M. Tullio Cicerone

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 234-265.

Un pilastro della storia politica e culturale di Roma

Cicerone fu uno dei massimi protagonisti delle vicende politiche e culturali della Roma del I secolo a.C. La sua instancabile attività di oratore, studioso e politico, a cui corrisponde una sterminata produzione letteraria, ha avuto ben pochi eguali nella storia romana e costituisce lo specchio di quelle profonde trasformazioni che cambiarono il volto della res publica nel suo ultimo secolo di vita. La sua attiva partecipazione a tutte le più importanti vicende pubbliche dell’epoca e i suoi vastissimi interessi culturali, fanno di Cicerone il simbolo stesso di tutti gli ideali e i principi su cui si fondava la tradizione etico-politica dell’uomo romano.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Roma, Musei Capitolini.

 

La vita: una carriera lunga e impegnata

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpinum, da agiata famiglia equestre. Compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso (cos. 95), di Quinto Mucio Scevola l’Augure (cos. 117) e di Quinto Mucio Scevola il Pontefice (cos. 95). Con Tito Pomponio Attico strinse un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Nell’89 prestò servizio militare durante la Guerra sociale agli ordini di Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. Nel’81, o forse prima, debuttò come avvocato; nell’80 difese a causa di Sesto Roscio Amerino, il che lo mise in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra il 79 e il 77 compì un viaggio in Grecia e in Asia, dove approfondì le sue conoscenze di filosofia e (sotto la guida del celebre Apollonio Molone di Rodi) studiò retorica.

Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale gli nacquero Tullia (nel 76) e Marco (nel 65). Nel 75 fu questore in Sicilia e cinque anni dopo sostenne trionfalmente l’accusa dei Siciliani contro l’ex governatore Verre, conquistandosi la fama di principe del foro. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore; diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo un imperium extra ordinem per la lotta contro Mitridate VI, re del Ponto. Nel 63 Cicerone fu eletto console e represse la congiura di Catilina. Guardò alla formazione del primo triumvirato con preoccupazione, dal momento che si trattava di un’alleanza politica fra il potere militare di Pompeo, la ricchezza grandiosa di Crasso e la crescente popolarità di Cesare, proprio perché siglata come patto privato, gli appariva insidiosa per l’autorità del Senato; da allora il suo astro iniziò a declinare. Nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina; la sua casa fu rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi tornò trionfalmente l’anno successivo.

Fra il 56 e il 51 Cicerone tentò una difficile collaborazione con i triumviri, continuando a svolgere l’attività forense. Compose il De oratore, il De re publica e iniziò a lavorare al De legibus. Nel 51 fu governatore in Cilicia, pur accettando controvoglia di allontanarsi dall’Urbe. Allo scoppio della Guerra civile, nel 49, aderì con lentezza alla causa di Pompeo. Si recò in Epiro con altri senatori, ma non fu presente alla battaglia di Farsalo nel 48. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cicerone ottenne il perdono di Cesare.

Nel 46 scrisse il Brutus e l’Orator; divorziò da Terenzia e sposò la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale si sarebbe separato dopo pochi mesi. Nel 45 gli morì la figlia Tullia. Iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tenne lontano dagli affari pubblici. Nel 44, dopo l’uccisione del dictator, Cicerone tornò alla vita politica e intraprese, a partire dalla fine dell’estate, una strenua lotta contro Antonio (di cui sono testimonianza le celebri orazioni chiamate Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del Senato, si strinse in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone venne inserito nelle liste di proscrizione e l’Arpinate fu assassinato dai sicari di Antonio il 7 dicembre 43.

 

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo, copia di B. Thorvaldsen da originale romano. København, Thorvaldsens Museum.

 

Le opere: una molteplicità di interessi

Cicerone è di gran lunga l’autore classico latino di cui si possieda il maggior numero di opere. La sua vasta e molteplice produzione letteraria, infatti, spazia dalle orazioni pronunciate nel corso della sua lunga carriera forense e politica, alle opere trattatistiche nel campo della retorica, della politica e della filosofia, alle prove poetiche, fino a quello straordinario documento che è l’epistolario, che raccoglie centinaia di lettere sue e dei suoi corrispondenti, e, in effetti, costituisce l’unico epistolario “reale” (cioè formato da veri testi privati, non composti in vista di una pubblicazione) tramandato dall’antichità.

 

 

Un nuovo progetto politico e sociale

Per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale, Cicerone rappresenta un protagonista e un testimone d’eccezione della crisi che portò al tramonto della Repubblica. A quei mutamenti egli cercò di rispondere e porre rimedio elaborando un progetto etico-politico capace di tenere insieme tradizione e innovazione. La sua rimase tuttavia un’ottica di parte, solidale con il progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente quello dei ceti possidenti), disegno le cui possibilità di affermazione all’interno della società romana sarebbero state in gran parte legate all’uso abile e accorto delle tecniche di comunicazione più efficaci. In un contesto di questo tipo, Cicerone mise a frutto la sua sapiente e persuasiva eloquenza nelle orazioni e provvide a organizzarne i presupposti teorici nei trattati a carattere retorico; la sua ars dicendi si rivelò così una tecnica raffinatissima, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regia delle sue passioni. Si rifletteva, d’altronde, in questo una condizione di fondo della cultura romana, per la quale l’oratoria costituiva il modello fondamentale non solo di un’educazione elevata, ma anche, in notevole misura, dell’espressione letteraria stessa.

Al proprio progetto politico-sociale Cicerone ha cercato di dare concreta applicazione anche adattandolo, talora opportunisticamente, alla situazione contingente (come testimoniano diverse orazioni); ma, procedendo negli anni e nelle delusioni, egli ha sentito sempre più forte la necessità di riflettere, sulla scorta del pensiero ellenistico, sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è dunque lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica e politica, a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traducesse in ottuse chiusure, il cui rispetto per la tradizione capitolina (mos maiorum) non impedisse l’assorbimento della cultura greca. Cicerone, in altre parole, pensava a una classe dominante che fosse capace di assolvere ai suoi doveri verso la res publica senza divenire insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e di letteratura. Egli propose così uno stile di vita garbatamente raffinato che si riassumeva nel termine humanitas: quella coscienza culturale che era frutto dell’incivilimento, che era capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello, giusto e conveniente.

In questo senso, gran parte dell’opera ciceroniana può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservare i valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale di Cicerone, infatti, si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati aveva da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida morigeratezza delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma metteva ora in discussione la stessa sopravvivenza della res publica.

M. Tullio Cicerone. Statua, marmo, I sec. a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.

 

La parola come strumento di lotta politica: le orazioni

L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma: non è un caso, dunque, che le orazioni, al di là dei fatti specifici di cui trattano, lascino sempre intravedere sullo sfondo fatti e personaggi di primo piano, che segnarono la vita pubblica romana. Pertanto, nell’esaminarle, si procederà secondo una sequenza cronologica lineare che, scandendo la successione dei discorsi, segua anche la storia e le agitate fasi politiche dell’ultimo cinquantennio della Repubblica.

 

Gli esordi. | Dopo aver debuttato come avvocato nell’81 – o forse anche prima –, Cicerone, già nell’80, affrontò una causa molto difficile, probabilmente la prima importante della sua ancor giovane carriera: accettò il rischioso compito di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da potenti figure dell’entourage del dittatore Lucio Cornelio Silla, il crudele capo della fazione degli optimates allora padrone di Roma. Il padre di Sesto Roscio era stato assassinato su mandato di due suoi parenti in accordo con Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto del dittatore, che aveva fatto inserire poi il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio, le cospicue proprietà terriere. Gli assassini cercarono quindi di sbarazzarsi in un colpo solo anche del figlio, con una falsa accusa.

Prenderne le parti (poi l’imputato fu assolto), fu per Cicerone un delicatissimo banco di prova, poiché dovette ritorcere le accuse a personaggi molto potenti; e forse fu proprio la paura di mostrarsi ribelle al regime sillano a spingerlo a coprire il dittatore di lodi di maniera. Non va comunque dimenticato che Cicerone, per tutta la sua vita fautore dell’ordine, non era ostile a quel governo; eppure, come molti altri, anche di estrazione patrizia, avrebbe preferito porre un freno agli arbitri e alle proscrizioni che la fine della Guerra civile – quella che aveva portato Silla al potere – aveva trascinato con sé.

Forse per il timore di rappresaglie, dopo il successo della propria orazione, Cicerone si allontanò da Roma un paio di anni tra il 79 e il 77, viaggiando per la Grecia e l’Asia Minore. Una buona ragione per compiere il viaggio dovette essere in ogni caso anche quella di perfezionarsi nelle prestigiose scuole di retorica della zona: non a caso, infatti, alcuni tratti stilistici presenti nella pro Sexto Roscio Amerino in seguito sarebbero stati accuratamente evitati dal Cicerone purista degli anni più maturi; per quanto già raffinato, lo stile di questa orazione mostra infatti un rapporto ancora molto stretto con gli schemi dell’asianesimo allora di moda e si caratterizza dunque per un eccesso di metafore e per il ricorso a neologismi.

La quaestura in Sicilia. | Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone ricoprì la quaestura in Sicilia nel 75 a.C. Là si conquistò la fama di amministratore onesto e scrupoloso, tanto che pochi anni dopo, nel 70, i Siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da loro intentato contro l’ex propraetor Lucio Licinio Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Cicerone, rivelando grande energia, raccolse le prove in tempo brevissimo, anticipando così le fasi del processo, che altrimenti si sarebbe svolto in condizioni politicamente molto più favorevoli all’imputato: il difensore di Verre, infatti, Quinto Ortensio Ortalo, celeberrimo avvocato di scuola asiana, era uno dei candidati designati per il consolato del 69. Al dibattimento Cicerone non fece in tempo a esibire per intero l’imponente massa di prove e di testimonianze che aveva raccolto e organizzato, e poté pronunciare solo la prima delle due actiones in Verrem: dopo solo pochi giorni, infatti, Verre, schiacciato dalle accuse, fuggì dall’Italia e venne condannato in contumacia.

