Darwin combatteva a Troia

 

di Modeo S., in «La Lettura – Corriere della Sera» n°378, 24 febbraio 2019, pp. 3-5.

 

 

Visioni Le scienze naturali allargano la prospettiva degli studi tradizionali sul mondo omerico.

 

Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.

Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.

Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno trequattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).

Gustave Boulanger, Ulisse riconosciuto da Euriclea. Olio su tela, 1849. Paris, Musée des Beaux-Arts.

È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.

Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.

 

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

 

La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).

L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.

 

Guerrieri in marcia. Pittura vascolare da un cratere miceneo, Periodo Elladico recente IIIC (XII secolo a.C.), dalla ‘Casa del cratere dei guerrieri’ (Micene). Museo Archeologico Nazionale di Atene.

 

Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.

In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).

La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.

Gorytós con scene di Ilioupérsis. Oro, fine IV secolo a.C. dalla Tomba di Filippo II, Verghina.

Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).

Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.

 

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure, anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.

 

Pittore di Briseide. Priamo entra nella tenda di Achille. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 64-72.

 

È dalla fine del XIII secolo, fino alla metà circa del secolo successivo, che il mondo miceneo (quello che è preferibile considerare l’insieme dei regni micenei piuttosto che un impero unitario) conosce innegabili segni di declino. I fatti archeologicamente più evidenti sono le distruzioni dei palazzi di Micene, di Tirinto, di Pilo alla fine del Miceneo IIIB (1300-1200 a.C.). Già il fatto che esista un periodo Miceneo IIIC (1200-1050 a.C.) significa comunque che a queste distruzioni non si accompagna una scomparsa repentina della civiltà (e perciò verosimilmente della popolazione) micenea: la ceramica, e il livello di vita del IIIC, si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente o esclusivamente ad un cambiamento di popolazione.

Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometricco, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico. Musée du Louvre.
Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometrico, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico (Atene). Paris, Musée du Louvre.

Le distruzioni dei palazzi, prese per sé, possono avere le cause più diverse. Cause naturali (terremoti disastrosi, accompagnati da incendi) sono da chiamare in causa certamente per Tirinto e forse anche per Pilo e Micene. Ma in quest’ultimo caso gli incendi potrebbero essere anche opera umana, cioè di invasori o/e distruttori. Distruzioni conseguenti a ribellioni interne non sono da escludere, benché questo presupponga una vasta diffusione del moto di ribellione, una sua lata sincronicità, una sua radicale efficacia nel produrre rivolgimenti socio-politici, che non è facile ammettere nelle condizioni del mondo antico, e che difficilmente avrebbe mancato di lasciare una qualche traccia nella stessa tradizione greca.

La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: sono i Dori nel Peloponneso, sono i Tessali in Tessaglia, e fra questi popoli sono anche talora ammessi stretti rapporti[1]. E tuttavia è facile osservare come, nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (in Argolide, in Messenia e nella stessa Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione con i popoli precedenti.

A questa tradizione gli storici in prima istanza e poi, sulla loro scorta, gli archeologi, hanno contrapposto la difficoltà di dare l’attributo “dorico” a specifici oggetti o monumenti, appartenenti all’epoca in cui l’invasione dorica del Peloponneso dovrebbe aver avuto luogo (nella tradizione cronografica ellenistica, il 1104 a.C., ottant’anni dopo la fine della guerra di Troia)[2].

Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.
Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.

Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. La verità è che la stessa tradizione greca stenta a ricollegare determinate distruzioni del II millennio con il nome dei Dori: fatta la tara delle azioni violente inevitabilmente legate ai processi della conquista, si può dire che i Dori non appaiano (e a ben ragione) nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori (le mura antichissime di città doriche vengono attribuite ai Ciclopi, non ai Dori!). La penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente (il mito del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso è un segno del voler accompagnare la memoria di una penetrazione di popolazioni dai distretti montuosi della Grecia centrale nel Peloponneso con il mito della riacquisizione da parte dei discendenti di Eracle, gli Eraclidi, di una regione che apparteneva al loro trisavolo).

Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un'anfora attica a figure nere (Lato A), dall'Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), dall’Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Ma non soltanto i Dori non appaiono nella tradizione come autori di spietate e radicali distruzioni e di stermini indiscriminati; c’è anche, positivamente, traccia di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea già alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide. Del palazzo di Pilo sarebbe stato distruttore Eracle, trisavolo dei mitici capi della conquista dorica (Temeno, Cresfonte e i figli del loro fratello Aristodemo, cioè Euristene e Procle). Nella generazione successiva ad Eracle avrebbe luogo la guerra di Troia (1194-1184 per Eratostene e per Apollodoro: ma la tradizione conosce date più alte, fino al 1340 circa per Duride e Timeo, un millennio prima della nuova spedizione “greca” contro l’Asia, quella di Alessandro Magno contro i Persiani; altri autori assumono date intermedie). Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei principi achei reduci da Troia. Sarà forse la proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come semplice fatto naturale e necessario, un dato di semplice routine dell’esistenza): sta di fatto che quella dei Greci sui Troiani è una strana vittoria, e l’épos che la celebra, e il complesso dei riecheggiamenti letterari, non hanno nulla di una trionfalistica celebrazione. Al racconto epico della guerra di Troia si accompagna tutta una memoria di fatti di contorno, che parla di nóstoi, di ritorni degli eroi, accompagnati da lutti, seguiti da dissidi, da esili, da profonde convulsioni del mondo dei regni micenei, di cui è primo e validissimo interprete proprio lo storico Tucidide (I, 10 ss.): e tutto questo è di circa tre generazioni anteriore all’epoca della presunta invasione dorica del Peloponneso.

