P. Terenzio Afro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 76-84 = ID., E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 145-157.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 2r. Il ritratto di Terenzio sul frontespizio.
  1. Un commediografo moderno, per un nuovo contesto culturale

 

Terenzio è stato, insieme a Plauto, il commediografo più significativo della letteratura latina. Se è vero che, all’epoca, le commedie del Sarsinate riscossero un consenso di pubblico ben più ampio, va tenuto presente che il teatro terenziano fu espressione degli ideali coltivati dalle nuove élite intellettuali di Roma e che proprio Terenzio, molto più di Plauto, è indispensabile per comprendere la letteratura latina del II secolo a.C. e i suoi sviluppi successivi.

Le pur controverse notizie biografiche antiche, infatti, inseriscono Terenzio al centro di quella che gli storici moderni usano chiamare l’«età degli Scipioni». Il suo debutto teatrale si colloca due anni dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), che segnò la definitiva vittoria sui Macedoni e che costituì un momento cruciale nell’affermazione di Roma in Oriente e nell’evoluzione dei suoi rapporti con la cultura ellenistica. Di qui in avanti, per circa vent’anni, si ebbe un lungo periodo di pace, in cui l’Urbe consolidò la propria posizione di potenza imperiale.

Ricostruzione a disegno della colonna, con fregio e statua, eretta a Delfi nel 167 a.C. da L. Emilio Paolo a seguito della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna. Copertina di H. Kähler, 1965.

La data di Pidna, il 168, è uno spartiacque anche da un secondo punto di vista: il trionfo di Lucio Emilio Paolo, che trascinava dietro al suo carro i tesori della corte macedone, fu quasi un simbolo dell’appropriazione di un mondo. In seguito alla vittoria furono deportati a Roma mille ostaggi achei, tra cui intellettuali, come lo storico Polibio: l’uomo che nella sua opera, per la prima volta da parte greca, svilupperà un matura riflessione sulle cause del successo di Roma come potenza egemone. L’appropriazione del mondo greco si sviluppò, dunque, su più livelli distinti: modificazioni nel gusto e nella mentalità, crescita dei consumi di lusso e dei consumi d’arte, interessi per nuovi modelli etici e ideologici (quest’ultimo aspetto prese forza attraverso nuovi modi di relazioni culturali). Un grande clan aristocratico romano, la gens Cornelia Scipiones, diventò un centro di elaborazione di cultura grecizzante, non più passivamente importata o mediata a un livello popolare, ma ricondotta alla più alta dignità teorica. In questo senso fu significativa la presenza presso gli Scipioni del grande filosofo stoico Panezio di Rodi, come dello stesso Polibio; mentre andava diffondendosi, con l’insegnamento di Cratete di Mallo (attivo nell’Urbe dal 168), un nuovo tipo di eloquenza e di dottrina retorica.

Il nuovo indirizzo culturale e ideologico, che trovava il suo centro di propagazione nel circolo degli Scipioni, portò proprio con Terenzio a innovazioni importanti anche nella poesia scenica.

  1. Una biografia incerta e romanzata

Della biografia di Terenzio poco può essere stabilito con certezza. Originario di Cartagine, come attesta anche il suo cognomen (Afer, «Africano»), il poeta sarebbe nato intorno al 185/4 a.C.; tuttavia, il fatto che quest’ultimo sia attestato come l’anno della scomparsa di Plauto rende la notizia sospetta – era usuale nelle biografie antiche sincronizzare le date di nascita e di morte di autori che venivano, in qualche modo, a “succedersi” nell’eccellenza in un determinato genere letterario), e oggi appare più probabile una data di circa dieci anni anteriore. Anche l’aneddoto secondo cui Terenzio avrebbe letto il suo primo lavoro – l’Andria – al grande commediografo Cecilio Stazio, ricevendone incoraggiamento, potrebbe essere costruito apposta per collegare due diverse generazioni letterarie. In ogni caso, a pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra punica, il poeta sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore Terenzio Lucano, anche se non è chiaro in quale precisa occasione.

Tutte le fonti antiche sottolineano gli stretti rapporti di Terenzio con Scipione Emiliano e Lelio, che furono sicuramente suoi protettori. E il poeta stesso, in alcune commedie, accenna al sostegno ricevuto da illustri amici (Heautontimorùmenos, v. 23 ss.; Adelphoe, v. 15 ss.). Su questi rapporti correvano all’epoca voci denigratorie di vario tipo, secondo cui i veri autori delle opere terenziane sarebbero stati gli stessi Scipione e Lelio (questo tipo di illazione ha paralleli, com’è noto, anche nella biografia di Shakespeare). È chiaro che queste dicerie vadano inquadrate nel clima della rovente polemica letteraria e politica che caratterizzava quegli anni.

Terenzio sarebbe morto nel 159, o comunque ben prima della Terza guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali. Il dato, se autentico, è interessante, perché questo tipo di viaggio sarebbe ben presto divenuto caratteristico nella formazione dei Romani colti (un episodio del genere è riferito, per esempio, anche a proposito della scomparsa di Virgilio). I dettagli sulle circostanze della morte (Terenzio sarebbe annegato) sono poco credibili e fanno pensare a un voluto accostamento con la morte per annegamento attestata anche per il grande commediografo greco Menandro, suo riconosciuto ispiratore.

Il riferimento principale alla biografia terenziana è la Vita Terentii, contenuta nel De viris illustribus di Svetonio (composta intorno al 100 d.C. e tramandata come introduzione al commento a Terenzio di Elio Donato, del IV secolo d.C.). Svetonio utilizzava ampiamente eruditi di età repubblicana, ma la qualità delle sue informazioni è controversa, dato che molti particolari della vita erano oggetto – fin dai tempi stessi di Terenzio – di voci contrastanti e di polemiche. Il commento di Donato è una delle migliori opere del genere giunte fino ad oggi, e trasmette buone informazioni su questioni di tecnica teatrale e di messa in scena delle commedie.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 3r. Maschere.
  1. Le sei commedie superstiti

Di Terenzio restano sei commedie tramandate per intero, la cui estensione ammonta complessivamente a circa 6.000 versi. La cronologia è attestata con sufficiente precisione dalle didascalie anteposte alle singole opere nei manoscritti medievali, nelle quali è confluita gran parte del lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici tardoantichi.

I modelli greci utilizzati da Terenzio, e dichiarati nei prologhi, appartengono tutti alla tradizione della Commedia Nuova greca: Menandro, Difilo e il meno celebre Apollodoro di Caristo (commediografo greco del III sec. a.C.). Gli intrecci terenziani non si discostano dunque da quelli caratteristici del modello ellenico e della palliata tradizionale romana: giovani innamorati, genitori che li contrastano, schiavi indaffarati a soddisfare i desideri dei loro padroncini e, quasi sempre, alla fine, il riconoscimento che risolve la situazione.

