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Studia Humanitatis – παιδεία

ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)

Tag: Dialogo

Luciano di Samosata

25 febbraio 202020 agosto 2021 Francesco Cerato4 commenti

in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 628-636 [con blbliog. aggiornata].

La vita

La figura di Luciano di Samosata si distingue nettamente nel panorama culturale del II secolo, per la brillante personalità, per la vivacità dell’ingegno e per la vastità di interessi, che lo spinsero a una pluralità di ricerche sconosciuta ad altri esponenti della neosofistica. Con questo movimento culturale, inoltre, Luciano ebbe un rapporto assai critico: dapprima seguace entusiasta, se ne allontanò poi in maniera altrettanto decisa, per affrontare una nuova serie di esperienze culturali, nelle quali non mancò di mettere in luce il proprio carattere polemico e il suo stile arguto e mordace.

Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.

Luciano nacque intorno al 120 a Samosata, capitale della Commagene di Siria, figlio di una famiglia piuttosto modesta. Come narrò egli stesso in un’opera autobiografia, il Sogno, quando fu cresciuto abbastanza da dover pensare al proprio avvenire, i suoi genitori, ritenendo che i propri mezzi finanziari non fossero sufficienti per permettere al ragazzo di affrontare studi lunghi e costosi, pensarono di avviarlo all’arte del marmorario, mandandolo alla bottega di uno zio, che già esercitava questo mestiere. Tuttavia, l’apprendistato di Luciano durò assai poco, perché lo zio, infuriato con l’inesperto nipote che gli aveva rovinato un costoso blocco di marmo, lo cacciò in malo modo, con una solenne bastonata. Pesto e disperato, Luciano si addormentò; allora, in sogno, gli apparvero la Statuaria e l’Eloquenza, prospettando i vantaggi che ciascuna di loro avrebbe potuto offrirgli, se egli avesse scelto di dedicare a lei la propria esistenza. L’episodio, che è un’evidente trasposizione della storia di Eracle al bivio, narrata all’inizio del II libro dei Memorabili di Senofonte, segnò la vita di Luciano. Il giovane, infatti, abbracciando la carriera dell’eloquenza, si dedicò allo studio della lingua e della letteratura greca, delle quali acquisì ben presto grande padronanza, imparando con facilità il dialetto attico del periodo classico. Egli, dunque, intraprese la carriera del retore itinerante, che lo portò in varie città dell’Asia Minore, in Gallia e in Italia. A Roma Luciano ebbe modo di conoscere il filosofo Nigrino, che svolse un ruolo abbastanza importante nella sua vita. Trasferitosi per un certo periodo ad Atene, verso il 160 circa, sembra che i suoi interessi filosofici abbiano preso il sopravvento su quelli retorici e che lo abbiano avviato a studi ben più profondi e meditati. Si trattò, invero, di una parentesi piuttosto breve, perché, non molto tempo dopo, Luciano si dedicò di nuovo alla passione di sempre, i viaggi: in questo periodo, infatti, egli fu anche ad Antiochia, dove conobbe personalmente l’Augustus Lucio Vero. Dal 165 in poi ritornò ancora ad Atene, che considerava la sua patria di adozione e se ne allontanò soltanto per ricoprire la prestigiosa carica di archistator praefecti Aegypti («segretario del prefetto d’Egitto»), conferitagli, nonostante la proprie origini orientali, grazie a influenti amicizie. Nel 175, però, si dimise dall’incarico – probabilmente per motivi politici, oppure forse per il suo temperamento irrequieto –, ritornando ad Atene. Da quel momento in poi, la sua vita pubblica non conobbe più avvenimenti di rilievo. Secondo le fonti antiche, la morte lo raggiunse non molto tempo dopo, verso la fine del principato di Marco Aurelio, intorno al 180 circa. A questo anno, infatti, risalgono i suoi ultimi scritti di cui si abbia notizia, l’Alessandro e il trattato in forma epistolare Come si deve scrivere la storia. Il lessico Suda, che fornisce di Luciano un giudizio assolutamente negativo, proclamandolo «erede del fuoco di Satana», narra che egli morì tragicamente, sbranato da una muta di cani, «perché fu nemico rabbioso della verità». La notizia, naturalmente, è da considerarsi leggendaria. La produzione letteraria di Luciano, infatti, tutta in prosa, è pervenuta in un corpus di ottanta scritti, alcuni dei quali spuri. La loro cronologia rappresenta per gli studiosi un problema assai complesso, che non sarà affrontato in questa sede; ci si limiterà, invece, per maggiore chiarezza, a suddividere le opere lucianee secondo il genere e i contenuti.

 

 

Gli scritti retorici

Al periodo in cui Luciano esercitò la professione di retore itinerante appartengono proemi e declamazioni (μελέται, «esercizi» retorici di vario argomento), fra i quali assume particolare importanza per il suo carattere autobiografico il già citato Sogno; a quest’opera si aggiunge l’Apologia, anch’essa di contenuto autobiografico, che Luciano compose negli anni della maturità, quando era cancelliere in Egitto, per difendersi dall’accusa di brama di onori – comportamento assolutamente inaccettabile in un filosofo cinico, quale egli stesso si professava. Interessante, come esempio di esercitazione retorica tesa a illustrare la potenza della sua dialettica, secondo la migliore tradizione dell’insegnamento sofistico, è il Tirannicida, in cui il protagonista commette un omicidio premeditato, eliminando il figlio di un tiranno. Straziato per il dolore, il padre, a sua volta, si toglie la vita e l’assassinio del ragazzo, nel discorso pronunciato in tribunale per difendersi, sostiene di aver diritto a riconoscimenti e onori per aver liberato la città da quel regime. Allo stesso genere appartiene il Diseredato, storia di un medico che guarisce il proprio padre da un attacco di follia: il genitore, però, rinsavito, disereda il figlio, perché costui rifiuta di prestare le proprie cure alla matrigna, anche lei vittima di un accesso di pazzia.

Ritratto virile. Busto, marmo, terzo quarto del II sec. d.C. Munich, Glyptothek.

Nello stesso gruppo di opere si possono annoverare l’Elogio della mosca e il Tribunale delle vocali. Quest’ultima, in particolare, è una querela esposta dal signor Sigma contro il signor Tau per appropriazione indebita e usurpazione di diritti, di fronte alla giuria delle vocali, perché negli autori attici il Tau ha abusivamente occupato il posto di Sigma nella grafia delle parole. In un altro scritto dal titolo significativo, Sei un Prometeo nei discorsi, l’autore, di fronte all’ammirazione entusiasta, ma un po’ eccessiva, di un suo allievo, ridimensiona obiettivamente le proprie capacità, sottolineando come i contenuti delle proprie opere non propongano alcunché di nuovo, ma il loro valore risieda soltanto nella consumata tecnica formale dell’esposizione.

Un cenno meritano anche le sue προλαλιαὶ o διαλέξεις, le «chiacchierate», che precedevano l’ἐπίδειξις, la «recitazione» vera e propria, e che miravano a suscitare la benevola attenzione del pubblico con il loro tono conversevole e garbato. In tutti questi scritti compaiono già gli elementi tipici dell’arte di Luciano: l’opposizione dialettica di opinioni opposte, la tendenza a un’ironia fine e sagace, lo stile chiaro e gradevole, caratterizzato da osservazioni spiritose e da un vivace umorismo, che spesso scaturisce dalla parodia di situazioni o personaggi, oltre che da un’ottima capacità di sfruttare il linguaggio a fini comici.

Scritti di polemica filosofica e religiosa

In uno dei numerosi scritti lucianei che contengono accenni autobiografici, il Due volte accusato, l’autore presenta se stesso in veste di imputato in un processo che gli è stato intentato dalla Retorica e dal Dialogo platonico. La prima lo accusa di averla abbandonata, mentre il secondo lo considera reo di aver distrutto la serietà e la profondità dei suoi contenuti, contaminandoli con la comicità e con la satira; nella sua difesa, Luciano ammette di aver abbandonato, verso i quarant’anni, la Retorica, che ormai «non aveva più la dignità di donna onesta, come ai tempi di Demostene, ma andava in giro truccata come una prostituta, tutta coperta di belletti». Per questo motivo egli aveva optato per la filosofia; ma seguendo l’impulso indagatore del suo animo inquieto, desideroso di novità e spiccatamente critico, non aveva potuto fare a meno di notare come anch’essa fosse cambiata rispetto al tempo antico. Perciò, egli aveva deciso di approfondire la propria analisi, per scoprire le ragioni di quel peggioramento, servendosi a questo scopo di quell’illustre strumento di dottrina che era stato il dialogo platonico, non senza averlo opportunamente modificato per adattarlo alle proprie esigenze (Due volte accusato, 30-32).

Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.

In effetti, in quel periodo della sua vita, Luciano si dedicò alla ricerca speculativa; il risultato fu una serie di scritti dal tono amaramente satirico contro la degenerazione del pensiero filosofico e della figura del saggio, ricchi di un umorismo pungente e dissacratore, che richiama alla memoria la commedia antica. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, una irriverente e spassosa parodia del Simposio di Platone, contenuta in un dialogo lucianeo con lo stesso titolo. Licino, persona seria e colta (in cui l’autore adombra se stesso), si reca dall’amico Aristeneto per prendere parte a un banchetto offerto per festeggiare le nozze della figlia: purtroppo, però, il padrone di casa ha avuto la malaugurata idea di invitare anche i rappresentanti di tutte le maggiori scuole filosofiche, nell’intento di conferire un tono intellettuale alla lieta occasione. Invece, l’unico risultato che riesce a ottenere è che il banchetto si trasformi in un’indegna gazzarra, durante la quale uno dei cinici, che era riuscito a imbucarsi alla festa senza essere stato invitato, approfitta della confusione per riempirsi la capace bisaccia di ghiotte vivande.

Boulanger Gustave Clarence Rudolphe, Il mercato degli schiavi.

Lo stesso tono umoristico e sarcastico nei confronti della degenerazione della filosofia caratterizza anche altri scritti di Luciano: nei Fuggitivi, ad esempio, i nuovi filosofi sono allegoricamente rappresentati come schiavi fuggiaschi (i pensatori “moderni” che si sono sottratti all’autorità dell’antica dottrina), acciuffati dai loro padroni e sottoposti a meritata punizione. Nelle Vite all’incanto, si immagina che Zeus metta all’asta, per venderli al miglior offerente, i fondatori delle principali scuole filosofiche – l’epicurea, la scettica, la peripatetica, la pitagorica –, ognuno dei quali ha preteso di indicare le direttive su cui gli uomini dovrebbero basare la propria esistenza. Il piacevole umorismo che caratterizza l’operetta scaturisce dal realismo con cui l’autore ha saputo ricostruire il clima di una vera vendita all’asta, con il banditore che magnifica i pregi della sua merce, il pubblico che osserva, chiacchiera, commenta, e i potenziali compratori che vogliono essere bene informati e controllare di persona, prima di fare la propria offerta.

Pittore Ambrogio. Giovane pescatore. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. ca.

Nel Pescatore, seguito dell’opera precedente, il protagonista, Parresiade («Colui che non ha peli sulla lingua») – che poi è l’autore stesso –, si trova coinvolto in una pericolosa situazione: infatti, Zeus ha concesso a tutti gli intellettuali, le cui vite sono state messe all’incanto, di ritornare un giorno tra i vivi per vendicarsi di colui che li ha così crudelmente scherniti. Parresiade, però, tiene una convincente apologia davanti alla Filosofia, dimostrando che quelli da lui perseguitati non sono stati che dei disonesti ciarlatani, colpevoli di aver avvilito a scopo di lucro l’insegnamento degli antichi maestri. In questo modo, Parresiade-Luciano è assolto e può dedicarsi al difficile compito di pescare (di qui il titolo del dialogo) i veri filosofi con la lenza e con l’amo, dall’alto dell’Acropoli di Atene, scartando senza pietà le creature spinose e repellenti che di tanto in tanto abboccano. In questo modo, il dialogo, che era stato con Platone lo strumento per eccellenza del discorso filosofico, con Luciano diviene l’arma prediletta per ridicolizzare gli avversari, criticando, insieme alle varie tendenze culturali, anche le più diffuse credenze religiose.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Il tono derisorio nei confronti dei filosofastri raggiunge il vertice dell’asprezza in un opuscolo redatto in forma epistolare, la Morte di Peregrino. Costui era un filosofo cinico assai noto a cui si attribuiva anche una certa simpatia per il Cristianesimo e Luciano lo aveva conosciuto quando, di ritorno dall’Oriente, era giunto ad Atene. Nel 165 il filosofo aveva deciso di dimostrare la sua radicale protesta contro il malcostume dei tempi suoi con uno spettacolare suicidio, in occasione dei Giochi olimpici, buttandosi nel fuoco in pubblico. Ma Luciano vide nel gesto di quell’uomo soltanto una manifestazione di fanatismo per lui intollerabile e non esitò a esprimere tutta la propria disapprovazione, accomunando nella sua durissima critica anche la “superstizione” dei cristiani, che andava diffondendosi sempre più ampiamente.

Va, però, aggiunto che la lingua tagliente, ma imparziale, dello scrittore siro non risparmiò nemmeno la divinità suprema del pantheon pagano: in tre dialoghi, Zeus confutato, Zeus tragedo e il Concilio degli dèi, il signore dell’Olimpo si trova coinvolto in situazioni nelle quali la sua autorità appare messa gravemente in dubbio, senza che egli riesca a difenderla degnamente.

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., Tesoro dei Sifni (Delfi). Museo Archeologico di Delfi.

In contrasto con la satira pungente e distruttiva delle opere appena citate, si possono ricordare tre scritti lucianei dal tono meno aspramente polemico e, per certi aspetti, più costruttivo. Il primo, il Nigrino, espone in forma dialogica un incontro dell’autore con il filosofo neoplatonico, il quale si sforza di convertire Luciano alla sua dottrina, convincendolo a dedicarsi alla vita speculativa. A questo scopo, egli magnifica l’antica cultura e la nobiltà intellettuale di Atene, contrapponendola alla rozzezza dei Romani e alla loro indifferenza per le cose dello spirito. Il tono dell’opera è piuttosto violento e retorico e ciò induce a considerarla con un certo spirito critico; tuttavia, occorre riconoscerle almeno la sincerità con cui essa esprime il bisogno di trovare un rifugio nella cultura del passato e nel profondo senso civico e morale che l’animava, per sfuggire alle brutture del presente. Tale intento risulta chiaro anche dal Demonatte, biografia dell’omonimo filosofo cinico, che Luciano conobbe ad Atene e di cui ammirò la semplice e schietta onestà di vita e di pensiero. Altrettanto sereno e pacato è il tono dell’Ermotimo, un dialogo in cui il principale interlocutore è l’autore medesimo che, sotto lo pseudonimo di Licino, dimostra la vanità di ogni ricerca filosofica, fondandosi sui principi dello scetticismo e facendoli propri.

Dialoghi

Nel periodo della maturità, il dialogo rimase quasi esclusivamente il mezzo espressivo usato dallo scrittore siro, che se ne servì per comporre le sue opere più note e più meritatamente famose: le raccolte che comprendono i ventisei Dialoghi degli dèi, i quindici Dialoghi marini, gli altrettanti Dialoghi delle cortigiane e i trenta Dialoghi dei morti.

Nereide e Tritone. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem.