Una teoria dei due tempi (o di più tempi) nel declino del mondo miceneo si impone dall’interno stesso della tradizione greca, ed è naturale che vi siano oggi storici ed archeologi che, più o meno consapevolmente, riproducono questo plausibile modello di svolgimento degli eventi. A una prima crisi interna al mondo miceneo succede una progressiva trasformazione, in alcune aree vitali del mondo greco (Peloponneso, Tessaglia, Creta, Sporadi meridionali e altre isole), delle condizioni di popolamento. Vi si accompagna anche un rapporto diverso col territorio, che, prima oggetto del dominio di signori dell’epoca micenea, di una società a vertice palaziale, diventa proprietà di tribù di invasori, organizzate in una forma molto meno gerarchica e verticistica. Le fertili pianure, un tempo dominate dai palazzi, diventano ora l’oggetto della spartizione delle nuove tribù. I nuovi centri politici sono più immediatamente correlati ai territori coltivabili (ciò vale per Argo in Argolide, per Steniclaro e vari centri della Messenia orientale, per Gortina rispetto a Festo, a Creta, per Larissa e altre città rispetto a Iolco in Tessaglia, ecc.). è solo un’ipotesi, che le nuove popolazioni praticassero un’economia di tipo pastorale, e che avessero un atteggiamento negativo nei confronti dell’agricoltura, che si manifesterebbe proprio nell’adozione di forme di proprietà collettiva o comunque nel rifiuto dell’esercizio dell’agricoltura, affidato al lavoro di popolazioni asservite[3]. Forse l’atteggiamento di fondo dei Dori verso l’agricoltura è più positivo di quel che questo schema consente di ammettere, e proprio il declino demografico delle ultime età micenee può aver attirato nuovi coltivatori; certamente i rapporti di proprietà della terra sono ben diversi da quelli di epoca palaziale, perché altri (cioè molti di più e in forma diversa) sono ormai i titolari della proprietà. L’adozione del modulo della servitù rurale è forse soltanto un adattamento delle possibilità di “dipendenza” che la vecchia, obliterata struttura socio-economica in se stessa portava (non tanto il frutto di un’originaria avversione per l’esercizio dell’agricoltura come attività produttiva).

Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Milano 2010, p. 68
Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, p. 68.

Ma com’è da immaginare il primo tempo del declino miceneo? Le stesse cause interne di conflitti sociali tra strati diversi della popolazione, o tra il sovrano e un’embrionale aristocrazia, potrebbero essere state accompagnate dall’irrompere di fattori distruttivi esterni, che non sarebbero però ancora i Dori, benché quei fattori possano aver preparato, anche dal punto di vista della creazione di zone di richiamo per movimenti di popoli, l’invasione dorica dei regni micenei. In generale gli storici fanno allora riferimento ai Popoli del Mare, di cui testi egiziani dalla metà del XIII agli inizi del XII secolo a.C. attestano la presenza, i movimenti, l’attività turbolenta, che appoggia tentativi d’invasione da parte libica, ma poi sconvolge soprattutto l’Oriente anatolico e siro-palestinese, per arrestarsi contro il muro della resistenza dei faraoni egiziani (Ramses II, Merneptah, Ramses III). Vero è che i Popoli del Mare, secondo alcuni, comprendono gli stessi Micenei, e quindi le egittocentriche e trionfalistiche rappresentazioni egiziane potrebbero significare movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività distruttiva.

Ma dal XIII secolo le regioni del Mediterraneo orientale conoscono modificazioni, nelle condizioni del popolamento e nella distribuzione e organizzazione del potere, che potrebbero essere in rapporto con le stesse trasformazioni interne al mondo miceneo, trasformazioni che abbiamo visto essere riflesso di crescita del mondo miceneo da un lato, ma anche espressione di inquietudini interne, di bisogni cui non corrispondono le risorse, dall’altro: un singolare intreccio di aspetti positivi e di fattori negativi e di declino. Particolarmente suggestiva, in questo senso, la coincidenza tra le tradizioni e i dati archeologici relativi alla miceneizzazione di Cipro. Frequentazioni di mercanti e artigiani risaliranno già al XIV secolo, ma è solo dall’ultimo trentennio del XIII secolo, quando cioè sta già passando il momento della fioritura dei palazzi e dei regni micenei, che a Cipro si comincia a registrare una presenza stabile e si potrà parlare di insediamenti micenei (a Enkomi, a Kition, e così via di seguito). Ne risulterà una civiltà micenea molto mescolata di elementi propri delle culture del Vicino Oriente, ma prima di quella data questi ultimi sono del tutto dominanti. Ebbene, la tradizioni concepisce la migrazione degli Achei a Cipro, con la conseguente fondazione di Salamina sulla costa orientale dell’isola (non lontano da Enkomi), come un fenomeno tardivo dell’espansione achea, un contraccolpo di fatti luttuosi che accompagnano il rientro dei due figli di Telamone, Aiace e Teucro, dalla guerra di Troia, e come opera dell’esule Teucro.