Di seguito si offre un breve riassunto della trama di ciascuna delle sei commedie superstiti:

Andria | Modello greco è l’omonima commedia di Menandro, contaminata con la Perinthia dello stesso autore. La ragazza di Andro, da cui il titolo dell’opera, è Glicerio, abbandonata nella fanciullezza e allevata da una cortigiana. Di lei si innamora Pànfilo, già fidanzato con Filùmena, figlia di Cremète. Quest’ultimo, informato della relazione adulterina del genero, va su tutte le furie e manda a monte le nozze del giovane con Filùmena, nonostante i tentativi del padre di Pànfilo di salvare il matrimonio, già da tempo combinato. La situazione si complica per i tentativi piuttosto goffi di Davo, servo del giovane, di aiutare il padroncino. L’intreccio si scioglie con l’agnizione finale: si scopre, infatti, che anche Glicerio è figlia di Cremète, il quale, senza difficoltà, la concede in sposa a Pànfilo al posto di Filùmena.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 10v. Andr. III vv. 459-480. Scena con Lesbia, Glicerio, Miside, Panfilo, Davo e Simone.

Hècyra | Commedia dalla sorte particolarmente travagliata, rielabora un testo dallo stesso titolo (che significa «La suocera») di Apollodoro di Caristo, contaminato con gli Epitrèpontes («L’arbitrato») di Menandro. La trama ruota attorno al personaggio di Sòstrata, madre di Pànfilo e suocera di Filùmena. Sòstrata è un personaggio completamente diverso dalla figura stereotipata della madre gelosa del figlio e ostile alla nuora; anzi, si adopera ad appianare le gravi incomprensioni fra i due promessi sposi. Si scopre, infatti, che Filùmena, prima del matrimonio, è stata messa incinta da uno sconosciuto durante un festino notturno; Pànfilo vorrebbe abbandonarla, ma, alla fine, risulterà che è stato lo stesso giovane a mettere incinta la fidanzata. Conquistato dall’indole dolce e remissiva della moglie, Pànfilo si riconcilia con lei, rinunciando all’amore per la cortigiana Bacchide, la quale si adopra anch’essa per favorire la riconciliazione fra gli sposi.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 68v. Sostrata.

Heautontimorùmenos | Il titolo greco (Terenzio rielabora un’omonima commedia di Menandro) significa «Il punitore di se stesso». Protagonista è il vecchio Menedèmo, che per punirsi di aver spinto suo figlio Clinia ad arruolarsi in Asia, ostacolandone le nozze con una ragazza di umili origini, si è autocondannato a lavorare duramente la terra con le proprie mani fino al ritorno del giovane. Quando questi rientra in patria, il vecchio lo accoglie con un affetto più intenso e maturo; e, dopo una serie di imbrogli e di equivoci, Clinia riesce anche a sposare la ragazza che da tempo amava – nel frattempo, costei si è rivelata essere figlia di Cremète, amico di Menedèmo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

Eunuchus | Rielaborazione di una commedia omonima menandrea, commista di alcune situazioni tratte dal Kòlax («L’adulatore») dello stesso autore greco. L’etera Taide, concubina del soldato Trasone, è, in realtà, innamorata del giovane Fedria. Trasone riporta alla compagna Pànfila, una ragazzina che le era cresciuta accanto come una sorella e successivamente era stata venduta come serva. Il fratello di Fedria, Cherea, innamoratosi di Pànfila, si traveste da eunuco per farsi consegnare in custodia la ragazza. Trasone, geloso di Fedria, vorrebbe riprendere con la forza Pànfila a Taide, ma è costretto a lasciar perdere. Il falso eunuco viene smascherato, ma si scopre che Pànfila era una cittadina ateniese e Cherea può sposarla; Taide, invece, decide di tenersi Fedria come amico del cuore.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 30v. Cherea vestito da eunuco.

Phormio | Modello è l’Epidikazòmenos («Il pretendente») di Apollonio di Caristo. Il parassita Formione, attraverso svariate peripezie, riesce ad aiutare due cugini, Fedria e Antifone, a sposare le ragazze di cui sono rispettivamente innamorati. Anche qui funziona il meccanismo dell’agnizione, perché, verso la fine del dramma, si scopre che Fanio, amata da Antifone, finora creduta orfana, è, in realtà, la figlia illegittima di Cremète, padre di Fedria e zio dello stesso Antifone.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 81r. Dialogo tra Formione e Geta.

Adelphoe | Rielabora la commedia menandrea dallo stesso titolo («I fratelli»), traendo tuttavia una scena dai Synapothnèskontes («Coloro che muoiono insieme») di Difilo. Si mette a confronto due diversi sistemi di educazione: Demea ha allevato con grande rigore il figlio Ctesifone, mentre ha concesso in adozione l’altro figlio, Eschino, al fratello Micione, che lo ha educato nella più grande libertà. Demea considera Eschino uno scapestrato corrotto dal lassismo del fratello, e la sua opinione si rinsalda quando si viene a sapere che il ragazzo ha rapito una fanciulla. Ma, in realtà, Eschino ha commesso il rapimento per conto del fratello, che Demea considera irreprensibile. Dopo varie vicissitudini, tutto si appiana: la commedia, però, ha un finale di difficile interpretazione, dove Demea sembra formulare, quasi con dispetto, più che con sincera convinzione, il proposito di adottare i metodi permissivi – facili, ma pericolosi – del fratello e di mostrarsi, d’ora in poi, condiscendente con tutti.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 52r. Ad. I vv. 49-80; 81-89. Dialogo fra Demea e Micione.
  1. Il declino del teatro popolare e la nascita di un teatro d’élite

La novità del teatro terenziano non si fonda solo su un profondo ripensamento della tecnica teatrale rispetto ai modelli della tradizione, ma – come si è anticipato – si fa portavoce delle istanze culturali provenienti da settori importanti delle élite politiche romane del II secolo, particolarmente influenzate dalla cultura greca e decise a diffondere i propri ideali attraverso un rinnovamento in campo letterario e artistico, anche a prezzo di deludere le aspettative del grande pubblico.

Con Plauto, infatti, il genere comico era stato un ineguagliabile momento di intrattenimento popolare. Poco importa, da questo punto di vista, quanto fosse profondamente raffinata l’arte plautina, con la sua imprevedibile fantasia ritmica e verbale. Di fatto, le commedie di Plauto riuscivano ad avere successo presso il grande pubblico quanto nessun’altra forma di comunicazione letteraria del tempo. Sicuramente Plauto divertiva e appassionava anche chi non fosse per nulla sensibile alle problematiche culturali degli originali menandrei. Sul piano dei contenuti, infatti, il suo teatro non sottoponeva il pubblico a sforzi di apprendimento e di meditazione: tutto era assorbito e bruciato dal fuoco di fila delle invenzioni comiche. Le trame offrivano gli spettatori un convenzionale canovaccio di riferimento, senza che si scavasse troppo nella psicologia dei personaggi in azione.

Anche il teatro di Terenzio accettò l’inquadramento convenzionale e ripetitivo di queste trame, senza produrre alcuno sforzo di originalità. Ma, a differenza di Plauto, l’interesse non era nel gioco verbale da cui scaturiva l’effetto comico; ora l’attenzione era tutta rivolta ai significati, cioè alla sostanza umana messa in gioco dagli intrecci della commedia stessa. Nella sua opera Terenzio si propose quindi il difficile compito di servirsi di un genere tradizionale e fondamentalmente popolare per comunicare sensibilità e interessi nuovi, maturati nell’ambito ristretto di una élite, sociale e culturale insieme. Le gravi difficoltà da lui incontrate nel rapporto con il pubblico (e con alcuni colleghi teatranti) si possono ricondurre a questa tensione innovativa.