I primi due gruppi, caratterizzati da un tono umoristico di grande freschezza e vivacità, oltre che da uno stile esemplare per agilità, chiarezza e arguzia di linguaggio, rappresentano scene che hanno come protagonisti gli dèi dell’Olimpo e del mare, colti in umanissimi episodi della loro vita quotidiana, in un’ottica che, a iniziare da Callimaco, rimase tipica del periodo ellenistico e degli anni a esso successivi. Basterà citare, come significativo esempio, la scena famosissima del pomo della Discordia, rivissuta attraverso il racconto di due divinità marine, Panope e Galene, testimoni oculari dell’evento:

Teti e Peleo si erano già ritirati nel talamo accompagnati da Anfitrite e da Poseidone, quando Eris, in quel momento, di nascosto a tutti – poté farlo facilmente, perché alcuni bevevano, altri applaudivano, altri ancora erano intenti ad ascoltare Apollo che suonava la cetra e le Muse che cantavano –, gettò nella sala del banchetto un pomo bellissimo, tutto d’oro, o Galene! E sopra c’era scritto: “Mi prenda la bella”. Ed esso, rotolando, nemmeno a farlo apposta, si fermò dove se ne stavano a mensa Hera, Afrodite e Atena. Dopo che Hermes lo ebbe raccolto ed ebbe letto la scritta, noi Nereidi ammutolimmo. Infatti, che dovevamo fare, in presenza di quelle lì? Esse, invece, se lo contendevano e ciascuna pretendeva che il pomo toccasse a lei; e se Zeus non le avesse divise, la cosa sarebbe arrivata anche alle mani. Ma egli disse: “Non sarò certo io a decidere su quest’affare – eppure quelle pretendevano che fosse lui a giudicare –, andate sull’Ida dal figlio di Priamo, il quale ama la bellezza e sa distinguere il più bello e non sbaglierà certo il verdetto”[1].

Come è ben noto, il giudizio di Paride, che assegnò il pomo ad Afrodite, scatenò il decennale conflitto di Troia, la guerra più famosa di sempre; ma qui, niente lascia supporre la fatali conseguenze del gesto di Eris. L’attenzione dell’autore è tutta presa dall’atmosfera festosa del banchetto nunziale, con musica, canti e laute bevute (poco importa se chi suona è Apollo e se le voci sono quelle immortali delle Muse), e, subito dopo, dall’improvviso scintillio del pomo, che suscita la meraviglia di Panope (la «Tuttocchi»), che racconta l’episodio. Dopo la lettura delle parole incise sull’aureo frutto, nessuna delle Nereidi osa fiatare; non che si sentano meno belle delle altre, ma sono presenti «quelle lì», la sposa e due figlie di Zeus, tutt’e tre con un bel caratterino, visto che per poco non si azzuffano come donnette qualunque. E nemmeno il loro legittimo marito e padre, per quanto fulminante e altitonante, osa esprimere un giudizio che metterebbe a serio repentaglio la tranquillità familiare; preferisce scaricare la propria responsabilità sulle ignari spalle di un comune mortale, con piena indifferenza per ciò che accadrà.

Pieter Paul Rubens, Il giudizio di Paride. Olio su tela, 1601 c. London, National Gallery.

Nei Dialoghi delle cortigiane lo spunto satirico è meno evidente: lo scrittore descrive quel particolare mondo femminile senza troppi moralismi, con uno stile e un gusto che richiama i toni della Commedia Nea, alla quale Luciano si è evidentemente ispirato, ma senza raggiungere l’approfondimento psicologico che caratterizza i personaggi di Menandro.

Pittore Licaone, Odisseo incontra Elpenore nell’Ade. Pittura vascolare a figure rosse su pelike. attica, 440 a.C. ca. da Atene. Boston, Museum of Fine Arts.

Nei Dialoghi dei morti, invece, la satira moraleggiante torna a essere uno degli aspetti più frequenti e approfonditi. Oggetto dell’attenzione dell’autore sono, nella maggior parte dei casi, i falsi miti dell’esistenza umana: la ricchezza, il potere, la fama, la bellezza. Il personaggio-chiave è rappresentato dal filosofo cinico Menippo di Gadara, che porta con sé anche nell’Ade il suo spirito critico e dissacratore, dal quale non si salva niente e nessuno, né Mida né Creso con tutto il loro oro, né Sardanapalo con il fasto della sua regalità. Nireo, l’eroe più bello dopo Achille fra quelli che militarono a Troia, è ormai uguale a Tersite e non c’è più alcuna differenza tra il suo teschio e quello dell’uomo più brutto di tutto l’esercito acheo. E davvero sciocchi furono tutti quelli che, per Elena, presero parte al celeberrimo conflitto, senza riflettere che, entro breve tempo, del fulgido splendore della bellissima donna non sarebbero rimaste che poche ossa nude, uguali a tutte le altre, nello squallido nulla che è l’ultimo traguardo di ogni umana grandezza.

Opere di contenuto vario

Alla fase più tarda della vita e dell’attività di Luciano appartengono alcune opere di contenuto vario e meno facilmente ascrivibili a un genere preciso, anche se per stile e temi non si discostano molto dalla precedente produzione. Fra queste si possono ricordare i Saturnali, in cui lo scrittore medita amaramente sulle ingiustizie che avvelenano il mondo, prendendo spunto dalla solennità romana dei Saturnalia, in occasione della quale, per rievocare la mitica età dell’oro sotto il regno di Saturno (il greco Kronos), venivano momentaneamente abolite tutte le differenze sociali ed erano i padroni a servire i propri schiavi.

Trono di Saturno velato con Amorini. Rilievo, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

Nell’Apologia, un opuscolo di carattere giudiziario e autobiografico prima ricordato, Luciano, che era stato molto duro nei confronti di chi accettava incarichi da lui considerati umilianti, anche se ben remunerati, in ricche case romane, tenta di giustificare la propria posizione di funzionario imperiale, mettendo in risalto la differenza fra un dipendente pubblico e chi, invece, si mette al servizio di un privato. Interessante è anche il breve trattato Come si deve scrivere la storia, redatto in forma epistolare e posteriore alla spedizione di Marco Aurelio contro i Parti, condotta nel 180. Prendendo spunto dalle adulatorie esagerazioni con cui gli storici contemporanei narravano le gesta degli imperatori, Luciano esprime una critica molto negativa nei confronti di questo stravolgimento della funzione della Storia e nella seconda parte dello scritto elenca alcune indicazioni per evitare simili errori, desumendole dalle opere degli storiografi ellenistici e, in particolare, da Polibio.

La Storia vera

Nel corpus degli scritti di Luciano è compresa anche un’opera in due libri, intitolata Storia vera. Nell’introduzione, l’autore informa di averla composta per il diletto e il riposo mentale del lettore, prendendo spunto, con una buona dose di ironia, dalle fantasiose storie di poeti e storici a partire da Omero per giungere a Ctesia di Cnido, il medico di Artaserse (metà V sec. a.C.) e ad Antonio Diogene, un romanziere del I secolo, finendo poi con Iambulo, autore di racconti fantastici, collocabile forse nel III sec. a.C. Tuttavia, prima di iniziare il suo racconto, Luciano avverte che l’unica cosa vera della sua storia è che non c’è niente di vero e che, perciò, «è assolutamente necessario che i lettori non ci credano per nulla».

Charles Meynier, Clio, musa della Storia. Olio su tela, 1800. Cleveland Museum of Art.

La narrazione, in prima persona, comincia nel momento in cui il protagonista-scrittore, per curiosità e per puro spirito di avventura, raccolti cinquanta compagni e noleggiata una nave, parte dalle Colonne d’Eracle per esplorare il misterioso Oceano Occidentale. Dopo ottanta giorni, i naviganti approdano a un’isola sconosciuta; in una selva trovano una colonna di bronzo con un’iscrizione in greco, che li informa che quello è il termine ultimo a cui giunsero Eracle e Dioniso. La presenza del dio è tuttora ben visibile nella straordinaria natura dell’isola, in cui scorre un fiume di vino e prospera una strana vigna, le cui piante hanno un solido tronco ben piantato in terra, ma a partire da una certa altezza si sviluppano in bellissimi corpi femminili, dalle cui dita nascono tralci e che hanno in testa, invece di capelli, viticci, pampini e grappoli. Esse accolgono festosamente Luciano e i suoi compagni, ma la loro cordialità cela un’insidia mortale; infatti, i marinai che le abbracciano non possono più staccarsi e divengono viti anch’essi, mettendo radici e tralci.

Partiti da quella terra infausta, i viaggiatori vengono sorpresi da una burrasca e, travolti da un violentissimo turbine di vento, sono sollevati in aria con tutta la nave. Dopo una navigazione “aerea” durata sette giorni e sette notti, essi approdano sulla Luna. Mentre stanno esplorando la grande sfera luminosa, vengono sorpresi e arrestati da guerrieri lunari, gli Ippoghipi, che cavalcano immensi uccelli rapaci, una sola delle cui penne è più lunga di un albero di nave. Condotti dal re, Endimione, che un tempo era stato un uomo e che era tato trasportato lassù perché Selene si era innamorata di lui, ricevono benevola accoglienza. Anzi, il sovrano chiede l’aiuto di Luciano e dei suoi compagni nella guerra che sta conducendo contro gli Elioti, gli abitanti del Sole. Lo scontro è terribile e sanguinoso; l’esercito avversario è comandato da Fetonte, che ha ai suoi ordini gli Aeroconopi (le «Zanzare aeree») e gli Ippomirmeci, enormi formiche alate, a cui si affiancano i mostruosi Nefelocentauri, metà uomini giganteschi e metà cavalli alati. Essi sono alleati del re solare, ma, per fortuna, giungono in ritardo, altrimenti, i Seleniti non avrebbero mai potuto vincere la battaglia.

William Faithorne, Lucian of Samosata. Incisione, 1664. London, National Portrait Gallery

Stipulata la pace, Luciano e i suoi amici si trattengono per un certo tempo sulla Luna, imparando a conoscere lo strano popolo che vi abita; non esistono donne, non si muore, ma ci si trasforma in aria, ci si ciba esclusivamente del fumo di rane arrostite sui carboni, bevendo rugiada liquefatta. I vestiti sono fatti di fili sottilissimi di rame, di cui vi è grande abbondanza e che vengono filati come lana; quando un Selenita si soffia il naso, dalle narici gli esce miele, mentre se suda, espelle latte. Dalle cipolle essi ricavano un olio profumatissimo e dalle viti ricavano l’acqua, prodotta da grappoli i cui acini sono grossi chicchi di grandine. Ma la cosa più strana è che i Seleniti possono riporre nel proprio ventre tutto ciò che vogliono, perché esso è come una bisaccia che si può aprire e chiudere a volontà; e poiché l’interno è foderato di una morbida e calda pelliccia, vi tengono dentro i neonati per ripararli dal freddo, dopo averli dati alla luce dal polpaccio di una gamba. Possono anche estrarsi gli occhi e rimetterseli a piacere; così i ricchi ne hanno molte paia, di vario colore, mentre i poveri non ne possiedono che un solo paio fra i componenti della famiglia e devono servirsene a turno.

Partiti dalla Luna e ripresa la navigazione celeste, Luciano e compagni incontrano, a metà strada fra il cielo e il mare, la città di Lychnopolis, abitata non da uomini ma da lucerne (λύχνοι); dopo una breve sosta, possono finalmente toccare di nuovo la superficie del mare e proseguire il viaggio. Dopo qualche giorno, la nave si imbatte in un numeroso branco di cetacei e balene; e la più grande di esse, un vero mostro marino, spalancate le fauci, si lancia verso l’imbarcazione e la inghiotte tutta intera. Trasferiti di colpo nell’immenso ventre dell’animale, Luciano e i suoi compagni vi scoprono una fitta selva popolata da uccelli marini; inoltratisi nel bosco, trovano un tempietto dedicato a Poseidone, presso il quale scorgono alcune tombe, contrassegnate ciascuna da una colonnina. In lontananza, poi, vedono una fattoria dal cui tetto si alza un filo di fumo e da cui giunge alle loro orecchie il latrato di un cane.

Giona e la Balena (dettaglio) dal Sarcofago «di Giona». Marmo, fine III sec. d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.

Messisi in cammino, incontrano di lì un vecchio e un giovanotto, che coltivano un orto pieno di verdure e di fiori, irrigato da una limpida sorgente che zampilla lì vicino. Ospitalmente accolti, vengono a sapere che il vecchio, di nome Scintaro, e suo figlio Cinira, originari di Cipro, inghiottiti anch’essi dalla balena, vivono nel suo ventre ormai da ventisette anni, nutrendosi di pesci e dei vegetali che vi coltivano. Inoltre, la selva fornisce loro piante di vite che danno un ottimo vino e la possibilità di cacciare gli uccelli che vi si rifugiano. L’unico pericolo è rappresentato dal fatto che in essa si annidano popoli selvaggi e inospitali, ma essi hanno imparato a difendersi e a tenerli lontani, perché costoro non conoscono l’uso delle armi e si servono solo di lische di pesce. Luciano e i suoi amici offrono allora aiuto al vecchio; così, sbarazzatisi una volta per sempre degli incomodi vicini, trascorrono un anno e otto mesi di vita comoda e pacifica nel ventre della balena. Durante questo periodo, hanno la possibilità di assistere, ben nascosti dietro gli enormi denti della balena, a uno scontro fra giganti che navigano su isole spinte a remi. Con la narrazione della battaglia fra isole termina il primo libro della Storia vera.

Il secondo libro riprende con il progetto di Luciano di abbandonare il ventre del cetaceo, perché lui e i suoi compagni si sentono ormai stanchi di quella vita monotona e sedentaria. Così, il vecchio Scintaro e il figlio decidono di seguirli; perciò, dopo aver trasportato la nave fino alla gola del mostro, essi danno fuoco alla selva, uccidendo la balena. Una volta ripreso il mare, però, vengono sorpresi dal gelido Borea, il vento del Nord, che trasforma le acque intorno a loro in un gigantesco lastrone di ghiaccio. I marinai, allora, sono costretti a scavarsi una caverna e a soggiornarvi fino al ritorno di una temperatura più mite, nutrendosi di pesce congelato. Quando, alla fine, i ghiacci si sciolgono, gli avventurosi viaggiatori giungono in un oceano di latte, da cui sorge un’isola di formaggio. Dopo avervi fatto una breve sosta, che offre loro un gradevole cambiamento di dieta, riescono a raggiungere un mare azzurrissimo, di acqua limpida e salata: è il mare dei Sugheropodi, delle strane creature in tutto e per tutto simili agli uomini, tranne che per i piedi di sughero, che permettono loro di correre velocemente sul pelo dell’acqua, senza mai affondare.

Oltrepassate le isole Sugherie, i naviganti giungono in vista di una terra sconosciuta, dalle cui coste si leva una brezza carica di dolcissimi profumi, come quelli che Erodoto aveva narrato che esalassero dall’Arabia Felice. Si tratta dell’Isola dei Beati, dove vivono le ombre dei giusti; essa è immersa in un’eterna primavera, allietata dal canto melodioso degli uccelli e dagli aromi di piante e di fiori meravigliosi. Invitato con i suoi compagni a banchetto, Luciano ha la possibilità di conoscere tutti i grandi personaggi del mito e della storia: poeti, filosofi, statisti, musici, eroi che vivono là in perfetta armonia, conversando, componendo e suonando musica, danzando, cantando e assistendo a giochi. Ma proprio mentre si stanno celebrando le Thanatasie – le festività più solenne per i Beati – organizzate da Achille e Teseo, si sparge l’allarmante voce che gli abitanti del Soggiorno degli Empi, elusa la sorveglianza dei loro custodi, stanno per assalire l’Isola felice, guidati dai più crudeli tiranni, fra i quali si distinguono Falaride d’Agrigento e l’egizio Busiride. Infatti, di lì a poco, ha luogo lo scontro: i Beati hanno la meglio, grazie soprattutto alla presenza di Achille, ma anche Socrate si dimostra un combattente davvero intrepido.

Salvator Rosa, Allegoria della Fortuna. Olio su tela, 1658 c.