Cicerone pubblicò successivamente, in forma di orazione accusatoria, la cosiddetta Actio secunda in Verrem, divisa in cinque libri, che rappresenta, fra l’altro, un documento storico di primaria importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province. Quello di Verre costituiva certo un caso eclatante, ma l’avidità dello sfruttamento era comunque la regola: il governatorato di una ricca provincia era un’occasione di facili guadagni per gli aristocratici romani, che avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di liberalità (cioè di corruzione dei singoli e delle masse) necessarie a promuovere la loro carriera politica, e avevano inoltre bisogno di incrementare i propri consumi e usi privati per reggere il passo con i nuovi stili di vita che si erano imposti dall’età delle conquiste.

La vittoria su Ortensio, il difensore di Verre, fu, tra l’altro, anche una vittoria in campo letterario: di fronte alla naturalezza con la quale il giovane competitore padroneggiava tutte e sfumature della lingua, l’esasperato manierismo asiano di Ortensio dovette risultare alquanto stucchevole. Lo stile delle Verrine è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze, ma senza per questo accostarsi all’eloquenza secca e scarna degli atticisti. Il periodare è perlopiù armonioso, architettonicamente complesso; ma la sintassi è estremamente duttile, e Cicerone non rifugge, quando è il caso, da un fraseggio conciso e martellante.

La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. E anche qui Cicerone si rivela maestro nell’arte del ritratto: sono straordinari quelli di alcuni personaggi più o meno squallidi dell’entourage dell’ex governatore, ma soprattutto quello dello stesso Verre, raffigurato come un tiranno avido di averi e del sangue dei suoi sudditi, e contemporaneamente come un dissoluto pigramente disteso sulla propria lettiga, sempre intento ad annusare una reticella di rose.

Cn. Pompeo Magno. Solis-Pompeiopolis, 66-50 a.C. ca. Dracma, AE 7, 16 gr. Recto: testa nuda di Pompeo, voltata a destra.

L’ingresso in Senato. | Dopo la questura, Cicerone entrò in Senato. Nel 66 a.C., infatti, l’anno della sua praetura, con l’orazione dal titolo Pro lege Manilia, nota anche come De imperio Gnaei Pompei, parlò in favore del progetto di legge presentato dal tribuno Gaio Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: un provvedimento reso necessario dall’urgenza di eliminare in modo efficace e definitivo la minaccia costituita da Mitridate, re del Ponto, le cui ambizioni egemoniche da tempo disturbavano gli interessi economici del popolo romano nei territori orientali. Cicerone, parlando di fronte alla civitas riunita in favore della proposta di legge, insistette soprattutto sull’importanza dei vectigalia che affluivano dalle province orientali: la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale beneficio se il monarca pontico avesse continuato indisturbato nella sua azione.

Nella Pro lege Manilia, in seguito “ripudiata” dallo stesso autore, si è voluto vedere il punto di massimo avvicinamento dell’Arpinate alla politica dei populares, indirizzata a gratificare e a corrompere le masse cittadine con elargizioni e, contemporaneamente, a prevaricare l’autorità del Senato, favorendo l’emersione di spregiudicate personalità. In realtà, a essere minacciati, in Asia Minore, erano soprattutto gli interessi di equites e publicani, il ceto imprenditoriale e finanziario cui Cicerone era legato. Erano loro ad avere spesso in appalto la riscossione delle imposte nelle province, e proprio in Asia i cavalieri avevano avviato molte lucrose attività commerciali, che da poco più di vent’anni l’espansionismo di Mitridate minacciava di mandare in rovina.

D’altronde, Cicerone e Pompeo avevano entrambi bisogno dell’appoggio del ceto equestre per conquistare alte posizioni nello Stato, ma, a differenza del condottiero, l’Arpinate non era disposto a fare elargizioni demagogiche che i populares gli chiedevano di appoggiare. In particolare, egli era contrario a qualsiasi programma di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dai debiti. Infatti, Cicerone cominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la res publica nell’accordo fra i ceti più abbienti, i senatori e gli equites: ed era appunto questa concordia ordinum a diventare il fondamento del progetto politico ciceroniano.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

 

Il consolato. | Fu proprio contando sulla natura politicamente moderata di Cicerone che una parte della nobilitas decise di coalizzarsi con il ceto equestre, e di appoggiare nella candidatura al consolato il brillante homo novus arpinate (63 a.C.).

Le più celebri fra le orazioni “consolari” di Cicerone sono le quattro In Catilinam, con le quali egli svelò le trame sovversive del Lucio Sergio Catilina, patrizio decaduto di parte sillana, che, dopo essere stato sconfitto nella competizione elettorale per la massima carica, aveva ordito una congiura per raggiungere il potere. E Cicerone, assumendosi la responsabilità delle indagini, riuscì a soffocare il tentativo eversivo, costringendo Catilina a fuggire da Roma e giustificando la propria decisione di giustiziarne i collaboratori senza processo regolare. Quella concordia ordinum che aveva portato Cicerone al consolato, comunque, segnò così una prima importante affermazione attraverso il successo politico del suo teorizzatore.

Sul piano artistico, spicca la prima Catilinaria, in cui Cicerone attaccò l’avversario di fronte al Senato riunito. I toni sono veementi, minacciosi e ricchi di pathos; il console fece anche ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai adottato: l’introduzione di una prosopopea («personificazione») della Patria, che si immagina rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Né si può inoltre dimenticare, nella seconda Catilinaria, il ritratto del sovversivo e dei suoi seguaci corrotti dal lusso e dai vizi.

Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda Catilinaria, cioè quando l’esito dello scontro era ancora incerto, Cicerone si trovò a dover difendere da un’accusa di broglio elettorale Lucio Licinio Murena, console designato per l’anno successivo. L’accusa era stata intentata dal candidato risultato sconfitto, Servio Sulpicio Rufo, e sorretta dal prestigio di cui godeva Marco Porcio Catone (il futuro Uticense), discendente di Catone il Censore. Proprio Catone il Giovane, nel suo rigorismo morale fondato sui principi della scuola stoica, aveva assunto una posizione particolarmente intransigente nelle questioni che riguardavano il rapporto fra res publica e interessi economici privati; ciò lo portava a trovarsi spesso in conflitto con i publicani (coloro i quali, appunto, avevano rapporti d’affari con lo Stato romano) e con l’ordine equestre, nonché a scontrarsi con il progetto politico ciceroniano ispirato all’ideale della concordia ordinum.

Nella Pro Murena Cicerone sceglie la via dell’ironia e dello scherzo, trovando sapientemente i toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. Ma l’interesse dell’orazione risiede soprattutto nella nuova morale che l’autore inizia a elaborare e proporre alla società romana. Prendendo posizione nei confronti dell’arcaico moralismo catoniano, Cicerone incomincia infatti a tratteggiare le linee di un nuovo modello etico la cui definizione lo avrebbe occupato per il resto della vita: si tratta di una dimensione in cui il rispetto per il mos maiorum è contemperato da quell’addolcimento dei costumi, da quell’apertura alle gioie della vita, che ormai concedevano le nuove abitudini della società romana.

IL SENATORE ROMANO | romanoimpero.com

Il primo triumvirato e lo scontro con Clodio. | Con il tempo, la posizione di Cicerone a Roma tese a indebolirsi molto: la formazione del cosiddetto primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso segnò infatti un rapido declino delle fortune politiche dell’Arpinate. Un tribuno di parte popolare, Publio Clodio Pulcro, che nutriva verso di lui anche rancori di origine personale, nel 58 a.C. presentò una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio qualsiasi magistrato avesse fatto mettere a morte cittadini romani senza provocatio ad populum. La legge mirava evidentemente a colpire proprio l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Allora, tra l’altro, non più sostenuto dalla nobilitas che, compulsato il pericolo di Catilina, poteva fare a meno di lui e abbandonato persino da Pompeo, che doveva tener conto delle esigenze dei triumviri suoi alleati, Cicerone dovette soccombere all’attacco portatogli da Clodio e prendere la via dell’esilio, trascorrendolo soprattutto fra Tessalonica e Durazzo.

Richiamato dall’esilio solo l’anno dopo, Cicerone trovò l’Urbe in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (quest’ultimo era il difensore della causa degli optimates e amico personale dell’Arpinate). Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovandosi a difendere Sestio, un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza (Pro Sestio), espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia ordinum: infatti, come semplice intesa fra classe equestre e aristocrazia senatoria, il progetto si era rivelato fallimentare; così Cicerone ne dilatò il concetto in concordia omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine pubblico (politico e sociale), pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. I boni – una categoria che attraversava verticalmente tutti gli strati sociali, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare – sarebbero stati, da allora in poi, il principale destinatario della predicazione etico-politica dell’Arpinate.

I nemici dell’ordine, d’altra parte, erano identificati in coloro che soprattutto l’indigenza o l’indebitamento spingeva a desiderare rovesciamenti sovversivi. Dovere dei boni, dunque, sarebbe stato quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo a tutti gli uomini politici che rappresentassero la loro causa. L’esigenza, largamente avvertita a Roma, di un governo più autorevole spinse tuttavia Cicerone a desiderare che il Senato e i boni, per superare le loro discordie, si affidassero alla guida di personaggi eminenti, di grande prestigio: una teoria che sarebbe stata ripresa e approfondita, poi, nel De re publica.

In quest’ottica si spiega, probabilmente, l’avvicinamento che Cicerone compì in quegli anni verso il triumvirato e che non va inteso assolutamente come un tradimento della nobilitas. L’intenzione doveva essere quella di condizionare l’operato dei triumviri per evitare che il loro potere prevaricasse quello del Senato e far sì che si mantenesse nei limiti delle istituzioni della res publica. Questo periodo, tuttavia, fu per l’Arpinate piuttosto denso di incertezze e di oscillazioni politiche: da un lato, continuò ad attaccare il facinoroso Clodio e i populares (per esempio, nella In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno dei responsabili del suo esilio); dall’altro, diede il proprio assenso alla politica dei triumviri: nel 56, infatti, parlò in favore del rinnovo dell’imperium di Cesare in Gallia (De provinciis consularibus) e difese in tribunale vari personaggi legati al triumviro (Pro Balbo, nel 56; Pro Rabirio Postumo, nel 54; ecc.).