Tra le commedie rimaste, una in particolare, l’Hècyra, ebbe una sorte esemplarmente infelice presso il pubblico romano: alla prima rappresentazione, nel 165, gli spettatori le preferirono un’esibizione di funamboli, nonostante la bravura di Ambivio Turpione, l’attore e impresario teatrale di tutte le commedie terenziane); alla seconda, nel 160, tutti se ne andarono, quando – nel bel mezzo della rappresentazione – si sparse la voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori; solo alla terza (ancora nel 160) lo spettacolo poté arrivare a conclusione.

Attore con maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Villa di Cicerone, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un teatro di individui, non di maschere | Le vicende delle commedie terenziane sono sintomatiche del declino del teatro popolare latino – che, nell’epoca successiva, sarebbe andato rapidamente accelerando – e del progressivo divaricarsi dei gusti del pubblico di massa e dell’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca. In effetti, il teatro di Terenzio mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica; all’autore interessa soprattutto l’approfondimento psicologico dei personaggi e per questo rinuncia all’esuberanza comico-fantastica, che tanto aveva contribuito al successo del teatro plautino. Ma è bene intendersi: spesso Terenzio, più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, sembra interessato a quella di tipi umani: il giovane innamorato, la ragazza a lui teneramente devota, il padre tradizionalista e preoccupato per la felicità del figlio, la prostituta capace di buoni sentimenti e di genuino altruismo.

Per questo motivo alcuni critici moderni, non senza una certa forzatura, hanno potuto accostare il teatro terenziano ai Caratteri di Teofrasto (IV sec. a.C.). Tuttavia, benché tipizzati, anche se non dotati di forte personalità individuale, i personaggi di Terenzio sono spesso anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, ma anzi pensosa della felicità della nuora, o la prostituta moralmente migliore di tanta gente “perbene” sono i caratteri largamente innovativi rispetto alle aspettative del pubblico. L’approfondimento psicologico comportava una notevole riduzione della comicità, che avrà senz’altro contribuito allo scarso successo dell’autore presso il pubblico di massa: attraverso la rappresentazione di una suocera arcigna e brontolona, o di una cortigiana avida, strappare qualche risata sarebbe sicuramente risultato più facile.

L’humanitas | La palliata latina era sempre stata, per sua natura, ancorata alle situazioni familiari: suoi tipi fissi erano il giovane innamorato e scapestrato e il vecchio padre ingannato. In Terenzio, invece, questi rapporti diventarono veramente autentici legami umani, sentiti con maggiore serietà problematica.

Questo approfondimento rifletteva insieme la sincera adesione al modello di Menandro e la circolazione di ideali “umanistici” di origine ellenica nelle cerchie più evolute della Roma contemporanea. Così si spiega l’introduzione di un concetto chiave come quello di humanitas – influenzato dal greco φιλανθρωπία – che trova la sua espressione più significativa in una famosa battuta dell’Heautontimorùmenos, homo sum: humani nihil a me alienum puto (che è diventata un po’ l’emblema dell’ideale classico dell’humanitas). Questa elaborazione concettuale, ovviamente, non rappresenta un’isolata invenzione di Terenzio, ma è in piena sintonia con la cultura dell’età scipionica. In questo concetto («riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo», come è formulato da Alfonso Traina) confluiscono vari filoni del pensiero greco, ma tipicamente romana è la sintesi costruttiva e “ottimistica” dell’ideale umanistico, ispirato da pragmatismo attivo.

La consapevole rinuncia alla vis comica | L’elemento che a Giulio Cesare appariva come il difetto principale dell’arte di Terenzio era l’assenza di vis («slancio», «energia») della sua virtus comica. Tale mancanza dipendeva, tuttavia, da una scelta consapevole del poeta e non da una sua presunta incapacità di scrivere commedie improntate al gusto della palliata tradizionale.

Non è certamente casuale che la commedia terenziana di maggior successo presso i suoi contemporanei – l’Eunuchus – sia pure quella in cui meno si affacciassero questi temi psicologici e umanistici. Si trattava, infatti, del più riuscito tentativo da parte dell’autore in direzione della comicità plautina: il dramma mette in scena un romanzesco travestimento (un giovane si finge eunuco per avere in consegna l’amata) e un burlesco personaggio (plautineggiante) del «soldato fanfarone». In ogni caso, la notevole qualità di questo testo dimostra in Terenzio anche delle attitudini puramente comiche e drammaturgiche, che spesso la critica moderna è stata portata a sottovalutare.

Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.
  1. La poetica e il rapporto con i modelli

Sebbene la sua fortuna «scolastica» abbia condizionato la sua immagine letteraria, sarebbe sbagliato pensare a Terenzio come a una sorta di predicatore o di autore educativo, in quanto il suo interesse per i contenuti morali e culturali non andava mai a discapito della tecnica drammaturgica. Al contrario, egli è stato uno dei letterati latini più professionali, più consapevoli degli aspetti tecnici del proprio mestiere. Le sue preferenze per la Commedia Nuova e, in particolare, per Menandro mostrano bene la coesistenza di questi due aspetti: il poeta ateniese gli offriva sia un modello culturale – collegato all’interesse di Terenzio per valori come l’humanitas – sia un modello letterario, vale a dire un raffinato esempio di stile e di tecnica drammatica. Proprio lavorando a fondo sui modelli ellenici, Terenzio trovò modo di esprimere sia la propria impostazione ideale sia la propria vocazione letteraria.

Il rispetto dell’illusione scenica e la rinuncia al metateatro | Le commedie di Menandro erano state – come si è visto – un modello importante anche per Plauto, ma questi non era stato particolarmente aderente a quell’esempio: la verosimiglianza, il cardine della poetica menandrea, non fu per Plauto un valore assoluto. Nella palliata plautina, infatti, il gioco scenico finiva facilmente per diventare fine a se stesso, mettendo in crisi l’aderenza alla realtà dell’intreccio drammatico: è ciò che è stato definito “metateatro” plautino.

Terenzio curò, invece, molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica: lo sviluppo dell’azione non prevedeva mai esiti “metateatrali”. Venivano anche rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che non avessero diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico, ma che si rivolgevano liberamente al pubblico (interrompendo l’illusione scenica e rivelando così, come un commento esterno all’azione, quale fosse il meccanismo drammatico che regolava e costruiva l’invenzione comica). In pratica, la palliata di Terenzio non apriva al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione venivano tutti concentrati nello spazio del prologo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 35v. Prologo dell’Heautontimorumenos.

La nuova funzione del prologo | Nella Commedia Nuova il prologo era generalmente concepito come uno spazio espositivo, in cui l’autore dava informazioni preliminari necessarie alla comprensione della trama (non erano illustrati solo gli antefatti dell’azione, ma si anticipava anche una parte dello sviluppo e si accennava allo scioglimento finale: la scena di agnizione o simili colpi di scena). Questo metteva il pubblico in una posizione “panoramica”, più attenta allo sviluppo dell’azione e capace di apprezzare gli effetti di ironia via via impliciti nella situazione scenica (equivoci, errori di prospettiva, ecc.).

