Strane metamorfosi degli uomini (August. de civ. Dei XVIII 17)

di Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano 2015, pp. 876-877.

 

Hoc Varro ut astruat, commemorat alia non minus incredibilia de illa maga famosissima Circe, quae socios quoque Vlixis mutauit in bestias, et de Arcadibus, qui sorte ducti tranabant quoddam stagnum atque ibi conuertebantur in lupos et cum similibus feris per illius regionis deserta uiuebant. Si autem carne non uescerentur humana, rursus post nouem annos eodem renatato stagno reformabantur in homines. Denique etiam nominatim expressit quendam Demaenetum gustasse de sacrificio, quod Arcades immolato puero deo suo Lycaeo facere solerent, et in lupum fuisse mutatum et anno decimo in figuram propriam restitutum pugilatum sese exercuisse et Olympiaco uicisse certamine. Nec idem propter aliud arbitratur historicus in Arcadia tale nomen adfictum Pani Lycaeo et Ioui Lycaeo nisi propter hanc in lupos hominum mutationem, quod eam nisi ui diuina fieri non putarent. Lupus enim Graece λύκος dicitur, unde Lycaei nomen apparet inflexum. Romanos etiam Lupercos ex illorum mysteriorum ueluti semine dicit exortos.

 

A riprova di ciò Varrone ricorda altri fatti non meno incredibili intorno alla famosissima maga Circe, la quale trasformò in bestie anche i compagni di Ulisse, e intorno agli Arcadi che, designati a sorte, attraversavano a nuoto uno stagno dove venivano trasformati in lupi e vivevano nei luoghi solitari di quella regione assieme a quelle belve feroci. Se però non mangiavano carne umana, di nuovo dopo nove anni, riattraversando lo stagno, diventavano uomini. Egli infine ricorda espressamente che un certo Demeneto, dopo aver gustato il sacrificio che di solito gli Arcadi offrivano immolando un fanciullo al loro dio Liceo, fu trasformato in lupo e dopo dieci anni, restituitegli le umane sembianze, si esercitò nel pugilato e vinse i giochi olimpici. Lo stesso storico ritiene che in Arcadia quel nome fu attribuito a Pan Liceo e a Giove Liceo, precisamente per questa trasformazione degli uomini in lupi, che ritennero possibile soltanto grazie ad una forza divina. In greco lupo si dice infatti lykos, da cui sembra essere derivato il nome Liceo. Si dice ancora che i Lupercali romani abbiano tratto origine da quei misteri.

 

Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d'Archéologie.
Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie.

Aurelio Agostino: l’opera

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, 575-580.

Agostino è il più ricco e originale dei pensatori latini, e al tempo stesso uno scrittore elegantissimo, che sa dare alle sue profonde elaborazioni da un lato una chiarezza ammirevole, dall’altro un’efficacia emotiva che fa capire al lettore di trovarsi dinanzi ad idee di portata poderosa. Le sue teorie hanno dominato gran parte del Medioevo, anzi si può dire che ne siano state all’origine; ma quando la società occidentale affrontò il nuovo cambiamento epocale, dal Medioevo all’età moderna, fu ancora in lui che la Riforma protestante trovò i fondamenti teorici delle proprie dottrine. Le sue argomentazioni filosofiche sono sottilissime e straordinariamente moderne; si pensi alla scoperta della relatività del tempo, che non è una categoria assoluta, ma esiste solo in rapporto ai singoli soggetti che di questa categoria si servono: il passato, in quanto tale, non è più; il futuro non è ancora; il presente è il fugace momento di passaggio fra questi due non essere, sicché è più opportuno parlare di una memoria presente del passato, di un’aspettativa presente del futuro, di una consapevolezza presente del presente. E non meno sottili e fertili di sviluppi sono le sue considerazioni sul rapporto fra destino, grazia divina, peccato originale e libero arbitrio, che lo portano ad una complessa dottrina che respinge contemporaneamente sia le posizioni manichee, più rigidamente deterministiche, che privano l’uomo di qualsiasi possibilità d’intervento, sia quelle più seducenti del pelagianesimo, che accentuavano lo spazio di autonomia dell’uomo, e garantivano la salvezza per i soli meriti individuali.

Vittore Carpaccio, La visione di Sant’Agostino. Tempera su tavola, 1502. Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.