Dopo questi fatti, un altro avvenimento, di ben diversa natura, sopraggiunge a turbare la quieta vita dell’Isola: Cinira, il figlio del vecchio Scintaro, giovane bello e aitante, si innamora, ricambiato, di Elena e decide di rapirla. Ma il progetto viene scoperto e Luciano e i compagni vengono cacciati; quando stanno per salpare, Odisseo, di nascosto a Penelope, consegna a Luciano una lettera per Calipso, perché l’isola della ninfa, figlia di Atlante, si trova sulla rotta che essi dovranno percorrere. Ma prima di giungervi, i naviganti approdano al Soggiorno degli Empi, in cui echeggiano continuamente grida e gemiti di dolore; la terra non produce che rovi ed è attraversata da tre fiumi, uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco, assolutamente invalicabile. Abbandonato in fretta quel luogo terribile e inospitale, i viaggiatori giungono all’isola dei Sogni, coperta di distese di papaveri e mandragore, dalla quale provengono tutti i sogni che allietano o rattristano il riposo dei mortali. Di là fanno rotta per l’isola di Calipso. La ninfa li accoglie ospitalmente e, letta l’epistola di Odisseo, scoppia in lacrime, commossa profondamente dal ricordo dell’eroe. Luciano, allora, conforta la ninfa e la rassicura, parlandole dell’affetto che Odisseo nutre ancora per lei; certamente sarebbe già venuto a trovarla, se Penelope non lo tenesse sotto stretto controllo.

Dopo aver lasciato l’isola, Luciano e i suoi vengono assaliti dai Colocintopirati, che navigano su enormi zucche svuotate e seccate, servendosi delle foglie delle zucche stesse come vele e dei semi come proiettili; e si troverebbero a malpartito, se non intervenissero, sui loro gusci di noce, i Carionauti, acerrimi nemici dei Colocintopirati: infatti, mentre gli equipaggi avversari si scontrano, Luciano e amici ne approfittano per svignarsela senza dare nell’occhio. Scampati alla battaglia, dopo altre mirabolanti avventure, essi incontrano le terre dei selvaggi Bucefali e quelle abitate dalle terribili Onoskelee: queste sono donne bellissime, che hanno, però, al posto delle gambe, zampe d’asino abilmente nascoste da lunghe vesti; inoltre, si nutrono di carne umana, attirando i viaggiatori con le loro lusinghe per poi ucciderli e divorarli. Allontanatisi in fretta, i naviganti arrivano in vista del continente australe, che sta agli antipodi del mondo conosciuto. Ringraziati gli dèi per aver finalmente raggiunto la meta, essi si accingono a sbarcare; ma ecco scatenarsi una violenta tempesta, che fracassa la nave e li costringe a salvarsi a nuoto, con le sole armi e qualche suppellettile. A questo punto, il racconto si chiude e Luciano si accomiata dai suoi lettori, promettendo di narrare in altri libri le nuove avventure.

Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Cabinet des médailles.

Opera di puro divertimento, la Storia vera non conosce limiti di spazio né di tempo, proprio come la fantasia del suo autore. La terra, il mare, il cielo, il mondo dei vivi e quello dei morti e perfino il ventre di un cetaceo mostruoso fanno da sfondo alle mirabolanti avventure del protagonista, sempre in moto, ma senza una meta precisa. Benché si affrontino tempeste e battaglie, si incontrino dèi e giganti, Seleniti marsupiali e donne-viti, in uno scenario di fenomeni naturali non meno strabilianti, il senso del drammatico o del pauroso sono completamente assenti, così come manca del tutto il tema della magia. Perfino i luoghi più strani e la dimensione ultraterrestre non appaiono altro che come un vario e inconsueto spettacolo, offerto agli occhi di un viaggiatore-narratore, che si compiace di raccontare, con un divertimento che prevale sullo stupore.

Al genere delle storie incredibili appartiene un altro romanzo, contenuto nel corpus lucianeo, ma considerato spurio; esso è intitolato Lucio o l’asino ed è scritto, invece che in attico, nel greco della koiné. Vi si narrano le avventure del giovane Lucio, il quale appassionato di magia, spia, con l’aiuto di un’ancella, una famosa maga che si sta trasformando in uccello, grazie a un unguento miracoloso di cui si cosparge il corpo. Dopo che la metamorfosi si è compiuta, la maga vola via; e Lucio, desideroso di imitarla, si spalma a sua volta di unguento: ma nella fretta, sbaglia contenitore e viene così mutato in asino, riuscendo a riacquistare l’aspetto umano soltanto dopo molte peripezie.

Secondo Fozio, patriarca di Costantinopoli (IX sec.), esisteva anche un’altra opera che trattava lo stesso argomento, le Metamorfosi di Lucio di Patrai, di cui però non si sa nulla; invece, lo spunto narrativo della trasformazione di Lucio in asino è stato sviluppato nei Metamorphoseon libri XI dello scrittore madaurese Apuleio (125 c.-post 170 c.). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con chiarezza i rapporti fra le due opere greche e quelli di entrambe con il romanzo di Apuleio, che si differenzia dalle prime per la maggiore ampiezza, per la ricchezza degli episodi collaterali e soprattutto per il contenuto, caratterizzato da evidenti riferimenti al culto misterico di Iside.

Pensiero, stile e fortuna di Luciano

Sebbene Luciano non abbia mai raggiunto una grande profondità speculativa e non possa essere considerato un pensatore originale, egli rimane tuttavia una delle personalità più significative del suo tempo. A lui è dovuta la creazione di un nuovo genere di dialogo, che ha saputo unire in modo singolarmente piacevole i contenuti del pensiero filosofico all’umorismo della commedia ed è servito a denunciare, con intelligente arguzia, molti degli aspetti negativi della vita e della cultura del tempo, a un pubblico certamente assai vasto. La dissacrante ironia dell’autore non ha risparmiato nessuna manifestazione della debolezza umana, ma ha stigmatizzato soprattutto le mistificazioni dei falsi maestri e dei falsi filosofi, nel tentativo di limitare il diffondersi di un dogmatismo che la sua mente razionale non poteva accettare e che lo ha portato ad accomunare nella sua critica anche qualunque forma di religione (Cristianesimo compreso). Infatti, pur dimostrando simpatia per gli epicurei e per i cinici, Luciano non ha mai accettato completamente il pensiero di nessuna scuola, fedele a uno scetticismo di fondo che scaturiva naturalmente dal suo ingegno mobile e vario. Incline per indole a un’ironia beffarda e corrosiva, questo intellettuale siro ha avuto, tuttavia, il suo più grande limite nel non saper proporre soluzioni alternative, limitandosi a distruggere senza creare: ma, ciononostante, è difficile sottrarsi al fascino di questo spirito arguto e versatile, ricco di capacità di osservazione e di espressione, dotato di un’eccezionale sensibilità linguistica e di una altrettanto straordinaria cultura, che lo ha portato a spaziare con felice eclettismo e con gusto sempre sicuro da Omero a Esiodo, da Euripide ad Aristofane, da Erodoto a Tucidide e a Platone, che gli offrì lo spunto formale per i suoi dialoghi.

La fortuna di Luciano fra i suoi contemporanei non fu grandissima; soltanto in epoca bizantina egli fu riscoperto da Fozio, che lo apprezzò per il suo stile e per il suo atteggiamento critico nei confronti di vari aspetti del mondo pagano. A partire dal XV secolo, Luciano fu ammirato e tradotto anche in Italia, quando le sue opere fornirono suggestioni a poeti come il Boiardo e ispirarono la pittura, attraverso l’arte di Botticelli e Mantegna. Soprattutto la Storia vera ha avuto grande importanza nella cultura europea, in vari periodi e a diversi livelli, perché a essa si rifecero Rabelais, Swift e Voltaire; e sia Le avventure del Barone di Münchhausen di Gottfried Bürger sia le ben note Avventure di Pinocchio sono in buona misura debitrici alla sua geniale e sbrigliata fantasia.

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***

Note:

[1] Luc. DMar. 7, 1-2: ἡ Θέτις μὲν ἤδη καὶ ὁ Πηλεὺς ἀπεληλύθεσαν ἐς τὸν θάλαμον ὑπὸ τῆς Ἀμφιτρίτης καὶ τοῦ Ποσειδῶνος παραπεμφθέντες, ἡ Ἔρις δὲ ἐν τοσούτῳ λαθοῦσα πάντας — ἐδυνήθη δὲ ῥᾳδίως, τῶν μὲν πινόντων, ἐνίων δὲ κροτούντων ἢ τῷ Ἀπόλλωνι κιθαρίζοντι ἢ ταῖς Μούσαις ᾀδούσαις προσεχόντων τὸν νοῦν — ἐνέβαλεν ἐς τὸ ξυμπόσιον μῆλόν τι πάγκαλον, χρυσοῦν ὅλον, ὦ Γαλήνη· ἐπεγέγραπτο δὲ ‘ἡ καλὴ λαβέτω.’ κυλινδούμενον δὲ τοῦτο ὥσπερ ἐξεπίτηδες ἧκεν ἔνθα Ἥρα τε καὶ Ἀφροδίτη καὶ Ἀθηνᾶ κατεκλίνοντο. κἀπειδὴ ὁ Ἑρμῆς ἀνελόμενος ἐπελέξατο τὰ γεγραμμένα, αἱ μὲν Νηρηίδες ἡμεῖς ἀπεσιωπήσαμεν. τί γὰρ ἔδει ποιεῖν ἐκείνων παρουσῶν; αἱ δὲ ἀντεποιοῦντο ἑκάστη καὶ αὑτῆς εἶναι τὸ μῆλον ἠξίουν, καὶ εἰ μή γε ὁ Ζεὺς διέστησεν αὐτάς, καὶ ἄχρι χειρῶν ἂν τὸ πρᾶγμα προὐχώρησεν. ἀλλ᾽ ἐκεῖνος, Αὐτὸς μὲν οὐ κρινῶ, φησί, περὶ τούτου, — καίτοι ἐκεῖναι αὐτὸν δικάσαι ἠξίουν — ἄπιτε δὲ ἐς τὴν Ἴδην παρὰ τὸν Πριάμου παῖδα, ὃς οἶδέ τε διαγνῶναι τὸ κάλλιον φιλόκαλος ὤν, καὶ οὐκ ἂν ἐκεῖνος κρίναι κακῶς.

Politici come lupi (Plato, Rep. VIII 565d-566)

2 novembre 20192 novembre 2019 Francesco Cerato2 commenti

di PLATONE, La Repubblica, a cura di F. SARTORI, M. VEGETTI, Roma-Bari 2005, 284-285. Testo greco: Platonis Opera, ed. J. BURNET, Oxford 1903 [perseus.tufts.edu].

Secondo Platone, il lupo (λύκος) è l’animale selvaggio per eccellenza (ἄγριος), dotato di una natura simile alla sua controparte umana, il tiranno (τύραννος): nella Repubblica, dunque, il lupo è metafora del tiranno. Costui non ha a cuore il benessere dei suoi concittadini, ma e disposto a nuocere a chiunque, pur di realizzare i propri piani. Il lupo non si fa scrupoli ad aggredire gli altri animali e a nutrirsi della loro carne; allo stesso modo, il tiranno non esita a eliminare, a proprio capriccio, chi fra i cittadini reputa pericoloso per il suo potere. Il tiranno-lupo è, dunque, una bestia selvaggia e sfrenata che non arretra di fronte all’orrore dell’omicidio, né di alcun cibo, un delinquente che, per sua straordinaria voracità, è il distruttore della comunità. Platone, in Repubblica 565d-566a, si chiede come il buon governante, il protettore (προστάτης) eletto dal popolo, possa trasformarsi in un tiranno:

 

C. Lycosthenes, Prodigorum ac ostentorum chronicon, Basiliae MDLVII [1557].

[565d] – τοῦτο μὲν ἄρα, ἦν δ᾽ ἐγώ, δῆλον, ὅτι, ὅτανπερ φύηται τύραννος, ἐκ προστατικῆς ῥίζης καὶ οὐκ ἄλλοθεν ἐκβλαστάνει. – καὶ μάλα δῆλον. – τίς ἀρχὴ οὖν μεταβολῆς ἐκ προστάτου ἐπὶ τύραννον; ἢ δῆλον ὅτι ἐπειδὰν ταὐτὸν ἄρξηται δρᾶν ὁ προστάτης τῷ ἐν τῷ μύθῳ ὃς περὶ τὸ ἐν Ἀρκαδίᾳ τὸ τοῦ Διὸς τοῦ Λυκαίου ἱερὸν λέγεται; – τίς; ἔφη. – ὡς ἄρα ὁ γευσάμενος τοῦ ἀνθρωπίνου σπλάγχνου, ἐν ἄλλοις ἄλλων ἱερείων ἑνὸς ἐγκατατετμημένου, ἀνάγκη δὴ [565e] τούτῳ λύκῳ γενέσθαι. ἢ οὐκ ἀκήκοας τὸν λόγον; – ἔγωγε. – ἆρ᾽ οὖν οὕτω καὶ ὃς ἂν δήμου προεστώς, λαβὼν σφόδρα πειθόμενον ὄχλον, μὴ ἀπόσχηται ἐμφυλίου αἵματος, ἀλλ᾽ ἀδίκως ἐπαιτιώμενος, οἷα δὴ φιλοῦσιν, εἰς δικαστήρια ἄγων μιαιφονῇ, βίον ἀνδρὸς ἀφανίζων, γλώττῃ τε καὶ στόματι ἀνοσίῳ γευόμενος φόνου συγγενοῦς, καὶ ἀνδρηλατῇ καὶ [566a] ἀποκτεινύῃ καὶ ὑποσημαίνῃ χρεῶν τε ἀποκοπὰς καὶ γῆς ἀναδασμόν, ἆρα τῷ τοιούτῳ ἀνάγκη δὴ τὸ μετὰ τοῦτο καὶ εἵμαρται ἢ ἀπολωλέναι ὑπὸ τῶν ἐχθρῶν ἢ τυραννεῖν καὶ λύκῳ ἐξ ἀνθρώπου γενέσθαι; – πολλὴ ἀνάγκη, ἔφη. – οὗτος δή, ἔφην, ὁ στασιάζων γίγνεται πρὸς τοὺς ἔχοντας τὰς οὐσίας. – οὗτος. – ἆρ᾽ οὖν ἐκπεσὼν μὲν καὶ κατελθὼν βίᾳ τῶν ἐχθρῶν τύραννος ἀπειργασμένος κατέρχεται; – δῆλον.

 

[565d] «Allora, è chiaro – feci io – che, tutte le volte che nasce un tiranno, questo spunta dalla radice del protettore e non da altra parte». «È molto chiaro». «Qual è, dunque, l’inizio della trasformazione da protettore a tiranno? O non è chiaro che ciò abbia luogo quando il protettore comincia a comportarsi proprio come nel mito che si racconta sul santuario di Zeus Liceo in Arcadia?». «Quale mito?», chiese. «Quello di chi ha gustato un pezzetto di interiora umane, mescolato alle carni di altre vittime: [565e] costui si trasforma inevitabilmente in lupo. Non ha sentito questa storia?». «Ah, ma certo!». «Non è dunque così anche per chiunque si trovi a capo del popolo e, disponendo di una massa molto remissiva, non si astenga dal sangue di quelli della sua stessa tribù, anzi, trascinatone qualcuno nei tribunali con le ingiuste accuse – che costoro prediligono – lo manda a morte, sopprimendo una vita umana, e assaggiato con lingua e con bocca empia il sangue congenere, [566a] esilia e uccide e fa trapelare possibili remissioni dei debiti e spartizioni della terra? Ebbene, dopo aver fatto tutto questo, un simile individuo non è destinato a essere ucciso dai nemici o a diventare tiranno, e da uomo trasformarsi in lupo?». «Per forza», rispose. «È costui – continuai – che suscita la rivolta contro i possidenti?». «Sì, proprio lui». «E se viene bandito e ritorna, nonostante l’opposizione degli avversari, non ritorna da perfetto tiranno?». «È chiaro».