A ogni modo, fra le orazioni “anticlodiane” un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (56 a.C.), un giovane brillante, amico dell’Arpinate. Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno Clodio (la Lesbia di Catullo!), una delle dame eleganti e corrotte di cui abbondava la Roma patrizia del tempo. Contro Celio era stata accumulata una congerie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti della donna. Fu un processo in cui i rancori personali di tutte le parti in causa si intrecciarono strettamente con questioni politiche di rilevanza molto più generale. Attaccando Clodia, in cui indicò l’unica regista di tutte le manovre contro Celio, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello di lei: la donna è dipinta come una volgare meretrice ed è accusata perfino di rapporti incestuosi con Clodio. L’orazione, per la pittoresca varietà dei toni – che spaziano da quello disincantato dell’uomo di mondo al pathos funereo – è fra le più riuscite di Cicerone.

Non solo la felice vena satirica avvicina la Pro Caelio alla Pro Murena, ma anche il maturare della proposta di nuovi modelli etici: rievocando le tappe della vita del giovane difeso, Cicerone ha modo di tratteggiare uno spaccato della società del proprio tempo, e si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù aveva assunto da tempo e che avrebbero potuto destare scandalo soltanto agli occhi dei più arcigni moralisti, troppo attaccati al passato. Le virtù che un tempo avevano reso grande la res publica Romana non si trovavano più nemmeno nei libri. Era ormai tempo di allentare le briglie ai giovani, purché essi non perdessero di vista alcuni principi fondamentali; sarebbe arrivato il momento in cui, sbolliti gli ardori e divenuti adulti, avrebbero saputo tornare sulla nobile via del mos maiorum. Se il divario tra il rigore “arcaizzante” e le nuove opportunità offerte da una Roma in piena trasformazione si fosse troppo approfondito, si avrebbe corso il rischio di una dissoluzione di tutto il connettivo ideologico della società: i giovani sarebbero andati incontro a un totale rovesciamento dei valori, che avrebbe finito con il sostituire la ricerca dei piaceri al servizio verso la comunità. Il modello culturale che Cicerone proponeva, dunque, mirava a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala valoriale che continuasse a essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccessivo rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo in trasformazione.

Francesco Giudici il Francabigio e Alessandro Allori, Il ritorno di Cicerone dall’esilio. Affresco, 1520. Poggio a Caiano, Villa Medici.

 

Gli ultimi anni. | Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo, finché nel 52 Clodio rimase ucciso. Cicerone assunse così la difesa di Milone, il principale indiziato dell’omicidio; l’orazione (Pro Milone) scritta per l’occasione è considerata è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sull’esaltazione del tirannicidio. Ma il testo, nella forma in cui si è conservato, rappresenta una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi al processo. Di fronte ai giudici, Cicerone riportò un clamoroso insuccesso (e Milone fu costretto a fuggire in esilio): gli cedettero i nervi, a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava l’Urbe, razziata dai partigiani di Clodio, con le truppe di Pompeo che cercavano di riportare l’ordine con la forza.

Nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo: era consapevole infatti che, qualunque fosse stato l’esito, il Senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante del vincitore. Dopo la vittoria di Cesare, Cicerone ne ottenne il perdono e, nella speranza di contribuire a renderne il regime meno autoritario, ricercò, in un primo momento, forme di collaborazione e accettò di perorare di fronte al dictator le cause di alcuni pompeiani “pentiti” (le cosiddette orazioni “cesariane”).

Dopo l’assassino di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone tornò a essere un uomo politico di primo piano, ma i pericoli per la res publica non erano certo finiti: il più stretto collaboratore del dittatore, Marco Antonio, mirava infatti ad assumerne il ruolo, mentre sulla scena politica romana si affacciava anche il giovane Gaio Ottaviano, l’erede designato da Cesare, con un intero esercito di fedelissimi ai propri ordini. La manovra politica di Cicerone tendeva a tenere divisi Ottaviano e Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del Senato.

Per indurre l’autorevole consesso a muovere guerra ad Antonio, dichiarandolo nemico pubblico, l’Arpinate pronunciò contro di lui, a partire dall’estate del 44 a.C., le orazioni Filippiche, in numero forse di diciotto (ma ne restano solo quattordici). Il titolo, che allude alle celeberrime requisitorie di Demostene di Atene contro re Filippo di Macedonia, è abbastanza controverso: alcuni scrittori antichi le hanno chiamate Antonianae, mentre il nome Philippicae venne effettivamente usato dal loro autore nella sua corrispondenza privata, in senso ironico.

Per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia, si distingue soprattutto la seconda Filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata, ma solo fatta circolare privatamente nella redazione scritta: un discorso che ispira odio, in cui Antonio, con una violenza satirica pari soltanto a quella verso certi personaggi della In Pisonem, viene presentato come un tiranno dissoluto, un ladro di fondi pubblici, un ubriacone «che vomita per il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino».

La manovra politica dell’Arpinate era comunque destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, il giovane Ottaviano, sottraendosi alla tutela dell’anziano consolare e del Senato, strinse un accordo con Antonio e un altro cesariano, Marco Emilio Lepido, e formò quello che viene definito secondo triumvirato. I tre divennero così i nuovi padroni assoluti di Roma e del suo dominio e Antonio pretese e ottenne la morte di Cicerone (il suo nome fu iscritto nelle liste di proscrizione). Ai primi di dicembre del 43 a.C., dunque, dopo aver interrotto un tentativo di fuga, Cicerone fu raggiunto dai sicari del triumviro presso Formia: come monito la sua testa mozzata fu appesa ai rostra nel Foro romano.

Léon Comeleran, L’assasinio di Cicerone. Cromografia, 1881.

 

Il bilancio di una straordinaria esperienza intellettuale e politica

Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente, che si è cercato di ripercorrere attraverso la sua attività oratoria. L’homo novus si accostò alla nobilitas nel contesto di un generale riavvicinamento fra Senato ed equites, e pure in seguito rimase fedele all’ideale della concordia e alla causa del Senato. Il tentativo di collaborazione con i triumviri del 60 fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole e, anche in questo caso, Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative del consesso. In questa stessa prospettiva bisogna inquadrare persino il momentaneo riavvicinamento a Cesare, dopo la guerra civile, dettato dal desiderio di mitigarne le tendenze autocratiche e di mantenerne il potere nel solco delle tradizioni avite.

Il progetto della concordia dei ceti abbienti (prima concordia ordinum, poi concordia omnium bonorum) significò, in ogni caso, un tentativo almeno embrionale di superare, in nome dell’interesse comune – o di quella che Cicerone riteneva la parte “sana” della civitas –, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la scena politica romana. Il fallimento del suo progetto ebbe molteplici motivi: da un lato, a Cicerone mancarono le condizioni per crearsi un seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; dall’altro, egli – e non fu il solo fra i suoi contemporanei – sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi. E forse si fece anche fin troppe illusioni sui presunti boni: a tempo della guerra civile, infatti, i ceti possidenti ritennero, in larga parte, che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica popolare di Cesare (come dimostra, del resto, il fatto stesso che, successivamente alla morte dell’Arpinate, costoro non fecero mancare il proprio consenso al regime di Ottaviano, che segnò definitivamente la trasformazione delle istituzioni repubblicane).

Ragazzo togato. Statua, marmo, I sec. d.C. Museo Archeologico di Milano.

 

La parola e chi la usa: le opere retoriche

Cicerone scrisse quasi tutte le sue opere retoriche a partire dal 55 a.C. (un paio d’anni dopo il ritorno dall’esilio), spinto dal bisogno di dare una sistemazione teorica a una serie di conoscenze ed esperienze e soprattutto una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei suoi tempi. In quest’ottica va inquadrata la sua ampia riflessione sull’importanza e sul taglio della formazione dell’oratore, il cui potere di trascinare e convincere l’uditorio implicava un’enorme responsabilità sociale. Si trattava, comunque, di un problema dibattuto da tempo anche nel mondo greco, dove già si era aperta la discussione sulla questione della formazione necessaria all’oratore, se questi dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece indispensabile una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia.

Lo stesso Cicerone, del resto, aveva iniziato in gioventù, ma senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione, per il quale aveva largamente attinto alla quasi contemporanea Rhetorica ad Herennium. Un interesse particolare lo presenta il proemio, in cui il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi tra eloquentia e sapientia (cultura filosofica), quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore: l’eloquentia priva di sapientia (cosa tipica dei demagoghi e degli agitatori delle masse) ha portato più di una volta gli imperi alla rovina. Su questa soluzione, pensata esplicitamente per la società romana, Cicerone sarebbe tornato molti anni dopo, discutendo tematiche analoghe nel De oratore.

Cicerone pronuncia la sua invettiva contro M. Antonio davanti al Senato. Illustrazione di P. Dennis.

Responsabilità e formazione dell’oratore. | Il De oratore fu composto nel 55 a.C., durante un ritiro dalla scena politica, mentre Roma era in balia delle bande di Clodio e di Milone. L’opera, che è ambientata nel 91, al tempo dell’adolescenza dell’autore, è scritta nella forma di un dialogo a cui prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio (143-87 a.C.), nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (quest’ultimo, sostanzialmente, il portavoce dello stesso Cicerone autore).

Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più naïve e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel libro II si passa alla trattazione di questioni più analitiche. Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’actio (quasi «recitazione») dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica.

Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, l’Arpinate si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace della Repubblica. A scelta dell’anno 91 a.C. per l’ambientazione del dialogo, lungi dall’essere casuale, ha infatti un significato preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso (pochi giorni dopo quelli in cui si immagina avvenuto il dialogo) e precede di poco la Guerra sociale e la lunga lotta civile fra Mario e Silla, nel corso dei quali rimasero crudelmente uccisi gli altri interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi della res publica è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per conversare: la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza dell’imminente e terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri.

