Cineto di Chio alle Delie

di A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998, pp. 65-76.

 

Nel 523 (o 522) a.C., nell’isola di Delo, il rapsodo Cineto di Chio si esibì in una particolarissima performance, in occasione di una festa altrettanto particolare, organizzata dal tiranno Policrate di Samo per onorare Apollo. La particolarità della festa consisteva nel fatto che essa intendeva celebrare, nell’isola cicladica, non solo la locale epiclesi di Apollo, ma anche quella delfica. In questa occasione Cineto, a partire da due diverse composizioni tradizionali, «combinò insieme» (così ritiene Burkert) oppure compose (a mio avviso) un proemio epico di struttura affatto peculiare, in cui le parti celebranti Apollo Delio e Apollo Pizio risultano fuse in un’unica composizione – l’Inno omerico ad Apollo – attraverso una sezione specificamente rivolta a descrivere e celebrare la festa in atto; sezione tanto precisa e puntuale nei contenuti, che di essa si servì in seguito Tucidide (III, 104) per il suo excursus sulla storia più antica delle Delie.
Le fonti che ci tramandano il ricordo dell’iniziativa policratea non dicono assolutamente nulla a proposito della struttura della festa; solo in Zenobio l’evento viene definito agōn. Questo indizio, unito a quanto si dice nell’Inno stesso (soprattutto ai vv. 149-150) e alla descrizione tucididea, ci permette di affermare che la festa composita comprendeva una parte musico-corale, di carattere probabilmente competitivo.
È questo il quadro generale in cui va inserito l’Inno. Sulla funzione pratica degli Inni omerici nel contesto della poesia greca arcaica vi è fra gli studiosi un accordo sostanzialmente unanime, anche se non molto esplicito e talvolta silenzioso. La funzione proemiale dell’Inno ad Apollo sembra assicurata anche dalla coincidenza strutturale e tematica di fondo che esso mostra con gli altri Inni della silloge: come è stato anche recentemente notato, l’Inno non si differenzia che per una particolare elaborazione, e una notevole espansione di talune fra le parti che tradizionalmente compongono un proemio rapsodico.
L’unico elemento anomalo rispetto alla forma tradizionale dei proemi omerici è costituito dai vv. 146-176; l’anomalia, anzi la rottura, è evidente sotto molti punti di vista: dopo una serie di appellazioni dirette al dio, il poeta passa a descrivere i caratteri generali della festa in atto, per appuntare infine la sua attenzione su un gruppo di fanciulle (v. 157); queste formano un coro destinato a cantare, dopo aver celebrato Apollo, Leto e Artemide, le vicende degli uomini e delle donne dei tempi antichi. A questo coro il poeta si raccomanda e gli affida il compito di conservare nel tempo il suo ricordo.
All’inserimento già eccezionale della seconda persona divina, segue l’irrompere in scena dell’”io” del poeta medesimo, e del “voi” del coro, in un’apostrofe in cui sono contemporaneamente presenti valenze descrittive e iussive. Se tutto ciò è eccezionale, addirittura stravagante nel caso dell’innodia epica, la menzione di elementi pragmatici relativi alla performance in atto, almeno per quanto riguarda l’entrata in scena del coro e il rapporto coro-corifeo è invece quasi normale nella lirica, soprattutto nella lirica corale. Tuttavia testimonianze esplicite sia della compresenza, a livello enunciativo nel canto, delle diverse persone del corifeo (= poeta = “io”) e del coro (= “tu”), sia soprattutto di un rapporto pragmatico e iussivo fra i due non sono frequenti neppure nella lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale cerimoniale e religiosa; è questo il genere dove lo stretto legame tra esecuzione corale e rito apriva le maggiori possibilità di un’esplicita interazione fra i partecipanti all’azione rituale. Le eccezioni non mancano, ma sono relativamente poche, rintracciabili per la lirica arcaica appunto negli sparuti resti della lirica ieratico-cerimoniale, mentre frequenti richieste del poeta – o comunque di un “io” identificabile con il corifeo – nei riguardi di un coro sono presenti solo in alcuni peani epigrafici posteriori all’epoca classica, ma di impianto sicuramente tradizionale. Un rapporto complessivo tra un poeta-corifeo e un coro, paragonabile a quello che compare nei vv. 146-176 dell’Inno ad Apollo, ricorre infine nei due Inni “dorici” di Callimaco (V-VI).

Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

L’esistenza di un rapporto pragmatico assai simile fra “io” del poeta e “voi” del coro in composizioni tanto diverse da loro e tanto distanti nel tempo e nello spazio non deve indurre a tracciare un’improbabile linea genetica che le colleghi, essa sarà piuttosto un indizio dell’esistenza di uno schema formale diffuso già in epoca arcaica, e collegato a talune caratteristiche e necessariamente devono essersi mantenute identiche nel tempo. In altre parole nulla vieta che uno schema formale permanga nel tempo, pur modificandosi o annullandosi la sua funzione originaria.
In questo quadro, le somiglianze tra il rapporto pragmatico sotteso alla sezione centrale dell’Inno ad Apollo e quello presente nei due Inni callimachei assumono un particolare significato, mettendo ancora in maggiore evidenza l’anomalia che caratterizza l’Inno omerico. Infatti il poeta ellenistico, fino dalla scelta dialettale, intende privilegiare come suo modello non già l’innodia di tipo omerico, bensì – nel quadro, vero o fittizio che sia, di un evento festivo e rituale – la tradizione del canto cerimoniale che, per quanto è dato sapere, si espresse in dorico in tutta l’epoca arcaica e classica, fino all’attico Sofocle.
Se torniamo all’Inno ad Apollo, si pone il problema di una migliore definizione delle performances poetiche inserite nelle feste delie, o meglio ancora delle particolari performances che caratterizzavano la festa istituita da Policrate; questa infatti costituì una rottura del quadro tradizionale, ed è probabile che molte delle innovazioni introdotte dal tiranno non sopravvissero alla sua fine.
A proposito delle Delie in generale, non vi è unanimità fra gli studiosi circa la collocazione temporale della festa e del suo rapporto con le Apollonie. L’opinione più recente, e anche la più diffusa, colloca la festa nel mese di Hieros (all’inizio della primavera) e sostiene l’identità, per il periodo arcaico, fra le due feste.
L’identificazione fra le due feste consente di ascrivere alle Delie anche le notizie, letterarie e soprattutto documentarie, relative alle Apollonie, ampliando così un poco l’insieme di una documentazione assai ristretta. Sulla struttura delle Delie arcaiche le fonti rischiano pericolosamente di ridursi al passo tucidideo più volte citato (essenzialmente basato sull’Inno ad Apollo) e all’Inno medesimo, il testo peraltro del quale si vorrebbe illuminare le valenze pragmatiche e performative. Al fine di evitare, almeno in parte, il rischio della circolarità possiamo per il momento trascurare Tucidide e l’Inno; le altre fonti concordano tutte su un punto: le performances delie sono di tipo corale, e vedono coinvolti cori di entrambi i sessi. Erodoto (IV, 35), Callimaco (Del., 304-305) e Pausania (VIII, 21, 3; I, 18, 5) affermano che nel contesto delle feste di Delo venivano cantate le composizioni dell’antico poeta Olen; questi canti vengono in generale definiti “inni”. In Callimaco ricorre la definizione di nómos: in questo caso però non è certissimo che il canto vada inquadrato nel contesto delle Delie piuttosto che in quello delle Afrodisie. La partecipazione di cori di adolescenti alla festa e la sua prevalente funzione iniziatica vengono più o meno esplicitamente dichiarate da Erodoto (IV, 34), Ateneo (X, 424f), Plutarco (Thes., 21), Pausania (I, 43, 4) e Luciano (de salt., 16). Quest’ultimo chiama “iporchemi” i canti che venivano eseguiti da cori di paîdes con l’accompagnamento della lira e del flauto. Similmente le fonti epigrafiche menzionano costantemente la presenza, alla feste di Delo, di coreghi e di cori, mentre affatto sporadica è la menzione dei rapsodi.

«Apollo Chatsworth», Testa, bronzo, 460 a.C. ca. da Tamasso (Cipro). London, British Museum

Tutto ciò induce a ritenere che gli agoni poetici di Delo si incentrassero su performances di tipo corale; questo potrebbe essere tanto più vero per le Delie, qualora se ne consideri la partecipazione internazionale e il carattere marcatamente spettacolare. Ricorda Plutarco (Nic., 3) che il ricchissimo Nicia, in occasione di una sua coregia a Delo, volle dare particolare splendore alla theōría ateniese: fece sbarcare a Renea uomini e attrezzature il giorno prima della festa, durante la notte fece gettare fra le due isole un ponte di barche attraverso il quale il coro magnificamente abbigliato fece il suo ingresso a Delo cantando. È difficile che qualcuno abbia potuto, anche in seguito, emulare lo sfarzo di Nicia; l’episodio resta tuttavia significativo dell’investimento che le città facevano al momento della loro partecipazione alle Delie.
Anche i testi letterari che in qualche modo possono collegarsi alle Delie sembrano ricondursi a due generi corali: il peana e il ditirambo. Fra i peani di Pindaro il IV (fr. 52 d S.-M.), il V (fr. 52 e S.-M.), e il VIIb (fr. 52 h S.-M.) furono composti per le feste di Delo, il IV sicuramente per una theōría dell’isola di Ceo; dubbi sono invece i committenti degli altri, anche se è probabile una connessione del V con Atene. Fra i ditirambi delii rientrano sia il carme 17 di Bacchilide, anch’esso per i Cei, sia il Memnone di Simonide (PMG 389); quest’ultimo era compreso in una raccolta di ditirambi detta Dēliaká. A proposito della raccolta, sono egualmente possibili due spiegazioni: o essa riuniva i ditirambi composti da Simonide per le feste di Delo, ed era quindi una sottosezione di una – peraltro non attestata – raccolta dei ditirambi di Simonide, oppure era una silloge particolare di provenienza delia, dove il Memnone era inserito insieme ad altri ditirambi di altri poeti. In entrambi i casi è comunque evidente come i ditirambi occupassero un posto di rilievo all’interno delle Delie.
Distinguere i peani dai ditirambi era difficile anche per gli antichi: neppure la presenza o l’assenza del ritornello iḕ paián serve a individuare con certezza un peana. Ancora più difficile appare una distinzione dal punto di vista pragmatico: soprattutto quando, come nel caso di Delo, ditirambi e peani sono inseriti all’interno di feste apollinee.

Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art
Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.

