La satira contro i Greci (Juv. III 35-113)

di F. Piazzi – A. Giordano Rampioni, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’Alto e il Basso Impero, Bologna 2004, pp. 393-394.

testo latino: G.G. Ramsay (ed.), Juvenal and Persius, London-New York 1918.

traduzione italiana: E. Barelli.

 

Assai forte è l’astio che Giovenale nutre verso i Greci e gli Orientali che affollano le vie della Roma cosmopolita del suo tempo, ormai divenuta una città greca e per questo insopportabile: non possum ferre Graecam urbem, scrive il poeta riferendosi alla capitale. Nella III satira egli denuncia l’invasione di questi stranieri, che hanno fatto i soldi, perciò ottengono tutto (omnia Romae cum pretio, «A Roma tutto si compra»). Adulatori e intriganti, i Graeculi – il diminutivo è dispregiativo – con la loro intraprendenza, quando giungono a ottenere l’amicizia di qualche potente, se lo accaparrano tutto per loro. Ai cittadini romani, di fronte al trionfo della menzogna e dell’ipocrisia, non rimane che abbandonare la capitale. È il caso del poeta Umbricio di questa satira, il quale, non sapendo mentire né ammazzare né fare l’astrologo, decide di ritirarsi a Cuma.

 

Hermes che allaccia il sandalo, detto anche «Cincinnato». Statua, marmo pentelico, copia romana di II sec. d.C. da originale greco di Lisippo. Paris, Musée du Louvre.

 

Quondam hi cornicines et municipalis harenae

35   perpetui comites notaeque per oppida buccae

munera nunc edunt et, uerso pollice uulgus

cum iubet, occidunt populariter; inde reuersi

conducunt foricas, et cur non omnia, cum sint

quales ex humili magna ad fastigia rerum

40   extollit quotiens uoluit Fortuna iocari?

Quid Romae faciam? mentiri nescio: librum,

si malus est, nequeo laudare et poscere; motus

astrorum ignoro; funus promittere patris

nec uolo nec possum; ranarum uiscera numquam

45   inspexi; ferre ad nuptam quae mittit adulter,

quae mandat, norunt alii; me nemo ministro

fur erit, atque ideo nulli comes exeo tamquam

mancus et extinctae corpus non utile dextrae,

quis nunc diligitur nisi conscius et cui feruens

50   aestuat occultis animus semperque tacendis?

nil tibi se debere putat, nil conferet umquam,

participem qui te secreti fecit honesti:

carus erit Verri qui Verrem tempore quo uult

accusare potest, tanti tibi non sit opaci

55   omnis harena Tagi quodque in mare uoluitur aurum,

ut somno careas ponendaque praemia sumas

tristis, et a magno semper timearis amico.

Quae nunc diuitibus gens acceptissima nostris

et quos praecipue fugiam, properabo fateri,

60   nec pudor opstabit. non possum ferre, Quirites,

Graecam urbem; quamuis quota portio faecis Achaei?

iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes,

et linguam et mores et cum tibicine chordas

obliquas nec non gentilia tympana secum

65   uexit et ad circum iussas prostare puellas.

ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra!

rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirine,

et ceromatico fert niceteria collo,

hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,

70   hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis

Esquilias dictumque petunt a uimine collem,

uiscera magnarum domuum dominique futuri,

ingenium uelox, audacia perdita, sermo

promptus et Isaeo torrentior: ede quid illum

75   esse putes? quemuis hominem secum attulit ad nos:

grammaticus rhetor geometres pictor aliptes

augur schoenobates medicus magus: omnia nouit

Graeculus esuriens; in caelum iusseris ibit.

in summa non Maurus erat neque Sarmata nec Thrax

80   qui sumpsit pinnas, mediis sed natus Athenis.

Horum ego non fugiam conchylia? me prior ille

signabit fultusque toro meliore recumbet,

aduectus Romam quo pruna et cottona uento?

usque adeo nihil est, quod nostra infantia caelum

85   hausit Auentini baca nutrita Sabina?