Il modello formale a cui il De oratore si ispira è quello de dialogo platonico: con gesto “aristocratico”, alle strade e alle piazze di Atene viene sostituito il giardino della villa di un nobile romano. La ripresa di questo modello per un’opera retorica, comunque, costituisce un notevole scarto rispetto agli aridi manuali greci del tempo e a quelli usciti dalla scuola dei cosiddetti “retori latini”, che si limitavano a enunciare regole: Cicerone ha saputo creare un’opera viva e interessante che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense (dalla vita romana e dal foro sono tratti quasi tutti gli esempi che servono a illustrare le teorie greche).

Quanto ai temi trattati, la tesi principale dell’opera consiste nell’affermare che il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore: è indispensabile una vasta formazione culturale. È la posizione di Crasso, il quale lega strettamente la preparazione soprattutto filosofica dell’oratore (nell’ambito della quale venga privilegiata la morale) alla sua affidabilità etico-politica. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere pro e contro su qualsiasi argomento, riuscendo a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un pericolo grave, qualora non siano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori tradizionali, in cui la gente “perbene” si riconosce. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati.

La formazione dell’oratore, dunque, viene in tal modo a coincidere con quella dell’uomo politico, un uomo di cultura non specialistica (gli uomini del ceto dirigente non dovevano esercitare alcuna professione: per queste c’erano i liberi di condizione inferiore), ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l’arte del dire e di persuadere i propri ascoltatori. Egli dovrà servirsi della sua abilità non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni: nel De oratore Cicerone ha esposto, in realtà, lo statuto ambiguo di un’ars continuamente oscillante fra la sapientia etico-politica e la nuda tecnica del dominio.

Nel 46 a.C. l’Arpinate (che, intanto, nel 54 aveva composto per suo figlio una sorta di manualetto scolastico, le Partitiones oratoriae, concepito in forma di domande e risposte) riprese le tematiche del De oratore in un trattatello più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare, delectare, flectere. A questi, a loro volta, corrispondono tre registri stilistici che l’oratore deve saper alternare: umile, medio ed elevato (o “patetico”) – quest’ultimo è particolarmente opportuno nella parte finale di ogni discorso (peroratio).

Abel de Pujol, Cicerone difende Q. Ligario davanti a Cesare o La clemenza di Cesare. Olio su tela, 1808.

Lo stile dell’oratore e le polemiche tra atticismo e asianesimo. | La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza atticista, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso sufficientemente le distanze dall’asianesimo. Tali accuse si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, al frequente ricorso alle figure retoriche, all’accentuazione dell’elemento ritmico, all’abuso di facezie. Gli avversari dell’Arpinate privilegiavano invece uno stile semplice, asciutto e scarno, di cui individuavano i modelli negli oratori attici e principalmente in Lisia. Sul contrasto Cicerone prese posizione proprio nel 46 a.C. nel dialogo Brutus, dedicato, come l’Orator, a Marco Giunio Bruto, uno dei più insigni rappresentanti delle tendenze atticiste.

Nell’opera l’autore, assumendo il ruolo di principale interlocutore – gli altri due sono lo stesso Bruto e l’amico Attico –, tratteggia una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico del testo, si comprende come la storia della retorica culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone (dal ripudio dell’asianesimo giovanile al raggiungimento della piena maturità dopo la quaestura in Sicilia).

L’ottica in cui l’Arpinate guarda al passato è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano tenacemente attaccati. E questa rottura rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria dell’autore: le varie esigenze, le diverse situazioni richiedevano l’uso di alternare registri differenti; il successo dell’oratore davanti all’uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la sua riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico dei loro discorsi, che di rado riescono efficaci: essi ignorano l’arte di trascinare l’ascoltatore. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello principe in Demostene: anche lui un “attico”, ma di tendenze ben diverse da quelle di Lisia o di Iperide.

Magistrato intento al census (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

 

Per un’organizzazione della res publica: le opere politiche

Il turbolento periodo di aspre lotte che visse la Repubblica romana nei suoi ultimi decenni di vita trovò in Cicerone un protagonista di primo piano, impegnato nella difesa e nel puntellamento delle fondamenta dello Stato. Nell’ambito di questo sforzo, teso, se non a fermare, quantomeno a governare le profonde trasformazioni che premevano sulla società del tempo, si colloca la riflessione teorica che l’Arpinate riversò nelle sue opere di carattere più strettamente politico, il De re publica e il De legibus.

 

La forma di Stato migliore. | Nel De re publica Cicerone riprende sia nella forma sia nei temi l’omonimo dialogo di Platone, certamente fra le opere più significative e complesse del filosofo ateniese: scritto secondo una struttura dialogica, il trattato si compone di dieci libri in cui si esamina a fondo il tema politico della forma e del funzionamento dello Stato ideale, anche se gli argomenti discussi sono molteplici e di varia natura. Il dialogo è ambientato nella casa del padre di Lisia, dove vari interlocutori discutono con Socrate sulle diverse questioni. Cicerone, dal canto suo, lavorò lungamente al proprio De re publica, fra il 54 e il 51 a.C. In quest’opera egli riflette sulla forma di Stato più adatta e, a differenza di quanto aveva fatto il suo modello (che aveva cercato di costruire a tavolino uno Stato ideale), si proietta nel passato, per identificare la migliore costituzione con quella del tempo degli Scipiones.

La struttura del dialogo, che si immagina svolto nel 129 a.C. nella villa suburbana di Scipione Emiliano, è purtroppo di incerta e ipotetica ricostruzione, soprattutto in alcune sezioni, a causa delle condizioni estremamente frammentarie in cui l’opera è stata conservata: una parte cospicua fu ritrovata, agli inizi del XIX secolo, dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano; alcuni brani di altre sezioni sono stati trasmessi attraverso le citazioni di autori tardo-antichi come Agostino, mentre la sezione finale dell’opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, è giunta indipendentemente dal resto.

La teoria del regime “misto” esposta da Scipione nel I libro risaliva, attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico il Romano guarda con evidente antipatia, considerandolo soprattutto come una “valvola di sicurezza” per far scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. L’elogio del regime misto si risolve, pertanto, in un’esaltazione della res publica aristocratica di età scipionica.

Date le condizioni lacunose in cui è giunta la parte relativa dell’opera, è difficile precisare in che modo fosse delineata la figura del princeps e come essa si collocasse nell’organismo statale. Alcuni punti, tuttavia, possono ritenersi assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; in altre parole, Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del Senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quella che quasi un secolo prima aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Ciò significa che l’Arpinate non prefigura esiti “augustei” – anche se interpretazioni in questo senso non sono mancate –, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della costituzione repubblicana: non pensa a una riforma istituzionale, ma alla coagulazione del consenso collettivo intorno a leader prestigiosi. L’autorità del princeps non è alternativa a quella del Senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica.

Perché la sua autorità non travalichi i limiti istituzionali, dunque, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche” e principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso di disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai governanti (sulla questione Cicerone sarebbe poi ritornato nel De officiis, trattando della magnitudo animi). L’Arpinate, dunque, disegna così l’immagine di un governante-asceta, rappresentante in terra della divinità, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo Stato dalla propria despicentia («disprezzo») verso le passioni umane. L’ideale ciceroniano tuttavia era inevitabilmente di difficile realizzazione: come si è già avuto modo di ricordare, probabilmente proprio la convinzione dell’urgenza di un governo più autorevole e, d’altra parte, la consapevolezza dei pericoli che avrebbe comportato l’accentramento della potestas nelle mani di pochi capi spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo Magno e ai triumviri, nella speranza di convogliarne l’operato sotto il controllo del Senato. Ma gli eventi, che innalzavano i vari “signori della guerra”, avrebbero rapidamente portato alla dissoluzione dell’assetto repubblicano.

Scena di attività pubblica, con sacrificio e census. Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre

 

Le leggi dello Stato. | Ispirandosi ancora all’esempio platonico, Cicerone completò il discorso iniziato nel De re publica con il De legibus, un’opera sempre in forma dialogica (iniziata nel 52 e probabilmente pubblicata postuma) in cui si discute dei fondamenti del diritto e delle leggi, con riferimento alla tradizione giuridica quiritaria. Proprio in questo, ovvero nel basare la discussione sulla considerazione di un concreto corpus legislativo, risiede la differenza principale rispetto a Platone, che si era invece occupato di una legislazione utopistica, concentrando la propria riflessione sul problema dell’educazione dei cittadini e sull’organizzazione delle istituzioni.

Dell’opera ciceroniana si sono conservati i primi tre libri interi e alcuni frammenti del IV e del V. Mentre nel De re publica il dialogo si svolgeva in un’epoca passata, nel De legibus l’azione è collocata nel presente e interlocutori sono lo stesso Cicerone, suo fratello Quinto e l’amico Attico. L’incontro è ambientato nella villa di Arpinum, nei boschi e nelle campagne del circondario, raffigurati secondo una modulazione del motivo topico del locus amoenus (il modello qui è il Fedro di Platone). I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: così Quinto è rappresentato come un optimas estremista, Cicerone come un conservatore moderato e Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie scelte filosofiche.

Nel I libro Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini e, perciò, è data dalla divinità. Nel libro successivo l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore dei regimi si fonda – qui sta la differenza principale da Platone – non su una legislazione utopistica, ma sul mos maiorum, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel III libro Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.

M. Giunio Bruto. Denario, Ar. 54 a.C. Roma. Verso: Brutus. Un magistrato scortato da due littori e preceduto da un accensus.