Tali caratteristiche delle feste delie non sono senza conseguenze per la definizione delle linee complessive della performance di Cineto: restando fisso il carattere proemiale, introduttivo dell’Inno ad Apollo, occorre interrogarsi sulla natura di quanto all’Inno doveva seguire. Una regolare successione di altri canti epici, di argomento eroico e di forma esametrica, pare improbabile per molte ragioni. Infatti, non vi è quasi traccia di un agone rapsodico nella documentazione relativa alla festa, mentre con esso contrastano alcune peculiarità dell’Inno medesimo. Questo infatti si conclude nel modo più stereotipo con due versi che esprimono il saluto del dio e l’intenzione generica di ricordarsi ancora del dio e di un altro canto. Manca qualsiasi accenno di preghiera personale al dio. Questa preghiera contiene sovente – in forma più o meno esplicita – una richiesta di vittoria agonale, che può essere introdotta o addirittura riassunta in un hílēthi (1, 17; 23, 4; cfr. 19, 48), o avere espressione più ampia come nell’Inno a Demetra (v. 494) e negli Inni 30, 18 e 31, 17, dove il poeta chiede la «prosperità che rallegra il cuore», o come negli Inni 11, 5; 15, 9 e 20, 8 contrassegnati da una forma imperativa di dídōmi cui corrispondono predicati diversi: týchē, eudaimonía, aretḗ, ólbos. La richiesta di vittoria è poi affatto esplicita nell’Inno 26 (a Dioniso 12-13), in cui si chiede di tornare felicemente ogni anno alla festa del dio e nell’Inno VI (ad Afrodite, vv. 19-20).
Il fatto che il poeta non accenni ad alcuna richiesta di vittoria non avrebbe in sé molto peso, come ogni altro argomento e silentio: anche l’Inno ad Ermes, fra i maggiori, si conclude con un identico stringatissimo finale. È significativo però che i tre motivi tipici della conclusione abbiano già avuto un’ampia e peculiare trattazione in precedenza, e occupino buona parte della sezione centrale relativa alla festa in atto. Dopo la menzione del coro delle Deliadi (v. 156 sgg.) assistiamo a una sorta di trasferimento al coro delle funzioni proprie del rapsodo o dei rapsodi all’interno degli agoni: dopo aver cantato Apollo, Leto e Artemide esse canteranno le vicende degli uomini e delle donne antichi. La terminologia è generica, ma proprio per questo significativa; ricorrono infatti i temi chiave delle conclusioni: il canto del coro è definito (v. 161) hýmnos e aoidḗ, mentre la produzione poetica è allusa mediante l’azione di “ricordare” (v. 160).
In pratica, i vv. 158-159 riprendono i temi propri del saluto al dio, mentre i vv. 160-161 si riferiscono alla transizione dalle lodi del dio a un altro canto di diverso argomento. La parte relativa alla preghiera e alla richiesta di vittoria riceve infine una trattazione assolutamente straordinaria ai vv. 165-173, che è opportuno esaminare da vicino.

ἀλλ᾽ ἄγεθ᾽ ἱλήκοι μὲν Ἀπόλλων Ἀρτέμιδιξύν,
χαίρετε δ᾽ ὑμεῖς πᾶσαι· ἐμεῖο δὲ καὶ μετόπισθεν
μνήσασθ᾽, ὁππότε κέν τις ἐπιχθονίων ἀνθρώπων
ἐθάδ᾽ ἁνείρηται ξεῖνος ταλαπείριος ἐλθών·
ὦ κοῦραι, τίς δ᾽ ὔμμιν ἀνὴρ ἥδιστος ἀοιδῶν
ἐνθάδε πωλεῖται, καὶ τέῳ τέρπεσθε μάλιστα;
ὑμεῖς δ᾽ εὖ μάλα πᾶσαι ὑποκρίνασθαι ἀφήμως·
τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ
τοῦ μᾶσαι μετόπισθεν ἀριστεύσουσιν ἀοιδαί.

Ordunque siate benigni, Apollo con Artemide,
e voi tutti siate felici, e di me anche in futuro
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
uno straniero, che qui giunga dopo aver molto sofferto, vi chieda:
«O fanciulle, chi è per voi il più dolce fra gli aedi
che qui sono soliti venire, e chi vi è più gradito?»
E voi tutte, concordi, rispondete con parole di lode:
«È un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio:
e tutti i suoi canti saranno sempre i più belli».

(trad. it. di F. Càssola)

 

Vi è un inizio favorevole (v. 165, «siate benigni») in cui si chiede il favore di Apollo e Artemide e dove il verbo sembra aprire la strada al tema della richiesta di protezione e di vittoria; a questo punto invece segue un’improvvisa reduplicazione del tema del saluto, rivolto però alle ragazze del coro (v. 166, «e voi tutte siate felici»); su questa s’innesta una ripresa del tema “ricordare”. Qui lo spostamento dei referenti è completo, oggetto del ricordo non sono altri canti, ma il poeta stesso: si realizza così una forma di preghiera del tutto senza paralleli. L’eccellenza del poeta e del suo canto non fa parte di una richiesta di vittoria, ma è un dato incontestabilmente affermato, e offerto alle Deliadi perché lo proclamino nel futuro (vv. 169-173).
All’interno di questa trama manca insomma ogni accenno alla situazione agonale, e al desiderio del rapsodo di prevalere su altri poeti, pur in presenza di tutti i temi che tradizionalmente vengono impiegati per esprimere questi concetti. Vi è invece in positivo la coscienza della propria eccellenza e della superiorità della tradizione (cioè Omero) che il poeta rinnova nel suo canto. Da cosa può derivare questa coscienza? Tentativamente possiamo pensare che la competizione, se esiste, non riguarda il poeta bensì i cori che succederanno alla sua performance. Se Cineto fu incaricato da Policrate di comporre ed eseguire un inno sostanzialmente nuovo, è chiaro che una scelta di eccellenza doveva essere già stata fatta, e di questo il poeta non poteva non essere cosciente. Il rapsodo epico – in sé il poeta meno occasione, ripetitore fedele delle parole eterne delle Muse e della tradizione – si trova coinvolto in un evento di tipo, per così dire, lirico, condizionato da una committenza esigente, non diversa da quella che dava incarico a Ibico o a Simonide di comporre ditirambi o peani per le occasioni festive dei tiranni e delle città.
Siamo così giunti a una prima definizione del contesto della performance delia di Cineto; l’elemento più interessante, e anomalo, è certamente l’associazione organica dell’esibizione solistica per eccellenza – quella del rapsodo – e di quella corale; al coro delle Deliadi infatti, e non a un rapsodo, spetta il compito di proseguire la performance iniziata dall’aedo. Sembrano cadere a livello delle performance le linee di demarcazione tra forme poetiche epiche e liriche. La cosa è solo in parte eccezionale, basti pensare alla posizione ambigua della citarodia stesicorea, a proposito della quale gli studiosi sono incerti fra esecuzione solistica o corale, e a quanto abbiamo detto a proposito del proemio.

Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.
Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.

La festa policratea si caratterizza però in modo peculiare: un’unica performance che comprende esibizioni sia di un poeta epico solista sia di uno o più cori lirici: il punto di contatto consiste nella materia del canto che è per entrambi la narrazione di vicende divine o eroiche.
Diventa così più chiaro il senso dei particolari tratti pragmatici che caratterizzano l’Inno; le frequenti appellazioni al dio, la presenza massiccia di elementi deittico-iussivi nella parte centrale accomunano l’Inno a composizioni proprie della lirica ieratico-rituale. Ciò accade non per scelta soggettiva del poeta, ma proprio perché l’Inno si inquadra in una performance dove essa funge da proemio a una o più composizioni corali, connesse con i riti della duplice festa di Apollo.
Potremmo ancora chiederci che tipo di composizione lirica corale seguisse – parliamo sempre della festa delia del 523 o 522 – il canto rapsodico di Cineto. Naturalmente qualsiasi definizione comporta notevoli margini di dubbio legati all’applicazione all’epoca arcaica di classificazioni operanti solo in epoca successiva, e perciò incongruenti rispetto alle circostanze concrete che presiedevano alle esecuzioni arcaiche. Proprio questa sfasatura fra tassonomia e performances rende poco significativo il testo che con maggiore chiarezza parrebbe definire il canto delle Deliadi. Nell’Eracle euripideo (v. 687 sgg.) il coro dei vecchi si chiede se dovrà cantare un peana, come le Dēliádes che danzano in cerchio. Da un lato non è esplicito il riferimento alle Delie, dall’altro l’attribuzione di un peana a un coro femminile appare in contrasto con il fatto che esso è di norma affidato a un coro maschile. In questo caso penso che, stante il fatto che le due performances sono dal punto di vista funzionale (occasione e destinazione) ampiamente sovrapponibili, il peana venga assegnato alle Deliadi soprattutto per rafforzare l’analogia con il canto che i vecchi (maschi) vorrebbero eseguire. Non è infine da dimenticare che nel V secolo il ditirambo ha ad Atene una precisa caratterizzazione – negli anni Venti i ditirambografi sono già nel mirino di Aristofane – e il suo inserimento nel contesto della tragedia sarebbe probabilmente apparso fuori luogo.
Nel quadro di una festa pensata e voluta, con chiari intenti politici, da un tiranno come Policrate, strettamente collegato con i tiranni ateniesi, l’ipotesi più probabile è che i cori eseguissero dei ditirambi. Una festa caratterizzata da performances ditirambiche verrebbero anche a colmare una sorta di lacuna letteraria e storico religiosa. Delle quattro grandi tirannidi dell’epoca arcaica (Corinto, Sicione, Atene, Samo), quella samia era finora l’unica a non mostrare alcun interesse alle performances ditirambiche, se si eccettua una notizia contenuta in uno scolio all’Andromaca di Euripide, secondo cui l’incontro tra Elena e Menelao durante la presa di Troia era narrato anche da Ibico in un ditirambo.
Questa conclusione non contrasta né con le notizie relative alle performances delle Delie che abbiamo prima esaminato né con quanto si può desumere dall’Inno a proposito del canto del coro. La presenza di esecuzioni e competizioni ditirambiche è ampiamente attestata per le Delie, mentre lo svolgimento di una tematica narrativa eroica coincide con quanto sappiamo a proposito del ditirambo.
Più difficile da spiegare appare il collegamento fra un proemio rapsodico, esametrico e recitato, e un ditirambo. Difficile, tuttavia non impossibile; innanzitutto non si può dubitare dell’esistenza di proemi monodici a performances lirico-corali, caratterizzati da un forte rapporto pragmatico fra “io” del poeta o del corego e “tu”-“voi” del coro: le fonti ne attestano l’esistenza già per Terpandro, benché ne restino imprecise le caratteristiche formali e di contenuto, in assenza di testi esplicitamente ascritti al genere stesso. Inoltre, in un articolo recente, J.L. Malena ha ampiamente argomentato circa l’esistenza di proemi ai ditirambi, cioè di monodie liriche o citarodiche finalizzate a introdurre o avviare il successivo canto del coro. Il proemio ditirambico, che risalirebbe a una fase assai antica della storia del genere, si caratterizzerebbe dal punto di vista dei contenuti come un’invocazione al dio seguita da una serie di ordini al coro; formalmente esso avrebbe andamento metrico prevalentemente dattilico e dizione assai prossima a quella dell’epos, come mostrerebbe un frammento di Terpandro (697 PMG: 4 da): secondo i commentatori antichi il verso, probabilmente il primo di una composizione, riprende modalità tipiche della poesia ditirambica. Analoga funzione proemiale, anche se non collegabile a un ditirambo, avrebbe il fr.84 Calame di Alcmane, dove, ancora in tetrametri dattilici, la Musa è invocata perché dia inizio agli eratá épea.
Ulteriormente significativo è il fr.90 Calame di Alcmane: i quattro esametri del “frammento del cerilo” sono parte di un proemio eseguito dal poeta, o da un corego, a introduzione di una performance corale, probabilmente da parteni.
Altri indizi aiutano a definire meglio il quadro in cui inserire il rapporto fra proemio e ditirambo.
L’unico frammento di Laso di Ermione tramandatoci consiste nell’inizio di un hýmnos in onore di Demetra, Core e Climeno (Athen. 14, 624ef = fr.1 Privitera). Il metro è dattilico e la struttura del primo verso ricorda quella tipica degli Inni omerici. Da Ateneo il frammento è tramandato come parte di un «inno a Demetra ad Ermione»: una definizione in cui si sottolinea la località destinataria del canto e che potrebbe perciò essere connessa con la funzione proemiale del canto, finalizzato a contestualizzare un’intera performance (per esempio i ditirambi) all’interno della festa di Demetra ad Ermione. […]
Il proemio di tipo epico appare dunque una prassi consolidata in relazione alle più antiche performances di ditirambi; da queste la performance delia aperta da Cineto si distingue solamente per il fatto di usare un proemio di tipo non lirico ma rapsodico, non cantato ma recitato. Le ragioni di questa scelta ci sfuggono, e probabilmente nessuna fonte antica sarà mai in grado di illuminarci su essa. Lo impediscono soprattutto le profonde incisioni operate dal corpus della poesia arcaica dalla classificazione alessandrina: opposizioni quali cantato vs recitato, monodico vs corale, utili e sensate da un punto di vista tassonomico e bibliotecario, appaiono sempre più non avere alcuna corrispondenza con le concrete e originarie condizioni di esecuzione.