 

Platone, per risolvere la domanda iniziale, allude al mito di Licaone e ai culti oscuri del monte Liceo, mettendo in evidenza il carattere selvaggio e spietato del lupo, che si nutre anche della carne dei suoi simili.

Real Fábrica de Porcelana del Buen Retiro, Giove e Licaone. Ceramica (Stile Wedgwood), fine XVIII sec. Madrid, Museo Nacional del Prado.

***

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***

Cfr. gli articoli di SENTENTIAE ANTIQUAE:

https://sententiaeantiquae.com/2019/10/25/politics-is-horrifying-plato-on-lykanthropy/

https://sententiaeantiquae.com/2015/10/25/wolves-and-tyrants-politics-is-spookier-than-lycanthropy-plato/

https://sententiaeantiquae.com/2018/10/25/the-real-horror-show-is-politics-plato-on-lykanthropy-werewolf-week-continues-2/

Dialogo fra Annibale e Scipione a Zama (Pᴏʟʏʙ. XV 6, 3-8)

19 ottobre 201619 ottobre 2021 Francesco Cerato4 commenti

Un momento risolutivo della storia, rimarcato da Polibio, è il colloquio tra Annibale e Scipione prima della battaglia di Zama. I due generali sui rispettivi cavalli avanzano verso il centro tra i due accampamenti, in un attonito silenzio, sotto un cielo d’attesa. Un ultimo tentativo di pace. Il destino di Roma e Cartagine è appeso alle parole dei due generali. Ognuno si chiede chi da quel giorno in poi detterà le leggi alle genti, se il popolo romano o quello cartaginese. Terminato il colloquio, Annibale e Scipione tornano nei loro accampamenti e risuonano le trombe di guerra (Mignogna 2014, 157).

Incontro fra Scipione e Annibale, illustrazione di P. Dennis.
Incontro fra Scipione e Annibale, illustrazione di P. Dennis.

κατὰ δὲ τὴν ἑξῆς ἡμέραν προῆλθον ἀπὸ τῆς ἰδίας παρεμβολῆς ἀμφότεροι μετ᾽ ὀλίγων ἱππέων, κἄπειτα χωρισθέντες ἀπὸ τούτων αὐτοὶ συνῆλθον εἰς τὸ μέσον ἔχοντες ἑρμηνέα μεθ᾽ αὑτῶν. δεξιωσάμενος δὲ πρῶτος Ἀννίβας ἤρξατο λέγειν ὡς ἐβούλετο μὲν ἂν μήτε Ῥωμαίους ἐπιθυμῆσαι μηδέποτε μηδενὸς τῶν ἐκτὸς Ἰταλίας μήτε Καρχηδονίους τῶν ἐκτὸς Λιβύης· ἀμφοτέροις γὰρ εἶναι ταύτας καὶ καλλίστας δυναστείας καὶ συλλήβδην ὡς ἂν εἰ περιωρισμένας ὑπὸ τῆς φύσεως. «ἐπεὶ δὲ πρῶτον μὲν ὑπὲρ τῶν κατὰ Σικελίαν ἀμφισβητήσαντες ἐξεπολεμώσαμεν ἀλλήλους, μετὰ δὲ ταῦτα πάλιν ὑπὲρ τῶν κατ᾽ Ἰβηρίαν, τὸ δὲ τέλος ὑπὸ τῆς τύχης οὔπω νουθετούμενοι μέχρι τούτου προβεβήκαμεν ὥστε καὶ περὶ τοῦ τῆς πατρίδος ἐδάφους οὓς μὲν κεκινδυνευκέναι, τοὺς δ᾽ ἀκμὴν ἔτι καὶ νῦν κινδυνεύειν, λοιπόν ἐστιν, εἴ πως δυνάμεθα δι᾽ αὑτῶν παραιτησάμενοι τοὺς θεοὺς διαλύσασθαι τὴν ἐνεστῶσαν φιλοτιμίαν. ἐγὼ μὲν οὖν ἕτοιμός εἰμι τῷ πεῖραν εἰληφέναι δι᾽ αὐτῶν τῶν πραγμάτων ὡς εὐμετάθετός ἐστιν ἡ τύχη καὶ παρὰ μικρὸν εἰς ἑκάτερα ποιεῖ μεγάλας ῥοπάς, καθά περ εἰ νηπίοις παισὶ χρωμένη· σὲ δ᾽ ἀγωνιῶ, Πόπλιε, λίαν» ἔφη «καὶ διὰ τὸ νέον εἶναι κομιδῇ καὶ διὰ τὸ πάντα σοι κατὰ λόγον κεχωρηκέναι καὶ τὰ κατὰ τὴν Ἰβηρίαν καὶ τὰ κατὰ τὴν Λιβύην καὶ μηδέπω μέχρι γε τοῦ νῦν εἰς τὴν τῆς τύχης ἐμπεπτωκέναι παλιρρύμην, μήποτ᾽ οὐ πεισθῇς διὰ ταῦτα τοῖς ἐμοῖς λόγοις, καίπερ οὖσι πιστοῖς. σκόπει δ᾽ ἀφ᾽ ἑνὸς τῶν λόγων τὰ πράγματα, μὴ τὰ τῶν προγεγονότων, ἀλλὰ τὰ καθ᾽ ἡμᾶς αὐτούς. εἰμὶ τοιγαροῦν Ἀννίβας ἐκεῖνος, ὃς μετὰ τὴν ἐν Κάνναις μάχην σχεδὸν ἁπάσης Ἰταλίας ἐγκρατὴς γενόμενος μετά τινα χρόνον ἧκον πρὸς αὐτὴν τὴν Ῥώμην, καὶ στρατοπεδεύσας ἐν τετταράκοντα σταδίοις ἐβουλευόμην ὑπὲρ ὑμῶν καὶ τοῦ τῆς ὑμετέρας πατρίδος ἐδάφους πῶς ἐστί μοι χρηστέον, ὃς νῦν ἐν Λιβύῃ πάρειμι πρὸς σὲ Ῥωμαῖον ὄντα περὶ τῆς ἐμαυτοῦ καὶ τῶν Καρχηδονίων σωτηρίας κοινολογησόμενος. εἰς ἃ βλέποντα παρακαλῶ σε μὴ μέγα φρονεῖν, ἀλλ᾽ ἀνθρωπίνως βουλεύεσθαι περὶ τῶν ἐνεστώτων· τοῦτο δ᾽ ἐστὶ τῶν μὲν ἀγαθῶν ἀεὶ τὸ μέγιστον, τῶν κακῶν δὲ τοὐλάχιστον αἱρεῖσθαι. τίς οὖν ἂν ἕλοιτο νοῦν ἔχων πρὸς τοιοῦτον ὁρμᾶν κίνδυνον οἷος σοὶ νῦν ἐνέστηκεν; ἐν ᾧ νικήσας μὲν οὔτε τῇ σαυτοῦ δόξῃ μέγα τι προσθήσεις οὔτε τῇ τῆς πατρίδος, ἡττηθεὶς δὲ πάντα τὰ πρὸ τούτου σεμνὰ καὶ καλὰ δι᾽ αὑτὸν ἄρδην ἀναιρήσεις. τί οὖν ἐστιν ὃ προτίθεμαι τέλος τῶν νυνὶ λόγων; πάντα περὶ ὧν πρότερον ἠμφισβητήσαμεν, Ῥωμαίων ὑπάρχειν — ταῦτα δ᾽ ἦν Σικελία, Σαδρώ, τὰ κατὰ τὴν Ἰβηρίαν — καὶ μηδέποτε Καρχηδονίους Ῥωμαίοις ὑπὲρ τούτων ἀντᾶραι πόλεμον· ὁμοίως δὲ καὶ τὰς ἄλλας νήσους, ὅσαι μεταξὺ κεῖνται τῆς Ἰταλίας καὶ Λιβύης, Ῥωμαίων ὑπάρχειν. ταύτας γὰρ πέπεισμαι τὰς συνθήκας καὶ πρὸς τὸ μέλλον ἀσφαλεστάτας μὲν εἶναι Καρχηδονίοις, ἐνδοξοτάτας δὲ σοὶ καὶ πᾶσι Ῥωμαίοις». Ἀννίβας μὲν οὖν ταῦτ᾽ εἶπεν. ὁ δὲ Πόπλιος ὑπολαβὼν «οὔτε τοῦ περὶ Σικελίας ἔφη πολέμου Ῥωμαίους οὔτε τοῦ περὶ τῆς Ἰβηρίας αἰτίους γεγονέναι, Καρχηδονίους δὲ προφανῶς· ὑπὲρ ὧν κάλλιστα γινώσκειν αὐτὸν τὸν Ἀννίβαν. μάρτυρας δὲ καὶ τοὺς θεοὺς γεγονέναι τούτων, περιθέντας τὸ κράτος οὐ τοῖς ἄρχουσι χειρῶν ἀδίκων, ἀλλὰ τοῖς ἀμυνομένοις. βλέπειν δὲ καὶ τὰ τῆς τύχης οὐδενὸς ἧττον καὶ τῶν ἀνθρωπίνων στοχάζεσθαι κατὰ δύναμιν. ἀλλ᾽ εἰ μὲν πρὸ τοῦ τοὺς Ῥωμαίους διαβαίνειν εἰς Λιβύην αὐτὸς ἐξ Ἰταλίας ἐκχωρήσας προύτεινας τὰς διαλύσεις ταύτας, οὐκ ἂν οἴομαί σε διαψευσθῆναι τῆς ἐλπίδος. ἐπεὶ δὲ σὺ μὲν ἄκων ἐκ τῆς Ἰταλίας ἀπηλλάγης, ἡμεῖς δὲ διαβάντες εἰς τὴν Λιβύην τῶν ὑπαίθρων ἐκρατήσαμεν, δῆλον ὡς μεγάλην εἴληφε τὰ πράγματα παραλλαγήν. τὸ δὲ δὴ μέγιστον ἤλθομεν ἐπὶ τί πέρας; ἡττηθέντων καὶ δεηθέντων τῶν παρὰ σοῦ πολιτῶν ἐθέμεθα συνθήκας ἐγγράπτους, ἐν αἷς ἦν πρὸς τοῖς ὑπὸ σοῦ νῦν προτεινομένοις τοὺς αἰχμαλώτους ἀποδοῦναι χωρὶς λύτρων Καρχηδονίους, τῶν πλοίων παραχωρῆσαι τῶν καταφράκτων, πεντακισχίλια τάλαντα προσενεγκεῖν, ὅμηρα δοῦναι περὶ τούτων. ταῦτ᾽ ἦν ἃ συνεθέμεθα πρὸς ἀλλήλους: ὑπὲρ τούτων ἐπρεσβεύσαμεν ἀμφότεροι πρός τε τὴν σύγκλητον τὴν ἡμετέραν καὶ πρὸς τὸν δῆμον, ἡμεῖς μὲν ὁμολογοῦντες εὐδοκεῖν τοῖς γεγραμμένοις, Καρχηδόνιοι δὲ δεόμενοι τούτων τυχεῖν. ἐπείσθη τὸ συνέδριον τούτοις, ὁ δὲ δῆμος συγκατῄνεσε. τυχόντες ὧν ἠξίουν ἠθέτησαν ταῦτα Καρχηδόνιοι, παρασπονδήσαντες ἡμᾶς. τί λείπεται ποιεῖν; σὺ τὴν ἐμὴν χώραν μεταλαβὼν εἶπον. ἀφελεῖν τὰ βαρύτατα τῶν ὑποκειμένων ἐπιταγμάτων; ἵνα δὴ λαβόντες ἆθλα τῆς παρανομίας διδαχθῶσι τοὺς εὖ ποιοῦντας εἰς τὸ λοιπὸν παρασπονδεῖν· ἀλλ᾽ ἵνα τυχόντες ὧν ἀξιοῦσι χάριν ὀφείλωσιν ἡμῖν; ἀλλὰ νυνὶ μεθ᾽ ἱκετηρίας τυχόντες ὧν παρεκάλουν, ὅτι βραχείας ἐλπίδος ἐπελάβοντο τῆς κατὰ σέ, παρὰ πόδας ὡς ἐχθροῖς ἡμῖν κέχρηνται καὶ πολεμίοις. ἐν οἷς βαρυτέρου μέν τινος προσεπιταχθέντος δυνατὸν ἀνενεγκεῖν τῷ δήμῳ περὶ διαλύσεως, ὑφαίρεσιν δὲ ποιουμένοις τῶν ὑποκειμένων οὐδ᾽ ἀναφορὰν ἔχει τὸ διαβούλιον. τί πέρας οὖν πάλιν τῶν ἡμετέρων λόγων; ἢ τὴν ἐπιτροπὴν ὑμᾶς διδόναι περὶ σφῶν αὐτῶν καὶ τῆς πατρίδος ἢ μαχομένους νικᾶν».