Dare un’idea anche approssimativa dell’immensa produzione letteraria di un uomo capace di portare in luce gli aspetti più oscuri e inquietanti della sua anima e di scriverne usando magistralmente tutti gli artifizi formali della retorica è un’impresa scoraggiante: Agostino ha sempre qualche sorpresa, qualche balzo improvviso, che rendono precarie e discutibili tutte le sistemazioni. Il punto di maggior ripiegamento introspettivo Agostino lo raggiunge nelle Confessioni, nelle quali egli tocca livelli di analisi psicologica mai raggiunti in precedenza e difficili da trovare anche in opere di epoche successive: l’angoscia per il peccato, oppressivamente presente nelle descrizioni dell’infanzia e della fanciullezza; i drammatici travagli delle crisi; la famosa scena delle conversioni con la voce infantile che ripete come una cantilena tolle, lege, «prendi e leggi»; Agostino che apre a caso la Bibbia e trova nella lettera di Paolo ai Romani le parole che segnano il suo passaggio dalla vita mondana all’ascesi del Cristianesimo. Sono tutti quadri di grande effetto, per l’abilità di enfatizzare il sentimento, di mescolare al pathos un linguaggio lirico forte di coloriture poetiche, in cui anche le frequenti reminiscenze bibliche creano un’atmosfera di commossa sacralità. Diario di un’angosciosa ricerca di verità che culmina nella conversione, le Confessioni si allontanano dai comuni itinerari di salvezza noti anche al mondo pagano (un esempio classico è quello della felicità iniziatica conquistata da Lucio, il protagonista delle Metamorfosi di Apuleio), perché rimane nell’Agostino convertito un senso di inquieta precarietà, che lo fa sentire un eterno convalescente, sempre minacciato da possibili ricadute nel peccato. Questa consapevolezza che nessuna conquista è definitiva fa delle Confessioni un unicum all’interno della produzione patristica, che in genere vede nella conversione il parto felice di una certezza raggiunta.

Amsterdam, Bibliotheca Philosophica Hermetica. BPH Ms 83 (metà XIII sec.). Manoscritto miniato dalle Confessiones di Agostino.

Si tratta di uno scritto esemplare anche per quanto riguarda le novità introdotte dal Cristianesimo nei canoni dei generi letterari antichi: il protagonista non è un personaggio eccezionale per il ruolo che ricopre o per le sue vicende, ma un comune peccatore, che per volontà di Dio ha trovato la strada della salvezza, come tanti prima e dopo di lui; gli avvenimenti non sono eccezionali o meravigliosi in sé, ma diventano tali solo per la presentazione che ne fa l’autore, per la sua capacità di ingrandire a dismisura il più piccolo particolare, di dare dignità a fatti che la letteratura tradizionale passava sotto silenzio o riduceva al solo registro del comico. Basta pensare al famoso episodio del furto delle pere, una ragazzata che acquista il suo spessore perché consente all’autore di scoprire, alla base di questa azione trasgressiva, il gusto per l’atto gratuito. In compagnia di un gruppo di scapestrati coetanei, aveva rubato da un albero carico di pere, che apparteneva a un vicino, alcuni frutti di cui la maggior parte era stata poi gettata ai porci: il ricordo di quella bravata giovanile, apparentemente senza importanza, offre ad Agostino lo spunto per una serie di riflessioni di eccezionale profondità sulla natura e le motivazioni del peccato: (II 16 sgg.) «Dunque non amai null’altro che il furto […]. I peccati chi li capisce? Era il riso che ci sollecitava, per così dire, il cuore al pensiero di ingannare quanti non sospettavano un’azione simile da parte nostra e ne sarebbero stati fortemente contrariati. Perché dunque godevo di non agire da solo? Forse perché non è facile ridere da soli? […] Ecco dunque davanti a te, Dio mio, il ricordo vivente della mia anima. Da solo non avrei compiuto quel furto in cui non già la refurtiva ma il compiere il furto mi attraeva; compierlo da solo non mi attraeva davvero e non l’avrei compiuto. Oh amicizia inimicissima, seduzione inesplicabile dello spirito, avidità di nuocere nata dai giochi e dallo scherzo, sete di perdita altrui senza brama di guadagno proprio né avidità di vendetta. Uno dice: – Andiamo, facciamo – , e si ha pudore a non essere spudorati».