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Bibliografia:

Aloni A., L’aedo e i tiranni. Studi sull’Inno omerico ad Apollo, Roma 1989.
Burkert W., Kynaithos, Polykrates and the Homeric Hymn to Apollo, in Arktouros. Hellenic Studies presented to B. Knox (ed. G.W. Bowersock, W. Burkert, M.C.J. Putnam), Berlin-New York 1979, pp. 53-62.
Fantuzzi M., Preistoria di un genere letterario: a proposito degli Inni V e VI di Callimaco, in Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, a cura di R. Pretagostini, Roma 1993, pp. 927-946.
Gentili B., L’«io» nella poesia lirica, in Lirica greca e Latina, Atti del convegno di studi polacco-italiano, Poznan 2-5 maggio 1990, «AION (FilLet)» 12, 1990, pp. 9-24.
Gentili B., Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari 1995.
Janko R., The structure of the Homeric Hymns: A study in genre, «Hermes» 109, 1981, pp. 9-24.
Janko R., Homer, Hesiod and the Hymns: Diachronic Development in Epic Diction, Cambridge 1982.
Miller A.M., From Delos to Delphy. A Literary Study of the Homeric Hymn to Apollo, Leiden 1986.
Nagy G., Pindar’s Homer. The Lyric Possession of an Epic Past, Baltimore-London 1990.
Nagy G., Poetry as Performance. Homer and Beyond, Cambridge 1996.
Richardson N.J. (ed.), The Homeric Hymn to Demeter, Oxford 1974.

In scaena

di N. SAVARESE, in ArcheologiaViva, n° 127, Gen.-Feb. 2008, pp. 30 sgg.

«Per gli spettatori il teatro non è soltanto divertente, ma anche utile,
in quanto educa, istruisce e infonde armonia nell’animo di chi vi
assiste, tenendolo in esercizio con bellissimi spettacoli, rallegrandolo
con la musica migliore e mostrando insieme la bellezza del corpo
e dell’anima».
(Luciano, De saltatione, 6)

 

 

Ricostruzione a disegno del teatro di Arelate (od. Arles).

 

Per un cittadino romano dell’età imperiale recarsi a teatro di mattina, sedersi nella cavea assolata accanto ad altre migliaia di persone e assistere agli spettacoli delle pantomime musicali offerti in grandioso scenario architettonico era un’esperienza festosa e gaudente, ben diversa dalla nostra (di notte, al chiuso, nel buio silenzioso di una sala…). Il divertimento teatrale doveva assomigliare piuttosto a qualcosa che sta fra il nostro frequentare uno stadio e un concerto rock. E dunque per un antico romano che cosa voleva dire andare a teatro? Innanzitutto procurarsi un biglietto d’entrata. L’accesso era gratuito per tutti, liberi e schiavi, uomini e donne, vecchi e bambini, ma era necessario un permesso d’accesso, la tessera (in genere una tavoletta d’osso con segni incisi), utile per controllare il numero degli spettatori, dirigerli verso il settore assegnato e limitare così la presenza di personaggi importuni e attaccabrighe. Chi entrava senza toga o malvestito doveva forzatamente occupare le ultime file.

Nonostante l’abbondanza di spazio in teatri costruiti per migliaia di spettatori, la concezione di una società ben ordinata persino nei suoi divertimenti fu adottata dai Romani con una legge che assegnava i posti in base all’ordine sociale e dunque al censo: i comodi sedili con cuscini di prima fila nell’orchestra e nella cavea erano riservati ai senatori mentre le retrostanti quattordici file delle gradinate erano per i cavalieri. Seguivano i posti per il pubblico popolare in cima, più in alto e quindi più lontano dalla scena, quelli per le donne, gli schiavi e i bambini. In ogni caso le classi superiori potevano sedere dove volevano e vestire in modo più informale, per cui c’era sempre chi preferiva sedersi in alto, fra le donne: il teatro era «un luogo di occasioni» (Ovidio, Ars amatoria, I. 89-100). Il giorno dello spettacolo occorreva alzarsi presto, affrettarsi. L’edificio teatrale, che in Grecia sorgeva fuori città, a ridosso di una collina e immerso nella natura, a Roma e nelle città romanizzate viene eretto nello spazio urbano, spesso vicino ad altri edifici riservati agli spettacoli. Se consideriamo la pianta di Roma al tempo di Costantino (306-337) si nota un asse attrezzato dei luoghi di spettacolo che attraversa il cuore della città partendo dal Circo Massimo, passando per il Colosseo, i teatri di Marcello, di Balbo e di Pompeo, per terminare con il circo di Domiziano: si creava così in ogni città dell’impero un vero e proprio “quartiere dei divertimenti”, meta ricercata di locali e forestieri.

 

Teatro di Marcello, Roma. Particolare della facciata con i due ordini di arcate. I resti sono inglobati nel palazzo dei Savelli (XVI secolo).