Il giorno dopo i due comandanti uscirono dal rispettivo accampamento con un drappello di cavalieri; poi, lasciati anche questi, si incontrarono a mezza strada, ciascuno con un interprete. Annibale, porgendo per primo la destra a Scipione, iniziò a parlare dicendo che la cosa migliore sarebbe stata che i Romani non avessero mai aspirato ai territori fuori d’Italia, né i Cartaginesi a quelli fuori dell’Africa: i domini di entrambi sarebbero stati comunque abbastanza vasti e definiti dalla natura stessa. «Ma siccome invece venimmo a contesa prima per il possesso della Sicilia, poi per quello della Spagna e infine, non sufficientemente provati dalla fortuna, siamo arrivati a tal punto che voi in passato e noi proprio ora corriamo rischi per la salvezza stessa della patria, non ci rimane che mettere fine, con l’aiuto degli dèi, al presente conflitto. Io sono pronto, perché ho imparato per esperienza personale come la fortuna sia mutevole e favorisca ora l’uno ora l’altro, trattando gli uomini come bambocci. Temo però che tu, o Scipione, sia perché sei ancora troppo giovane, sia perché ogni cosa ti è andata secondo i tuoi piani, tanto in Spagna quanto in Africa, e non hai ancora subito alcun rovescio della fortuna, non ti lascerai convincere dalle mie parole, per quanto fededegne. Alla considera, in base a quanto io ora ti dirò, quale sia il corso delle vicende umane: non ricorrerò a esempi del passato, ma a fatti dei nostri giorni. Io sono quell’Annibale che dopo la battaglia di Canne tenni in scacco quasi tutta l’Italia, che poco tempo dopo mi avvicinai alla stessa Roma e, dopo aver posto il campo a quaranta stadi dalla città, fui arbitro della vostra vita e della vostra patria: ora mi trovo in Africa ridotto a trattare con te che sei Romano della salvezza mia e dei Cartaginesi. Ti esorto dunque a considerare tutto questo e a non insuperbire, ma a provvedere da uomo nelle presenti circostanze: cioè a scegliere sempre fra i beni il maggiore, fra i mali il minore. Chi, essendo avveduto, vorrebbe affrontare un pericolo quale quello che ora ti sovrasta? Se sarai vincitore in questa battaglia, non potrai accrescere di molto la tua fama né quella della tua patria; se sarai vinto, distruggerai il frutto di tutte le tue nobili e splendide imprese compiute. Ecco dunque le mie proposte: i Romani conservino tutte le regioni precedentemente fatte oggetto di contesa, ossia la Sicilia, la Sardegna e la Spagna, e i Cartaginesi non muovano più guerra per questi possedimenti; si tengano inoltre le altre isole che si trovano fra l’Italia e l’Africa. Sono convinto che queste condizioni daranno ai Cartaginesi la massima sicurezza per il futuro e saranno gloriose per te e per tutti i Romani». Così parlò Annibale; Scipione rispose: «Come tu, Annibale, sai benissimo, non furono i Romani a dar inizio alla guerra per la Sicilia e la Spagna, bensì i Cartaginesi! Anche gli dèi lo attestano, avendo concesso la vittoria non a coloro che hanno dato inizio alle ostilità, ma a chi ha combattuto per difendersi. Io considero più di ogni altro il mutare della fortuna e tengo conto, per quanto è possibile, della condizione umana. Se prima che i Romani passassero in Africa tu ti fossi spontaneamente allontanato dall’Italia, offrendo queste condizioni di pace, le tue richieste sarebbero state senz’altro accolte! Ma tu te ne sei andato dall’Italia contro la tua volontà, mentre noi, passati in Africa, siamo vincitori sul campo (cioè, le cose sono davvero mutate!). Oltretutto, eravamo già scesi a patti: i tuoi concittadini ce li avevano supplicati dopo essere stati sconfitti e noi avanzammo proposte nelle quali, oltre a ciò che tu proponi ora, era scritto che i Cartaginesi restituissero i prigionieri senza riscatto, rinunciassero alle navi da guerra, pagassero cinquemila talenti d’indennizzo e consegnassero degli ostaggi a garanzia dei patti. Dopo aver stipulato questi accordi, inviammo ambasciatori al Senato e al popolo, noi per dichiarare il nostro assenso alle condizioni siglate, i Cartaginesi per implorare che esse fossero ratificate. Il Senato acconsentì, il popolo accettò le condizioni; i Cartaginesi dopo aver ottenuto quanto avevano richiesto, violarono i patti e ci tradirono. Che cosa ci resta da fare? Mettiti nei miei panni e parla: dobbiamo togliere le più gravi condizioni imposte, affinché i Cartaginesi, premiati per la loro empietà, insegnino ai posteri a tradire sempre i benefattori o, avendo conseguito quanto ci chiedono, ce ne siano grati? Dopo aver ottenuto attraverso le suppliche ciò che domandavano, non appena poterono contare un poco su di te, subito ci hanno trattati da nemici. Stando così le cose, potremo proporre al popolo una nuova tregua se aggiungeremo alle precedenti qualche clausola aggravante, ma se dobbiamo rendere più lievi i patti già stabiliti, non è neppure il caso di avanzar proposte. Dove voglio arrivare dunque? Scegliete: o chi consegnate voi stessi e la vostra città oppure dovrete vincerci sul campo!».

Riferimenti bibliografici:

G. Mɪɢɴᴏɢɴᴀ, Luce antica: Le pagine più belle della letteratura greca commentate, Roma 2014.

C. Sᴄʜɪᴄᴋ, Le Storie di Polibio, Milano 1955, vol. III, pp. 23 ss. (con modifiche).

La nascita dell’uomo e il discorso di Protagora

8 ottobre 201618 aprile 2018 Francesco Cerato2 commenti

Plat. Prot. 320c-328d (in Platonis Opera, ed. J. Burnet, Oxford 1903, t. III, tetral. VI, pp. 189-199); M.L. Chiesara (a cura di), Platone, Protagora. Testo greco a fronte, Milano 2010, pp. 125-147.

 

[320c] Ἀλλ᾽, ὦ Σώκρατες, ἔφη, οὐ φθονήσω· ἀλλὰ πότερον ὑμῖν, ὡς πρεσβύτερος νεωτέροις, μῦθον λέγων ἐπιδείξω ἢ λόγῳ διεξελθών;

Πολλοὶ οὖν αὐτῷ ὑπέλαβον τῶν παρακαθημένων ὁποτέρως βούλοιτο οὕτως διεξιέναι. δοκεῖ τοίνυν μοι, ἔφη, χαριέστερον εἶναι μῦθον ὑμῖν λέγειν.

[320c] «Non mi rifiuterò, Socrate», disse; «ma preferite che lo dimostri narrando un mito, come un vecchio che si rivolge ai giovani, o con un ragionamento?».

Molti di coloro che sedevano vicino gli risposero di dimostrarlo come preferisse. «Mi sembra più piacevole narrarvi un mito», decise allora lui.

 

Piero di Cosimo, Il mito di Prometeo. Olio su pannello, 1515. Alte Pinakothek, München
Piero di Cosimo, Il mito di Prometeo. Olio su pannello, 1515. Alte Pinakothek, München.

 

Ἦν γάρ ποτε χρόνος ὅτε θεοὶ μὲν ἦσαν, θνητὰ δὲ γένη [320d] οὐκ ἦν. ἐπειδὴ δὲ καὶ τούτοις χρόνος ἦλθεν εἱμαρμένος γενέσεως, τυποῦσιν αὐτὰ θεοὶ γῆς ἔνδον ἐκ γῆς καὶ πυρὸς μείξαντες καὶ τῶν ὅσα πυρὶ καὶ γῇ κεράννυται. ἐπειδὴ δ᾽ ἄγειν αὐτὰ πρὸς φῶς ἔμελλον, προσέταξαν Προμηθεῖ καὶ Ἐπιμηθεῖ κοσμῆσαί τε καὶ νεῖμαι δυνάμεις ἑκάστοις ὡς πρέπει. Προμηθέα δὲ παραιτεῖται Ἐπιμηθεὺς αὐτὸς νεῖμαι, ‘νείμαντος δέ μου,’ ἔφη, ‘ἐπίσκεψαι·’ καὶ οὕτω πείσας νέμει. νέμων δὲ τοῖς μὲν ἰσχὺν ἄνευ τάχους προσῆπτεν, [320e] τοὺς δ᾽ ἀσθενεστέρους τάχει ἐκόσμει· τοὺς δὲ ὥπλιζε, τοῖς δ᾽ ἄοπλον διδοὺς φύσιν ἄλλην τιν᾽ αὐτοῖς ἐμηχανᾶτο δύναμιν εἰς σωτηρίαν. ἃ μὲν γὰρ αὐτῶν σμικρότητι ἤμπισχεν, πτηνὸν φυγὴν ἢ κατάγειον οἴκησιν ἔνεμεν· ἃ δὲ ηὖξε μεγέθει, τῷδε [321a] αὐτῷ αὐτὰ ἔσῳζεν· καὶ τἆλλα οὕτως ἐπανισῶν ἔνεμεν. ταῦτα δὲ ἐμηχανᾶτο εὐλάβειαν ἔχων μή τι γένος ἀϊστωθείη· ἐπειδὴ δὲ αὐτοῖς ἀλληλοφθοριῶν διαφυγὰς ἐπήρκεσε, πρὸς τὰς ἐκ Διὸς ὥρας εὐμάρειαν ἐμηχανᾶτο ἀμφιεννὺς αὐτὰ πυκναῖς τε θριξὶν καὶ στερεοῖς δέρμασιν, ἱκανοῖς μὲν ἀμῦναι χειμῶνα, δυνατοῖς δὲ καὶ καύματα, καὶ εἰς εὐνὰς ἰοῦσιν ὅπως ὑπάρχοι τὰ αὐτὰ ταῦτα στρωμνὴ οἰκεία τε καὶ αὐτοφυὴς ἑκάστῳ· καὶ [321b] ὑποδῶν τὰ μὲν ὁπλαῖς, τὰ δὲ [θριξὶν καὶ] δέρμασιν στερεοῖς καὶ ἀναίμοις. τοὐντεῦθεν τροφὰς ἄλλοις ἄλλας ἐξεπόριζεν, τοῖς μὲν ἐκ γῆς βοτάνην, ἄλλοις δὲ δένδρων καρπούς, τοῖς δὲ ῥίζας· ἔστι δ᾽ οἷς ἔδωκεν εἶναι τροφὴν ζῴων ἄλλων βοράν· καὶ τοῖς μὲν ὀλιγογονίαν προσῆψε, τοῖς δ᾽ ἀναλισκομένοις ὑπὸ τούτων πολυγονίαν, σωτηρίαν τῷ γένει πορίζων. ἅτε δὴ οὖν οὐ πάνυ τι σοφὸς ὢν ὁ Ἐπιμηθεὺς ἔλαθεν αὑτὸν [321c] καταναλώσας τὰς δυνάμεις εἰς τὰ ἄλογα· λοιπὸν δὴ ἀκόσμητον ἔτι αὐτῷ ἦν τὸ ἀνθρώπων γένος, καὶ ἠπόρει ὅτι χρήσαιτο. ἀποροῦντι δὲ αὐτῷ ἔρχεται Προμηθεὺς ἐπισκεψόμενος τὴν νομήν, καὶ ὁρᾷ τὰ μὲν ἄλλα ζῷα ἐμμελῶς πάντων ἔχοντα, τὸν δὲ ἄνθρωπον γυμνόν τε καὶ ἀνυπόδητον καὶ ἄστρωτον καὶ ἄοπλον· ἤδη δὲ καὶ ἡ εἱμαρμένη ἡμέρα παρῆν, ἐν ᾗ ἔδει καὶ ἄνθρωπον ἐξιέναι ἐκ γῆς εἰς φῶς. ἀπορίᾳ οὖν σχόμενος ὁ Προμηθεὺς ἥντινα σωτηρίαν τῷ ἀνθρώπῳ εὕροι, [321d] κλέπτει Ἡφαίστου καὶ Ἀθηνᾶς τὴν ἔντεχνον σοφίαν σὺν πυρί — ἀμήχανον γὰρ ἦν ἄνευ πυρὸς αὐτὴν κτητήν τῳ ἢ χρησίμην γενέσθαι — καὶ οὕτω δὴ δωρεῖται ἀνθρώπῳ. τὴν μὲν οὖν περὶ τὸν βίον σοφίαν ἄνθρωπος ταύτῃ ἔσχεν, τὴν δὲ πολιτικὴν οὐκ εἶχεν· ἦν γὰρ παρὰ τῷ Διί. τῷ δὲ Προμηθεῖ εἰς μὲν τὴν ἀκρόπολιν τὴν τοῦ Διὸς οἴκησιν οὐκέτι ἐνεχώρει εἰσελθεῖν — πρὸς δὲ καὶ αἱ Διὸς φυλακαὶ φοβεραὶ ἦσαν — εἰς δὲ τὸ τῆς Ἀθηνᾶς καὶ Ἡφαίστου οἴκημα τὸ κοινόν, ἐν ᾧ [321e] ἐφιλοτεχνείτην, λαθὼν εἰσέρχεται, καὶ κλέψας τήν τε ἔμπυρον τέχνην τὴν τοῦ Ἡφαίστου καὶ τὴν ἄλλην τὴν τῆς Ἀθηνᾶς δίδωσιν ἀνθρώπῳ, καὶ ἐκ τούτου εὐπορία μὲν ἀνθρώπῳ τοῦ [322a] βίου γίγνεται, Προμηθέα δὲ δι᾽ Ἐπιμηθέα ὕστερον, ᾗπερ λέγεται, κλοπῆς δίκη μετῆλθεν.

«Vi era un tempo in cui esistevano gli dèi ma [320d] non le stirpi mortali. Poiché però anche per queste giunse il tempo predestinato alla nascita, gli dèi, nel cuore della terra, le plasmarono di terra e fuoco mescolando anche quegli elementi che con la terra e il fuoco si combinano. Al momento di farle uscire alla luce, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di assegnare e distribuire le capacità in modo conveniente a ciascuna specie. Epimeteo però chiese a Prometeo di poter fare la distribuzione lui solo: “Quando avrò terminato – disse – tu controllerai”. E, dopo averlo così persuaso, procedette. Nel fare la distribuzione, ad alcune specie assegnava la forza senza la velocità, [320e] di cui dotava invece le più deboli; alcune le armava, ma escogitava qualche altra facoltà per la salvezza delle specie cui aveva dato una natura inerme. Così forniva di ali per fuggire o di un rifugio sotterraneo la specie che faceva minuscole, quelle invece che esaltava in imponenza le salvava proprio grazie a questa; [321a] e in tal modo, cercando un equilibrio, distribuiva anche le altre capacità. Egli progettava queste cose preoccupandosi che nessuna delle specie si estinguesse e, dopo averle equipaggiate contro la reciproca distruzione, predispose anche una difesa contro le stagioni mandate da Zeus, rivestendole di folte pellicce e di pelli spesse capaci di proteggerle dal freddo, difenderle dal caldo e fungere da coltri naturali adatte a ciascuna durante il riposo; [321b] poi ne calzò di zoccoli alcune altre invece [di pelli e] di pelle dura e priva di sangue. Quindi destinò loro cibi diversi, alle une i pascoli della terra, ad altre i frutti degli alberi, le radici ed altre ancora; ve ne furono poi alcune cui concesse di nutrirsi di altri animali, e a esse accordò una prole esigua, mentre alle loro prede consentì una discendenza numerosa per assicurare così la sopravvivenza della specie. Senonché, non essendo un gran sapiente, a un certo punto Epimeteo [321c] si accorse di aver esaurito le capacità a favore degli esseri privi di parola, per cui la specie umana rimaneva ancora sprovvista ed egli non sapeva come rimediare. Mentre si dibatteva nell’incertezza, si presenta Prometeo per esaminare la distribuzione e nota che gli altri animali sono equipaggiati in modo conveniente, mentre invece l’uomo è nudo, scalzo, scoperto, inerme, benché già si avvicinasse il giorno stabilito in cui anche lui da sottoterra avrebbe dovuto venire alla luce. Perciò, non sapendo quale via di sopravvivenza trovare per lui, [321d] Prometeo ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico e con esso il fuoco – infatti senza fuoco era impossibile acquistare e usare tale sapere – e lo porta all’uomo. In tal modo quest’ultimo ottenne il sapere necessario alla vita quotidiana, ma non ancora il sapere politico, che si trovava presso Zeus. Prometeo però non poteva più penetrare nell’acropoli, dimora del dio – dove oltretutto si trovavano le sue temibili guardie – , ed entra dunque furtivamente nell’officina [321e] dove Atena ed Efesto erano impegnati insieme al lavoro e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra di Atena, le diede all’uomo; da allora l’uomo ha una risorsa per la vita, [322a] mentre si narra che in seguito al furto di Prometeo, per colpa di Epimeteo, fu punito con una condanna.

 

Constantin Hansen, Prometeo modella l'uomo dall'argilla. Olio su tela, 1845.
Constantin Hansen, Prometeo modella l’uomo dall’argilla. Olio su tela, 1845.