Un lettore moderno non avrebbe dubbi circa il genere letterario cui le Confessioni appartengono: si tratta di un’autobiografia. Ma la cosa non doveva essere ugualmente ovvia per un lettore antico, che nello scritto di Agostino non trovava molte delle informazioni d’obbligo per una biografia: notizie sui genitori, la città natale, il corso degli studi, ecc. Le notizie che Agostino dà invece su di sé riguardano assai marginalmente questi dati, che ricevono attenzione solo in quanto si ripercuotono sull’animo del protagonista. Oltre ad essere una delle pochissime autobiografie antiche, l’opera di Agostino – proprio per i suoi tratti anticonformistici – è la prima autobiografia nel senso moderno del termine.

Inoltre, un’opera così dichiaratamente autobiografica – anche se di biografia interiore, di storia di un’anima – si chiude con quattro libri che il lettore moderno trova difficoltà a legare con i primi nove; ed anche l’ipotesi che il passaggio dalla biografia individuale al commento allegorico della Genesi serva a sottolineare il rapporto fra uomo e natura, il ruolo di Dio creatore, e l’opportunità di cantargli le lodi, sembra un filo ancora insoddisfacente per un progetto che nella mente dell’autore doveva forse essere più complesso e significativo. È certo però che per un pubblico tardoantico la varietà stessa presente all’interno delle Confessioni poteva aver valore positivo: se i primi nove libri mostravano a tutti i peccatori che non si deve mai disperare della salvezza, gli ultimi tre libri dispiegavano una dottrina che poteva essere apprezzata da cristiani colti, interessati all’esegesi della Scrittura. Anche lo stesso titolo è poco chiaro: non si tratta della confessione nel senso che le diamo noi moderni, anche se Agostino dichiara pubblicamente tanti suoi peccati e se ne accusa per chiedere perdono a Dio; c’è piuttosto la testimonianza resa a Dio, il ringraziamento per avergli indicato la strada attraverso il peccato, e insieme la lode per la meravigliosa architettura della creazione: le Confessioni sono in tutta la loro estensione un’unica, immensa preghiera a Dio, l’Interlocutore onnisciente cui Agostino rivolge il proprio discorso in un linguaggio che – non a caso – risente fortemente dello stile dei Salmi.

Ogni volta che le Confessioni, nella storia millenaria della loro fortuna, s’incontreranno con la passione per il dialogo interiore, con la forma dell’indagine introspettiva, con il gusto per la letteratura dei ricordi, troveranno sempre ammiratori pronti a lasciarsene suggestionare; il modello sarà attivamente operante (o almeno presupposto, qualche volta in polemica) in un umanista pronto alla confessione come Petrarca, nell’ardore religioso di Lutero e di Calvino, nell’empito contemplativo dei mistici spagnoli, nella pacata riflessione di Montaigne, nei giansenisti e soprattutto in Pascal, fino a che la «poesia della memoria» farà di Agostino giovane un eroe romantico.

E così è anche l’altro grande capolavoro, il De civitate Dei: qui la grandezza dell’idea di fondo, che la storia non deve essere più storia delle nazioni, ma storia dell’umanità, e il fondamentale contribuito che essa reca all’edificazione di un sistema ideologico del Cristianesimo, debbono fare i conti con problemi di inquadramento per noi ancora irrisolti, e resi più complessi dalla pubblicazione avvenuta per gruppi di libri via via che la stesura procedeva. Questo può spiegare le ripetizioni e qualche contraddizione, ma non basta a chiarire le difficoltà nello stabilire il rapporto tra Chiesa e città di Dio e quello fra città terrena e stato pagano-temporale, che a volte sembrano identificarsi, a volte invece avere ruoli ben distinti.

Vendor, Bibliothèque Sainte Geneviève. Ms. lat. 246 (XV sec.), f. 406r. Agostino, De civitate Dei. Visione del Paradiso.

Certo, nella vasta produzione di Agostino, il De civitate Dei è l’opera non solo più imponente per impegno e mole (l’autore stesso la definiva «un grande e arduo lavoro», magnum opus et arduum) ma anche la più consapevole che egli abbia mai scritto: si trattava di contrastare definitivamente la forza della grande intellettualità pagana, di respingere la minaccia insista nel neopaganesimo letterario e filosofico che ancora cercava di imporre il proprio primato culturale. Non si trattava solo di opporsi a conservatori intransigenti ma singolarmente isolati, quanto invece di impedire che l’aristocrazia intellettuale – coscientemente e coerentemente organizzata – temprasse contro la diffusione del Cristianesimo la prestigiosa tradizione pagana. Visto in questa luce, il De civitate Dei è l’ultimo atto di un lungo dramma: scritta da un antico protetto di Simmaco (l’autorevole campione del «partito» pagano), esso doveva sancire il definitivo ripudio del paganesimo da parte di un’aristocrazia che aveva preteso di dominare la vita intellettuale della sua epoca.