Quid quod adulandi gens prudentissima laudat

sermonem indocti, faciem deformis amici,

et longum inualidi collum ceruicibus aequat

Herculis Antaeum procul a tellure tenentis,

90   miratur uocem angustam, qua deterius nec

ille sonat quo mordetur gallina marito?

haec eadem licet et nobis laudare, sed illis

creditur, an melior, cum Thaida sustinet aut cum

uxorem comoedus agit uel Dorida nullo

95   cultam palliolo? mulier nempe ipsa uidetur,

non persona, loqui; uacua et plana omnia dicas

infra uentriculum et tenui distantia rima.

nec tamen Antiochus nec erit mirabilis illic

aut Stratocles aut cum molli Demetrius Haemo:

100 natio comoeda est. rides, maiore caehinno

concutitur; flet, si lacrimas conspexit amici,

nec dolet; igniculum brumae si tempore poscas,

accipit endromidem; si dixeris “aestuo,” sudat.

non sumus ergo pares: melior, qui semper et omni

105 nocte dieque potest aliena sumere uultum

a facie, iactare manus, laudare paratus,

si bene ructauit, si rectum minxit amicus,

si trulla inuerso crepitum dedit aurea fundo.

Praeterea sanctum nihil est neque4 ab inguine tutum,

110 non matrona Laris, non filia uirgo, neque ipse

sponsus leuis adhuc, non filius ante pudicus;

horum si nihil est, auiam resupinat amici,

scire uolunt secreta domus atque inde timeri.

 

Statuetta di attore comico. Bronzo, I sec. d.C. Baltimora, Walters Art Museum.

 

«Suonavano il corno, una volta, sempre presenti nelle arene municipali; bocche note per tutti i villaggi: adesso si permettono il lusso di offrire spettacoli di gladiatori, e per farsi belli, quando il popolaccio lo vuole, col pollice verso, decidono morte; quindi tornano a casa ed appaltano latrine. E perché non dovrebbero farlo? Non son forse di quelli che la Fortuna, ogni volta che vuole scherzare, innalza dal niente ai fastigi più alti?

Io invece a Roma che ci faccio? Non so mentire; un libro, se è cattivo, non so né lodarlo né chiederlo in prestito; ignoro i movimenti degli astri; promettere il funerale d’un padre non voglio e non posso; non ho mai studiato le viscere d’una rana; passare ad una maritata le commissioni e i messaggi dell’amante lo san fare gli altri, non io; non terrò mai mano a un ladro, per cui non c’è nessuno con me quand’esco di casa, come se io fossi un monco, come avessi il braccio paralizzato, come fossi un buono a nulla. Chi può aver amici, oggi, se non colui che sa esser complice di qualcuno ed è capace di avere un cuore ribollente di mille segreti che non potranno mai dirsi?

Chi t’ha fatto partecipe d’un onesto segreto, è perfettamente convinto di non doverti proprio nulla e non ti darà mai un soldo. A Verre sarà caro soltanto colui che possa denunciarlo ogni momento. Ma tutto l’oro che la sabbia del fangoso Tago rotola in mare, non sia mai per te così importante da farti perdere il sonno, da farti accettare quei doni che tristemente dovrai un giorno lasciare, da farti vivere nella continua diffidenza d’un amico potente!

Quale sia la gente più accetta ai nostri ricchi e chi soprattutto io fugga, faccio presto a dirtelo e con tutta chiarezza. Io non posso, o Quiriti, sopportare una Roma greca! E poi, quanti sono i veri Achei in tutta questa feccia? È un pezzo che l’Oronte di Siria è venuto a sfociare nel Tevere, portando con sé lingua, costumi, flautisti e corde oblique, tamburi esotici e ragazze costrette a prostituirsi nel circo. Andate da loro, voi che trovate di vostro gusto queste barbare lupe dalla mitra dipinta! Il tuo amico villano, o Quirino, ora indossa vestaglie trasparenti e intorno al collo impomatato porta medaglie d’atleta. Costui dall’alta Sicione, quest’altro da Amidone o da Andro, quello da Samo, questo ancora da Tralli o da Alabanda, vengono tutti all’assalto dell’Esquilino o dell’altro colle che dal vimine ha nome, prima a conquistarsi l’anima delle grandi case e poi a diventarne padroni. Eccoli qui: mente sveglia, audacia sfrontata, lingua pronta, più micidiale di quella d’Iseo. Che credi che siano? Ciascuno di loro ha dentro di sé un uomo tutto fare: grammatico, retore, geometra, pittore, massaggiatore, augure, funambulo, medico, mago: tutto sa fare, questo Greconzolo affamato; digli di volare in cielo e lui volerà. Insomma, era forse Mauro, o Sarmata, o Trace, quel tale che s’applicò le penne? Era Ateniese d’Atene!