 

Ἐπειδὴ δὲ ὁ ἄνθρωπος θείας μετέσχε μοίρας, πρῶτον μὲν διὰ τὴν τοῦ θεοῦ συγγένειαν ζῴων μόνον θεοὺς ἐνόμισεν, καὶ ἐπεχείρει βωμούς τε ἱδρύεσθαι καὶ ἀγάλματα θεῶν: ἔπειτα φωνὴν καὶ ὀνόματα ταχὺ διηρθρώσατο τῇ τέχνῃ, καὶ οἰκήσεις καὶ ἐσθῆτας καὶ ὑποδέσεις καὶ στρωμνὰς καὶ τὰς ἐκ γῆς τροφὰς ηὕρετο. οὕτω δὴ παρεσκευασμένοι κατ᾽ ἀρχὰς [322b] ἄνθρωποι ᾤκουν σποράδην, πόλεις δὲ οὐκ ἦσαν· ἀπώλλυντο οὖν ὑπὸ τῶν θηρίων διὰ τὸ πανταχῇ αὐτῶν ἀσθενέστεροι εἶναι, καὶ ἡ δημιουργικὴ τέχνη αὐτοῖς πρὸς μὲν τροφὴν ἱκανὴ βοηθὸς ἦν, πρὸς δὲ τὸν τῶν θηρίων πόλεμον ἐνδεής — πολιτικὴν γὰρ τέχνην οὔπω εἶχον, ἧς μέρος πολεμική — ἐζήτουν δὴ ἁθροίζεσθαι καὶ σῴζεσθαι κτίζοντες πόλεις: ὅτ᾽ οὖν ἁθροισθεῖεν, ἠδίκουν ἀλλήλους ἅτε οὐκ ἔχοντες τὴν πολιτικὴν τέχνην, ὥστε πάλιν σκεδαννύμενοι διεφθείροντο. [322c] Ζεὺς οὖν δείσας περὶ τῷ γένει ἡμῶν μὴ ἀπόλοιτο πᾶν, Ἑρμῆν πέμπει ἄγοντα εἰς ἀνθρώπους αἰδῶ τε καὶ δίκην, ἵν᾽ εἶεν πόλεων κόσμοι τε καὶ δεσμοὶ φιλίας συναγωγοί. ἐρωτᾷ οὖν Ἑρμῆς Δία τίνα οὖν τρόπον δοίη δίκην καὶ αἰδῶ ἀνθρώποις· ‘Πότερον ὡς αἱ τέχναι νενέμηνται, οὕτω καὶ ταύτας νείμω; νενέμηνται δὲ ὧδε· εἷς ἔχων ἰατρικὴν πολλοῖς ἱκανὸς ἰδιώταις, καὶ οἱ ἄλλοι δημιουργοί: καὶ δίκην δὴ καὶ αἰδῶ [322d] οὕτω θῶ ἐν τοῖς ἀνθρώποις, ἢ ἐπὶ πάντας νείμω;’ ‘ἐπὶ πάντας,’ ἔφη ὁ Ζεύς, ‘καὶ πάντες μετεχόντων· οὐ γὰρ ἂν γένοιντο πόλεις, εἰ ὀλίγοι αὐτῶν μετέχοιεν ὥσπερ ἄλλων τεχνῶν· καὶ νόμον γε θὲς παρ᾽ ἐμοῦ τὸν μὴ δυνάμενον αἰδοῦς καὶ δίκης μετέχειν κτείνειν ὡς νόσον πόλεως.’ οὕτω δή, ὦ Σώκρατες, καὶ διὰ ταῦτα οἵ τε ἄλλοι καὶ Ἀθηναῖοι, ὅταν μὲν περὶ ἀρετῆς τεκτονικῆς ᾖ λόγος ἢ ἄλλης τινὸς δημιουργικῆς, ὀλίγοις οἴονται μετεῖναι συμβουλῆς, καὶ ἐάν [322e] τις ἐκτὸς ὢν τῶν ὀλίγων συμβουλεύῃ, οὐκ ἀνέχονται, ὡς σὺ φῄς — εἰκότως, ὡς ἐγώ φημι — ὅταν δὲ εἰς συμβουλὴν πολιτικῆς [323a] ἀρετῆς ἴωσιν, ἣν δεῖ διὰ δικαιοσύνης πᾶσαν ἰέναι καὶ σωφροσύνης, εἰκότως ἅπαντος ἀνδρὸς ἀνέχονται, ὡς παντὶ προσῆκον ταύτης γε μετέχειν τῆς ἀρετῆς ἢ μὴ εἶναι πόλεις. αὕτη, ὦ Σώκρατες, τούτου αἰτία.

Poiché inoltre l’uomo fu fatto partecipe di sorte divina, unico tra gli esseri viventi credette per prima cosa negli dèi e iniziò a innalzare statue e altari in loro onore. Ben presto poi articolò abilmente la voce e le parole, e si procurò abitazioni, vesti, calzature, giacigli e sostentamento dalla terra. Pur così provvisti, tuttavia, agli inizi gli uomini abitavano divisi [322b] – non esistevano città – perciò, essendo molto più deboli degli animali feroci, morivano a causa di questi ultimi: le tecniche produttive che possedevano, infatti, li soccorrevano adeguatamente nel procurarsi il cibo, ma non nel combattere le fiere, perché essi non possedevano l’arte politica della quale fa parte il combattere. Allora cercarono di unirsi e di trovare salvezza fondando città. Ma anche quando si radunavano, continuavano a commettere ingiustizie l’uno contro l’altro, sempre perché non conoscevano l’arte politica, e così, disperdendosi nuovamente, perivano. A quel punto Zeus, [322c] temendo che la nostra stirpe scomparisse del tutto, mandò Ermes a portare agli uomini il senso del rispetto e del giusto, perché fossero posti a fondamento delle città e favorissero i vincoli di amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini il senso del giusto e del rispetto: “Li distribuisco anch’essi come sono state distribuite le tecniche? Cioè in modo che uno solo che possieda l’arte medica basti ai molti che non la possiedono, e così anche gli altri che prestano la loro opera al prossimo? Distribuisco tra gli uomini in questo stesso modo anche il senso del giusto e del rispetto [322d] o li concedo a tutti?”. “A tutti – rispose Zeus –, “in modo che tutti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere città se il senso del rispetto e quello del giusto, come le altre arti, fossero posseduti da pochi; e quale legge voluta da me poi che sia ucciso, in quanto rovina della città, chi non sappia avere rispetto e giustizia”. Quindi, Socrate, anche per queste ragioni, quando si tratta di cognizioni di architettura o di qualche altra arte produttiva, come gli altri pure gli Ateniesi ritengono che pochi abbiano il diritto di partecipare a una deliberazione, [322e] e, se qualcuno all’infuori di questi pochi suggerisce un parere, non lo tollerano, come tu dici; giustamente, aggiungo io. Ma quando si consultano su questioni di virtù politica e si deve quindi procedere del tutto secondo giustizia e saggezza, [323a] giustamente essi ascoltano chiunque di buon grado, convinti che tutti partecipino di queste virtù, perché altrimenti non vi sarebbero città. Questa, Socrate, ne è la ragione.

 

Tempio di Athena Parthenos (Partenone). Acropoli di Atene.
Tempio di Athena Parthenos (Partenone). Acropoli di Atene.

 

Ἵνα δὲ μὴ οἴῃ ἀπατᾶσθαι ὡς τῷ ὄντι ἡγοῦνται πάντες ἄνθρωποι πάντα ἄνδρα μετέχειν δικαιοσύνης τε καὶ τῆς ἄλλης πολιτικῆς ἀρετῆς, τόδε αὖ λαβὲ τεκμήριον. ἐν γὰρ ταῖς ἄλλαις ἀρεταῖς, ὥσπερ σὺ λέγεις, ἐάν τις φῇ ἀγαθὸς αὐλητὴς εἶναι, ἢ ἄλλην ἡντινοῦν τέχνην ἣν μή ἐστιν, ἢ καταγελῶσιν [323b] ἢ χαλεπαίνουσιν, καὶ οἱ οἰκεῖοι προσιόντες νουθετοῦσιν ὡς μαινόμενον· ἐν δὲ δικαιοσύνῃ καὶ ἐν τῇ ἄλλῃ πολιτικῇ ἀρετῇ, ἐάν τινα καὶ εἰδῶσιν ὅτι ἄδικός ἐστιν, ἐὰν οὗτος αὐτὸς καθ᾽ αὑτοῦ τἀληθῆ λέγῃ ἐναντίον πολλῶν, ὃ ἐκεῖ σωφροσύνην ἡγοῦντο εἶναι, τἀληθῆ λέγειν, ἐνταῦθα μανίαν, καί φασιν πάντας δεῖν φάναι εἶναι δικαίους, ἐάντε ὦσιν ἐάντε μή, ἢ μαίνεσθαι τὸν μὴ προσποιούμενον [δικαιοσύνην]· ὡς ἀναγκαῖον [323c] οὐδένα ὅντιν᾽ οὐχὶ ἁμῶς γέ πως μετέχειν αὐτῆς, ἢ μὴ εἶναι ἐν ἀνθρώποις.

Ma perché tu non creda che io ti inganni nel dire che in verità tutti sono convinti che ogni uomo partecipi della giustizia e del resto della virtù politica, senti anche questo ragionamento. Nelle altre virtù, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon flautista, o bravo in un’altra arte, e invece non lo è, o viene deriso [323b] o è fatto oggetto di sdegno e i familiari corrono a riprenderlo come se fosse un matto; ma in materia di giustizia e di virtù politica in generale, se anche tutti vedono che uno è ingiusto ed egli, contro il suo interesse, dichiara la verità davanti a molti, quel che nel caso precedente tutti ritenevano segno di saggezza – dire la verità – qui sembra follia, per cui affermano che tutti devono dire di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non cerca di apparire [giusto] – [323c] perché, necessariamente, o ciascuno partecipa in qualche misura di tale virtù, o non può stare tra gli uomini.

 

Ὅτι μὲν οὖν πάντ᾽ ἄνδρα εἰκότως ἀποδέχονται περὶ ταύτης τῆς ἀρετῆς σύμβουλον διὰ τὸ ἡγεῖσθαι παντὶ μετεῖναι αὐτῆς, ταῦτα λέγω· ὅτι δὲ αὐτὴν οὐ φύσει ἡγοῦνται εἶναι οὐδ᾽ ἀπὸ τοῦ αὐτομάτου, ἀλλὰ διδακτόν τε καὶ ἐξ ἐπιμελείας παραγίγνεσθαι ᾧ ἂν παραγίγνηται, τοῦτό σοι μετὰ τοῦτο πειράσομαι ἀποδεῖξαι. ὅσα γὰρ ἡγοῦνται ἀλλήλους κακὰ ἔχειν ἄνθρωποι [323d] φύσει ἢ τύχῃ, οὐδεὶς θυμοῦται οὐδὲ νουθετεῖ οὐδὲ διδάσκει οὐδὲ κολάζει τοὺς ταῦτα ἔχοντας, ἵνα μὴ τοιοῦτοι ὦσιν, ἀλλ᾽ ἐλεοῦσιν: οἷον τοὺς αἰσχροὺς ἢ σμικροὺς ἢ ἀσθενεῖς τίς οὕτως ἀνόητος ὥστε τι τούτων ἐπιχειρεῖν ποιεῖν; ταῦτα μὲν γὰρ οἶμαι ἴσασιν ὅτι φύσει τε καὶ τύχῃ τοῖς ἀνθρώποις γίγνεται, τὰ καλὰ καὶ τἀναντία τούτοις· ὅσα δὲ ἐξ ἐπιμελείας καὶ ἀσκήσεως καὶ διδαχῆς οἴονται γίγνεσθαι ἀγαθὰ ἀνθρώποις, [323e] ἐάν τις ταῦτα μὴ ἔχῃ, ἀλλὰ τἀναντία τούτων κακά, ἐπὶ τούτοις που οἵ τε θυμοὶ γίγνονται καὶ αἱ κολάσεις καὶ αἱ νουθετήσεις. ὧν ἐστιν ἓν καὶ ἡ ἀδικία καὶ ἡ ἀσέβεια καὶ [324a] συλλήβδην πᾶν τὸ ἐναντίον τῆς πολιτικῆς ἀρετῆς· ἔνθα δὴ πᾶς παντὶ θυμοῦται καὶ νουθετεῖ, δῆλον ὅτι ὡς ἐξ ἐπιμελείας καὶ μαθήσεως κτητῆς οὔσης. εἰ γὰρ ἐθέλεις ἐννοῆσαι τὸ κολάζειν, ὦ Σώκρατες, τοὺς ἀδικοῦντας τί ποτε δύναται, αὐτό σε διδάξει ὅτι οἵ γε ἄνθρωποι ἡγοῦνται παρασκευαστὸν εἶναι ἀρετήν. οὐδεὶς γὰρ κολάζει τοὺς ἀδικοῦντας πρὸς τούτῳ τὸν νοῦν ἔχων καὶ τούτου ἕνεκα, ὅτι ἠδίκησεν, ὅστις [324b] μὴ ὥσπερ θηρίον ἀλογίστως τιμωρεῖται· ὁ δὲ μετὰ λόγου ἐπιχειρῶν κολάζειν οὐ τοῦ παρεληλυθότος ἕνεκα ἀδικήματος τιμωρεῖται — οὐ γὰρ ἂν τό γε πραχθὲν ἀγένητον θείη — ἀλλὰ τοῦ μέλλοντος χάριν, ἵνα μὴ αὖθις ἀδικήσῃ μήτε αὐτὸς οὗτος μήτε ἄλλος ὁ τοῦτον ἰδὼν κολασθέντα. καὶ τοιαύτην διάνοιαν ἔχων διανοεῖται παιδευτὴν εἶναι ἀρετήν· ἀποτροπῆς γοῦν ἕνεκα κολάζει. ταύτην οὖν τὴν δόξαν πάντες ἔχουσιν ὅσοιπερ [324c] τιμωροῦνται καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ. τιμωροῦνται δὲ καὶ κολάζονται οἵ τε ἄλλοι ἄνθρωποι οὓς ἂν οἴωνται ἀδικεῖν, καὶ οὐχ ἥκιστα Ἀθηναῖοι οἱ σοὶ πολῖται: ὥστε κατὰ τοῦτον τὸν λόγον καὶ Ἀθηναῖοί εἰσι τῶν ἡγουμένων παρασκευαστὸν εἶναι καὶ διδακτὸν ἀρετήν. ὡς μὲν οὖν εἰκότως ἀποδέχονται οἱ σοὶ πολῖται καὶ χαλκέως καὶ σκυτοτόμου συμβουλεύοντος τὰ πολιτικά, καὶ ὅτι διδακτὸν καὶ παρασκευαστὸν ἡγοῦνται ἀρετήν, ἀποδέδεικταί σοι, ὦ Σώκρατες, ἱκανῶς, ὥς γέ μοι [324d] φαίνεται.

Così ti ho detto come accade che chiunque viene giustamente accettato quale consigliere in materia di questa virtù, perché si pensa che ognuno ne abbia parte; ora tenterò di dimostrarti che si crede che essa non si possieda per natura e che non venga da sé, ma che si possa insegnare e si ottenga cono l’applicazione. Nessuno infatti si sdegna per quei difetti di cui ognuno incolpa la natura o la sorte altrui, [323d] né rimprovera, riprende o punisce chi ne è afflitto affinché non sia più così, ma lo compatisce. Chi, per esempio, sarebbe così sciocco da comportarsi in questo modo con chi è brutto, piccolo o debole? Perché tutti sanno, penso, che gli uomini ricevono queste cose dalla natura o dalla sorte, le virtù come i difetti. Invece, per le qualità che si ritiene gli uomini acquisiscano con l’applicazione, l’esercizio e lo studio, chi non le possiede, ma abbia al contrario i difetti opposti, attira su di sé le ire, le punizioni e i rimproveri. [323e] Uno di questi difetti è proprio l’ingiustizia, l’empietà e tutto quanto è contrario alla virtù politica; [324a] allora tutti si sdegnano e rimproverano tutti, certamente perché pensano che essa si possa ottenere con l’applicazione e lo studio. Se infatti volessi considerare che cosa significhi punire chi commette ingiustizia, Socrate, scopriresti che gli uomini sono convinti che la virtù si possa acquisire, poiché nessuno punisce chi commette ingiustizia pensando a questo e a causa di questo, che ha commesso ingiustizia – [324b] certo, chiunque non si vendichi irrazionalmente come una belva ma intenda punire con buona ragione, non per vendicarsi del delitto commesso, tanto non potrebbe cancellare ciò che è avvenuto, ma in vista del futuro, affinché né quello stesso uomo né chi vede che questi viene punito commettano un’altra ingiustizia. Chi pensa in questo modo crede che la virtù sia frutto di educazione e perciò punisce per prevenire. Così la pensano tutti coloro che comminano pene, nelle questioni private come in quelle pubbliche e, non meno degli altri uomini, [324c] gli Ateniesi tuoi concittadini castigano e puniscono quanti considerano ingiusti mostrando che, in base a questo ragionamento, anch’essi sono tra coloro che credono che la virtù si possa acquisire e insegnare. Perciò mi sembra di averti dimostrato a sufficienza, Socrate, che con ragione i tuoi concittadini accettano che anche un fabbro e un calzolaio si pronuncino nelle questioni politiche, ritenendo che la virtù si possa sia acquisire sia insegnare.

