion, un termine che sembra indicare piuttosto un culto regale di carattere funerario, un culto dei sovrani. La vasta documentazione iconografica ed epigrafica scoperta nella Commagene attirerà ancora, certamente, l’attenzione degli studiosi.
Accanto alle questioni legate al culto, alle corrispondenze geografiche e cronologiche, agli elementi del rituale, ci pare rilevante la questione della dexiosis mitraica. Troviamo la dexiosis nella liturgia mitraica e nell’iconografia dei misteri di Mithra: il Sole e Mithra che si danno la destra. Nella Commagene troviamo una dexiosis del tutto simile: il sovrano-dio dà la destra a Mithra, che è anche Helios.
Le scoperte della Commagene, il rituale e l’iconografia della dexiosis sembrano dare nuovo slancio a questo ambito degli studi mitraici. In una nota pubblicata alla fine del suo articolo, Le Glay segnala una serie di pubblicazioni recenti su questi aspetti, in particolare quelle di Gonda sul dio Mitra vedico e sul significato della mano destra nel rituale vedico. Egli affronta anche il problema della dexiosis nella Commagene, senza tuttavia prendere personalmente posizione.
Nelle scoperte della Commagene non abbiamo forse l’anello mancante che collega il dio Mitra dell’India, il dio Mithra iranico e il dio Mithra dei misteri dell’Impero romano? n fatto di porre la questione è forse già una risposta. Lo studio dei documenti della Commagene ci ha consentito di notare l’importanza dell’ellenizzazione del culto di Mithra. Nei documenti nella Commagene dell’India avevamo visto il dio sovrano Mìthra del mondo indoiranico. Un dio sovrano che ritroviamo in Iran, dove il suo culto si conforma all’evoluzione della religione iranica. Siamo in effetti in presenza di una iranizzazione del culto, nella quale assumono evidentemente un ruolo capitale i Magi e lo zervanismo. Forse non bisogna trascurare l’importanza dei Männerbünde, i gruppi guerrieri specificamente iranici. Nella Commagene ci troviamo di fronte a una terza tappa del culto di Mithra: la sua ellenizzazione.
In questa tappa il culto di Mìthra rimane un culto ufficiale. Diventa un culto regale, un culto dei sovrani. In questo culto troviamo tuttavia alcuni elementi religiosi, come la dexiosis, che saranno importanti nella quarta e ultima tappa del culto di Mithra: i misteri mitraici o la romanizzazione di Mithra.
***
Note:
* Le cult de Mithra en Commagène, in J. RIES, Le culte de Mithra en Orient et en Occident, coll. « Information et Enseignement » 10, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1979, pp. 115-126.
[2] F.K. DÖRNER, Mithras in Kommagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques. Actes du 2me Congrès international, Téhéran, du 1er au 8 septembre 1975, «Acta Iranica» 17, Édition Bibliothèque Pahlavi, Téhéran-Liège 1978, pp. 123-134; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Iran and Greece in Commagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 187-200.
[3] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., e F. DÖRNER, Arsameia am Nymphaios. Die Ausgrabungen im Hierothesion des Mithradates Kallinikos, von 1953-1956, coll. «lstanbuler Forschungen» 23, Verlag Gebr. Mann, Berlin 1963.
[4] R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, PUF, Paris 1968, pp. 106-107.
[5] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, Lamertin, Bruxelles 1899, 19133, pp. 35-36
[6] E. WILL, Origine et nature du mithriacisme, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 527-536.
[18] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., tav. VIII, stele di Selik; tav. XXI, terrazza di Nemrut Dağı, la dexiosis re-Eracle; tav. XXII, la dexiosis re-Zeus e re-Mithra; tav. XXXI, Mitridate-Eracle.
FR.K. DÖRNER, Arsameia am Flusse Nymphaios. Eine neue kommagenische Kultstätte, «Bibliotheca Orientalis», 9, 1952, pp. 93ss.
H. DÖRRIE, Der Königskult des Antiochos von Kommagene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Vandenhoeck &. Ruprecht, Göttingen 1964.
R. MERKELBACH, Der kommagenische Königskult, in ID., Mithras, Hain, Königstein/ Ts. 1984, pp. 50-73 [tr. it. Mitra, coll. «Nuova Atlantide», ECIG, Genova 19982]. Cfr. anche Bildteil, pp. 261-395. Vasta documentazione mitraica commentata dall’autore.
TH. REINACH, La dynastie de Commagène, «Revue des études grecques», 3, 1890, pp. 362-380.