E io non dovrei fuggire tutta la loro porpora? Dovrei sopportare che firmi prima di me nei contratti, o a tavola occupi il posto migliore, uno di costoro, portato a Roma dallo stesso vento con le prune e coi fichi? Non conta proprio più nulla che la nostra infanzia abbia respirato l’aria dell’Aventino e si sia nutrita di olive sabine? Formidabili adulatori, son pronti a lodare il discorso del primo imbecille, e a dire bello l’amico deforme, a paragonare un collo allampanato a quello d’Ercole mentre solleva da terra Anteo, a far meraviglie per la più meschina vocetta, straziante non di meno di quella del gallo quando becca la gallina. Anche noi siamo capaci di simili piaggerie; ma a loro la gente crede. E chi meglio di loro sa sostenere in teatro la parte di Taide, o quella d’una moglie o quella d’una Doride scamiciata? Sembra proprio che sia una donna a parlare, non un attore; giureresti che dallo stomaco in giù sia vuoto e piatto, con la sua stretta fessura. Nemmeno Antioco riuscirà ad essere così bravo, nemmeno Stratocle, o Demetrio con quello smidollato di Emo: è proprio una nazione di commedianti.

Se ridi, eccoti il Greco squassato da una risata più grande; se lacrima un amico, giù a piangere, anche se dentro non gliene importa proprio nulla; se ai primi freddi tu chiedi un po’ di fuoco, egli indossa il mantello; se gli dici: – Ho caldo, – egli già suda. Insomma, non siamo alla pari: ha troppo vantaggio chi di giorno o di notte è capace di cambiar la faccia secondo quella degli altri, sempre pronto a sventolare le mani per la gioia, o alzar grida di lode, se l’amico ha fatto un bel rutto o una vigorosa pisciata, oppure è riuscito a far rimbombare dal fondo la sua padella d’oro.

Per di più, per costoro, non c’è nulla di sacro né che possa dirsi al sicuro dalla loro libidine; non la padrona di casa, non la figliola ancora vergine, non il fidanzato imberbe, non il fanciullo ancora ingenuo; e se mancano questi, rovesciano sul letto la nonna dell’amico. Per farsi temere, nessun segreto della casa gli sfugge».

 

 

Cortesie (e scortesie) per gli ospiti

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 702 sgg.

 

Catullo invita l’amico Fabullo a cena, avvertendolo però che dovrà portarsela per suo conto, assieme a tutto quanto potrà allietarla (ivi compresa una bella ragazza); il poeta infatti è – o meglio si dichiara – in bolletta. La contropartita che il poeta propone a Fabullo è immateriale ma non per questo inconsistente: è la sua stessa amicizia, unita a un unguento di Lesbia dal profumo irresistibile.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Si tratta di un carme d’occasione e l’occasione è ghiotta, ma solo se il destinatario sarà disposto a collaborare: Catullo invita a cena Fabullo (un amico nominato anche altrove nel Liber), ma lo avverte che dovrà portarsi il necessario; il poeta infatti ha le tasche vuote e non può offrire altro che la propria amicizia e un profumo di Lesbia, per annusare il quale Fabullo dovrà chiedere agli dèi che lo facciano «tutto naso». Com’è evidente, la confidenza e l’ironia sono le caratteristiche salienti del componimento, in cui almeno due volte si fa ricorso all’effetto a sorpresa, per ribaltare sia le aspettative dell’amico sia quelle del lettore (che anche in questo carme scorge la compresenza di una forma poetica tradizionale e di uno «spirito» – inteso anche come tono spiritoso – nuovo).

 

Cenabis[1] bene, mi Fabulle, apud me

paucis, si tibi di favent, diebus[2],

si tecum attuleris bonam atque magnam

cenam, non sine[3] candida[4] puella

et vino et sale et omnibus cachinnis[5].

haec si, inquam, attuleris, venuste noster[6]

cenabis bene; nam tui Catulli

plenus sacculus est aranearum[7].

sed contra accipies meros amores

seu quid suavius elegantiusve est:

nam unguentum dabo, quod meae puellae

donarunt Veneres Cupidinesque,

quod tu cum olfacies, deos rogabis

totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

 

Che cena, Fabullo mio, da me,

tra pochi giorni, se gli dèi vorranno,

e se porti una cena buona e abbondante

non senza una bellissima ragazza

e vino e spirito e risa in quantità.