 

Scuola di Fidia. Scena di processione sacrificale. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal fregio meridionale del Partenone. British Museum.
Scuola di Fidia. Scena di processione sacrificale. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal fregio meridionale del Partenone. London, British Museum.

 

Ἔτι δὴ λοιπὴ ἀπορία ἐστίν, ἣν ἀπορεῖς περὶ τῶν ἀνδρῶν τῶν ἀγαθῶν, τί δήποτε οἱ ἄνδρες οἱ ἀγαθοὶ τὰ μὲν ἄλλα τοὺς αὑτῶν ὑεῖς διδάσκουσιν ἃ διδασκάλων ἔχεται καὶ σοφοὺς ποιοῦσιν, ἣν δὲ αὐτοὶ ἀρετὴν ἀγαθοὶ οὐδενὸς βελτίους ποιοῦσιν. τούτου δὴ πέρι, ὦ Σώκρατες, οὐκέτι μῦθόν σοι ἐρῶ ἀλλὰ λόγον. ὧδε γὰρ ἐννόησον· πότερον ἔστιν τι ἓν ἢ οὐκ ἔστιν οὗ ἀναγκαῖον πάντας τοὺς πολίτας μετέχειν, [324e] εἴπερ μέλλει πόλις εἶναι; ἐν τούτῳ γὰρ αὕτη λύεται ἡ ἀπορία ἣν σὺ ἀπορεῖς ἢ ἄλλοθι οὐδαμοῦ. εἰ μὲν γὰρ ἔστιν, καὶ τοῦτό ἐστιν τὸ ἓν οὐ τεκτονικὴ οὐδὲ χαλκεία οὐδὲ κεραμεία [325a] ἀλλὰ δικαιοσύνη καὶ σωφροσύνη καὶ τὸ ὅσιον εἶναι, καὶ συλλήβδην ἓν αὐτὸ προσαγορεύω εἶναι ἀνδρὸς ἀρετήν — εἰ τοῦτ᾽ ἐστὶν οὗ δεῖ πάντας μετέχειν καὶ μετὰ τούτου πάντ᾽ ἄνδρα, ἐάν τι καὶ ἄλλο βούληται μανθάνειν ἢ πράττειν, οὕτω πράττειν, ἄνευ δὲ τούτου μή, ἢ τὸν μὴ μετέχοντα καὶ διδάσκειν καὶ κολάζειν καὶ παῖδα καὶ ἄνδρα καὶ γυναῖκα, ἕωσπερ ἂν κολαζόμενος βελτίων γένηται, ὃς δ᾽ ἂν μὴ ὑπακούῃ κολαζόμενος καὶ διδασκόμενος, ὡς ἀνίατον ὄντα τοῦτον [325b] ἐκβάλλειν ἐκ τῶν πόλεων ἢ ἀποκτείνειν — εἰ οὕτω μὲν ἔχει, οὕτω δ᾽ αὐτοῦ πεφυκότος οἱ ἀγαθοὶ ἄνδρες εἰ τὰ μὲν ἄλλα διδάσκονται τοὺς ὑεῖς, τοῦτο δὲ μή, σκέψαι ὡς θαυμασίως γίγνονται οἱ ἀγαθοί. ὅτι μὲν γὰρ διδακτὸν αὐτὸ ἡγοῦνται καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ, ἀπεδείξαμεν· διδακτοῦ δὲ ὄντος καὶ θεραπευτοῦ τὰ μὲν ἄλλα ἄρα τοὺς ὑεῖς διδάσκονται, ἐφ᾽ οἷς οὐκ ἔστι θάνατος ἡ ζημία ἐὰν μὴ ἐπίστωνται, ἐφ᾽ ᾧ δὲ ἥ τε ζημία θάνατος αὐτῶν τοῖς παισὶ καὶ φυγαὶ μὴ μαθοῦσι [325c] μηδὲ θεραπευθεῖσιν εἰς ἀρετήν, καὶ πρὸς τῷ θανάτῳ χρημάτων τε δημεύσεις καὶ ὡς ἔπος εἰπεῖν συλλήβδην τῶν οἴκων ἀνατροπαί, ταῦτα δ᾽ ἄρα οὐ διδάσκονται οὐδ᾽ ἐπιμελοῦνται πᾶσαν ἐπιμέλειαν; οἴεσθαί γε χρή, ὦ Σώκρατες. ἐκ παίδων σμικρῶν ἀρξάμενοι, μέχρι οὗπερ ἂν ζῶσι, καὶ διδάσκουσι καὶ νουθετοῦσιν. ἐπειδὰν θᾶττον συνιῇ τις τὰ λεγόμενα, καὶ τροφὸς καὶ μήτηρ καὶ παιδαγωγὸς καὶ αὐτὸς [325d] ὁ πατὴρ περὶ τούτου διαμάχονται, ὅπως ὡς βέλτιστος ἔσται ὁ παῖς, παρ᾽ ἕκαστον καὶ ἔργον καὶ λόγον διδάσκοντες καὶ ἐνδεικνύμενοι ὅτι τὸ μὲν δίκαιον, τὸ δὲ ἄδικον, καὶ τόδε μὲν καλόν, τόδε δὲ αἰσχρόν, καὶ τόδε μὲν ὅσιον, τόδε δὲ ἀνόσιον, καὶ τὰ μὲν ποίει, τὰ δὲ μὴ ποίει. καὶ ἐὰν μὲν ἑκὼν πείθηται: εἰ δὲ μή, ὥσπερ ξύλον διαστρεφόμενον καὶ καμπτόμενον εὐθύνουσιν ἀπειλαῖς καὶ πληγαῖς. μετὰ δὲ ταῦτα εἰς διδασκάλων πέμποντες πολὺ μᾶλλον ἐντέλλονται ἐπιμελεῖσθαι [325e] εὐκοσμίας τῶν παίδων ἢ γραμμάτων τε καὶ κιθαρίσεως· οἱ δὲ διδάσκαλοι τούτων τε ἐπιμελοῦνται, καὶ ἐπειδὰν αὖ γράμματα μάθωσιν καὶ μέλλωσιν συνήσειν τὰ γεγραμμένα ὥσπερ τότε τὴν φωνήν, παρατιθέασιν αὐτοῖς ἐπὶ τῶν βάθρων ἀναγιγνώσκειν ποιητῶν ἀγαθῶν ποιήματα καὶ ἐκμανθάνειν [326a] ἀναγκάζουσιν, ἐν οἷς πολλαὶ μὲν νουθετήσεις ἔνεισιν πολλαὶ δὲ διέξοδοι καὶ ἔπαινοι καὶ ἐγκώμια παλαιῶν ἀνδρῶν ἀγαθῶν, ἵνα ὁ παῖς ζηλῶν μιμῆται καὶ ὀρέγηται τοιοῦτος γενέσθαι. οἵ τ᾽ αὖ κιθαρισταί, ἕτερα τοιαῦτα, σωφροσύνης τε ἐπιμελοῦνται καὶ ὅπως ἂν οἱ νέοι μηδὲν κακουργῶσιν· πρὸς δὲ τούτοις, ἐπειδὰν κιθαρίζειν μάθωσιν, ἄλλων αὖ ποιητῶν ἀγαθῶν ποιήματα διδάσκουσι μελοποιῶν, εἰς τὰ [326b] κιθαρίσματα ἐντείνοντες, καὶ τοὺς ῥυθμούς τε καὶ τὰς ἁρμονίας ἀναγκάζουσιν οἰκειοῦσθαι ταῖς ψυχαῖς τῶν παίδων, ἵνα ἡμερώτεροί τε ὦσιν, καὶ εὐρυθμότεροι καὶ εὐαρμοστότεροι γιγνόμενοι χρήσιμοι ὦσιν εἰς τὸ λέγειν τε καὶ πράττειν· πᾶς γὰρ ὁ βίος τοῦ ἀνθρώπου εὐρυθμίας τε καὶ εὐαρμοστίας δεῖται. ἔτι τοίνυν πρὸς τούτοις εἰς παιδοτρίβου πέμπουσιν, ἵνα τὰ σώματα βελτίω ἔχοντες ὑπηρετῶσι τῇ διανοίᾳ χρηστῇ [326c] οὔσῃ, καὶ μὴ ἀναγκάζωνται ἀποδειλιᾶν διὰ τὴν πονηρίαν τῶν σωμάτων καὶ ἐν τοῖς πολέμοις καὶ ἐν ταῖς ἄλλαις πράξεσιν. καὶ ταῦτα ποιοῦσιν οἱ μάλιστα δυνάμενοι μάλιστα — μάλιστα δὲ δύνανται οἱ πλουσιώτατοι — καὶ οἱ τούτων ὑεῖς, πρῳαίτατα εἰς διδασκάλων τῆς ἡλικίας ἀρξάμενοι φοιτᾶν, ὀψιαίτατα ἀπαλλάττονται. ἐπειδὰν δὲ ἐκ διδασκάλων ἀπαλλαγῶσιν, ἡ πόλις αὖ τούς τε νόμους ἀναγκάζει μανθάνειν καὶ κατὰ τούτους ζῆν κατὰ παράδειγμα, [326d] ἵνα μὴ αὐτοὶ ἐφ᾽ αὑτῶν εἰκῇ πράττωσιν, ἀλλ᾽ ἀτεχνῶς ὥσπερ οἱ γραμματισταὶ τοῖς μήπω δεινοῖς γράφειν τῶν παίδων ὑπογράψαντες γραμμὰς τῇ γραφίδι οὕτω τὸ γραμματεῖον διδόασιν καὶ ἀναγκάζουσι γράφειν κατὰ τὴν ὑφήγησιν τῶν γραμμῶν, ὣς δὲ καὶ ἡ πόλις νόμους ὑπογράψασα, ἀγαθῶν καὶ παλαιῶν νομοθετῶν εὑρήματα, κατὰ τούτους ἀναγκάζει καὶ ἄρχειν καὶ ἄρχεσθαι, ὃς δ᾽ ἂν ἐκτὸς βαίνῃ τούτων, κολάζει· καὶ ὄνομα τῇ κολάσει ταύτῃ καὶ παρ᾽ ὑμῖν [326e] καὶ ἄλλοθι πολλαχοῦ, ὡς εὐθυνούσης τῆς δίκης, εὐθῦναι. τοσαύτης οὖν τῆς ἐπιμελείας οὔσης περὶ ἀρετῆς ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ, θαυμάζεις, ὦ Σώκρατες, καὶ ἀπορεῖς εἰ διδακτόν ἐστιν ἀρετή; ἀλλ᾽ οὐ χρὴ θαυμάζειν, ἀλλὰ πολὺ μᾶλλον εἰ μὴ διδακτόν.

[324d] Resta ancora la difficoltà su cui sei in dubbio riguardo agli uomini capaci: perché mai essi insegnino ai figli le altre cose, quelle che spettano ai maestri, e in queste li rendano sapienti, mentre in quella virtù in cui essi sono grandi non li rendono affatto migliori. Su questo, Socrate, non ti narrerò un mito, ma farò un ragionamento. Infatti considera questo: esiste o non esiste qualcosa di cui è necessario che tutti i cittadini abbiano parte perché vi sia una città? [324e] Perché è qui, e solo qui, che si risolve la difficoltà su cui sei in dubbio. Se infatti quest’unica cosa esiste e non è né l’arte del costruttore né quella del fabbro o del vasaio, ma è giustizia, saggezza e santità, in breve quell’unica cosa che io chiamo virtù dell’uomo; [325a] se questa è la cosa di cui tutti devono partecipare e secondo la quale ognuno deve agire se vuole apprendere o fare alcunché, altrimenti non riesce; se si deve istruire o correggere chi non ne partecipi, sia fanciullo, uomo o donna, affinché, punito, diventi migliore, e chi non ascolti, nonostante i rimproveri e le punizioni, debba essere cacciato dalla città o ucciso come irrecuperabile; [325b] se è così, se è di questa natura la virtù, se gli uomini capaci insegnano ai figli le altre cose ma non questa, pensa come sono strani questi uomini. Che infatti ritengano che essa si possa insegnare, sia nelle faccende pubbliche sia in quelle private, l’abbiamo dimostrato; ma che, pur ritenendo che sia insegnabile e coltivabile, essi trasmettano ai figli le altre cose dalla cui ignoranza non deriva la pena di morte, e quella cosa invece da cui possono venire ai figli la pena di morte e l’esilio, [325c] se non sono educati e coltivati a virtù e, oltre alla morte, la confisca dei beni e in breve la rovina della famiglia, bene, che proprio questa cosa non la insegnino né se ne preoccupino con la massima sollecitudine è da non credere, Socrate! Cominciano fin da quando i figli sono piccoli e, finché vivono, li istruiscono e li ammoniscono. Appena il ragazzo capisce ciò che viene detto, [325d] sia la nutrice sia la madre, il precettore e il padre stesso si adoperano perché egli diventi quanto migliore ‹è› possibile in tutto ciò che fa o dice, insegnandogli e mostrandogli che questo è giusto e quest’altro ingiusto, che questo è bello e l’altro brutto, questo santo e questo empio, questo si fa e questo no. E se obbedisce di buon grado, bene; se no, come un legno storto e ricurvo, lo raddrizzano a suon di minacce e percosse. Dopodiché lo mandano a scuola e incaricano i maestri di preoccuparsi molto più della buona condotta degli allievi che della grammatica e della musica; [325e] i maestri si prendono cura di loro e, quando hanno imparato la grammatica e cominciano a capire i testi come prima le parole, gli mettono da leggere sui banchi le opere di grandi poeti, [326a] nelle quali vi sono molti ammonimenti, lodi ed encomii di uomini capaci dei tempi antichi, e li costringono a impararle a memoria affinché il ragazzo cerchi con ardore di eguagliarli e aspiri a diventare come loro. I maestri di musica a loro volta fanno lo stesso, si preoccupano che siano moderati e non commettano alcunché di male, dopo di che, quando hanno imparato a suonare la cetra, insegnano loro le opere di altri grandi poeti lirici, composte per essere suonate, [326b] e fanno in modo che i ritmi e le armonie conquistino le anime dei ragazzi affinché si addolciscano e, una volta diventati più misurati e temperati, possano rendersi utili con le parole e con i fatti – del resto in ogni momento della vita l’uomo ha bisogno di misura e di armonia. Poi li mandano anche dal maestro di ginnastica, perché con i corpi nelle migliori condizioni possano servire la mente già resa forte [326c] e non siano costretti a provare la paura a causa del cattivo stato dei corpi, né in guerra né in altre imprese. Tutto questo lo fanno coloro che hanno maggiori possibilità ‹di fare più cose›, cioè i più ricchi, i cui figli cominciano ad andare a scuola prima degli altri e la lasciano più tardi. E quando infine si separano dai maestri, la città a sua volta li costringe a imparare le leggi e a conformarsi al loro modello affinché non agiscano secondo il proprio capriccio. [326d] Ma proprio come i maestri danno ai ragazzi che non sanno scrivere linee già tracciate con lo stilo sulla tavoletta incerata e li costringono a scrivere secondo queste guide, così anche la città, prescrivendo le leggi scoperte da grandi e antichi legislatori, costringe a governare e a essere governati secondo di esse e punisce chi se ne allontani. Questa punizione viene chiamata raddrizzare, [326e] da voi come in molti altri luoghi, perché la giustizia raddrizza. Se tale dunque è la cura per la virtù, privata e pubblica, ti meravigli, Socrate, e dubiti che essa si possa insegnare? Dovresti ben più meravigliarti se non si potesse insegnare.