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre
Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’epoca che la tradizione letteraria connette con l’arrivo dei Dori nel Peloponneso e nelle isole dell’Egeo è dunque obiettivamente contrassegnata da trasformazioni notevoli, archeologicamente documentate. Tuttavia sarebbe indimostrabile e forse anche improbabile considerare queste novità culturali come il portato di un nuovo popolo. Ad una connessione così rigida e meccanica si potrebbero muovere molte obiezioni. Ci sono trasformazioni che investono non solo l’area dorica, ma anche, e prima che quella dorica, altre aree che, pur se toccate dal movimento dei Dori, non ne furono il principale teatro né la destinazione definitiva (ciò vale, ad esempio, per la ceramica proto-geometrica che ha la sua prima diffusione in Attica, anche se investe regioni doriche come l’Argolide e altre ancora; ciò vale anche per il rituale funerario dell’incinerazione). L’uso delle tombe a cista non appare così innovativo, come un tempo si è sostenuto, rispetto all’epoca micenea. I fatti di continuità tra miceneo, sub-miceneo e geometrico sono verificabili sia in Argolide sia a Creta. Viceversa la fine dei palazzi riguarda, oltre le aree poi dorizzate, anche la stessa Attica.

C’è un grande mutamento nell’area mediterranea, a cominciare dalle sue regioni orientali, che riguarda l’uso dei metalli, di particolare, ma non esclusiva, destinazione militare: il cambiamento segna anche, dall’Età del Bronzo a quella del Ferro. Ciò presuppone da un lato, e produce dall’altro, cambiamenti di ordine economico e di civiltà in genere, e cambiamenti di ordine socio-politico; vi sono collegate innovazioni nelle linee di comunicazione, di scambio, di traffico. Entrano così in gioco, in un più stretto rapporto col mondo greco, quelle regioni dell’Anatolia orientale e dell’entroterra siro-anatolico, ove si estrae e da cui s’importa il ferro.

La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142
La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142.

Ma la maggiore disponibilità naturale di tale metallo significa anche un ruolo diverso, nella società, dei possessori e degli artigiani di quel metallo: la scarsità stessa del rame aveva assegnato ai suoi possessori e artigiani una posizione particolare nelle società palaziali, che ci sono note attraverso le tavolette che ne registrano la contabilità. Inoltre, la stessa possibilità di un uso più ampiamente diffuso di armi nel nuovo metallo si accompagna a una nuova organizzazione militare. Furono i Dori portatori della cultura che fa uso del nuovo metallo, o di nuovi tipi di armi? Questa sembra una connessione troppo schematica, rispondente ad una positivistica equazione tra popoli e armi o oggetti, insomma tra soggetti ed oggetti storici. Certamente, nella storia dei secoli oscuri delle città che in piena luce di storia figureranno come doriche saranno da ammettere novità di ordine sociale e politico, connesse con le istituzioni che i Dori portarono, o si diedero, nella conquista; a queste novità socio-politiche si adattano innovazioni che sono della tecnica metallurgica, della organizzazione e tattica militare, del rituale funerario, delle espressioni artistiche, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori né i soli fruitori. In comune, sul piano socio-politico, c’è una diffusione di valori collettivi, di espressioni di massa, di tendenze ugualitarie, tutte cose da intendere non come momento di democrazia, che sarebbe gravissimo anacronismo, ma come riflesso di un crollo di precedenti forme di potere, più accentrato, di tipo monarchico e palaziale.

 

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Note

 

[1] Per la tradizione sulla provenienza dei Tessali dalla Tesprozia, cfr. Hdt. VII 176; Sordi M., La lega tessala fino ad Alessandro Magno, Roma 1958, 1-3; per i collegamenti con le Sporadi meridionali e in part. con Cos, v. Il. II 676 ss., e autori ellenistici (Apollodoro, Filita, Teocrito, Dosiade, Diodoro); cfr. Sordi M., op. cit., 3 ss. Sul problema, v. Musti D., Le origini dei Greci: Dori e mondo egeo, Torino 19912, 57-59.

[2] Cfr. per la cronologia della guerra di Troia e del “ritorno degli Eraclidi”, Apollod. FGrHist. 244 F 61-62.

[3] Cfr. Kirsten E., Gebirgshirtentum und Seßhaftigkeit – Die Bebeutung der Dark Ages für die griechische Staatenwelt: Doris und Sparta, in Deger-Jalkotzy S. (Hg.), Griechenland, die Ägäis und die Levante während der „Dark Ages“ vom 12. bis zum 9. Jh. v. Chr. Akten des Symposions von Stift Zwettl (NÖ) 11.-14. Oktober 1980, Wien 1983, 355-445, per la concezione qui esposta.