B. YAMAN, Nemrut Dagi, Commagena, Minyatür, lstanbul s.d. (edizione francese). Bella documentazione a colori. 126 pp.
vd. AE 1950, 199 = CIMRM I 423; cfr. SCARPI P., ROSSIGNOLI B. (a cura di), Le religioni dei Misteri, vol. II., Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, Milano 2002, pp. 376-377; 396-397; 557-558; 564.
Numerose iscrizioni documentano la costruzione o la ricostruzione di spelaea: CIMRM I 706, dall’Italia, attesta infatti la ricostruzione, per opera del pater patratus Publio Acilio Pisoniano, di uno spelaeum distrutto da un incendio. Si vd. anche CIMRM I 652, sempre dall’Italia. Dalla dedica di una grotta con statue e ornamenti parla un’iscrizione africana (CIMRM I 129), di una con statue e con un altare un’iscrizione dall’Italia (CIMRM I 6609. Di una grotta espressamente destinata al culto parla un’iscrizione dalla Mesia Inferiore (CIMRM II 2296). La grotta è il luogo ideale per un ladro di buoi come Mitra[1], ma era per i seguaci del dio anche un’immagine del mondo entro il quale si svolgeva la vita umana[2]. All’interno di queste grotte aveva luogo il sacrificio del toro (CIMRM II, figg. 614, 620-621, 630, 632, 643, 645), si svolgevano le azioni rituali e si celebravano le iniziazioni[3]. La grotta non è forse lo spazio selvaggio e inabitato, ma certamente è uno spazio “altro” rispetto al quotidiano in cui scorre la vita umana.
Hic locus est felix sanctus piusque benignus.
quem monuit Mithras mentemque dedit
Proficentio patris sacrorum.
utque sibi spelaeum faceret dedicaretque
5 et celeri instansque operi reddit munera grata
quem bono auspicio suscepit anxia mente
ut possint syndexi hilares celebrare uota per aeuom.
hos uersiculos generauit proficentius
pater dignissimus Mithrae.
*
Questo luogo è propizio, santo e pio (e) fausto,
Mitra lo ispirò e lo suggerì
a Proficenzio, padre dei sacri riti,
perché facesse edificare e consacrare in suo onore una caverna,
5 e, affrettando il compimento dei lavori, egli offrì doni gradevoli,
e gli fornì auspici favorevoli per sostenerne l’animo inquieto
perché felici gli iniziati uniti nella stretta di mano[4] possano
[celebrare i loro voti in eterno.
Compose questi brevi versi Proficenzio,
padre degnissimo di Mitra.
*
This spot is blessed, holy, observant and bounteous:
Mithras marked it, and made known to
Proficentius, Father of the mysteries,
That he should build and dedicate a Cave to him;
5 And he has accomplished swiftly, tirelessly, this dear task
That under such protection he began, desirous
That the Hand-shaken might make their vows joyfully forever.
[3] Cfr. TERT. cor. 15, 3; SFAMENI GASPARRO G., Il mitraismo: una struttura religiosa tra “tradizione” e “invenzione”, in BIANCHI U. (a cura di), Mysteria Mithrae. Atti del seminario internazionale (Roma-Ostia 28-31 marzo 1978), Leiden-Roma 1979, pp. 354-355.
[4]syndexi: è frequente nell’iconografia mitraica la rappresentazione di due figure maschili unite da una stretta di mano; stringendo la mano che il pater, che occupava il grado più alto nella gerarchia iniziatica, gli offriva, l’iniziando instaurava uno stretto rapporto personale con quello e ne diveniva, per così dire, aiutante (MERKELBACH 1988, p. 130). Attraverso di essa si sigillava l’impegno solenne dell’iniziato con la divinità e con gli altri iniziati (LE GLAY M., La δεξίωσις dans les mystères de Mithra, Acta Iranica XVII 1978, pp. 300-301).
di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].
Jan Cossier, Giove e Licaone. Olio su tela, 1640 c. Madrid, Museo Nacional del Prado.