Basterà ripensare ai Saturnalia di Macrobio per riconoscere chiaramente i gusti di questo ambiente di conservatori: un libro di conversazioni immaginarie che ritrae i grandi tradizionalisti romani al tempo del loro apogeo (intorno al 380). In queste conversazioni possiamo cogliere qualcosa di più che lotta per sopravvivere. La Vecchia Tradizione, la vetustas, deve adesso essere «sempre venerata». Ci troviamo di fronte a un curioso fenomeno, quello della conservazione nel presente di tutto un sistema di vita, che si cerca di salvare trasfondendo in esso l’inviolabile sicurezza di un passato venerato. Ma non era tutto: questi uomini erano anche profondamente religiosi; potevano gareggiare con i cristiani nella loro solida credenza in premi e pene dopo la morte. Si può anzi ricordare che Macrobio  aveva scritto anche un commento al Somnium Scipionis in cui si mostrava come «le anime di coloro che hanno meritato dalla società umana lasciano il corpo per ritornare al Cielo a godervi una beatitudine eterna». A questi uomini il Cristianesimo appariva come una religione disgiunta dagli assunti naturali di tutta una cultura. A loro, anzi, i grandi platonici dell’epoca, Plotino e Porfirio, potevano offrire una visione profondamente religiosa del mondo, in cui confluiva del tutto naturalmente una tradizione antichissima e profondamente radicata. Le asserzioni dei cristiani, all’opposto, mancavano di fondamenti intellettuali, mancavano di conoscenze razionalmente conquistate.

È insomma a questa (anzi, contro questa) aristocrazia colta pagana che si rivolge Agostino nel De civitate Dei: e mentre mira a costruire un fondamento intellettuale del Cristianesimo, non manca di demitizzare il grande passato dei Romani, rifugio idealizzato in cui la cultura pagana cercava scampo contro l’amara realtà del presente. Con ironia appassionata egli sa mostrare che la storia romana non è affatto piena di exempla morali; che disastri di ogni tipo erano gravi e frequenti nel passato come nel presente; che questi non erano se non i segni della peccaminosità umana; che nulla contavano vizi o virtù dei Romani; che i Romani, anzi, non erano né migliori né peggiori di altri popoli; che l’Impero romano, lungi dall’essere l’oggetto privilegiato della Provvidenza divina, era del tutto inessenziale per la salvezza dell’umanità, era semmai un fenomeno storico destinato con il tempo a scomparire. Ogni punto della sua argomentazione necessitava di esemplificazioni e discussioni storiche: il pubblico cui Agostino si rivolgeva era abituato a pensare in termini di storia romana. Così il De civitate Dei, e specialmente i primi libri, è tutta una lunga polemica minuta contro i fatti, persone, credenze, pratiche culturali e religiose della storia di Roma (particolarmente del periodo repubblicano): in essa Agostino mostra una straordinaria conoscenza degli storici classici e dei più recenti epitomatori. La sua filosofia della storia raggiunge orizzonti inusitati per ampiezza di tempi e di spazi: da sempre e in tutto l’universo la Divina Provvidenza guida e regge meravigliosamente tutte le cose e tutti gli eventi, preparando la salvezza dell’umanità. Agostino dichiara che gli uomini non sono sempre esistiti e non sono destinati ad esistere per sempre; che la giustizia sociale in questo mondo (nella civitas mundi) non è mai raggiunta e compiuta. Le due città (quella terrena e quella divina) hanno avuto il loro principio, avranno i loro progressi e la loro fine. Le due città hanno caratteri opposti anche se esse di fatto convivono intrecciate e mescolate in ogni uomo. Il futuro dell’umanità è che l’inseparabile mescolanza delle due realtà diventi alla fine separazione; con lo sguardo della sua speranza Agostino separava quello che egli ancora vedeva unito e mescolato nella realtà del mondo: al di là delle apparenze egli vedeva appunto due popoli, i fedeli e gli infedeli.