Con questo contributo, bello mio,

dico: che cena! Sì, perché la borsa

del tuo Catullo è piena di ragnatele!

Ricambierò con sinceri affetti

e con quanto c’è di più elegante e raffinato,

cioè un profumo[8], che alla mia ragazza

hanno donato le Veneri e gli Amorini,

il quale se lo annuserai, pregherai gli dèi

di farti diventare tutto naso[9]!

(tr. it. E. Mandruzzato)

 

L’invitatio ad cenam è elemento topico che si trova nella letteratura latina in più generi letterari. La frequenza di tale elemento, che nasce comunque da situazioni reali, lascia intravvedere quanto era diffusa la pratica conviviale, nella quale era ricercato soprattutto il piacere dello stare assieme.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

Cicerone, nell’invitare l’amico Peto ad aver cura della propria salute, prendendo a frequentare gli amici e ad accettare quegli inviti a cena fuori, che invece rifiuta, afferma (Ad fam. IX 24, 3):

Nihil est aptius vitae, nihil ad beate vivendum accomodatius. Nec id ad voluptatem refero sed ad communitatem vitae atque victus remissionemque animorum, quae maxime sermone efficitur familiari, qui est in conviviis dulcissimus…

Dunque «la prassi alimentare non è solo la soddisfazione di un bisogno naturale, ma è condizionata da fattori culturali, è un atto socializzato e ritualizzato, basato su un proprio linguaggio, quindi anche simbolico…». E un simbolico valore comunicativo assume il cibo così come l’etichetta: è dunque in questo quadro che si inserisce, con le sue convenzioni sociali, la partecipazione al convito, preceduta da «formale» invito. «Il biglietto di invito, come quello di risposta, doveva menzionare gli elementi costitutivi che sono il tempo, il luogo, l’apparato, le persone che rendono ospitale l’ambiente, il menu, che adombra in sé una scelta di vita» (F. Citti). In Catullo tutti questi elementi sono presenti, ma il suo è uno scanzonato e goliardico invito: sarà invitato a portare con sé quel che serve per la riuscita della serata, limitandosi Catullo ad indicare tempo (paucis diebus) e luogo (apud me). Né mancano gli usuali elementi formali: l’uso del futuro, il vocativo del nome dell’invitato (Fabulle), la presenza del verbo cenare, proprio della formula stereotipa d’invito.

Oltre al celeberrimo invito a cena a Mecenate di Odi I 20, il poeta venusino propone il «biglietto» inviato all’amico Torquato e, come spesso nella sua poesia, «protagonista» del carme è il vino: non mancano tutti gli elementi propri dell’invitatio ad cenam che abbiamo già enucleato e l’invito alla frugalitas proprio della musa oraziana.

Epist. I 5

Se ti contenti di giacere ospite su divani fabbricati da Archia

né sdegni di mangiare erbaggi d’ogni sorta in un modesto piatto,

al tramonto in casa ti aspetterò, o Torquato,

berrai vino versato nei dogli fra Petrino di Sinuessa e Miturna

5   palustre quando Tauro fu per la seconda volta console.

Se ne hai di migliore, fallo pure venire, se no accontentati del mio.

Da un pezzo splende il fuoco e le stoviglie brillano per te,

lascia da parte le futili speranze e la corsa al denaro

il processo di Mosco: domani, compleanno di Cesare, giorno festo,

10 darà riposo e sonno; sarà lecito senza colpa

prolungare la notte estiva chiacchierando.

A che mi serve la Fortuna, se non m’è consentito usufruirne?

Chi risparmia pensoso all’erede ed è troppo severo

somiglia a un pazzo; voglio incominciare a bere

15 e spargere fiori, e lascerò pensare che ho perduto il senno.

Che cosa non sprigiona mai l’ebbrezza? Manda fuori i segreti,

rende evidenti le speranze, spinge in guerra l’imbelle,

scuote il peso dell’angoscia, ispira le arti.