 

Inoltre, a risvegliare i sensi dei frequentatori di questi edifici non doveva esserci solo l’attesa di spettacoli forti: il verbo latino fornicare e altri termini simili come fornicaria (“prostituta”) e fornicarius (“lenone, protettore”) ricordano che all’origine di questo vocabolario sono i fornices, i grandi archi dei teatri e degli anfiteatri. Nei fornici, appartati bui, si offrivano le prostitute. All’ingresso di questi ambienti di fortuna, un cartello annunciava il nome della donna, ne descriveva le grazie e ne indicava il prezzo. Gli anfratti, coperti da tende a più colori (centones) e alla luce di deboli lucerne, ospitavano su pagliericci gli incontri mercenari.

Una volta entrato, lo spettatore cercava di guadagnarsi il posto migliore nel settore (cuneus) assegnatogli. Ma c’erano altre migliaia di persone e gli schiamazzi per l’accaparramento dei posti o sconfinamenti non erano rari. Erano presenti addetti ad accompagnare gli spettatori (dessignatores), ma anche nerboruti guardiani preposti a mantenere l’ordine con manganelli e scudisci (conquisitores). Inoltre, un’intera coorte di truppe pretoriane controllava i luoghi di spettacolo per reprimere episodi di violenza.

Al di là dell’ovvia confusione dovuta all’affluenza di grandi masse, l’attesa dello spettacolo era animata da un certo viavai di faccendieri, come i venditori d’acqua – secondo quanto riferisce Frontino (ca 40-104) – e quelli di cuscini. E qualche spettatore magari doveva recarsi a fare i propri bisogni sulle scalinate di accesso (vomitoria) perché nei teatri non c’era traccia di latrine. Possiamo immaginare che anche solo il mormorio di migliaia di persone, che in realtà si chiamavano, gridavano e chiacchieravano ad alta voce, si trasformasse ben presto in un baccano infernale. In attesa dello spettacolo, la gente poi cominciava a risentire delle condizioni climatiche. Poiché le rappresentazioni avevano luogo da aprile a ottobre, di solito il sole picchiava forte nell’imbuto della cavea e l’odore acre del sudore si mescolava a quello degli aliti pesanti di aglio e alla flatulenza dovuta ai legumi e ai farinacei assai profusi nell’alimentazione base. Abbiamo perciò notizia di pioggerelle artificiali (sparsiones) con acqua di rose o zafferano (famosa l’acqua di croco della Cilicia) per profumare l’aria, rendere più sopportabile la calura e mitigare gli odori della folla assiepata (Seneca, Naturales quaestiones, II. 9, 30). Per le piogge odorose del Colosseo fu costruito un sistema di tubicini che facevano affluire l’acqua profumata fin sugli spalti per poi vaporizzarla.

Invece, per riparare il pubblico dal sole e dalla calura fu introdotto, proprio in epoca imperiale, l’uso di un tendone (velarium) steso su tutta la cavea. La notizia di questa protezione (vela erunt, «ci saranno le tende»), diffusa dagli avvisi per gli spettacoli, faceva buona pubblicità allo spettacolo, trattandosi di un servizio di lusso molto apprezzato. La stesura e la tensione degli enormi teli di cotone o di lino richiedeva infatti complicati maneggi e la presenza di specialisti: addirittura vi erano addetti i soldati della marina (classarii) abituati alle difficili manovre delle vele sulle grandi navi. Lucrezio (ca 96-53 a.C.) notava come i tendoni multicolori, svolazzando sul teatro, filtrassero i raggi solari dipingendo suggestivamente il pubblico e la scena.

Ricostruzione a computer-grafica di un velarium (o velum), la copertura mobile in tessuto composta da più teli in canapa, utilizzata nei teatri e negli anfiteatri romani per garantire agli spettatori un’adeguata protezione in caso di maltempo o nelle giornate di canicola.

Quando finalmente gli spettatori erano tutti sistemati, un suono di doppio flauto imponeva il silenzio e richiamava il pubblico: allora sulla scena usciva un banditore (praeco) ad annunciare il titolo della rappresentazione, talvolta ripetuto sopra un cartello (programma), e a darne un breve riassunto (argumentum). A questo punto, contrariamente ai nostri costumi, il sipario (auleum) scendeva e veniva arrotolato in una fessura del palcoscenico. Finalmente aveva inizio la rappresentazione.

Gli spettacoli teatrali (ludi scaenici) erano solo uno dei tanti divertimenti offerti ai cittadini romani (oltre ai gladiatori, le caccie spettacolo, le corse dei cavalli, le naumachie), col tempo essi divennero l’attrazione più replicata. Erano infatti più economici rispetto a tutti gli altri: anche se talvolta pagati come vere star, gli attori e i mimi non avevano il problema, come i gladiatori, i cavalli e le bestie feroci, di dover essere rimpiazzati nelle repliche.

Di fronte alle offerte di ludi sempre più spettacolari, realizzati a fini di promozione delle carriere politiche, il comportamento del pubblico romano fu sempre esplicitamente rivolto ad ottenere il massimo divertimento. Una domanda così orientata non poteva che provocare una escalation del fenomeno. Decisivo in tal senso fu il passaggio dall’età repubblicana a quella imperiale e la conquista della pax romana, cioè di una situazione di benessere che, in ogni epoca, ha sempre favorito l’espandersi delle arti e la moltiplicazione degli artisti. Il primo secolo dell’impero romano (a partire da Augusto nel 23 a.C.) figura infatti come il più fertile di innovazioni nel campo degli spettacoli e in particolare di quelli teatrali. Per imporsi sui vasti palcoscenici dei nuovi teatri di Roma – quelli di Pompeo e di Marcello – la cui estensione fronteggiava per intero la cavea e vedeva ergersi alle spalle la monumentale scena a tre piani, c’era bisogno di attori capaci di dominare un grande spazio e di non temere il confronto con un pubblico vasto, socialmente variato e potenzialmente aggressivo. C’era insomma bisogno di professionisti esperti nell’imporsi alle folle con abilità sempre nuove, virtuosi più nei movimenti, visibili anche da lontano, che nella voce. Si deve probabilmente a queste necessità del nuovo spazio scenico e alla facilità comunicativa di spettacoli con poche parti letterarie, il forte incremento di rappresentazioni mimiche e pantomimiche, sempre più grandi in età imperiale.