[1] Le innovazioni di Licaone figlio di Pelasgo[1], frutto di una sapienza maggiore ‹di› quella del padre suo, furono le seguenti. Fondò la città di Licosura sul monte Liceo, diede a Zeus il titolo di “Liceo” e istituì delle gare Licee[2]. Ed è mia opinione che, prima delle Licee, non erano state ancora istituite nemmeno le prime Panatenee degli Ateniesi. E dico «prime», perché questa gara si chiamava in quel tempo Atenee, mentre il nome di Panatenee dicono che fu loro dato sotto Teseo, perché organizzate allora dagli Ateniesi ormai riuniti tutti insieme in un’unica città. [2] Per quanto, poi, riguarda il certame olimpico, proprio perché lo fanno risalire a un periodo anteriore al genere umano raccontando che là Crono e Zeus si misurarono nella lotta e che i Cureti disputarono la prima gara di corsa, per questo motivo intendo escluderlo da quanto ora stiamo dicendo[3]. Personalmente ritengo che l’età di Licaone fu la stessa di quella di Cecrope, re degli Ateniesi[4], ma non simile fu la saggezza che essi dimostrarono nei confronti della divinità. [3] L’uno, infatti, fu il primo a chiamare Ipato (sc. “Supremo”) Zeus e, ritenendo giusto escludere dal sacrificio tutto ciò che fosse animato, offrì sull’altare dolciumi fatti alla maniera locale, che ancora ai tempi miei gli Ateniesi chiamano pelánoi (sc. libazioni)[5]. Licaone, invece, portò all’altare di Zeus Liceo un bambino appena nato e lo sacrificò e del suo sangue fece libazione sull’altare e, subito dopo il sacrificio, dicono che da uomo si trasformò in lupo[6]. [4] Per quanto mi riguarda, anch’io credo a questo racconto: esso gode di un’antica tradizione presso gli Arcadi e, inoltre, ha tutto l’aspetto della verisimiglianza[7]. Gli uomini di allora, infatti, grazie alla loro giustizia e religiosa pietà, erano ospiti e commensali degli dèi e da parte degli dèi ricevevano apertamente onore quando erano buoni e allo stesso modo erano colpiti dal loro sdegno quando peccavano. E, in effetti, in quei tempi alcuni da uomini che erano diventavano dèi, e ancor oggi conservano i loro onori, come Aristeo, la cretese Britomarti, Eracle figlio di Alcmena, Anfiarao figlio di Oicle e, oltre a questi, Polluce e Castore[8]. [5] Si potrebbe perciò credere che anche Licaone sia diventato una belva e Niobe di Tantalo una pietra[9]. Ai miei tempi, invece, poiché la malvagità cresceva fino al culmine o occupava tutta quanta la Terra e tutte quante le città, nessuno più da uomo diventava dio se non a parole e per adulazione verso i potenti, mentre la vendetta divina troppo tardi colpisce gli ingiusti e quando già se ne sono andati da questo mondo. [6] Ma in tutto il lungo volgere del tempo coloro che sulla verità costruiscono castelli di menzogne hanno fatto sì che la gente non presti fede ai molti casi verificatisi in antico e ‹a quelli› che ancora succedono. E difatti si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre[10]. [7] Allo stesso modo, raccontano anche che Niobe sul monte Sipilo piange nella stagione estiva. E altri racconti udii ancora: che i grifoni hanno la pelle maculata come quella dei leopardi e che i Tritoni emettono voce umana. C’è anche chi dice che essi suonano soffiando in una conchiglia perforata[11]. E coloro che prendono diletto ad ascoltare racconti meravigliosi sono soliti aggiungervi anch’essi qualche elemento portentoso e in questo modo corruppero le verità mescolandole con le menzogne.
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Note:
[1] In questo capitolo e fino a tutto il quinto Pausania illustra la successione dei re di Arcadia da Pelasgo ad Aristocrate II, cioè dai tempi mitici alla fine della seconda guerra messenica (668 a.C., secondo Pausania). Questa lista dei re arcadi, i quali avrebbero regnato su tutta l’Argolide (mentre sappiamo per certo che una unità politica arcadica non esistette nei tempi remoti, ma fu il prodotto, completamente attuato con la fondazione di Megalopoli, 370 a.C., della resistenza degli Arcadi all’espansionismo spartano), è probabilmente frutto di composizione di fonti anche tarde e diverse, per lo più a noi non note, alcune delle quali sicuramente scritte (le più antiche), altre orali e raccolte dalle tradizioni locali delle città arcadi (le più recenti) che Pausania visitò, v. J. HEJNIC, Pausanias the Periget and the Archaic History of Arcadia, Prague 1961; F. HILLER VON GAERTRINGEN, Pausanias’ arkadische Königsliste, Klio 21 (1927), 1-13; J. ROY, The Sons of Lycaon in Pausanias’ Arcadian King-List, ABSA 63 (1968), 287- 292, e cfr. cap. 6, 1 e nota 1. Licaone era figlio di Pelasgo e di Melibea, figlia di Oceano o, secondo altri, della ninfa Cillene (Apollod. 3, 8, 1) o di Deianira, figlia di un altro Licaone, figlio di Ezeo (Dion. 1, 11 e 13).