L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto al teatro plautino. Il poeta rinunciava a usare i prologhi in funzione informativa, anche a costo di qualche oscurità nello svolgimento dell’intreccio, e li adoperava, invece, per esprimere personali prese di posizione in rapporto alla commedia di volta in volta messa in scena: chiariva il rapporto con i modelli greci utilizzati e rispondeva a critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo nuovo tipo di prologo presupponeva un pubblico più colto rispetto a quello delle commedie plautine, un pubblico più attento a problemi di gusto e di tecnica, e senz’altro anche più ristretto e selezionato.

Questo uso dei prologhi rendeva Terenzio avvicinabile a figure come Ennio, Accio e Lucilio, che nella loro pratica letteraria davano sempre più spazio a momenti di riflessione critica e poetica, avvicinandosi così all’ideale alessandrino del «poeta-filologo». Non a caso, Terenzio tendeva a sottolineare il suo distacco dalla “vecchia” generazione di commediografi, che comprendeva i poeti raccolti intorno ai grandi nomi di Plauto e di Cecilio Stazio. Il principale avversario, che Terenzio citava indirettamente nei suoi prologhi, era noto da altre fonti come un poeta comico minore, Luscio di Lanuvio.

Menandro. Busto, copia romana da originale di Cefisodoto il Giovane e Timarco di Prassitele (IV sec. a.C.). Moskow Hermitage.

La contaminatio | Nel prologo dell’Andria Terenzio ribatte all’accusa di contaminare fabulas (v. 16), cioè, a quanto pare, di “rovinare” i suoi modelli greci creando inopportune mescolanze, ibridi di testi diversi (da qui gli studiosi moderni hanno adottato il termine «contaminazione» per indicare, in genere, la tecnica di incrociare modelli letterari diversi in un unico testo). Il poeta sottolinea che anche i tanto venerati Nevio, Plauto, Ennio non fecero diversamente con i loro modelli greci. Così, per esempio, la prima scena dell’Andria è tratta da un’altra commedia di Menandro, la Perinthia, dove tuttavia, a quanto si apprende da Donato, Terenzio avrebbe sostituito a un dialogo tra marito e moglie un dialogo tra padrone e servo. Ben si comprende, dunque, come la contaminatio non fosse un processo di trasposizione meccanica.

A quale idea dell’azione drammatica sia funzionale la contaminatio è spiegato nel prologo dell’Heautontimorùmenos, dove Terenzio contrappone un tipo di commedia «statica» (stataria) a una commedia piena di effetti e con azione assai movimentata (motoria è chiamata nel commento di Donato). Quello che viene rifiutato è, in sostanza, la farsa popolare di tipo plautino, con le sue scene animate da inseguimenti e litigi e i suoi personaggi caricaturali: «Perché non tocchi sempre far la parte del servo che corre, del vecchio arrabbiato, / del vorace scroccone, del sicofante sfrontato, / dell’avido lenone a me che sono anziano» (vv. 37 ss.). È chiaro che Terenzio opponeva a questo stile sanguigno un ideale di arte più riflessiva, più attenta alle sfumature, più verosimile: insomma, un’arte tale da fondare l’azione drammatica sul dialogo, non sul movimento scenico e sul clamore.

Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull’uso dei modelli greci (adattamenti, contaminazioni, ecc.) sono per i moderni difficili da riscontrare nella pratica, perché dei suoi originali – per esempio, i testi di Menandro da lui citati come fonte nei prologhi – non sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Il problema dell’originalità è perciò difficile da analizzare in modo definitivo. Ciò che si riesce a distinguere è che Terenzio si attenne piuttosto fedelmente alle linee degli intrecci menandrei, senza tuttavia mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccavano. Ciò riporta ai contenuti della sua arte, che riguardano i caratteri e i problemi di un’umanità “borghese”.

  1. Lo stile e la lingua: una rivoluzione sottovoce

Nel nuovo contesto dell’età degli Scipioni e nell’ottica di una personale e originale rielaborazione dei modelli greci, è comprensibile che lo stile espressivo di Terenzio (proprio perché l’autore stesso non intese metterlo in primo piano) fosse, in genere, l’aspetto più trascurato dalla critica e dai lettori. La prima superficiale impressione è quella di una piatta uniformità, soprattutto per chi mette a confronto la lingua terenziana con l’indiavolata “officina verbale” di Plauto.

Tuttavia, una considerazione più attenta dello stile può dire molto sulla poetica e sulle intenzioni di Terenzio. I suoi personaggi non si abbandonano a tirate imprevedibili, dense di immagini e di giochi ritmico-verbali, dove si rimescolano parodie letterarie, doppi sensi, metafore e allusioni di ogni tipo; l’impressione è più vicina a quella di una conversazione quotidiana. L’elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina (e del teatro latino, in genere, si potrebbe dire) è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile (un concetto che aveva preso sempre più importanza nella letteratura e nell’estetica greca di età ellenistica).

Guardando il linguaggio adottato dal poeta alla luce di Plauto, sembra che la materia linguistica sia stata selezionata, perfino addirittura censurata. Acquistano spazio, invece – ed è sintomatico –, le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l’analisi psicologica dei caratteri. In sei commedie, tutte incentrate su intrighi d’amore, la parola «bacio» (come ha osservato Alfonso Traina) non compare più di due volte in tutto. In Terenzio gli innamorati non si baciano, di regola; e si parla poco, in genere, di corpi, di mangiare, di bere, e naturalmente di sesso; i personaggi non usano scambiarsi crude parole di insulto, né quelle della lingua quotidiana, né quelle reinventate dalla creatività poetica (come accadeva, invece, in Aristofane e in Plauto). Le figure socialmente più basse della palliata – il servo, l’etera, il parassita – sono presenti anche qui, ma non portano in scena la loro particolare carica linguistica.

La restrizione, o la censura, del linguaggio serve, come si è visto, ad assicurare il predominio di certi contenuti. Eppure, ci si può chiedere che effetto facesse questo tipo di linguaggio sul pubblico romano del tempo. È chiaro che, in un certo senso, lo stile medio e pacato di Terenzio fosse più quotidiano di quello plautino, ma ciò non significa assolutamente che Terenzio, per essere verosimile, riproducesse realisticamente la parlata colloquiale dell’epoca. Egli si adeguava, sì, a una lingua in qualche modo reale e realmente parlata, ma si trattava nondimeno di un lessico settoriale, utilizzato dalle classi urbane di buona educazione e cultura. L’effetto doveva essere piuttosto idealizzato rispetto ai gusti del pubblico romano. Il più celebre e citato giudizio critico su Terenzio, dovuto alla penna di Cesare, insisteva appunto su questa tendenza idealizzante del suo stile, definito puri sermonis amator.