Il bisogno di salvare la propria identità di cittadino del Cielo è, pertanto, il centro di gravità della concezione agostiniana, del suo modo concreto di intendere i rapporti tra la città di Dio e la città del mondo. L’ordinaria società umana deve far posto a un gruppo di uomini consapevoli di essere diversi, a una civitas peregrina, una comunità di cittadini che siano «stranieri in patria». Il peregrinus, lo straniero-pellegrino, dovrà compiere il suo viaggio per uscire dal mondo in cui si trova ad esistere, e raggiungere la città di Dio: egli è appunto peregrinus in quanto è uno «straniero» che temporaneamente risiede nel mondo perché non può rifiutare un’intima dipendenza dalla vita che lo circonda. È questa forse la più affascinante lezione agostiniana: la consapevolezza che l’uomo, anche il cristiano, è realmente legato a questo mondo, è legato da vincoli che già solo per essere umani sono in qualche modo necessari e mai del tutto ricusabili; questi vincoli impongono doveri comuni che vanno accettati. Così, in ultima analisi, il De civitate Dei non sarà un libro che propone la fuga dal mondo: resterà un ardente invito a vivere dentro il mondo, ma allo stesso tempo distaccati dal mondo.

Il complicato itinerario individuale di Agostino ha arricchito il suo pensiero di una quantità di tematiche e di spunti, che non hanno forse trovato una definitiva collocazione sistematica, ma proprio per questo esercitano un fascino ancora più grande soprattutto su quelle epoche che, come la presente, rifuggono da costruzioni ingenuamente integrali. Maestro di scuola, si è formato sui testi della tradizione classica, e da essi ha appreso i migliori prodotti della cultura greca e latina; manicheo, è venuto in contatto con le elaborazioni di una setta tra le più vivaci e stimolanti dell’epoca, la cui importanza sul piano del pensiero antico è ora oggetto di attente analisi e rivalutazioni; neoplatonico, ha approfondito la lezione di quello che per lui è il più grande filosofo dell’antichità, Platone, e al tempo stesso ha partecipato alle elaborazioni dell’ultima corrente di pensiero del paganesimo. Nel De civitate Dei egli ridimensiona il ruolo di Roma e del suo Impero, ma non esita a sollecitare, con epistole di impressionante durezza, l’aiuto dello Stato nella repressione dello scisma donatista; profondamente legato alla cultura classica, non esita a porla in discussione nel De doctrina Christiana; raffinato intellettuale, ha scelto di cimentarsi con le problematiche più complesse, che da tempo travagliavano i pensatori più agguerriti, ed ha addirittura messo a fuoco nuove questioni, non meno angosciose e difficili delle precedenti; uomo di Chiesa, riteneva suo dovere raggiungere il più debole e incolto dei suoi fedeli, e si sforzava di scrivere per tutti e non soltanto per una élite di studiosi.

Agostino di Ippona. Affresco, VI secolo d.C. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Alla necessità di raggiungere ogni genere di pubblico risponde anche lo stile, che presenta moltissime variazioni da un’opera all’altra. Sostenuto negli scritti che si destinano a lettori dotti e uomini di Chiesa, è invece assai più colloquiale nei Sermones, dove si cerca – attraverso la ripetizione dei singoli nessi e singoli termini – di imporre alla memoria dei fedeli alcuni concetti fondamentali. Molto vario anche lo stile delle epistole, che conosce toni di deferente mondanità verso i corrispondenti che occupano posti di rilievo nell’amministrazione dell’Impero o fra i ranghi della nobilitas. La sua scrittura si articola in frasi composte di brevi elementi, musicalmente disposti all’interno del periodo secondo precise corrispondenze di durata, rime ed assonanze; uno stile che presuppone una lettura a voce alta, come era quella degli antichi, e perde molto della sua efficacia con la nostra lettura silenziosa, anche se non può comunque sfuggire l’eleganza della costruzione, a volte fin troppo artificiosa, che riesce ad inglobare le numerosissime citazioni bibliche in un discorso continuo senza far avvertire sgradevoli salti di tono.

Agostino si presta alle letture più svariate: ci si può compiacere di individuare le tecniche di costruzione del discorso, restando gratificati nell’individuare un rassicurante sistema di perfetti equilibri, che garantiscono la stabilità dell’insieme; si possono seguire i difficili percorsi del suo pensiero, affannandosi dietro un ingegno che tende ad alzarsi verso Dio lungo strade ardue, tracciate da una logica sottile e spietata; si può a volte gettare lo sguardo negli abissi profondi che cingono queste strade, o verso le cime che a volte si intravedono, anche se ci si rende conto che non si può reggere a lungo a queste tensioni. Con Agostino si sono cimentati i maggiori ingegni di tutti i tempi, ma non è facile trovare chi abbia saputo interpretare e comprendere, senza immiserirla, tutta la sua vitale problematicità.