A chi non donano fervida parlantina i calici?

20 Chi non risollevano, ridotto in povertà?

A me, convenientemente e non forzatamente, è richiesto di preoccuparmi

di queste cose: che la coperta sia decente, nitido il tovagliolo

perché non ti venga la nausea, né che il bicchiere e il piatto

non ti rispecchino, né vi sia qualcuno fra i fidi amici

25 che vada in giro a propalare i discorsi, e che ciascuno stia

con un compagno che gli sia pari. Inviterò per te Butra e Septicio

e anche Sabino, a meno che non lo trattenga una compagnia preferibile

alla nostra: una ragazza. C’è posto per parecchi seguaci,

ma se stiamo troppo stretti si sente puzza di becco.

30 Tu scrivimi in quanti sarete e, dimessi gli affari,

pianta in asso i clienti nell’atrio e scappa dalla porta sul retro[10].

Mosaico pavimentale con Bacco, Arianna, Sileno e Satiro a banchetto. II secolo d.C. Tunisi, Musée du Bardo.

«La differenza di tono da Catullo è anche troppo facile a segnarsi: Catullo si abbandona tutto al suo gioco, Orazio è anche qui contenuto e sorvegliato; l’epistola si apre con uno dei motivi più costanti sia dell’Orazio satirico sia dell’Orazio lirico, con un richiamo alla sua metriotes: la cena sarà spoglia di inutile fasto» (A. La Penna). Anche altrove (Sat. 2) Orazio biasima la ricercatezza dei cibi offerti non per la loro gustosità ma perché prescritti dalla moda del momento e contrappone ai banchetti lussuosi quelli più frugali della tradizione romana; è un richiamo ai valori del mos maiorum e, insieme, una scelta di vita: lo spazio del simposio è spazio dell’amicizia.

Ma non per tutti a Roma era così, come lasciano intravvedere i numerosi epigrammi di Marziale che parlano di «inviti a cena» e la Satira 5 di Giovenale che, rivolgendosi al cliens che riceve l’invito, mette in evidenza la stessa realtà.

Un momento che dovrebbe essere dedicato alla celebrazione dell’amicizia rivela, attraverso i cibi offerti, l’arroganza del patronus che a sé riserva cibi raffinati e prelibati ed al cliens concede cibi di poco pregio o addirittura ripugnanti andandosi così ad iscrivere l’offerta di cibo in un simbolico rituale che sottolinea la differenza di classe sociale.

 

Marziale, Epigr. III 60

Siccome m’inviti a cena e ormai non mi dai più denaro come prima,

perché non mi vengono servite le tue stesse pietanze?

Tu t’ingozzi di ostriche ingrassate nello stagno Lucrino,

Io mi succhio un mitilo dopo averne rotto la conchiglia:

5   tu mangi boleti, io funghi porcini;

tu sei impegnato con i rombi, io invece con piccoli spari;

tu ti rimpinzi di grasse cosce di tortora dal color dell’oro,

a me viene presentata una gazza morta in gabbia.

Perché io ceno senza di te, pur cenando con te, o Pontico?

10 Non si dà più la sportula, approfittiamone: mangiamo gli stessi cibi[11].

(trad. it. G. Norcio)

 

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Un gatto che azzanna un uccello e anatre, uccelli, pesce e conchiglie. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Giovenale, Satire V, passim

[…] Anzitutto, piantati bene in testa che, invitato a cena,

non fai che ricevere il saldo completo dei tuoi passati servizi.

Il pasto è il frutto di un’ininfluente amicizia: il padrone te lo mette in conto,

e anche se avviene raramente, tuttavia te l’addebita […]

E che cena poi! Un vino che non vorrebbe assorbire

la lana greggia […]

Lui stesso beve vino travasato quanto i consoli avevano i capelli

e tiene uva pigiata al tempo delle guerre sociali.

[…] Osserva quella lampreda che vien portata al padrone:

come adorna il bacile col suo lungo corpo e come, circondata attorno

dagli asparagi, pare spregiare i convitati con la coda,

mentre arriva tenuta alta sulle palme di un altissimo schiavo.

Ma a te viene servito, in un piccolo piatto, un gamberetto

circondato da mezzo uovo, vera cena mortuaria.