La restrizione, o selezione, del lessico aveva, quindi, il suo corrispettivo nella forte riduzione della varietà metrica rispetto a Plauto e ai suoi numeri innumeri: sono, perciò, scarse le parti propriamente liriche, mentre molto contenuta è l’estensione dei cantica (parti cantate o declamate con l’accompagnamento musicale) in rapporto ai diverbia (parti recitative).

Fattucchiera e due donne. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
  1. La fortuna di Terenzio

Non tutte le commedie di Terenzio – si è detto – ebbero successo di fronte all’impaziente pubblico del tempo: sono note, infatti, le vicende della difficile rappresentazione dell’Hècyra. Volcacio Sedigito, poeta del II secolo più volte ricordato per la sua graduatoria poetica (“canone”), poneva Terenzio soltanto al sesto posto, non solo dopo Cecilio Stazio, Plauto e Nevio, ma pure dopo due commediografi minori, Licinio Imbrice e Atilio, che seguirono probabilmente le orme di Plauto.

Eppure, Terenzio continuò a tenere la scena anche dopo la sua scomparsa ed ebbe sempre il favore dei critici più dotti e sensibili, che apprezzarono soprattutto la purezza del suo linguaggio (la lingua urbana dei ceti colti, si è detto), nonché la raffinatezza dello stile. Cicerone, nell’epigramma esametrico riportato nella Vita Terenti, attribuisce al poeta un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a una certa urbanità (come loquens) e a una spiccata dolcezza del dire (omnia dulcia dicens). Cesare, negli esametri più volte citati, che gli sono attribuiti nella stesa Vita svetoniana, pone Terenzio tra i comici sommi e lo definisce, come si è visto, «innamorato della purezza di linguaggio», ma lo giudicò «un Menandro dimezzato» (dimidius Menander), per mancanza di vis comica.

Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (soprattutto da S. Agostino), purezza di lingua che faceva di Terenzio un modello di stile: queste furono le cause che introdussero ben presto le commedie del poeta nella scuola. E con la scuola vennero i commenti, come quello, più volte ricordato, di Elio Donato.

Nel X secolo Rosvita, monaca del monastero tedesco di Gandersheim, compose sei commedie in prosa rimata modellate sulle commedie terenziane: intrecci di storie edificanti con il cristiano lieto fine del trionfo della virtù.

Il Medioevo, come l’Antichità, dedicò commenti a Terenzio. Dante citava dei versi terenziani, forse mediati da Cicerone. Il Rinascimento rinnovò l’interesse per il suo teatro attraverso volgarizzamenti e adattamenti poetici: perdute sono le traduzioni di alcune commedie fatte dall’Ariosto per il teatro degli Estensi, mentre si conserva la traduzione dell’Andria fornita dal Machiavelli.

Molière fu grande ammiratore e imitatore di Terenzio. E dal Seicento in poi furono molte le traduzioni delle commedie terenziane nelle varie lingue europee.

Una così eccezionale fortuna, dovuta principalmente – come si è visto – ai contenuti «educativi» del suo teatro, ha portato forse la critica moderna a sottolineare troppo in Terenzio una sorta di impegno etico-sociale; rimane comunque indispensabile valutare questa esperienza artistica nel concreto quadro della cultura romana di «età scipionica» e anche, per quanto possibile, in rapporto alla letteratura drammaturgica greca che gli servì da ispirazione.

  1. Bibliografia

Edizioni critiche di R. Kauer, W.M. Lindsay, Oxford 1926 (ed. riveduta, 1958), e di J. Marouxeau, Paris 19674 (I vol.), 19643 (II), 19663 (III), quest’ultima con versione francese; di J. Barsby, Cambridge (Ma.), London 2001, 2 voll., con versione inglese. Tra i vari commenti moderni alle singole commedie il più recente è quello dell’Eunuchus, a cura di J. Barsby, Cambridge 1999. Si ricordano anche Hècyra, a cura di S. Ireland, Warminister 1990; Adelphoe, a cura di R.M. Martin, Cambridge 1976 e A.S. Gratwick, Warminister 1987.

Introduzioni generali: G. Norwood, The Art of Terence, Oxford 1923; H. Haffter, Terenzio e la sua personalità artistica, trad. e aggiornamenti a cura di D. Nardo, Roma 1969; B.A. Taladoire, Térence. Un théâtre de la jeunesse, Paris 1972; W.G. Forehand, Terence, Boston 1985 ; S.M. Goldberg, Understanding Terence, Princeton 1986; R.L. Hunter, The New Comedy of Greece and Rome, Cambridge 1985. Sullo stile vd. soprattutto: A Traina, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1974(2), p. 167 ss.; Id., Forma e suono: da Plauto a Pascoli, Roma 1977, p. 181 ss. Una bibliografia generale è quella di G. Cupaiolo, Bibliografia terenziana (1470-1983), Napoli 1985.

L’importante commento di Elio Donato è stato edito da P. Wessner, Leipzig 1902-08. Vd., in proposito, L. Holz, Donat et la tradition de l’enseignement grammatical, Paris 1981, pp. 15-36.

Studi sulla fortuna: H. Hagendahl, Latin Fathers and the Classics, Göteborg 1958; G.E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy. A Study in Popular Entertainment, Princeton 1952, pp. 396-433; M. Barchiesi, Un tema classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova 1963 (su Terenzio nel Medioevo e in Dante).

Per le traduzioni ricordiamo: A. Ronconi, Terenzio, Le Commedie, Firenze 1960; O. Bianco, Terenzio, Commedie, Torino 1993 (rist. 2004); F. Bertini – V. Faggi, Le Commedie, Milano 2006; L. Piazzi, Adelphoe, Heautontimorumenos, Milano 2006; L. Pepe, Andria, Hecyra, Milano 2006. Singole commedie: A. Petrucci, Gli Adelphoe, Roma 19923, e D. Del Corno, I fratelli, Milano 200215; G. Zanetto, Andria, Milano 20012, e M.R. Posani, Andria, Bologna 1990; G. Zanetto, Eunuco, Milano 1999; M. Cavalli, La suocera, Milano 19944; G. Gazzola, Il punitore di se stesso, con intr. di D. Del Corno, Milano 20018; G. Zanetto, Formione, Milano 1991.

Ulteriori studi: C.R. Dodwell, The Vatican Terence and its Model, in Anglo-Saxon Gestures and the Roman Stage, Cambridge 2000, pp. 1-21; C.R. Morey, The Vatican Terence, CPh 26 (1931), pp. 374-385.

  1. Sitografia

Il testo originale delle sei commedie di Terenzio si può leggere nel sito The Latin Library, e, corredato di concordanze, lista delle parole, indici di frequenza, in IntraText. Nel progetto Perseus, il testo delle commedie latine è unito alla traduzione inglese con vocabolario e note al testo. Una traduzione italiana delle commedie si può leggere nel Progetto Ovidio.