L’atteggiamento dei cristiani verso il potere e l’Impero prima di Costantino

di M. Rizzi, relazione al convegno internazionale di studio Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa, 19 aprile 2012 (in Zenit.org).

Le complesse motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e sostenere poi il Cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi […]. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di indagare l’evoluzione dell’atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del potere politico – e specificamente verso quello di Roma – nell’arco di tempo che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.

Anticipando le conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in Occidente, una più puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell’Impero romano; una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in parallelo allo strutturarsi dell’organizzazione ecclesiastica nella forma del mono-episcopato cittadino e, nella pars occidentis dell’Impero, della sua gravitazione su Roma.

Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).
Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).

Al cuore della prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della tassazione.

Nella formulazione paolina del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani («rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»), che nel corso dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del sistema fiscale romano: l’imposta capitaria sulle persone e i patrimoni (phóros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche (télos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta l’obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega dell’autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine (phóbos/timor), dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale (timḗ/honor).

Così, pur indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti geografici e sociali, in accordo con le forme dell’articolazione gerarchica e personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati preposti all’ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro
Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

La riflessione di Paolo, pur ancora nell’orizzonte di un’escatologia imminente, si sforza così di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una parziale modifica del sistema daziario.

Le affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto assoluto – come peraltro l’esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in ciò assai più avveduta di molta esegesi “scientifica” moderna; erano tuttavia destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.

Scrivendo qualche decennio più tardi, l’autore della prima lettera di Pietro riprende letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei cristiani nei confronti dell’autorità, sforzandosi però di collocarle in termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo il basileús dai «governatori inviati da lui», e senza menzionare direttamente le tasse.

Il timore (phóbos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come l’onore (timḗ) vada tributato al basileús; fattore unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell’atteggiamento dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti, che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo, andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto della tassazione – ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla prassi cristiana dei primi secoli.

Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. R – FISCIIVDAICICALVMNIASVBLATA. SC divise da una palma.
Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. Recto: legenda – fisci Iudaici calumnia sublata / s(enatus) c(onsultu). Una palma.

Questa linea di pensiero, che imposta l’atteggiamento cristiano verso il potere attorno all’idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si snoda senza soluzione di continuità dalla fine del I secolo sino alla metà del III, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai Corinzi, che ribadisce il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare ogni implicazione politica del concetto di «regno di Dio» dichiarandone la natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e avvertito.

Questi, nel contesto del dibattito che travagliava le chiese sull’atteggiamento da assumere nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del giudizio; del resto, per Origene, il potere politico viene esercitato nell’ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.

Se, nella prospettiva cristiana, l’esercizio dell’autorità secolare acquisiva in questo modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all’idea di legge naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l’azione, una tale posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei confini dell’Impero (e in questo senso è significativo il protettorato che Costantino proclamerà nei confronti del cristiani residenti al di fuori dei suoi diretti dominii all’indomani dell’accesso al potere anche nella pars orientis dell’Impero).

Soprattutto, a distanza di settant’anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e nella gestione politica dell’Impero (specie delle concrete vicende dell’autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l’estensione universale della cittadinanza avvenuta con la Constitutio Antoniniana e lo stesso avvicinamento delle élites cristiane al potere imperiale nel periodo della ben disposta dinastia severiana.

Sarà solo con l’editto di Serdica del 311, che l’autorità romana, nella persona di Galerio, accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax deorum: «Poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dèi celesti e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (…) in conformità a quanto da noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della res publica e di loro stessi, affinché in ogni modo la res publica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro case».

M. Aurelio Numeriano. Antoniniano, Lugdunum 284 d.C. AR-Æ 3, 41 gr. Obverso: Statua della Pace, stante verso sinistra, reggente un ramo d’olivo nella destra e uno scettro, posto di traverso nella sinistra; legenda: Pax Aug(usti); B, punzonata a sinistra della figura.

Che per di più tra i cristiani dei primi secoli l’ermeneutica delle parole di Paolo non fosse solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo «un uomo giusto» e per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa, perché «conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore (imperator) di tutte le genti», anche se «non conosco l’Impero (imperium) di questo mondo».