 

Dolori privati e difficoltà politiche: le opere filosofiche

Cicerone, che in gioventù aveva seguito le lezioni di vari maestri, coltivò l’interesse per la filosofia per tutta la vita, ma a scriverne cominciò assai tardi – probabilmente soltanto verso il 46 a.C. –, con l’operetta Paradoxa Stoicorum, dedicata a Marco Bruto (un’esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’opinione comune). Dall’anno successivo i lavori filosofici dell’autore si fecero notevolmente più fitti e ciò in coincidenza con eventi molto dolorosi, che lo colpirono sia nella sfera privata sia in quella pubblica: nel febbraio del 45, infatti, gli venne a mancare la figlia Tullia (fatto che lo spinse a scrivere una perduta Consolatio per attenuare l’acutissimo dolore), mentre la dictatura di Cesare lo aveva ormai privato di qualsiasi possibilità di intervento negli affari pubblici. Furono queste difficili circostanze a spingere Cicerone verso una vita appartata e dedita alla composizione di opere maggiormente meditative e filosofiche.

All’avvio di questa nuova fase della sua vita risale significativamente l’Hortensius, un testo quasi interamente perduto (che, però, ebbe grande influenza in età imperiale e colpì molto Agostino), che esortava il lettore allo studio della filosofia sul modello del Protrettico di Aristotele. L’Arpinate, tuttavia, non concepì le proprie opere filosofiche come semplice momento di riflessione personale, ma certamente si prefisse anche lo scopo di presentare e offrire ai contemporanei una summa della tradizione filosofica greca, discussa e selezionata in rapporto alla concreta realtà romana.

Per quanto riguarda i temi e le finalità di tale impegno intellettuale, in queste opere Cicerone ripensa a tutto il corpus di metodi e di teorie sviluppato dalle scuole filosofiche ellenistiche e affronta vari aspetti della tradizione speculativa: la morale, la religione, la gnoseologia. Ogni volta l’approccio ciceroniano è di tipo soprattutto moralistico e non dimentica i doveri del cittadino nei confronti della collettività. L’autore intende infatti offrire un punto di riferimento etico-culturale alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non guarda pertanto solo ai problemi immediati, ma affronta questioni che coinvolgono i fondamenti stessi della crisi sociale, politica e morale, nel tentativo di escogitare soluzioni di lungo periodo. In questa prospettiva va collocata una caratteristica che accomuna e distingue le opere filosofiche ciceroniane: l’interesse a cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici, la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e di partecipazione politica.

In rapporto alle finalità appena indicate le opere filosofiche di Cicerone, benché – per sua stessa ammissione (Ad Att. XII 52, 3) – abbiano in gran parte carattere compilativo rispetto alle fonti greche, risultano tuttavia originali nella scelta dei temi e nel taglio degli argomenti: poiché nuovi e differenti sono i problemi che la società presentava, nuovi erano gli interrogativi che l’autore si poneva. L’obiettivo, in generale, appare quello di “ricucire”, per così dire, le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana.

Come già nelle opere retoriche e politiche, inoltre, anche nei trattati filosofici Cicerone adotta perlopiù la forma dialogica ispirata all’esempio platonico, anche se la maniera di esporre richiami in alcuni casi piuttosto lo stile di Aristotele, che, senza rinunciare del tutto al metodo dialettico, propone una lunga dissertazione e un personaggio che ne trae le conclusioni.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Madrid, Museo del Prado

L’eclettismo come metodo argomentativo-espositivo. | Prima di addentrarsi nello studio delle opere filosofiche ciceroniane, sembra opportuno mettere a fuoco la logica espositivo-argomentativa che le sorregge e le struttura. Quello del metodo seguito per trattare i problemi di maggiore rilievo rappresenta un tema fondamentale su cui lo stesso Cicerone si sofferma esplicitamente in un celebre passo delle Tuscolanae disputationes (5, 83): astenendosi dal formulare egli stesso un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse argomentazioni possibili e di metterle a confronto per verificare se alcune siano più coerenti e più probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce dunque alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo costruttivo.

La stessa ideologia dell’humanitas, alla cui elaborazione l’autore diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Ciò si riflette anche nella regia dei dialoghi filosofici ciceroniani, che, del resto, rispecchia i comportamenti della buona società romana: lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia, l’attenzione a non interrompere il ragionamento altrui. Sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”.

C’è, però, un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’Epicureismo. I motivi di tale avversione sono soprattutto due, fra loro strettamente connessi: in primo luogo, la filosofia del Giardino porta l’individuo al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; in secondo luogo, l’Epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (per quanto non ne neghi l’esistenza), indebolendo così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone resta la base imprescindibile dell’etica.

 

La ricerca morale. | Quanto allo studio e alla ricerca in ambito etico, l’Arpinate orientò sempre la propria riflessione e il proprio impegno su un doppio livello: da un lato, cercò di raccogliere e organizzare la vasta tradizione filosofica ellenica perché fosse più fruibile al pubblico romano e, dall’altro, puntò alla costruzione di un sistema valoriale adeguato alla società del proprio tempo, sul quale la classe dirigente (intesa, in senso più ampio, come consensus omnium bonorum) potesse operare di volta in volta le sue scelte concrete in rapporto alla realtà del momento. È questa la prospettiva da tenere costantemente presente per inquadrare le opere morali di Cicerone.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Teoria e pratica della morale. | Il centro della speculazione morale ciceroniana è costituito dalla volontà di determinare il sommo bene e dunque il fondamento della felicità; di conseguenza, stabilire le norme di comportamento adeguate al civis Romanus. Questa complessa riflessione, con cui Cicerone rielabora in parte il pensiero stoico, accademico e peripatetico, dispiega i suoi ragionamenti innanzitutto in due opere fondamentali e tra loro complementari: il De finibus bonorum et malorum e le Tuscolanae disputationes (entrambe del 45 a.C.).

Il De finibus, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni studiosi il capolavoro di Cicerone filosofo e certo è tra le sue opere più eleganti e armonicamente costruite. Il testo, diviso in cinque libri comprendenti tre dialoghi, tratta del problema del sommo bene e del sommo male, vagliando le posizioni di epicurei, stoici e accademico-peripatetici. Nel primo (libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione dell’autore; nel secondo (libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica con quelle accademiche e peripatetiche; nel terzo (libro V) è discussa la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore.

Il confronto fra i diversi sistemi di pensiero, che si esplica attraverso l’intero corpus dei dialoghi ciceroniani, trova nel De finibus uno sviluppo particolarmente esteso. Dopo che sono state confutate in modo netto e senza appello le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel III libro la difesa dello Stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione dell’autore, però, fu sempre di sostanziale perplessità (si pensi alla Pro Murena): Cicerone, dal canto suo, riconosceva che lo Stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la civitas, ma da un pensatore intransigente come Catone, o da un accademico dalla rigida morale come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti; il rigore etico di costoro gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che, dopo l’epoca delle grandi conquiste, era andata incontro a radicali trasformazioni.

Nel nuovo clima socio-culturale della Roma del tempo, l’eclettismo ciceroniano punta, sulla base teorica del probabilismo accademico, alla conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l’apertura a un piacere moderato di quelle peripatetiche. In quest’ottica, il sommo bene viene identificato, pur tra qualche incertezza e contraddizione, con il bene dell’anima che coincide con la virtù: è solo la virtù a poter garantire la felicità all’uomo.

L’organico quadro teorico costruito nel De finibus cerca quindi un’applicazione pratica nelle Tuscolanae: qui la virtù dovrà provare la sua capacità di sostenere e orientare l’anima nel concreto rapporto con i turbamenti alimentati dalla realtà esterna. L’opera, dedicata anch’essa a Bruto, è divisa in cinque libri e ha forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore (con la finzione di porre le varie questioni morali discusse dall’autore), la cui evanescente figura lascia prendere al testo piuttosto la forma di una lezione espositiva sulla traccia del dialogo aristotelico. La discussione è ambientata nella villa di Cicerone a Tusculum, donde il titolo dell’opera.

Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente, i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità: si è dunque di fronte a una grande summa dell’etica antica, a un vasto trattato sul tema della felicità, e in questo senso i vari libri costituiscono una trattazione organica che nel complesso si presenta come una terapia per liberare l’animo dalle sue afflizioni. Nell’opera, del resto, è possibile intravedere il tentativo di Cicerone di dare una risposta anche ai suoi personali interrogativi e una soluzione ai propri dubbi. Da ciò deriva la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati, che conferisce allo stile del discorso un’accorata solennità e fa raggiungere ad alcune pagine un’intensità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. In questo quadro si colloca l’ispirazione essenzialmente storica con cui l’autore affronta i suoi argomenti e che, nonostante la sua abituale tendenza a posizione eclettiche, segna in quest’opera il punto di massimo avvicinamento allo Stoicismo più rigoroso.

Le Tuscolanae hanno comunque anche un intento divulgativo che non va sottaciuto: nelle introduzioni ai singoli libri Cicerone indica infatti la necessità che i Romani acquisiscano un’ampia e adeguata cultura filosofica e la impieghino anche per orientarsi nella vita pratica. Non rinuncia inoltre ad accennare alla storia dell’introduzione della filosofia a Roma e allo sviluppo del pensiero fino a Socrate.

Napoli, Biblioteca Nazionale. Ms. IV. G. 31bis (1450-60 c.). Pagina miniata dalle Tuscolanae disputationes.

Una morale per la classe dirigente. | La stesura del De officiis, iniziata probabilmente nell’autunno del 44 a.C., venne conclusa molto rapidamente: mentre stava combattendo Antonio, colui che ai suoi occhi stava portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cercò nella filosofia i fondamenti di un progetto di più vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permettesse all’aristocrazia romana di riacquisire il pieno controllo della società. Ora Cicerone voleva impegnarsi in una riflessione conclusiva sulla possibilità di individuare riferimenti etici sicuri in una società travolta dal turbolento tramonto delle istituzioni tradizionali: il De officiis rappresenta quindi una sorta di testamento spirituale dell’autore. Non a caso l’opera, nonostante le pecche stilistiche ed espositive (verosimilmente legate alle difficili condizioni in cui fu composta), fu tra i testi ciceroniani che maggiore influenza ebbero nelle epoche successive.