Quello lì, invece, innaffia il suo pesce con olio di Venafro, ma a te,

poverino, verrà portato un livido cavolo che puzza

di lucerna […]

Del padrone sarà una triglia inviata dalla Corsica

o dalle scogliere di Taormina […]

A Virrone si serve una murena enorme che viene

dai gorghi di Sicilia […]

Per voi è pronta un’anguilla parente dell’affilata biscia

o un pesce del Tevere macchiettato †dal ghiaccio† e

abitatore delle sponde, impinguato dal flusso della cloaca

ed uso risalire la fogna della Suburra fino al centro città.

[…] Agli amici di bassa risma verranno serviti funghi sospetti,

al padrone un boleto, ma di quelli che Claudio mangiò

prima di quello della moglie, dopo il quale non mangiò più nulla!

Virrone, per sé e per gli altri Virroni, farà portare

quelle mele, delle quali soltanto l’odore basterebbe a nutrirti,

di quelle che produceva il perenne autunno dei Feaci:

potresti credere che siano state sottratte alle sorelle africane.

Tu invece mangi una mela imbozzacchita, quale rosicchia

sui bastioni lo scimmione che, coperto di scudo e di elmo,

timoroso della sferza, impara a vibrare la lancia dall’alto d’un’irsuta capretta.

(trad. it. P. Frassinetti)

 

Scena di banchetto. Mosaico, V sec. d.C. da Aquileia. Musée de le Château de Boudry

In modo simile dunque, attraverso una continua antitesi tra ciò che mangia il patronus e ciò che è da lui offerto ai clientes sia Marziale sia Giovenale enfatizzano la differenza fra le portate che, per chi invita, è giusta rimarcatura di diversa posizione sociale, per chi è invitato, è frutto di discriminazione e fonte di umiliazione.

Che questi comportamenti nella società romana, soprattutto in età imperiale, dovessero essere frequenti risulta anche dall’epistolario di Plinio il Giovane.

Riportiamo, ad esempio, Epist. II 6, 1-4:

Lungo sarebbe, e neppur ne vale la pena, risalire molto indietro per dire come sia avvenuto ch’io cenassi in casa di un tale che non era affatto mio intimo: uomo, a sentir lui, magnifico insieme ed economo, ma a parer mio tanto sontuoso quanto gretto. A se stesso e ad alcuni faceva servire vivande squisite, agli altri cibi comuni e scarsi. Anche i vini aveva fatto disporre entro piccole fiale di tre qualità diverse, non per lasciare libertà di scelta ma perché non si potesse opporre rifiuto: una qualità per sé e per noi, un’altra per gli amici minori (ché ha amici di gradi diversi), e l’altra per i suoi e nostri liberti.

Quegli che giaceva al mio fianco notò la cosa e mi domandò se io l’approvassi. Risposi di no. «E tu» fece «come ti regoli?». «Faccio servire a tutti le stesse cose; a una cena io invito, non a un affronto; e tratto in modo eguale quelli che ho fatto miei eguali nella mensa e nel triclinio». «Anche i liberti?». «Anche i liberti; perché in tale occasione li considero commensali, e non liberti». E quello: «Ti deve costar caro». «Oh, niente affatto». «Come mai?». «Come? Perché i miei liberti non bevono il vino che bevo io, ma bevo io quello che bevono anche i liberti»[12].

(trad. it. G. Vitali)

 

È evidente l’atteggiamento di disgusto da parte di Plinio che «esprimendo il suo ideale antitetico di uguaglianza assoluta di tutti i convitati – liberti compresi – resa possibile dalla parsimonia nella scelta delle vivande, prende le distanze e stigmatizza questi eccessi tipici dei nuovi ricchi» (G. Migliori).

 

 ***

 

[1] Formula convenzionale di invito, dove il futuro ha un valore iussivo, ossia di comando, nell’ambito di una proposizione che viene ad essere l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi compare a sorpresa nel v.3; la cena per i Romani era il pasto principale della giornata ed iniziava intorno alle tre del pomeriggio.

[2] L’indeterminatezza della data da un lato contrasta con la perentorietà dell’invito e con la certezza della sua accettazione, dall’altro sembra alludere ironicamente alle incerte condizioni di ospitalità di cui apprenderemo nei versi successivi; e l’espressione si tibi di favent («se gli dèi ti sono favorevoli»), inciso proprio della lingua d’uso, rinforza il dubbio che non si tratterà di una cena comune.