[2]Licosura, la «prima città che il sole vide» (v. cap. 38, 1), ricorda il nome di Licaone. Per il monte Liceo v. cap. 38, 2 sgg. L’epiteto Liceo è qui connesso (Licaone – Licosura – monte Liceo) con la radice del nome greco del lupo più che con quella che indica la luce e rimanda all’aspetto solare del dio. Le gare Licee (v. cap. 38, 5), ricordate da Pindaro (O. 9, 97; 13, 108; N. 10, 48) e paragonate dagli antichi ai romani Lupercalia(Liv. 1, 5, 1 sg.; Dion. 1, 80; Plut. Caes. 61, 1; ecc.), erano considerate da Aristotele le quarte nell’ordine cronologico dopo le Eleusinie, le Panatenee e la gara di corsa istituita da Danao (fr. 637 R.). Ma Pausania, una volta accettate l’autoctonia di Pelasgo e l’attività di «primi civilizzatori» di Pelasgo e di Licaone, reputa, coerentemente, le Licee anteriori a tutte le altre gare famose, anteriori anche alle Eleusinie, dal momento che queste furono istituite per l’invenzione del grano, mentre Pelasgo e Licaone vissero ai tempi in cui gli uomini si cibavano di ghiande. Che le Panatenee (v. 1, 2 nota 7) siano state istituite da Teseo (per il sinecismo, v. App. I, 19) è accennato da Plutarco (Thes. 24, 3) e dato per certo dalla tarda tradizione (Suda, ecc.). Delle Atenee faceva menzione l’attidografo Istro (FGrHist. 334 F4).
[4] «Personalmente ritengo…»: con questa espressione Pausania propone una sua cronologia, considerando Licaone contemporaneo di Cecrope I, cioè del secondo re dell’Attica (v. 1, 2, 6 e nota 13), così come Licaone è il secondo re dell’Arcadia. E come nel § precedente assegna a Licaone il primato dell’istituzione delle gare (le Licee) contro la tradizione «canonica» (v. nota 2), qui gli assegna la contemporaneità con Cecrope I nell’istituzione del culto di Zeus (v. § 3), ancora contro la tradizione canonica, cfr. Marmor Parium, 17 (che assegna l’istituzione delle Licee e il sacrificio del bambino all’epoca del re ateniese Pandione, figlio di Cecrope II).
[5] Sull’acropoli di Atene c’era l’altare di Zeus Ipato (v. 1, 26, 5), al quale non si sacrificavano esseri viventi. Questo altare era stato eretto da Cecrope (v. Euseb. Praep. Ev. 10, 9, 15).
[6] Questa è la versione di Pausania e probabilmente degli Arcadi suoi contemporanei. Noi possiamo pensare che questo sacrificio conservi il ricordo di antichi (preistorici) sacrifici di vittime umane per Zeus Liceo, però Pausania non fa cenno a questa origine come non fa cenno, a proposito delle «libazioni» di Cecrope, all’origine agricola del sacrificio incruento. Licaone, al contrario di Cecrope, peccò per mancanza di «saggezza» e, per aver offerto sangue umano al dio, fu punito con la trasformazione in lupo. Le varie versioni del mito diffuse in antico, e tutte respinte da Pausania (v. §§ 5-7), sostenevano invece che i figli di Licaone erano empi e superbi, e Zeus, per sincerarsi della loro empietà, andò a visitarli in veste di povero. I figli di Licaone allora, per istigazione di Menalo, gli offrirono insieme ai sacrifici carne umana. Zeus, disgustato, li fulminò tutti, Licaone e i suoi cinquanta figli, tranne l’ultimo, Nittimo, dopo aver rovesciato la tavola (trapeza) nel luogo ora chiamato Trapezunte (Apollod. 3, 8, 1); oppure: Licaone, volendo distogliere i suoi sudditi dall’ingiustizia, diceva che Zeus gli faceva frequenti visite per osservare il comportamento degli uomini. Ma un giorno i figli di Licaone, per accertarsi che l’ospite del padre fosse realmente un dio, mescolarono carni umane a quelle della vittima sacrificale, e Zeus con fulmini e tempeste li uccise tutti (Niccolò di Damasco, FGrHist. 90 F 38; Hyg. 176; Suda). Il bambino offerto in sacrificio sarebbe stato Nittimo (o Arcade), e Zeus avrebbe tramutato in lupi Licaone e molti altri, o i figli di Licaone (Clem. Alex. Potr. 2, 27; Nonn. 18, 20 sgg.; scol. Licophr. 481, che segue, con dettagli diversi, le due versioni sopra citate), o il solo Licaone, che aveva messo alla prova Zeus con l’offerta delle carni di un bambino (Hyg. Astron. 2, 4; Ovid. Met. 1, 215 sgg., per il quale la vittima umana era un prigioniero molosso; Servio, ad Aen. 1, 731).