La carriera smagliante di M. Porcio Catone (Nep. 24, 1-2)

Cfr. commento di E. GIAZZI, G. BOCCHI (eds.), Dentro e fuori i confini di Roma. I vires illustres di Cornelio Nepote, Milano 2007, 15-17; cfr. traduzione da Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri, a cura di E. NARDUCCI, C. VITALI, Milano 2010, 326-329

Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì probabilmente fin dall’adolescenza a Roma, dove si dedicò agli studi, intrattenendo rapporti di amicizia con Tito Pomponio Attico, Marco Tullio Cicerone e il conterraneo Gaio Valerio Catullo, che gli dedicò il suo Liber di poesie; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C. Fu autore di un’opera di cronografia in tre libri, i Chronica, e di una raccolta di Exempla in cinque libri; ma la sua opera principale fu il De viris illustribus, noto anche come Vitae, una raccolta di biografie di personaggi famosi dell’antichità. Il testo doveva comprendere almeno sedici libri, dei quali rimangono un libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le vite di Attico e di Catone, tratte dal Liber de Latinis historicis.

Con il De viris illustribus Nepote si iscrisse nel filone biografico. Quanto resta di quest’opera è solo una piccola parte di quella che dovette essere l’impresa più vasta e ambiziosa: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico fra la civiltà greca e quella romana. L’idea di Cornelio Nepote era quella di raggruppare le notizie dei suoi personaggi in categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, poeti, oratori, ecc.); ogni categoria occupava due libri, in cui venivano rispettivamente trattati i suoi esponenti stranieri (soprattutto greci, ma non solo) e romani. Anche se la consuetudine di radunare i personaggi secondo categorie era ben attestata nella biografia ellenistica, il raffronto sistematico fra “eroi” romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote, che farà da modello in età imperiale al capolavoro di questo genere, le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (I-II secolo d.C.).

Si è pensato che l’intento fondamentale di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei Romani in ogni settore. Ma quanto rimane non sembra viziato da pregiudizi “nazionalistici”: fra gli scrittori latini egli è, per esempio, quello che rappresenta nella luce migliore la figura di Annibale, il nemico più terribile che Roma si fosse mai trovata ad affrontare. Il progetto dell’autore è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani cominciarono a interrogarsi sui caratteri originali della propria civiltà, e a farsi più disponibili ad apprezzare i valori e le usanze di quelle straniere. Addirittura di una forma moderata di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della breve praefatio che Cornelio Nepote premette al libro sui condottieri stranieri. I concetti di «moralmente onorevole» e «moralmente turpe», egli precisa, non sono gli stessi presso i Greci e i Romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta di ciascun popolo; così alla biografia di Epaminonda viene premesso l’avvertimento di non giudicare i costumi di altre nazioni sulla misura dei propri: la musica e la danza, disdicevoli per un cittadino romano, non lo sono altrettanto per un personaggio eminente di una città greca, dove anzi procurano favore e reputazione.

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.
Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Nella breve Vita Catonis, Cornelio Nepote delinea alcuni tratti della personalità del protagonista, precisando anche con chiarezza i motivi della sua diffidenza nei confronti delle mode grecizzanti del suo tempo. Fin dal primo capitolo Nepote dice che Catone sarà in contrasto per tutta la vita con Scipione Africano: in effetti, con una serie di processi (187-184) egli riesce persino a farlo condannare all’esilio. Sempre in tribunale, inoltre, Catone cerca di reprimere il lusso, imperante soprattutto tra le donne romane, opponendosi all’abrogazione della lex Oppia che, approvata durante la seconda guerra punica, vietava loro ornamenti e stili di vita troppo sfarzosi; mentre, sul piano letterario, può essere considerato il vero fondatore della prosa latina diversamente dagli annalisti che, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrivevano in greco. Catone, infatti, compone in latino un’opera storica, le Origines, tacendo il nome dei protagonisti delle varie imprese della storia romana per raccontarla come un fatto collettivo, non legato al prestigio personale di alcuno: in questo modo, egli non cede al culto della personalità di stampo ellenistico, che tendeva a presentare i grandi personaggi come veri e propri “miti”. A ciò si possono aggiungere altri elementi dell’azione anti-greca di Catone, non direttamente affrontati da Nepote. Quando viene eletto censore, nel 184, Roma è ancora agitata dallo scandalo dei Baccanali: è difficile pensare che Catone non abbia contribuito alla battaglia contro i riti dionisiaci, che si svolgevano in modo del tutto sfrenato ed eccessivo. Inoltre, nel 155, sempre Catone fa allontanare da Roma tre filosofi greci (l’accademico Carneade, il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Babilonia), giunti in qualità di ambasciatori di Atene, in quanto ritenuti responsabili di un’azione corruttrice dei giovani, dovuta al diffondersi delle loro dottrine “razionalistiche”.

Nella biografia del personaggio, Nepote non mette in rilievo soltanto i motivi che lo portarono a opporsi al filellenismo del suo tempo, ma lo presenta anche come un vero campione di virtù, elevandolo a exemplum e facendone il prototipo dell’onesto cittadino romano. Emergono, infatti, diversi aspetti di questa personalità e dell’opera che inequivocabilmente lo pongono nell’alveo del più puro spirito italico tradizionale.

Come in tante altre sue biografie, anche all’inizio di quella di Catone, l’autore traccia un breve profilo del personaggio, presentandone il luogo di nascita, i primi passi nella vita pubblica e poi la smagliante carriera. Dopo una giovinezza passata nel podere paterno in Sabina, Catone, com’era consuetudine per i Romani che si avviavano a ricoprire cariche pubbliche, cominciò a frequentare il foro, dove riscosse fin da subito grande popolarità. Egli svolse poi il servizio militare nel corso della Seconda guerra punica, partecipando nel 207 a.C. alla sanguinosa battaglia del Metauro, in cui trovò la morte Asdrubale, fratello di Annibale. Intraprese, quindi, la carriera politica vera e propria, della quale bruciò le tappe: seguendo la successione delle magistrature stabilite dal cursus honorum, Catone fu questore nel 204 a.C., edile plebeo nel 199, pretore nel 198 e, infine, console nel 195.

Angus McBride, Catone il Censore.
Personaggio togato. Illustrazione di A. McBride.

M. Cato, ortus[1] municipio Tusculo[2], adulescentulus, priusquam honoribus operam daret[3], uersatus est[4] in Sabinis[5], quod[6] ibi heredium a patre relictum habebat. inde hortatu L. Valerii Flacci[7], quem in consulatu censuraque habuit collegam[8], ut[9] M. Perpenna[10] censorius narrare solitus est, Romam demigrauit in foroque esse coepit. primum stipendium meruit annorum decem septemque[11]. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit[12]. inde ut[13] rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam[14], quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. quaestor obtigit P. Africano consuli[15], cum quo non pro sortis necessitudine uixit: namque ab eo perpetua dissensit uita[16]. aedilis plebi factus est[17] cum C. Heluio[18]. praetor prouinciam obtinuit Sardiniam[19], ex qua quaestor superiore tempore ex Africa decedens Q. Ennium poetam deduxerat[20], quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum[21].

Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum, durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini, perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna, l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura, cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato [: iniziò il servizio militare]. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano, con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio; in qualità di pretore, ottenne la provincia di Sardinia, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli)
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Eletto console nel 195 a.C., all’età di trentanove anni, con l’amico e patrono Lucio Valerio Flacco, Catone ottiene per sorteggio di amministrare la provincia appena costituita (197 a.C.) dell’Hispania Citerior (s’intende la Spagna al di qua del fiume Ebro). Dopo un breve accenno all’ottenimento del trionfo proprio per questo incarico, Nepote non si sofferma sulla descrizione del periodo iberico, preferendo affrontare il delicato problema dell’opposizione di Scipione Africano all’operato del console. Nella vita nepotiana Catone, e con lui il Senato, esce vincitore da questo confronto con il potentissimo rivale quale incrollabile difensore della legalità: nonostante Africano goda di un immenso prestigio e aspiri al potere personale, non è in grado di convincere i senatori a rimuovere Catone dal suo mandato, perché la res publica a quel tempo, a differenza dell’epoca in cui Nepote scrive, è ancora retta iure (“dal diritto”). Si legge in queste parole un’amara nota polemica dell’autore nei confronti del secolo in cui vive. La parte finale del capitolo si riferisce alla censura, carica alla quale Catone viene eletto nel 184 insieme con Flacco: è questo il periodo della lotta serrata al lusso dilagante e alla corruzione dei costumi, una lotta che procurerà a Catone numerose inimicizie, ma della quale mai si stancherà, rimanendo sempre fermo nella sua posizione di campione del mos maiorum.

Consulatum gessit[22] cum L. Valerio Flacco, sorte prouinciam nactus[23] Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportauit[24]. ibi cum diutius moraretur[25], P. Scipio Africanus consul iterum[26], cuius in priori consulatu quaestor fuerat[27], uoluit eum de prouincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per senatum[28] efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in ciuitate obtineret[29], quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur[30]. qua ex re[31] iratus senatui ‹consulatu› peracto[32] priuatus[33] in urbe mansit. at Cato, censor cum eodem Flacco factus[34], seuere praefuit ei potestati[35]. nam et in complures nobiles animaduertit[36] et multas res nouas in edictum[37] addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare[38]. circiter annos octoginta[39], usque ad extremam aetatem ab adulescentia[40], rei publicae causa[41] suscipere inimicitias non destitit. a multis tentatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad uixit[42], uirtutum laude creuit[43].

Esercitò il consolato insieme a Lucio Valerio Flacco, gli toccò in sorte la provincia della Hispania citerior, e da questa riportò un trionfo. Siccome, però, vi si trattenne alquanto a lungo, Publio Scipione Africano, nel suo secondo consolato – nel primo Catone era stato suo questore –, volle farlo espellere dalla provincia per prenderne il posto, ma non riuscì ad ottenerlo dal Senato, benché fosse il cittadino più influente; allora, infatti, lo Stato si reggeva non tanto con il credito individuale quanto con l’esercizio del diritto. Ciò lo offese a tal punto che, scaduto il periodo del consolato, si ritirò a vita privata. Quanto a Catone, creato censore insieme allo stesso Flacco, esercitò il suo incarico con assoluto rigore: colpì con note di biasimo parecchi cittadini in vista e aggiunse alle leggi suntuarie molte nuove prescrizioni per porre freno al lusso che allora cominciava a dilagare. Per circa ottant’anni, e cioè dall’adolescenza fino agli ultimi giorni, Catone non rinunciò mai a tirarsi addosso odio e inimicizie per il bene dello Stato. Citato spesso in giudizio, non solo non subì alcuna diminuzione di stima, ma, anzi, finché visse, andò sempre crescendo nella fama della sua virtù.

***

Note:

[1] ortus: è participio perfetto di orior, -eris, ortus sum, -iri, verbo di coniugazione mista.

[2] Cittadina del Lazio, sui colli albani, corrispondente all’odierna Frascati. Il municipium (da munus capio “assumo i [miei] doveri”, s’intende di cittadino romano) era una città che, una volta conquistata, entrava a far parte della cittadinanza romana; i municipia potevano scegliere se adottare il diritto romano o mantenere le proprie leggi; i loro abitanti, tuttavia, avevano i diritti e i doveri della Romana civitas.

[3] priusquam honoribus operam daret: costruito con il congiuntivo imperfetto, introduce una proposizione temporale che indica un’azione posteriore a quella della reggente (versatus est), cioè l’anteriorità della reggente rispetto alla temporale. L’espressione operam dare seguita dal dativo corrisponde all’italiano “impegnarsi”, “dedicarsi a qualche cosa”.

[4] versatus est: perfetto da versor.

[5] I Sabini erano un’antica popolazione laziale di lingua osca imparentata con i Sanniti.

[6] quod: introduce una proposizione causale oggettiva con l’indicativo habebat.

[7] Lucio Valerio Flacco fu console con Catone nel 195 a.C. e con lui ottenne la censura nel 184 a.C., condividendone la lotta contro la corruzione dilagante per la salvaguardia del mos maiorum.

[8] collegam: predicativo dell’oggetto riferito a quem.

[9] ut: costruito qui con l’indicativo solitus est, introduce una proposizione incidentale di tipo comparativo.

[10] Il nome di questo personaggio tradisce la sua origine etrusca, come rivela il suffisso ­-enna. Morì nel 49 a.C.

[11] annorum decem septemque: sottinteso adulescens; era l’anno 217 e in Italia si stava allora combattendo la seconda guerra punica.

[12] Nel 214 a.C., anno in cui Claudio Marcello mise sotto assedio Siracusa, riuscendo a conquistarla soltanto due anni dopo. Durante il saccheggio della città rimase ucciso il famoso Archimede. Fu nel corso di questa campagna che Catone, in età straordinariamente giovane, fu nominato tribuno militare.

[13] ut: con l’indicativo assume qui valore temporale.

[14] L’odierna Senigallia. La battaglia, più nota come battaglia del Metauro, è del 207 a.C. I comandanti romani erano Claudio Nerone e il collega Marco Livio Salinatore.

[15] Nel 204. Quaestor è complemento predicativo del soggetto sottinteso Cato; obtigit è il perfetto di obtingo. I quaestores avevano il compito di amministrare le truppe e durante le campagne militari erano affiancati ai comandanti dell’esercito tramite sorteggio.

[16] namque… vita: ordina: namque dissensit ab eo perpetua vita. Si pone qui in rilievo con chiarezza il totale disaccordo tra Catone e Scipione che si manifestò soprattutto nel loro modo diametralmente opposto d’intendere il rapporto tra Roma e il mondo ellenico.

[17] factus est: perfetto di fio.

[18] Nel 199.

[19] Nel 198.

[20] In occasione di una tappa in Sardegna, durante il suo ritorno dall’Africa, nel 204 a.C. Catone aveva portato con sé a Roma il poeta Ennio, che militava nell’isola fra le truppe ausiliare. Uno dei massimi esponenti della letteratura latina arcaica, autore di numerose opere, fra cui tragedie, ma ricordato soprattutto per gli Annales, poema epico in esametri in cui veniva narrata la storia di Roma, Quinto Ennio (239-169) era nato a Rudiae, in Puglia e conosceva ben tre lingue: l’osco, il greco e il latino.