Il testo, dedicato al figlio Marco, allora studente ad Atene, è un trattato di etica – considerata nei suoi risvolti pratici in rapporto all’azione politico-sociale – e comprende, dunque, anche una dettagliata precettistica sui comportamenti da tenere nelle più diverse circostanze. Il titolo usa un termine, officium (propriamente l’azione adeguata in rapporto a un ruolo preciso), che traduce la parola greca usata dagli stoici per definire l’azione perfetta e razionale, il καθῆκον («ciò che si conviene»): in questo senso, esso fa riferimento alla discussione sui doveri legati all’esercizio della virtù e quindi alle azioni opportune da compiere.

Il De officiis si compone di tre libri: nel primo si discute dell’honestum (termine che indica ciò che è moralmente giusto), nel secondo dell’utile e nel terzo del conflitto fra honestum e utile. Per i primi due libri la fonte è il trattato Sul conveniente del filosofo stoico Panezio di Rodi, mentre il terzo, probabilmente frutto di una personale rielaborazione di altre fonti (forse Posidonio di Apamea), nasce dalla necessità, sentita da Cicerone e ignorata da Panezio, di discutere i criteri per decidere in concreto sulle questioni etico-politiche più difficili e dubbie.

Panezio aveva impresso alla dottrina stoica una svolta in senso marcatamente aristocratico, cercando soprattutto di addolcirne l’originario rigorismo morale, affinché fosse praticabile da una classe dirigente ricca, colta e raffinata. Il suo Stoicismo moderato, dunque, offriva così, sotto molteplici aspetti, una base particolarmente adatta al discorso di Cicerone: da un lato, il pensiero paneziano era radicale nel rifiuto dell’edonismo epicureo (e della conseguente etica del disimpegno) e riusciva a rimanere rispettosa della tradizione e dell’ordine politico-sociale senza fanatismi; dall’altro, forniva anche la minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti, permettendo così al discorso ciceroniano di spostarsi facilmente dalla riflessione teoretica all’enunciazione di precetti validi per la vita di tutti i giorni. All’interno di questo specifico contesto speculativo, Cicerone considerava che le virtù fossero «parti dell’honestum», mentre i modi di conseguire potere e consenso da parte della classe dirigente attenessero all’utile. Il fine del ragionamento ciceroniano consiste appunto nel dimostrare come tra honestum e utile non ci sia contraddizione, bensì identità: il secondo è infatti ritenuto conseguenza diretta del primo.

 

Città del Vaticano, BAV. Ms. Pal. lat. 1534 (XV sec.), Ciceronis de officiis, f. 1r.

 

Un’etica dell’agire socio-politico. | Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio si distingueva per un giudizio assai più positivo sugli istinti, che dalla ragione non devono essere repressi, ma piuttosto corretti e disciplinati in modo che essi si sviluppino progressivamente in virtù vere e proprie. Sulla base di questo quadro teorico di riferimento, all’inizio del De officiis (I 15) l’autore afferma che l’honestum scaturisce da quattro possibili fonti, ovvero si compone di quattro parti fra loro collegate che consistono nella ricerca della verità, nella protezione della società, nel desiderio di primeggiare, nell’aspirazione all’armonia (secondo una classificazione che corrisponde in pratica alle tradizionali virtù cardinali stoiche di sapienza, giustizia, fortezza e temperanza). Si tratta di tendenze naturali insite nell’uomo, che, se ben indirizzate dalla ragione, daranno origine a specifici comportamenti virtuosi, in quanto ciascuna delle quattro parti dell’honestum è fonte di specifiche categorie di doveri.

Gli uomini sentono per natura una spinta alla ricerca del vero, che è la fonte da cui si origina la sapientia. Si tratta tuttavia di una tendenza da gestire con accortezza affinché sia orientata sempre all’azione concreta: lo studio e la ricerca fini a se stessi allontanano infatti dalla vita pratica, mentre il merito della virtù consiste proprio nell’azione.

Il desiderio di proteggere la società trova la sua corretta realizzazione in due principi complementari: la iustitia e la beneficentia. La prima, cui spetta di «dare a ciascuno il suo», opera tutelando la proprietà privata, ovvero il fondamento stesso degli Stati e delle comunità cittadine, sorti perché ogni individuo possa meritarsi e mantenere il suo (II 73). Questo tema era di scottante attualità: dalle riforme dei Gracchi alle confische di Silla e di Cesare fino allo stesso anno 44 a.C. in cui Cicerone metteva nero su bianco queste parole (quell’anno Antonio aveva presentato una legge per distribuire l’ager publicus tra i veterani e i cittadini fedeli alla causa cesariana), la questione della proprietà si riproponeva ormai con frequenza inquietante per i ceti possidenti, mentre programmi di riforma agraria o di abolizione dei debiti suscitavano inevitabilmente il plauso delle classi popolari su cui faceva leva chiunque aspirasse al potere. Pertanto, il venir meno della iustitia e, dunque, l’affermarsi dell’iniustitia, indeboliva le basi stesse della società. A questo proposito Cicerone distingueva due forme di iniustitia, una attiva e l’altra passiva: se la prima consiste in un’aggressione intenzionale al diritto mossa da avaritia («avidità»), la seconda è legata al disinteresse e al disimpegno verso la comunità.

In questo contesto socio-politico la beneficentia, ovvero la capacità di donare il proprio collaborando positivamente al benessere collettivo, poteva costituire un valore rimanendo entro limiti precisi, altrimenti comportava indubbiamente gravi rischi. Troppe volte, infatti, si era visto come la corruzione delle masse mediante largitio («elargizione», «donazione»), o in generale attraverso proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare della res publica un proprio possesso privato. Perciò, Cicerone sottolinea con forza che la beneficentia non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.

L’istinto naturale a primeggiare sugli altri si manifesta nella capacità di imporre il proprio dominio: da questa tendenza, comunque, può derivare la virtù della magnitudo animi («grandezza di spirito», «magnanimità»), che, secondo il pensiero paneziano, sostituiva la virtù cardinale della fortezza. Il controllo della ragione, svuotando la volontà di predominio di quanto in essa c’è di egoistico e tendenzialmente prevaricatorio (si pensi a quanto spiegato nel Somnium Scipionis), trasforma questo istinto in una virtù capace di mettersi al servizio degli altri per contribuire attivamente a rendere la patria ancora più grande e gloriosa. Viceversa, se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all’anarchia o alla tirannide. In ciò è evidente la volontà di Cicerone di sottoporre a forti vincoli una virtù che, se non adeguatamente imbrigliata, può divenire la passione specifica della tirannide e ritorcersi contro la res publica (e, di conseguenza, l’egemonia senatoria): mentre Cicerone scriveva, l’esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi di tutti.

Nel sistema etico del De officiis il regolatore generale degli istinti e delle virtù, ciò che permette loro di integrarsi in un tutto armonico, è costituito dalla virtù della temperanza, che deriva da una naturale aspirazione all’ordine: all’esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta in un’apparenza di appropriata armonia di pensieri, di gesti, di parole, che assume il nome di decorum. Si tratta di una meta raggiungibile solo da chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. L’autocontrollo che l’autore caldeggia persegue del resto un fine ben determinato: l’approvazione degli altri, che il decorum permette di conciliarsi con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione a ciò che gli altri possano pensare, la preoccupazione di non urtarne la suscettibilità sono un portato necessario della fitta rete di obblighi sociali in cui a Roma si trovano inseriti i membri degli ordines superiori.

Una delle novità più interessanti del modello etico proposto è il fatto che il concetto di decorum permetta la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dall’individuo ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali e morali di ognuno: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i propri doveri verso la civitas. Questo pluralismo di modelli di vita ammesso dall’ultimo Cicerone rispecchia, evidentemente, le diverse vocazioni e attività di quei boni di tutta l’Italia di cui egli aveva incominciato a parlare fin dalla Pro Sestio. La filosofia prende dunque atto dei mutamenti intervenuti nel frattempo e s’incarica di ritessere la trama dei valori, di modificare e rendere più duttile il modello etico tradizionale per integrarvi le nuove figure emergenti.

Come si accennava, Cicerone accompagna questa riflessione teorica a una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con gli altri: il De officiis comprende così osservazioni dettagliate sui gesti e la postura del corpo, sulla toilette e l’abbigliamento, la conversazione e persino la casa dell’aristocratico romano. In questo modo l’Arpinate dava inizio a una traduzione di “galateo” destinata ad avere grande fortuna nella cultura occidentale.

Paul Barbotti, Orazione di Cicerone davanti alla tomba di Archimede. Olio su tela, 1853.

Fra malinconia e speranza. | Un posto a parte fra le opere filosofiche di Cicerone occupano due brevi dialoghi dedicati ad Attico: il Cato maior sive de senectute e il Laelius sive de amicitia. Entrambi composti nel 44 a.C. e incentrati su celebri personaggi del passato, i due testi, che trattano rispettivamente della vecchiaia e dell’amicizia, esprimono due diversi stati d’animo dell’autore: il primo, dall’atmosfera più dimessa e pensosa, è infatti scritto poco prima dell’assassino di Cesare, mentre il secondo, dal tono più energico, subito dopo.

Al Cato maior Cicerone lavorò all’inizio del 44: nel personaggio di Marco Porcio Catone “il Censore” (portavoce dell’autore) l’Arpinate trasfigura l’amarezza per una senilità che, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, comporta soprattutto la perdita della possibilità di intervento politico. In questo testo, che è ambientato nel 150 (l’anno della scomparsa di Catone), l’autore, proiettandosi nella figura di un anziano che conserva autorità e prestigio, si rifugia nel passato per vestire i panni dell’antico Censore ed eludere così, idealmente, la propria condizione di forzata inattività pubblica.

La rappresentazione ciceroniana di Catone risulta differente rispetto alla sua immagine storicamente accettabile: il personaggio appare infatti come addolcito e ammansito. Il rude agricoltore della Sabina, caparbiamente attaccato ai propri profitti, ha ceduto il posto a un raffinato cultore dell’humanitas e della buona compagnia che, con una punta di estetismo, arriva perfino ad anteporre il bello all’utile. Nella vecchiaia catoniana tratteggiata nel dialogo si armonizzano così in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che l’autore ha cercato invano di conciliare per tutta la vita.