 

Combattimento tra gladiatori. Mosaico, inizi III sec. d.C. da Lussemburgo.

 

Agli inizi dell’impero, Orazio (65-8 a.C.) si lamentava sia per i costi di queste fastose novità che per il conseguente involgarimento del pubblico, paragonato a un “asino sordo”. Noi sappiamo, tuttavia, che il repertorio classico non fu abbandonato e che le antiche tragedie e le commedie di Plauto, più che di Terenzio, continuarono a essere rappresentate. Si trattava però di consuetudini più sopportate che preferite. Infatti, ancor prima dell’avvento dell’impero, a proposito dell’inaugurazione a Roma del teatro di Pompeo (55 a.C.), Cicerone racconta di spettacoli noiosi, con la riproposizione di attori vecchi e male in arnese e di messinscene troppo sontuose: per il ritorno in patria di Agamennone, episodio di una tragedia, Clytemnestra, di autore non identificato, si videro sfilare sulla scena seicento muli col bottino, mentre per una tragedia di analogo argomento, un Equos Troianus, transitò un corteo che mostrava l’intero saccheggio di Troia con tremila vasi. Queste sfilate, vere grandiose marce trionfali, furono determinate dalla situazione a grandi numeri dei vasti edifici teatrali e avviarono quindi l’invenzione di nuove forme di spettacolo, più che di nuovi generi letterari.

Gli spettacoli erano gratuiti e gli aspetti economici dei ludi erano intimamente connessi ai fattori politici e al potere. Agli inizi, nella prima epoca repubblicana, tutti i ludi, e dunque anche quelli scenici, erano indetti da privati cittadini (un generale vittorioso, gli eredi di personaggi eminenti…) che li offrivano al pubblico pagandoli di persona ed essere così più onorati. I primi giochi pubblici regolari a spese dell’erario furono assegnati, su autorizzazione del Senato, alla responsabilità dei sacerdoti: a presiederli e a organizzarli (cura ludorum) fu chiamato dapprima il pretore urbano e poi la magistratura degli edili. Gli aediles, quattro magistrati (due plebei e due patrizi) eletti annualmente, avevano all’inizio la responsabilità dei templi, degli edifici, dei mercati nonché compiti di approvvigionamento, polizia e nettezza urbana: a questi incarichi si aggiunse, dal 367 a.C. in poi, quello di organizzare i giochi pubblici.

Due attori in un scena tragica. Mosaico, III sec. d.C. dalla Villa di Lorium (Roma). Berlin, Altes Museum.

La magistratura degli edili era la più bassa della carriera politica (cursus honorum), tuttavia da essa si doveva necessariamente partire per accedere alle massime cariche e alcuni magistrati più ambiziosi iniziarono ad usare anche le loro private risorse per rendere più memorabili i giochi che dovevano organizzare istituzionalmente. Così la carica di edile divenne molto dispendiosa: l’ambizione alla popolarità (popularitas) e a raggiungere cariche sempre più alte, sottoponeva gli aspiranti a spese sempre più straordinarie. Gli edili persero prestigio sotto Ottaviano (23 a.C.- 14) per scomparire del tutto ai tempi di Costantino (306-337), così che nella cura dei giochi subentrarono i pretori (praetores), che già in epoca repubblicana avevano rivestito questa carica. Solo gli aediles municipales, magistratura dei municipi con gli stessi compiti che a Roma, continuarono in epoca imperiale a curare regolarmente i giochi sia nei municipi, sia nelle colonie.

Dedicati agli dèi, come i giochi circensi, gli spettacoli teatrali erano preceduti da sacrifici e da una processione rituale (pompa). La pompa teatrale era meno fastosa di quella circense, tuttavia fragorosa, formata com’era da flauti (tibiae), trombe (tubae) e cembali (cymbala). Nonostante il rispetto di queste e di altre liturgie, il teatro romano non ebbe però un vero e proprio carattere religioso, come quello greco, ma soltanto un rapporto prima apotropaico e poi festoso con il riso stesso. Quanto alla presenza di ouverture musicali non bisogna dimenticare che, nonostante la varietà e l’evoluzione delle diverse forme di spettacolo (tragedie, commedie, farse atellane, mimi), la musica giocò un ruolo fondamentale. L’aspetto predominante delle rappresentazioni teatrali romane, soprattutto d’epoca imperiale, era quello di uno “spettacolo musicale”, al punto che la storia della musica romana coincide, in pratica, con quella del teatro. Lo si capisce più facilmente non solo seguendone gli sviluppi in età imperiale (addirittura, la pantomima viene spesso definita “balletto”), ma soprattutto se si effettua un confronto con le grandi culture teatrali extraeuropee, le grandi tradizioni del teatro sanscrito, cinese e giapponese o del sudest asiatico, presso le quali, nella prassi scenica, la musica e la danza hanno sempre avuto il sopravvento e, viceversa, al testo letterario è sempre stato assegnato un ruolo accessorio. In altri termini, gli spettacoli romani dell’età imperiale sono vicini, molto più di quanto si creda, alle forme delle tradizioni spettacolari euroasiatiche, in cui le diverse tradizioni spettacolari (musica, canto, recitazione e danza) si fondano sulla scena in un’unica rappresentazione ritmata dalla musica.