[21] quodtriumphum: quod è nesso relativo; minoris è genitivo di stima retto dal verbo aestimamus; quam introduce il secondo termine di paragone; quemlibet è accusativo dell’aggettivo e pronome indefinito quilibet, quaelibet, quodlibet, composto dall’aggettivo o pronome indefinito qui, quae, quod + il presente del verbo impersonale libet, libuit o libitum est, -ere (“piace”, “è gradito”).

[22] Consulatum gessit: unito al nome della carica il verbo gero assume il significato di “esercito”, “rivesto”. I consoli erano i supremi magistrati della Repubblica: comandavano l’esercito, convocavano e presiedevano i comitia.

[23] nactus: participio perfetto di nanciscor.

[24] L’espressione triumphum deportare ex aliquo significa “celebrare il trionfo su qualcuno”. I Romani avevano l’usanza di celebrare un pubblico trionfo quando risultavano vincitori di una guerra: il generale vittorioso (acclamato dai suoi soldati imperator) sfilava a cavallo, seguito dalle truppe, dai prigionieri e dal bottino, lungo un percorso che normalmente andava dal Campo Marzio al tempio di Giove Capitolino.

[25] ibi cum… moraretur: costrutto del cum narrativo con valore causale; diutius è il comparativo di maggioranza dell’avverbio diu.

[26] Nel 194.

[27] cuius… fuerat: proposizione relativa, il cui soggetto sottinteso è Catone.

[28] per senatum: complemento di mezzo costruito con per + accusativo.

[29] cum… obtineret: costrutto del cum narrativo con valore concessivo; il termine principatum, connesso al sostantivo princeps, indica la supremazia; il verbo obtineo non ha il significato di “ottengo”, ma di “mantengo”, “detengo”. Africano godeva di grande prestigio in Senato, appartenendo a una delle famiglie più in vista di Roma, ma, nonostante questo, non riuscì a far deporre Catone.

[30] quod… administrabatur: ordina: quod tum res publica administrabatur non potentia sed iure; proposizione causale con il verbo all’indicativo per esprimere oggettività; potentia e iure sono ablativi di causa efficiente. Emergono qui l’ammirazione e la nostalgia di Nepote per i tempi di Catone, quando lo Stato era amministrato secondo giustizia e nessun cittadino riusciva a impadronirsi del potere con la violenza.

[31] qua ex re: nesso del relativo.

[32] ‹consulatu› peracto: ablativo assoluto; peracto è participio perfetto di perago, composto da per + ago, in cui il prefisso per indica il compimento dell’azione.

[33] priuatus: usato in funzione predicativa.

[34] censor… factus: ordina: factus censor cum eodem Flacco (nel 184).

[35] severe… potestati: praefuit è perfetto di praesum, che, come ogni composto di sum, è accompagnato dal dativo; potestas ha il significato di “carica”. L’avverbio severe fissa l’attenzione del lettore sull’intransigenza di Catone nell’amministrare la censura, tanto da meritagli l’appellativo di “Censore” per antonomasia.

[36] animadvertit: il verbo animadverto, seguito da in + accusativo, significa “prendo provvedimenti contro qualcuno”.

[37] edictum: si fa riferimento qui alle leges sumptuariae che limitavano il lusso, in particolare alla lex Oppia.

[38] pullulare: il verbo presenta la medesima radice di pullus, “germoglio”, ed esprime l’idea di “metter germogli”, del “balzar fuori”. Detto della luxuria, rappresenta una metafora.

[39] circiter annos octoginta: complemento di tempo continuato in accusativo semplice.

[40] adulescentia: corrisponde all’età della giovinezza, compresa all’incirca tra i 15 e i 30 anni.

[41] causa: preceduto dal genitivo, esprime un complemento di fine.

[42] quoad vixit: proposizione temporale con l’indicativo, che esprime oggettività.

[43] Il capitolo si conclude con l’affermazione dell’integrità morale di Catone, evidente nell’uso della parola virtus.

Lo stratagemma di Datame (Nep. 14, 9)

di Cornelio Nepote, De viris illustribus, 14, 9

At rex, quod implacabile odium in Datamen susceperat, postquam bello eum opprimi non posse animaduertit, insidiis interficere studuit: quas ille plerasque uitauit. sicut, cum ei nuntiatum esset quosdam sibi insediari, qui in amicorum erant numero (de quibus, quod inimici detulerant, neque credendum neque neglegendum putauit), experiri uoluit, uerum falsumne sibi esset relatum. itaque eo profectus est in quo itinere futuras insidias dixerant. sed elegit corporea c statura simillimum sui eique uestitum suum dedit atque eo loco ire, quo ipse consuerat, iussit; ipse autem ornatu uestituque militari inter corporis custodes iter facere coepit. at insidiatores, postquam in eum locum agmen peruenit, decepti ordine atque uestitu impetum in eum faciunt, qui suppositus erat. praedixerat autem iis Datames, cum quibus iter faciebt, ut parati essent. ipse, ut concurrentes insidiatores animum aduertit, tela in eos coniecit. hoc idem cum uniuersi fecissent, priusquam peruenirent ad eum aggredi uolebant, confixi conciderunt.

Tarkumuwa (Datames), satrapo di Cilicia. Statere, Tarsos 375 a.C. ca. Ar. 10, 56 gr. Verso: Il satrapo in abiti persiani, seduto sul trono, intento ad ispezionare una freccia. A sinistra: TRKMW (il nome in aramaico).
Tarkumuwa (Datames), satrapo di Cilicia. Statere, Tarsos 375 a.C. ca. Ar. 10, 56 gr. Verso: Il satrapo in abiti persiani, seduto sul trono, intento ad ispezionare una freccia. A sinistra: TRKMW (il nome in aramaico).

Ma il re, che aveva concepito un odio implacabile nei confronti di Datame, visto che non gli riusciva di schiacciarlo con le armi, cercò in ogni modo di farlo uccidere a tradimento, ma quello più e più volte sventò le insidie tesegli. Come quando, essendo stato informato che si tramava qualche cosa da alcuni che passavano per suoi amici (e siccome i delatori erano ostili a questi gli parve bene di non credere subito alla denunzia né di trascurarla), volle accertarsi se gli fosse stato riferito il vero o il falso. Intraprese, perciò, un viaggio, durante il quale, secondo quanto gli era stato detto, avrebbe avuto luogo un’imboscata; ma prima scelse uno che gli somigliava moltissimo nell’aspetto e nella statura, lo vestì con i suoi panni e nella marcia gli diede il posto solitamente tenuto da lui; egli stesso, invece, con la divisa e i distintivi di soldato semplice si era messo in marcia fra le guardie del corpo. Ora, coloro che stavano in agguato, quando la colonna giunse al punto prestabilito, tratti in inganno dal posto di marcia e dai distintivi, assalirono quello che faceva le sue veci. Datame, però, aveva preavvisato quelli che lo accompagnavano, dicendo che si tenessero pronti a fare ciò che avrebbero visto fare da lui. Ed egli, non appena si accorse che quelli in agguato stavano sopraggiungendo, cominciò a saettare contro di loro. Poiché tutti gli altri fecero altrettanto, gli assalitori furono trafitti e caddero ancor prima di raggiungere colui che intendevano aggredire.

Sul personaggio di Datames, si vd. http://www.iranicaonline.org/articles/datames