Diversa l’atmosfera che si respira nel Laelius, in cui Cicerone appare più combattivo: l’opera, verosimilmente composta all’indomani del cesaricidio, accompagna infatti il rientro dell’Arpinate sulla scena politica. Il dialogo è ambientato nel 129 a.C. (lo stesso anno del De re publica), pochi giorni dopo la misteriosa scomparsa di Scipione Emiliano nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’amico defunto, Gaio Lelio, colto e raffinato uomo politico del II secolo, legato a Scipione dall’assidua frequentazione e dalla solidarietà politica, ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell’amicitia stessa. Per i Romani essa era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria del regime aristocratico, il dialogo muove, tuttavia, sulla traccia delle scuole filosofiche elleniche, alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici.

La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale di questo genere di rapporti al di là della ristretta cerchia della nobilitas: a fondamento dell’amicitia, infatti, sono posti valori come quelli rappresentati dalla virtus e dalla probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione. Cicerone scrive per quella “gente perbene” alla cui centralità politico-sociale ha affidato da tempo le sorti del proprio programma di rigenerazione della res publica. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui proprio l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve dunque servire a cementare la coesione dei boni. Quella auspicata nel Laelius non è soltanto un’amicizia politica: si avverte, in tutta l’opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, poté forse provare solo con Attico.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

Res publica e religio. | Di argomenti religiosi trattano tre opere – anche queste scritte in forma dialogica – che formano una sorta di trilogia (è, del resto, l’autore stesso a presentare le ultime due come prosecuzione e complemento della prima): il De natura deorum, in tre libri, dedicato a Bruto; il De divinatione, in due libri; il De fato, giunto incompleto. Questo gruppo di testi mostra nel suo complesso una riflessione di ampio respiro su temi di carattere religioso, spirituale e teologico, che, occupando l’autore nel difficile periodo fra il 45 e il 44 a.C., implicano anche inevitabili risvolti etico-politici. La prospettiva da cui sono affrontati i vari argomenti è del resto chiara: sebbene non manchino intenti di carattere divulgativo, i problemi religiosi interessano Cicerone soprattutto per i loro risvolti sulla concreta vita civile. Egli infatti considera la religione una componente fondamentale dell’assetto istituzionale della res publica.

Il De natura deorum è un dialogo che si immagina svolto (probabilmente nel 77/6 a.C.) tra Gaio Velleio, Lucio Balbo e Aurelio Cotta (nella cui casa è ambientata la discussione, alla presenza di un giovanissimo Cicerone). Vengono esaminate varie posizioni filosofiche relative alla natura degli dèi, che sono così presentate per questa via al pubblico romano: nel I libro Velleio espone la tesi epicurea (poi confutata da Cotta) dell’indifferenza delle divinità rispetto ai casi umani; nel II libro Balbo prende in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale; nel III libro Cotta critica la posizione di Balbo e sembra schierarsi in favore dello scetticismo accademico. Cicerone, alla fine dell’opera, manifesta molto laconicamente una preferenza per la tesi stoica di Balbo, che dice di ritenere più verosimile (su quale sia nell’opera l’effettiva posizione dell’autore, anche a causa della lacunosità del III libro, resta un problema critico ancora parzialmente aperto).

Più interessante, anche perché più direttamente legato alla situazione romana, è il De divinatione, un dialogo in due libri immaginato fra l’autore stesso e suo fratello Quinto, a proposto all’arte divinatoria. Nell’opera, che rappresenta una fonte importante per la conoscenza di molte pratiche cultuali del mondo antico, Cicerone si mostra esitante fra la denuncia della falsità della religio tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti sociali subalterni, facilmente strumentalizzabili per via della loro credulità (per esempio, la dichiarazione di auspicia sfavorevoli poteva servire a interrompere o a rimandare assemblee di carattere politico). L’opera fu verosimilmente iniziata prima della morte del dictator, ma completata in seguito: il proemio del II libro, infatti, testimonia l’entusiasmo dell’autore per la ritrovata libertà e la possibilità di un suo rientro attivo sulla scena pubblica, nonché la fiducia per un rinnovamento etico-politico della classe dirigente.

Il De fato discute la dottrina stoica, secondo cui il fato è il destino inevitabile, prestabilito da quel λόγος divino che ordina e sorregge il mondo. Il discorso coinvolge la questione della libertà dell’uomo e della sua responsabilità rispetto alle azioni che compie; Cicerone cerca di confutare le tesi stoiche e di dimostrare la possibilità per gli individui di fare scelte libere e consapevoli: in questi temi si avverte il clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare e la conseguente volontà dell’autore di stimolare una presa di coscienza nel lettore circa le possibilità di intervenire attivamente e positivamente nella gestione della res publica.

Scena di sacrificio. Bassorilievo da altare, I sec. d.C. Stockholm, Antikengalerie Opferszene.

 

Una lingua per la filosofia: Cicerone forgiatore di lessico e stile. | Accingendosi a comporre il proprio poema ispirato alla filosofia epicurea, anche Lucrezio aveva lamentato l’inadeguatezza della lingua latina a “rendere” la terminologia filosofica dei Greci. Dal canto suo, pure Cicerone si trovò di fronte a problemi molto analoghi per la stesura dei propri testi; e, al pari del poeta, scelse una linea purista per risolvere la questione: evitare i grecismi. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini ellenici, le cui incertezze e difficoltà sono talora attestate nelle lettere ad Attico (si pensi, per esempio, al caso di καθῆκον, che Cicerone si risolse, dopo lunghe perplessità, a rendere con officium; o, per dire della terminologia retorica, ai vari tentativi di individuare un equivalente latino di περίοδος).

Il risultato di questa sperimentazione fu l’introduzione nel latino di molti neologismi: Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea; per esempio, qualitas, che traduce il greco ποιότης, quantitas per ποσότης, essentia per οὐσία, ecc.

L’attenta scelta delle parole era di importanza estrema per il raggiungimento della chiarezza espositiva; ma il contributo senz’altro più notevole dell’Arpinate all’evoluzione della prosa occidentale fu la creazione di un periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello – fin dalle orazioni – egli trovò in Isocrate e in Demostene.

Dato il sempre presente modello retorico, l’esigenza dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: ma il periodo ciceroniano è in genere anche una rigorosa architettura logica. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: in altre parole, la sostituzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione). A una perfetta capacità di dominio della sintassi si deve la possibilità di organizzare i periodi lunghi e complessi, eppure sempre lucidi e coerenti, di cui abbondano le pagine ciceroniane.

Se questi sono i tratti che meglio definiscono il profilo esterno della costruzione ciceroniana del discorso, uno degli aspetti che più colpiscono il lettore è la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) viene adeguatamente (secondo il canonico principio greco del πρέπον, cioè il decorum, l’«opportuno», il «conveniente») impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere.

A ogni livello di stile, a ogni diverso registro espressivo, corrisponde una collocazione delle parole adeguata, un’opportuna sonorità fatta di armonia e di euritmia (l’ornatus suavis et affluens trova il suo punto di forza nella forma e nel sonus delle parole); soprattutto, la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla prosa (Cicerone sosteneva a ragione di aver dedicato più attenzione a questo aspetto del discorso di quanto non avesse fatto la trattatistica greca), in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e, invece, il discorso piano un’intonazione più familiare.

La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi (per esempio, il dattilo e il peone per il tono sostenuto oppure l’andamento giambico per il tono discorsivo e familiare). Della varietà efficace e abilissima delle clausolae ciceroniane basti sapere, comunque, che nella “prosa periodizzata” Cicerone seppe tenersi lontano dagli eccessi “asiani” di Ortensio e più vicino, in ultima analisi, al modello di Isocrate, che all’arte del periodare ampiamente costruito aveva saputo affiancare l’uso di brevi proposizioni “numerose” in serie.

London, British Library. Harley MS 647 (c. 820-840), f. 8v. Pagina dagli Aratea di Cicerone, illustrata con un calligramma (ante litteram), raffigurante la costellazione del Canis Maior, e l’excerptum degli Astronomica.

 

Le opere poetiche: l’importanza storica di un talento discutibile

«Con l’andare del tempo – scrive Plutarco nella Vita di Cicerone – egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma […], ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata». Sembra dunque che solo Cicerone si illudesse sulla propria vena poetica: già i contemporanei gli concessero poco apprezzamento e le generazioni successive lo ignorarono del tutto: Marziale (Epigrammi II 89, 3-4) ne avrebbe fatto un paradigma di velleitarismo fallimentare: «Tu componi versi senza alcuna ispirazione delle Muse, senza alcuna assistenza di Apollo. Bravo! Hai in comune questa virtù con Cicerone!». Non è probabilmente un caso, dunque, che della produzione poetica ciceroniana siano rimasti solo pochi frammenti e perlopiù citati dallo stesso autore nelle sue opere in prosa.

In gioventù l’Arpinate compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico come Glaucus, in tetrametri trocaici, e Alcyones; il Limon, probabilmente un’opera miscellanea, conteneva fra l’altro una raccolta di giudizi in versi su poeti. Queste prime prove, varie per metro e per argomento, farebbero pensare a Cicerone addirittura come una sorta di precursore dei neoterici, incline a un certo sperimentalismo artistico, anche se non propriamente un “callimacheo”: un poeta di tipo ellenistico, insomma, ma non molto lontano da quella che era stata la poetica di Lucilio.