Dal canto suo, Donata, una sua compagna, non esita a proclamare «onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio (honorem Caesari quasi Caesari; timor autem Deo)»; la precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice svolgimento ordinato della vita quotidiana: l’assenza di ogni menzione del tributum, la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di riconoscere l’Impero e l’imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.

Proprio nel drammatico contesto dell’ondata persecutoria accesasi intorno all’ultimo quarto del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza, la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai Romani, avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì dominanti.

Nel celebre frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente successivi. La più celebre è legata al cosiddetto “sincronismo augusteo”, ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell’Impero da parte di Augusto e la diffusione al suo interno del Cristianesimo.

Nonostante la storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere un antecedente esplicito di questa posizione nell’opera lucana, sino a spostare molto in avanti – addirittura in epoca adrianea – la redazione degli Atti degli Apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene formulata con nettezza.

Tuttavia, Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente allotria del cristianesimo rispetto all’orizzonte propriamente romano, affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò tutta l’area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di pace e stabilità garantite dall’Impero sino a Nerone e Domiziano, i quali furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e stabilità.

È questa la seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l’associazione tra persecuzione, crisi dell’Impero, morte infamante dei persecutori, che si tradurrà di lì a poco nel tópos storico-letterario De mortibus persecutorum, e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per il superamento dell’originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è però il terzo fattore, ovvero la presentazione del Cristianesimo come “filosofia”, sulle orme di una tradizione che si era avviata Aristide e si prolunga nella seconda generazione degli apologisti cristiani.

Questa identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano, che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto d’importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura repressione anti-filosofica.

Omelia attribuita a Melitone di Sardi. Retro del P.Mich. 5552, con parti del Libro di Enoch. IV secolo d.C. dall’Egitto. University of Michigan, Ann Arbor Library.

In questo modo Melitone, pur riconoscendo l’origine non romana e “barbarica” del Cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un imperatore “filosofo” quale Marco Aurelio diceva – o millantava – di essere.

In termini meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla condizione di sottomissione dell’ecumene all’impero romano emerge anche da una cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l’encomio di Roma di Elio Aristide, afferma che «il mondo è in pace grazie ai Romani, così che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo» e – implicitamente – proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall’Asia a Roma, alle Gallie.

Più rilevante e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell’originaria idea ellenistica della traslatio imperii.

Non ci è purtroppo giunto il trattato di Melitone sull’Apocalisse di Giovanni e il diavolo, che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo, anzi con ogni probabilità il testo, che era alla base delle frenesie escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione apostolica.

In Ireneo è evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l’elaborazione di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l’accenno alla provenienza dell’Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito sviluppò in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso oriente – e non verso Roma – lo sguardo di chi attende con la persecuzione finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.

Le posizioni di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell’inizio del III secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al Libro di Daniele, con un approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.

La riflessione di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano, laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui vengono cooptati «i più nobili da tutte le nazioni» in vista dell’approntamento dell’esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le altre popolazioni l’impero romano risulta del tutto in linea con i tre precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di associare a sé i migliori tra i non-romani.

Bassorilievo da un sarcofago romano paleocristiano. Frammento con raffigurazione di Daniele nella fossa dei leoni. Calcare, IV secolo d.C. Museo Arqueológico y Etnológico de Córdoba.

Il massiccio ricorso ad una siffatta forma di reclutamento – ancora una volta – si era avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato l’attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo.

In quanto espressione della medesima libido dominandi, l’Impero romano non risulta né migliore né peggiore di quelli che l’hanno preceduto, solo più militarmente più potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l’inevitabile dissoluzione di esso, l’ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio del regnum Dei, l’impero dell’Anticristo, ne riassumerà le specifiche fattezze, a partire dall’esaltazione della propria forza militare. Così, partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico l’ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.

Soprattutto, Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la conseguente frantumazione dell’impero romano in una poliarchia, l’apparizione finale dell’Anticristo tra gli Ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.

Le fila delle riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana, cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente filo-romana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo potrà accadere solo dopo la svolta “universalistica” della Constitutio Antoniniana e l’atteggiamento filo-cristiano di Alessandro Severo.

In Ippolito, invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se non estraneo, rispetto all’Impero, considerato un dato storico di fatto dalla prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo, la cui strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l’originale ri-declinazione dell’opposizione tra monarchia e democrazia nei termini dell’opposizione tra un solo potere romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell’acquisizione e nel mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza) e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione all’éschaton).