Suonatore di timpano (dettaglio). Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il risultato fu appunto la pantomima, una rappresentazione che si presenta come vero e proprio musical: un pantomimus, mimando più personaggi (fino a cinque), interpretava in un assolo tutta la storia al suono di un’orchestra, sempre presente sulla scena, accompagnato da un coro e da un cantante che narrava in breve la vicenda. Il pantomimo era pertanto un attore-danzatore elegante, dalla figura atletica e aggraziata, che giovandosi di diverse maschere, di colorati costumi di seta, di una gestualità proteiforme, di scenografie e di macchine sceniche (pegma), riusciva ad accentrare sui suoi virtuosismi ogni attenzione del pubblico. Non sembra strano dunque che i pantomimi fossero dei veri divi idolatrati dalla folla, amati dagli imperatori.

Pagine ragguardevoli ci sono state lasciate sui pantomimi e sulla loro arte, mentre illustri storici testimoniano episodi di cronaca eclatanti: come quel pantomimo che – racconta Svetonio (I-II secolo) – interpretando Icaro si lanciò dall’alto e precipitò ai piedi di Nerone macchiandogli la toga di sangue; o quella crocifissione in scena di un malvivente – riportata da Flavio Giuseppe (I secolo) – avvenuta sostituendo all’ultimo momento l’attore con un condannato a morte. Apuleio (125-180) lascia la descrizione completa di una pantomima nel teatro di Corinto: un Giudizio di Paride a più attori, completo di monti, ruscelli e caprette che terminava con una montagna sprofondata nel palcoscenico mentre una nube profumata invadeva il teatro (Metamorfosi, X. 30). Una rappresentazione pastorale che contrasta con altri temi mostruosi anch’essi fra i più richiesti: per esempio, quello di Tieste che divora i figli imbanditi dal fratello Tireo. La lista dei titoli messi in scena è davvero lunga, e proprio per questo al pantomimo era richiesta una grande cultura per conoscere i minimi particolari delle storie trattate dai poeti.

Enrique Simonet, Il giudizio di Paride. Olio su tela, 1904. Museo de Málaga.

Dunque, i pantomimi sfruttarono i temi della mitologia greca, a cui si aggiunsero le leggende dell’epopea romana (Enea, Didone, Romolo…) non escludendo la ripresa di tipiche situazioni farsesche dai canovacci dei mimi, come vecchi mariti abbindolati, giovanetti travestiti da fanciulle, amanti nascosti nei bauli… Le trame di repertorio richiedevano allo spettatore di massa una minore concentrazione: lo smembramento delle antiche tragedie già note permetteva di approdare senza preliminari alle scene madri facendo risaltare al massimo l’azione coreografica e l’allestimento sfarzoso. Anche per questo motivo, non si scrivevano più nuovi drammi ma erano gli stessi attori a rielaborare i testi antichi estrapolando singole scene e adattandole alle proprie abilità espressive.

Nonostante la tendenza alla caricatura dei miti e agli intrighi farseschi, la pantomima romana era uno spettacolo raffinato e complesso che riuniva il gusto della commedia e della tragedia e nel quale era difficile individuare un genere preciso: i “balletti” mitologici potevano alternarsi alle acrobazie dei giocolieri, gli assolo di grandi tirate tragiche potevano cedere il passo a danze erotiche talvolta spinte ai limiti più arditi. Tutto insomma era possibile per danzatori, musicisti e cantanti dotati di una tecnica sempre più straordinaria: un “tutto” quello del pantomimo che solo molto più tardi, agli inizi del XX secolo, sarà chiamato “attore totale”.

Alla fine di uno spettacolo, il pubblico approvava battendo le mani (applausus, plausus) o disapprovava con urla, fischi (sibili), lanci di frutta e anche di pietre. In età repubblicana, per un aspirante politico organizzatore dei giochi ricercare applausi durante lo svolgimento degli spettacoli era una necessità per ottenere il favore del popolo (favor populi): all’epoca le elezioni erano nelle mani della classe media, l’ordine equestre, la stessa classe cioè che non solo presenziava in massa ai giochi esprimendosi con l’applauso, ma anche quella che ne dava materialmente il segnale d’inizio (Cicerone, Ad Atticum, II. 19, 3). Il rapporto diretto potere-popolo in occasione degli spettacoli divenne una tradizione così importante che l’applauso verso le autorità rimase in auge anche in epoca imperiale quando cioè non esistevano più le elezioni politiche, essendo le cariche pubbliche assegnate direttamente dall’imperatore.

Pubblico di uno spettacolo gladiatorio. Mosaico, II-III sec. d.C. Köln, Römisch-Germanisches Museum.

Secondo le fonti, sarebbe stato Nerone a inventare la claque, istituendo per la prima volta squadre di giovani per ritmare gli applausi con modi differenti: “ronzanti” (bombos, detto delle api), “a tempesta”, per gli applausi ottenuti con il cavo delle mani (imbrices), infine “a mattoni” (testas), ottenuti battendo di piatto le palme. Nel XIX secolo, in Francia, i clacquiers erano chiamati “les Romains du parterre“, probabilmente ancora in ricordo della clacque neroniana.

I piaceri dello spettacolo pantomimico che attiravano le folle furono duramente condannati dai padri della Chiesa cristiana: il prete Novaziano (ca. 200-258) parla di «piaceri criminali»; Zosimo, papa nel 417, li maledice come fattore di decadenza della monarchia e Giovanni Crisostomo (morto nel 407), della chiesa greca, insorge contro la loro oscenità e, definendoli «ricettacoli di tutti i vizi», invita i cristiani a non recarsi più nei «teatri del diavolo». Ma come è avvenuto altre volte nella storia, sono proprio le insospettabili pagine dei grandi detrattori del teatro quelle che hanno lasciato la testimonianza della sua fascinazione. Come rivela un passo delle Confessioni di Agostino d’Ippona (354-430), in cui il ricordo di essere stato giovane e appassionato spettatore teatrale mostra una memoria ancora vibrante nonostante il pentimento e la convinta conversione.