[7] Pausania vuole dimostrare qui la verisimiglianza della leggenda di Licaone, nei termini in cui la accetta, ricordando che, in origine, gli uomini vivevano vicini agli dèi (cfr. Od. 5, 35; 7, 201 sgg.: i Feaci sono «vicini agli dèi»; con loro gli dèi siedono a mensa) e perciò dagli dèi ricevevano ricompense, se giusti, o punizioni, se ingiusti, subito e direttamente in un rapporto personale, perché gli dèi vigilavano da vicino sulle azioni umane. Ora questo non avviene più a causa dell’ingiustizia e dell’empietà degli uomini diffuse per tutta la Terra e, perciò, nessun uomo oggi per la sua giustizia diventa un dio (le apoteosi degli imperatori romani sono solo finzioni dovute ad adulazione), come nessuno per la sua ingiustizia viene punito direttamente e subito dagli dèi: la punizione è sempre tardiva e spesso colpisce non il colpevole, ma la sua memoria (considerazione, questa, che dà inizio al dialogo plutarcheo De sera numinum vindicta, M. 548d sgg.). Non sembra il caso, quindi, di vedere un contrasto fra questa e altre affermazioni o narrazioni di Pausania circa l’intervento degli dèi nelle vicende umane in aiuto e difesa degli uomini e delle città o per la loro rovina (v. Habicht, pp. 154 sg.; Heer, pp. 263 e 306 sg.).
[8] Ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, per i suoi molteplici benefici resi agli uomini (v. 10, 17, 3 sgg.) non solo i barbari, ma anche i Greci attribuirono onori divini (Diod. 4, 82, 6). Per Britomarti v. 2, 30, 3 e nota 4; per Eracle v. App. VIII, 42-43; per Anfiarao v. 1, 34, 2 sgg. e nota 3; per Castore e Polluce v. 3, 13, 1 e nota 2.
[10] Pausania respinge tutte quelle leggende che sono opera della fantasia dei poeti e dei narratori. Queste menzogne corrompono infatti la genuina semplicità del vero e confondono la gente, che di fronte a tante meravigliose e stupefacenti invenzioni non crede più ai fatti realmente avvenuti. Circa la trasformazione dell’uomo in lupo v. 6, 8, 2 e nota 2 e cfr. Hdt. 4, 105: «Io non credo a queste storie».
[11] Omero, infatti, dice che Niobe è tramutata in roccia, ma non dice che la roccia piange (Il. 24, 617), mentre Ovidio (Met. 6, 311 sg.) afferma che «ancor oggi la pietra emette pianto». I grifoni, mostri favolosi con la testa di uccello (aquila) e corpo di felino, rappresentati già dal IV millennio a.C. nel vicino Oriente, in Egitto, a Creta e quindi in Etruria e a Roma (in aspetti vari a seconda dei luoghi e delle età), erano immaginati per lo più come guardiani (v. 1, 24, 6) e simbolicamente interpretati. È naturale perciò che scrittori e artisti li rappresentassero nelle forme più diverse. Per esempio, Ctesia (storico del V-IV secolo a.C., raccoglitore di curiosità persiane) aveva scritto che i grifoni avevano il collo variegato di piume blu (v. Ael. Nat. Animal. 4, 27, che descrive l’aspetto dei grifoni indiani). Lo stesso dicasi per i Tritoni, divinità marine a figura pisciforme dalla vita in giù. Meravigliosi veicoli per il trasporto di eroi e di dèi sul mare nell’epoca più antica, nel periodo classico ed ellenistico sono considerati personaggi del seguito di Poseidone. Che i Tritoni suonassero e usassero a questo fine conchiglie marine è detto da Virgilio (Aen. 6, 171 sgg.; 10, 209 sg.), Plinio (Nat. Hist. 9, 9), Igino (Astron. 2, 23) e da molti altri scrittori antichi, ed è tema molto diffuso nelle opere d’arte ellenistiche e romane. Pausania presta fede alle leggende originarie riferite da antichi autori (Ariste. v. 1, 24, 6, per i grifoni; Hes. Theog. 930 sgg., per Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite), ma non accetta, anzi respinge decisamente tutte le meravigliose invenzioni che, travisando il primitivo significato di queste figure, ne hanno moltiplicato gli esemplari, guastato la forma e sovvertito la verità.
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Bibliografia ulteriore:
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