[3] È litote per cum, rispetto a cui è più efficace.

[4] Indica la luminosità e la grazia della puella (probabilmente un’intrattenitrice musicale.

[5] Ecco l’aprosdóketon, ovvero la cosa inattesa, in questo caso il fatto che la condizione della cena è che Fabullo porti la cena stessa – concetto ben reso dal richiamo tra il cenabis dell’incipit e cenam del v.4, entrambi a inizio di verso –, o meglio i suoi ingredienti (qui enumerati anche con il polisindeto del v.5).

[6] È detto con affetto ma anche con una sfumatura ironica.

[7] Espressione proverbiale, come proverbiale – da Ipponatte alla letteratura ellenistica – è l’idea del poeta pitocco e male in arnese (che qui non va certo presa sul serio).

[8] Si tratta di un profumo oleoso; quella di profumarsi durante i banchetti era un’usanza importata dall’Oriente.

[9] Altro motto di spirito, che da una parte enfatizza il valore del profumo, dall’altra ridimensiona l’intervento divino.

[10]    Si potes Archiacis conviva recumbere lectis/nec modica cenare times holus omne patella,/supremo te sole domi, Torquate, manebo,/vina bibes iterum Tauro diffusa palustris/inter Minturnas Sinuessanumque Petrinum./si melius quid habes, arcesse, vel imperium fer./iamdudum splendet focus et tibi munda supellex,/mitte levis spes et certamina divitiarum/et Moschi causam: cras nato Caesare festus/dat veniam somnumque dies; impune licebit/aestivam sermone benigno tendere noctem./Quo mihi fortunam, si non conceditur uti?/parcus ob heredis curam nimiumque severus/adsidet insano, potare et spargere flores/incipiam, patiarque vel inconsultus haberi./quid non ebrietas dissignat ? operta recludit,/spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem,/sollicitis animis onus eximit, addocet artes. /fecundi calices quem non fecere disertum?/contracta quem non in paupertate solutum?/Haec ego procurare et idoneus imperor et non/invitus, ne turpe toral, ne sordida mappa/corruget naris, ne non et cantharus et lanx/ostendat tibi te, ne fidos inter amicos/sit qui dicta foras eliminet, ut coeat par/iungaturque pari. Butram tibi Septiciumque,/et nisi cena prior potiorque puella Sabinum/detinet, adsumam. locus est et pluribus umbris:/sed nimis arta premunt olidae convivia caprae,/tu quotus esse velis rescribe et rebus omissis/atria servantem postico falle clientem.

[11]  Cum vocer ad cenam non iam venalis ut ante,/Cur mihi non eadem, quae tibi, cena datur?/Ostrea tu sumis stagno saturata Lucrino,/Sugitur inciso mitulus ore mihi:/Sunt tibi boleti, fungos ego sumo suillos:/Res tibi cum rhombost, at mihi cum sparulo:/Aureus inmodicis turtur te clunibus implet,/Ponitur in cavea mortua pica mihi./Cur sine te ceno, cum tecum, Pontice, cenem?/Sportula quod non est, prosit: edamus idem.

[12] Longum est altius repetere nec refert, quemadmodum acciderit, ut homo minime familiaris cenarem apud quendam, ut sibi videbatur, lautum et diligentem, ut mihi, sordidum simul et sumptuosum. Nam sibi et paucis opima quaedam, ceteris vilia et minuta ponebat. Vinum etiam parvolis lagunculis in tria genera discripserat, non ut potestas eligendi, sed ne ius esset recusandi, aliud sibi et nobis, aliud minoribus amicis – nam gradatim amicos habet –, aliud suis nostrisque libertis. Animadvertit qui mihi proximus recumbebat, et an probarem interrogavit. Negavi. «Tu ergo» inquit «quam consuetudinem sequeris?». «Eadem omnibus pono; ad cenam enim, non ad notam invito cunctisque rebus exaequo, quos mensa et toro aequavi». «Etiamne libertos?». «Etiam; convictores enim tunc, non libertos puto». Et ille: «Magno tibi constat». «Minime». «Qui fieri potest?». «Quia scilicet liberti mei non idem quod ego bibunt, sed idem ego quod liberti».