Arco di Alessandro Severo
a Thugga/Dougga (od. Téboursouk, Tunisia).

In quegli stessi anni, nell’Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni provenienti dall’oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la costruzione di un’escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall’Apologeticum, infatti, Tertulliano lega l’ormai tradizionale tema della preghiera pro imperatoribus, apertamente ricondotto all’insegnamento della prima lettera di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall’impero romano nell’allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente, ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.

Sono tre gli aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano. Anzitutto, l’abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica della translatio imperii, che vedeva nel potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con il commeatus Romani imperii, pregano per il suo differimento e con ciò stesso contribuiscono alla diuturnitas Romana.

Sarcofago dei due fratelli con scene bibliche. Particolare – Marmo, 325-30 d.C. ca., dal cimitero di Lucina. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.

In secondo luogo, l’oggetto delle preghiere e dell’interesse teologico-politico di Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status Romanus; sempre più, nelle opere successive, esso viene ad assumere un ruolo di «trattenimento» della fine modellato a contrario sulla funzione assegnata nella seconda Lettera ai Tessalonicesi alla misteriosa figura del katéchon, che fino ad allora aveva avuto un significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousía di Cristo.

Indubbiamente, persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di ambiguità, dato che, in ogni caso, l’aeternitas di Roma non trascende la dimensione del saeculum presente; ma viene meno – ed è la terza novità introdotta da Tertulliano – quell’estraneità radicale affermata ad esempio negli Acta martyrum Scillitanorum, sostituita da un atteggiamento di piena condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi, quanto soprattutto negativi: «Quando l’Impero è scosso (concutitur), sono scossi anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche modo ne siamo coinvolti». Questa prima inserzione dei cristiani nell’orizzonte politico dell’Impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre più marcata romanizzazione dell’escatologia occidentale.

Così, il vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati, a suo dire, dall’Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva però una valenza de-escatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso procedimento esegetico, all’identificazione del persecutore dei tempi finali con il Nero redivivus proveniente dall’oriente.

La minacciosa rappresentazione di un re devastatore ex Oriente affonda le radici addirittura nell’epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane – o almeno così ci dice Giustino.

Nel quadro della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica di Vittorino assegna all’Impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il persecutore per antonomasia, ma proprio dall’Impero nella sua forma attuale partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l’intera vicenda cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la cronologia apocalittica alle vicende dell’Impero susseguenti all’invasione persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell’Anticristo per meglio riuscire nel proprio intento.

Scrivendo proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e ultimo libro delle Divinae institutiones, Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità cristiana all’Impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo significativa. Proveniente dall’Africa cristiana, la sua piena adesione al cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l’aveva chiamato Diocleziano e dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il Cristianesimo d’impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono l’epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:

«Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di anni passati dall’inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme complessive risultino un po’ diverse, non sembra che l’attesa sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di Roma è sana e salva.

Quando invero quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà».

Sarcofago «di Giona». Particolare – Giona e la balena. Marmo, 280-300 d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.

Difficile dire se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della svolta di Costantino all’indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientis dell’Impero e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.

È però lo stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo la vittoria su Massenzio: «Considerava l’intero assetto del mondo come un grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (…); dichiarò quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città regale così vessata».

Una simile immagine organica per caratterizzare la res publica non costituisce di per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire della retorica anti-tirannica qui utilizzata. Tuttavia, Eusebio colloca proprio a ridosso di questa decisione l’avvicinamento di Costantino al Cristianesimo che culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo, che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e vescovi.

Accenni indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la «conversione» di Costantino e il suo incontro con un Cristianesimo più disponibile a una possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).

Certo è però che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione, provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest’ultima città, per chiudere il conflitto «anche se tardi» e ristabilire la necessaria concordia. Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell’incontro precedente.

Quantomeno il gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con l’analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum Solis poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi officianti, tra imperatore e vescovi nell’esercizio dell’autorità. Sulla scia delle cosiddette lettere pastorali, l’immagine del governo di questi ultimi sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.

Ma nella Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del III secolo, la funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli, l’autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea costruirà l’ideologia dell’imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in oriente, l’immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del IV secolo.

Bisognerà attendere Agostino e la sua De civitate Dei perché si sciolga, almeno in Occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il Cristianesimo e Roma, mentre l’Impero secolare di quest’ultima viene derubricato a semplice tappa, forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.