Ben presto i suoi gusti dovettero farsi più tradizionalistici (vincolandosi soprattutto al modello arcaico di Ennio) fino all’ostilità più o meno aspra verso i “poeti moderni” (neoteroi, o poetae novi, appunto). A questa seconda fase della produzione poetica ciceroniana appartengono i poemi epici Marius, che cantava le gesta dell’altro grande arpinate (opera probabilmente ancora del periodo giovanile), De temporibus suis, cui Cicerone accenna in alcune lettere, e De consulatu suo, in tre libri, composto intorno al 60 a.C. per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina (un ampio brano di questo poema è stato conservato dallo stesso autore nel De divinatione). Quest’ultima fu l’opera più sbeffeggiata dell’Arpinate sia dai contemporanei sia dalla critica letteraria del I secolo d.C. (soprattutto per le stucchevoli lodi di cui l’autore era prodigo verso se stesso e il proprio operato in qualità di magistrato). Due versi in particolare restano celebri per l’irrisione che suscitarono: cedant arma togae, concedat laurea laudi («S’inchinino le armi di fronte alla toga, l’alloro del trionfo s’inchini al merito civile»), in cui Cicerone contrapponeva le proprie glorie consolari agli allori dei comandanti militari, e o fortunatam natam me consule Romam! («O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato!»), che fu poi citato ancora da Giovenale come simbolo di una superbia sciocca e ridicola.

Fra queste due fasi è probabile che si debba collocare gli Aratea, traduzione in esametri degli eruditissimi Fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.). Si tratta di un poemetto didascalico di argomento astronomico che suscitò grandissimo interesse nell’antichità e che venne tradotto anche da Germanico (15 a.C.-19 d.C.) e Avieno (IV sec. d.C.). È questa l’opera poetica più fortunata di Cicerone, l’unica della quale rimangano porzioni di una certa estensione. In essa si nota il ricorrere di un andamento grandioso e magniloquente, che nello stile solenne richiama la poesia alta di Ennio e Lucrezio.

Comunque, nonostante i non felicissimi risultati della sua poesia, l’influenza di Cicerone versificatore non dovette però essere insignificante, almeno per gli aspetti tecnico-artistici: egli infatti contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesure nel verso e specializzazione di alcune forme metrico-verbali in clausola). Dai suoi esercizi poetici l’esametro uscì più elegante e duttile e, nel ritmo, più vivace e non troppo distante dalla strutturazione che avrebbe poi assunto in età augustea.

L’esempio ciceroniano fu probabilmente determinante per quel che riguarda la conquista di una maggiore libertà espressiva nella disposizione delle parole e per la spinta impressa al discorso oltre i rigidi confini del verso, attraverso lo sviluppo dell’uso dell’enjambement. Pur senza raggiungere gli effetti espressivi del mobilissimo esametro augusteo, quello ciceroniano riuscì a conquistarsi una struttura metrico-sintattica molto meno “immobile” di quella di stampo arcaico. Non a caso echi ciceroniani, soprattutto dagli Aratea, si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio e Ovidio.

Ritratto virile. Busto, marmo, I sec. a.C. ca. Wien, Kunsthistorisches Museum.

 

Il “vero” Cicerone: l’epistolario

Per la conoscenza della personalità dell’autore si dispone di uno strumento di impareggiabile valore: si è infatti conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti, insieme ad alcune lettere di risposta di questi ultimi. Nella forma in cui è stato tramandato, l’epistolario ciceroniano si compone di circa novecento testi, suddivisi in quattro grandi raggruppamenti in base al destinatario: i sedici libri di Ad familiares, i sedici delle Ad Atticum, i tre libri Ad Quintum fratrem e due libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa).

I documenti pervenuti abbracciano gli anni dal 68 al 43 a.C. (mancano tuttavia lettere dell’anno del consolato) e furono pubblicati in una data incerta ma successiva alla morte dell’autore (forse, almeno le Ad familiares, a cura del fedele liberto Tirone). Sebbene queste epistole non siano nate con lo scopo della pubblicazione, Cicerone aveva comunque pensato nel 44 alla possibilità di divulgarne una selezione, ma la morte glielo impedì.

Il ricco epistolario ciceroniano comprende testi di vario genere ed estensione: biglietti vergati frettolosamente, vivaci resoconti degli avvenimenti politici, lettere elaborate che sembrano brevi trattati, alcuni scritti, rivolti ai corrispondenti più importanti, probabilmente concepiti come “lettere aperte” destinate forse a una qualche circolazione. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia peraltro in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi personali, a volte sostenuto e impegnato.

Si tratta – è bene sottolinearlo – di lettere vere: quando le scrisse, l’autore non pensava a una loro pubblicazione (come sarebbe stato invece nel caso dell’epistolario di Seneca); perciò queste lettere mostrano un Cicerone “vero” e “reale”, non ufficiale, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena, a volte poco edificanti, della sua azione politica, i dubbi, le incertezze e le esitazioni frequenti, gli alti e bassi del suo umore.

Il carattere di epistolario “reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni talora “cifrate” (di qui, per i moderni, gravi difficoltà di interpretazione), abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato di parole pittoresche, come curiosi diminutivi (per esempio, aedificatiuncula, ambulatiuncula, diecula, vulticulus, integellus, ecc.) e ibridi greco-latini (tocullio, «strozzino», dal greco τόκος, «interesse»). È una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma.

Non va dimenticato, infine, l’eccezionale valore storico dell’epistolario ciceroniano, che, a volte, quasi come un moderno quotidiano, permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti. Grazie a questo documento, l’epoca in cui l’autore visse è quella che è meglio nota di tutta la storia antica; a ragione, pertanto, Cornelio Nepote (Vita di Attico, 16) poté parlarne come di una vera e propria historia contexta eorum temporum («monografia storica di quei tempi»).

Cic. nat. deor. II 68-69 – Il nome di Diana

di Cicerone, Sulla natura degli dei, a c. di U. PIZZANI, Milano 1997, pp. 180-183.

 

[…] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. quae eadem Diana Omniuaga dicitur non a uenando sed quod in septem numeratur tamquam uagantibus; [69] Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plerumque nouem lunae cursibus, qui quia mensa spatia conficiunt menses nominantur; concinneque ut multa Timaeus, qui cum in historia dixisset qua nocte natus Alexander esset eadem Dianae Ephesiae templum deflagrauisse, adiunxit minime id esse mirandum, quod Diana quom in partu Olympidis adesse uoluisset afuisset domo.

 

Testa di Artemide. Marmo, 350-300 a.C. ca. da Brauron. Museo Archeologico di Brauron.

 

“Luna” deriva dal verbo lucere, come dimostra anche l’attributo Lucina; e come presso i Greci durante i parti si invoca Diana aggiungendo l’epiteto di “portatrice di luce”, così fra noi si invoca Giunone Lucina. Diana è detta anche Omnivaga non per la sua attività “venatoria”, ma perché la si annovera fra le sette stelle considerate “vaganti”; è chiamata “Diana”, perché durante la notte sembra riportare la luce “diurna”. Inoltre, si ricorre a lei nei parti, in quanto essi giungono a maturazione nel giro, talora, di sette o, perlopiù, di nove cicli lunari che si chiamano “mesi”, appunto perché percorsi “misurati”. Lo storico Timeo, venendo a parlare dell’incendio del tempio di Diana Efesia, scoppiato proprio nella notte in cui vide la luce Alessandro, aggiunge – con il suo consueto spirito – che la cosa non deve stupire, poiché in quel momento Diana si era assentata da casa per assistere il parto di Olimpia.

Cic. nat. deor. II 50 – Il corso della Luna

di Cicerone, Sulla natura degli dei, a c. di U. PIZZANI, Milano 1997, pp. 162-165.

 

Luna piena. Fotografia, 2010, da Madison (Alabama, USA).

 

Iam solis annuos cursus spatiis menstruis luna consequitur, cuius tenuissimum lumen facit proximus accessus ad solem, digressus autem longissimus quisque plenissimum. neque solum eius species ac forma mutatur tum crescendo tum defectibus in initia recurrendo, sed etiam regio; quae cum est aquilonia aut australis, in lunae quoque cursu est et brumae quaedam et solstitii similitudo, multaque ab ea manant et fluunt quibus et animantes alantur augescantque et pubescant maturitatemque adsequantur quae oriuntur e terra.

 

Ad intervalli mensili la luna compie lo stesso corso annuale del sole: la sua vicinanza al sole ne attenua al massimo la luminosità, mentre, quanto più se ne allontana, tanto più accresce il proprio splendore. E non sono solo l’aspetto e la forma della luna a mutare attraverso il suo alterno crescere e decrescere e ritornare all’aspetto iniziale, ma muta anche la sua posizione nel cielo che ora è a nord, ora a sud. Anche nel corso della luna v’è qualcosa di simile al solstizio d’inverno e a quello d’estate e da essa promanano e fluiscono molti alimenti di cui si nutrono gli animali e, in grazia dei quali, le creature che sorgono dalla terra si accrescono, fioriscono e giungono a maturazione.

Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

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[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.

La «religio» a Roma nel I secolo a.C.

di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.

 

[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 11542, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.

scena di attività pubblica, con sacrificio e census. bassorilievo, marmo, ii sec. a.c., dall_ara di domizio enobarbo (campo marzio, roma). musée du louvre
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.

Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

 

Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 7172).

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.

 

I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.

Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.

Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).

Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.

Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».

Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.

giovane in atteggiamento votivo. bronzetto, 400-350 a.c. london, british museum
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.

 

Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.

Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).

Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 34).

Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.

Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.

Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).

Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).

Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 34; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.

Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta 'l'Augusto di Via Labicana'). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.

Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.

Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 56).

Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.

Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Altes Museum.jpg
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.

 

L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.

Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.

Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.

Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta  di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.

altare votivo dedicato ai lares augusti, con l_immagine centrale di augusto. rilievo, marmo, i sec. d.c. firenze, galleria degli uffizi.
Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.

Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).

Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.

L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).

Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.

augure. statuetta, bronzo, 500-480 a.c. ca. paris, musée du louvre
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).

Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.

Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.

In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.

giudice e indovino (dettaglio). affresco etrusco, 540-530 a.c. ca., dalla tomba degli auguri (parete destra, necropoli di monterozzi, tarquinia)
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).

 

Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditus religionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.

Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 11442, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.

Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.

Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.

 

q. cecilio metello pio. denario, italia settentrionale, 81 a.c. ar 3, 54 gr. r – brocca e lituo con leggenda imper(atori) iscritti in una corona d_alloro
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.

Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.