 

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen
Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

 

Διὰ τί οὖν τῶν ἀγαθῶν πατέρων πολλοὶ ὑεῖς φαῦλοι γίγνονται; τοῦτο αὖ μάθε· οὐδὲν γὰρ θαυμαστόν, εἴπερ ἀληθῆ ἐγὼ ἐν τοῖς ἔμπροσθεν ἔλεγον, ὅτι τούτου τοῦ πράγματος, [327a] τῆς ἀρετῆς, εἰ μέλλει πόλις εἶναι, οὐδένα δεῖ ἰδιωτεύειν. εἰ γὰρ δὴ ὃ λέγω οὕτως ἔχει — ἔχει δὲ μάλιστα πάντων οὕτως — ἐνθυμήθητι ἄλλο τῶν ἐπιτηδευμάτων ὁτιοῦν καὶ μαθημάτων προελόμενος. εἰ μὴ οἷόν τ᾽ ἦν πόλιν εἶναι εἰ μὴ πάντες αὐληταὶ ἦμεν ὁποῖός τις ἐδύνατο ἕκαστος, καὶ τοῦτο καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ πᾶς πάντα καὶ ἐδίδασκε καὶ ἐπέπληττε τὸν μὴ καλῶς αὐλοῦντα, καὶ μὴ ἐφθόνει τούτου, ὥσπερ νῦν τῶν δικαίων καὶ τῶν νομίμων οὐδεὶς φθονεῖ οὐδ᾽ [327b] ἀποκρύπτεται ὥσπερ τῶν ἄλλων τεχνημάτων — λυσιτελεῖ γὰρ οἶμαι ἡμῖν ἡ ἀλλήλων δικαιοσύνη καὶ ἀρετή· διὰ ταῦτα πᾶς παντὶ προθύμως λέγει καὶ διδάσκει καὶ τὰ δίκαια καὶ τὰ νόμιμα — εἰ οὖν οὕτω καὶ ἐν αὐλήσει πᾶσαν προθυμίαν καὶ ἀφθονίαν εἴχομεν ἀλλήλους διδάσκειν, οἴει ἄν τι, ἔφη, μᾶλλον, ὦ Σώκρατες, τῶν ἀγαθῶν αὐλητῶν ἀγαθοὺς αὐλητὰς τοὺς ὑεῖς γίγνεσθαι ἢ τῶν φαύλων; οἶμαι μὲν οὔ, ἀλλὰ ὅτου ἔτυχεν ὁ ὑὸς εὐφυέστατος γενόμενος εἰς αὔλησιν, οὗτος [327c] ἂν ἐλλόγιμος ηὐξήθη, ὅτου δὲ ἀφυής, ἀκλεής: καὶ πολλάκις μὲν ἀγαθοῦ αὐλητοῦ φαῦλος ἂν ἀπέβη, πολλάκις δ᾽ ἂν φαύλου ἀγαθός· ἀλλ᾽ οὖν αὐληταί γ᾽ ἂν πάντες ἦσαν ἱκανοὶ ὡς πρὸς τοὺς ἰδιώτας καὶ μηδὲν αὐλήσεως ἐπαΐοντας. οὕτως οἴου καὶ νῦν, ὅστις σοι ἀδικώτατος φαίνεται ἄνθρωπος τῶν ἐν νόμοις καὶ ἀνθρώποις τεθραμμένων, δίκαιον αὐτὸν εἶναι καὶ δημιουργὸν τούτου τοῦ πράγματος, εἰ δέοι αὐτὸν κρίνεσθαι [327d] πρὸς ἀνθρώπους οἷς μήτε παιδεία ἐστὶν μήτε δικαστήρια μήτε νόμοι μηδὲ ἀνάγκη μηδεμία διὰ παντὸς ἀναγκάζουσα ἀρετῆς ἐπιμελεῖσθαι, ἀλλ᾽ εἶεν ἄγριοί τινες οἷοίπερ οὓς πέρυσιν Φερεκράτης ὁ ποιητὴς ἐδίδαξεν ἐπὶ Ληναίῳ. ἦ σφόδρα ἐν τοῖς τοιούτοις ἀνθρώποις γενόμενος, ὥσπερ οἱ ἐν ἐκείνῳ τῷ χορῷ μισάνθρωποι, ἀγαπήσαις ἂν εἰ ἐντύχοις Εὐρυβάτῳ καὶ Φρυνώνδᾳ, καὶ ἀνολοφύραι᾽ ἂν ποθῶν τὴν τῶν ἐνθάδε ἀνθρώπων [327e] πονηρίαν. νῦν δὲ τρυφᾷς, ὦ Σώκρατες, διότι πάντες διδάσκαλοί εἰσιν ἀρετῆς καθ᾽ ὅσον δύνανται ἕκαστος, καὶ οὐδείς σοι φαίνεται· εἶθ᾽, ὥσπερ ἂν εἰ ζητοῖς τίς διδάσκαλος [328a] τοῦ ἑλληνίζειν, οὐδ᾽ ἂν εἷς φανείη, οὐδέ γ᾽ ἂν οἶμαι εἰ ζητοῖς τίς ἂν ἡμῖν διδάξειεν τοὺς τῶν χειροτεχνῶν ὑεῖς αὐτὴν ταύτην τὴν τέχνην ἣν δὴ παρὰ τοῦ πατρὸς μεμαθήκασιν, καθ᾽ ὅσον οἷός τ᾽ ἦν ὁ πατὴρ καὶ οἱ τοῦ πατρὸς φίλοι ὄντες ὁμότεχνοι, τούτους ἔτι τίς ἂν διδάξειεν, οὐ ῥᾴδιον οἶμαι εἶναι, ὦ Σώκρατες, τούτων διδάσκαλον φανῆναι, τῶν δὲ ἀπείρων παντάπασι ῥᾴδιον, οὕτω δὲ ἀρετῆς καὶ τῶν ἄλλων πάντων· ἀλλὰ κἂν εἰ ὀλίγον ἔστιν τις ὅστις διαφέρει [328b] ἡμῶν προβιβάσαι εἰς ἀρετήν, ἀγαπητόν. ὧν δὴ ἐγὼ οἶμαι εἷς εἶναι, καὶ διαφερόντως ἂν τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ὀνῆσαί τινα πρὸς τὸ καλὸν καὶ ἀγαθὸν γενέσθαι, καὶ ἀξίως τοῦ μισθοῦ ὃν πράττομαι καὶ ἔτι πλείονος, ὥστε καὶ αὐτῷ δοκεῖν τῷ μαθόντι. διὰ ταῦτα καὶ τὸν τρόπον τῆς πράξεως τοῦ μισθοῦ τοιοῦτον πεποίημαι· ἐπειδὰν γάρ τις παρ᾽ ἐμοῦ μάθῃ, ἐὰν μὲν βούληται, ἀποδέδωκεν ὃ ἐγὼ πράττομαι ἀργύριον· [328c] ἐὰν δὲ μή, ἐλθὼν εἰς ἱερόν, ὀμόσας ὅσου ἂν φῇ ἄξια εἶναι τὰ μαθήματα, τοσοῦτον κατέθηκε.

Perché allora da padri capaci nascono tanti figli sciocchi? Sappi anche questo: non vi è nulla di strano in questo, se è vero ciò che dicevo prima, che di questa cosa, della virtù, [327a] nessuno deve essere privo perché la città possa esistere. Se infatti le cose stanno come dico – e così è senza alcun dubbio – pensa a un qualunque altro studio o disciplina e rifletti. Se la città non potesse esistere a meno che tutti sapessimo suonare il flauto, ciascuno come può, e se questo tutti lo insegnassero a tutti, sia privatamente sia pubblicamente, e si punisse chi non suona bene senza negare questo insegnamento a nessuno così come ora nessuno nega l’insegnamento del giusto e delle leggi né lo tiene nascosto come si fa con le altre arti – [327b] infatti credo che la giustizia e la virtù siano cose utili l’un l’altro, e perciò tutti dicono e insegnano a tutti con entusiasmo ciò che è giusto e ciò che è conforme alle leggi; se così dunque ponessimo lo stesso entusiasmo e la stessa generosità anche nell’insegnarci a vicenda l’arte di suonare, credi tu, Socrate, che i figli dei buoni flautisti diventerebbero più bravi dei figli dei flautisti mediocri? Io credo di no, e penso invece che, di chiunque fosse figlio, diventerebbe famoso chi sia nato con più talento, mentre chi non ne sia dotato rimarrebbe oscuro; [327c] e a volte da un buon flautista nascerebbe un musicista mediocre, altre invece da un musicista mediocre uno bravo, ma tutti suonerebbero abbastanza bene in confronto ai profani e a chi non capisce nulla di flauto. È così anche nel nostro caso: chiunque, tra quanti sono stati educati secondo le leggi degli uomini, ti sembrasse estremamente ingiusto, lo considereresti giusto e un maestro di giustizia se dovessi giudicarlo in confronto a uomini che [327d] non hanno educazione né tribunali né leggi né qualcosa che li costringa a preoccuparsi della virtù e fossero come quei selvaggi che il poeta Ferecrate rappresentò l’anno scorso al Leneo; sicuramente, se ti trovassi tra uomini così, come i misantropi in quel coro saresti felice di ritrovarti con Euribate e Frinonda e ti lamenteresti rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui. [327e] Mentre ora fai lo sdegnoso, Socrate, perché tutti sono maestri di virtù, ciascuno come può, e nessuno ti sembra tale; e ugualmente, se anche cercassi chi è maestro della lingua greca, non lo troveresti, né credo, [328a] se cercassi chi abbia insegnato ai figli dei nostri artigiani quell’arte imparata dai padri in misura delle capacità loro e dei colleghi che esercitavano la stessa arte, e chi abbia insegnato a questi, non credo sarebbe facile trovarne il maestro, Socrate, mentre facilissimo sarebbe trovare il maestri di chi è completamente ignorante, nella virtù come in tutte le altre cose. Invece, se vi è qualcuno che ci è superiore, anche se di poco, nel condurre alla virtù, dobbiamo rallegrarcene. [328b] Di fatto io credo di essere uno di questi, e di poter più degli altri aiutare chiunque a diventare un uomo degno e di successo in misura corrispondente al compenso che richiedo, e persino in misura maggiore, come sembra anche ai miei discepoli. Per questi motivi ho stabilito di essere remunerato nel modo seguente: quando uno ha imparato da me, se vuole, mi paga quanto denaro richiedo; altrimenti va in un tempio, [328c] dichiara sotto giuramento quanto gli sembra che valgano i miei insegnamenti e altrettanto offre.

Τοιοῦτόν σοι, ἔφη, ὦ Σώκρατες, ἐγὼ καὶ μῦθον καὶ λόγον εἴρηκα, ὡς διδακτὸν ἀρετὴ καὶ Ἀθηναῖοι οὕτως ἡγοῦνται, καὶ ὅτι οὐδὲν θαυμαστὸν τῶν ἀγαθῶν πατέρων φαύλους ὑεῖς γίγνεσθαι καὶ τῶν φαύλων ἀγαθούς, ἐπεὶ καὶ οἱ Πολυκλείτου ὑεῖς, Παράλου καὶ Ξανθίππου τοῦδε ἡλικιῶται, οὐδὲν πρὸς τὸν πατέρα εἰσίν, καὶ ἄλλοι ἄλλων δημιουργῶν. τῶνδε δὲ [328d] οὔπω ἄξιον τοῦτο κατηγορεῖν· ἔτι γὰρ ἐν αὐτοῖς εἰσιν ἐλπίδες· νέοι γάρ.

Ecco, Socrate, ti ho esposto con un mito e con un ragionamento che la virtù si può insegnare, che gli Ateniesi la pensano così e che non vi è nulla di strano che da uomini capaci nascano figli da poco e figli capaci da uomini che non valgono nulla, poiché anche i figli di Policleto, che hanno la stessa età di Paralo e Santippo, non valgono nulla in confronto al padre, e così altri figli di altri artigiani. Ma non è il momento di metterli sotto accusa, poiché sono giovani, [328d] e vi sono ancora speranze per loro».

Il mito del Protagora e le tecniche

7 ottobre 201610 agosto 2021 Francesco Cerato2 commenti

di G. Cambiano, in Id., Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 13-25.

J.-S. Berthélemy e J.-B. Mauzaisse, Prometeo dà vita all'uomo. Affresco, 1802. Paris, Musée du Louvre
J.-S. Berthélemy e J.-B. Mauzaisse, Prometeo dà vita all’uomo. Affresco, 1802. Paris, Musée du Louvre.

Le tesi del mito

Nei primi dialoghi platonici il quadro più omogeneo e diffuso del problema delle tecniche è esposto, sotto forma di narrazione mitica, dal sofista Protagora di Abdera, nel dialogo che porta il suo nome. In esso si racconta che, dopo un periodo in cui gli unici esseri esistenti erano gli dèi, venne il momento fatale della produzione delle specie mortali. Gli dèi provvidero a tale scopo, valendosi di terra e di fuoco, e incaricarono Prometeo ed Epimeteo di dare un ordine (κοσμῆσαι) alle specie prodotte e di distribuire a ognuna le possibilità (δυνάμεις) convenienti in grado di garantire la loro sopravvivenza. Epimeteo ottenne da Prometeo il privilegio di essere l’unico distributore e spartì equamente tra le specie forza, velocità, resistenza alle intemperie, prolificità e così via. Ma non si avvide di aver consumato le δυνάμεις con gli animali privi di ragione (τὰ ἄλογα). Il genere umano rimaneva senza ordine (ἀκόσμητον) ed egli non sapeva uscire da questa difficoltà. Prometeo, allora, per risolvere la situazione, rubò ad Efesto e ad Atena la sapienza tecnica (τὴν ἔντεχνον σοφίαν) con il fuoco e ne fece dono agli uomini. Ciò istituì una vera e propria parentela degli uomini con gli dèi e rese possibile, da una parte, la formazione della religione e dei culti e, dall’altra, l’articolazione di un linguaggio. Ma il risultato più diretto fu costituito dal fatto che gli uomini, valendosi della tecnica ottenuta in dono, poterono procurarsi abitazioni, calzature, vestiti e cibo. Tuttavia vivevano ancora isolati ed erano, quindi, esposti e indifesi agli assalti delle fiere. Per uscire da tale situazione si raccolsero in città, ma, sprovvisti di ogni tecnica politica, cominciarono a commettere ingiustizie reciproche, autodistruggendosi. Zeus, temendo l’estinzione totale del genere umano, mandò Ermes a distribuire agli uomini rispetto e giustizia (αἰδῶ τε καὶ δίκην), in modo da instaurare un ordine e legami di solidarietà fra essi. Ermes chiese se la distribuzione di rispetto e giustizia, che insieme costituiscono la tecnica politica, doveva essere fatta come quella delle altre tecniche – per cui, ad esempio, un medico esercita la propria tecnica anche per coloro che ne sono sprovvisti – oppure doveva concernere tutti. La decisione di Zeus fu che tutti ne fossero partecipi, poiché non sarebbe stato possibile il sorgere di città, se soltanto pochi avessero posseduto la tecnica politica. Da Zeus provenne, dunque, la legge che chi è privo di rispetto e giustizia sia ucciso come peste della città[1].

In questo racconto condizione naturale, tecniche artigianale e tecnica politica sono presentate come tre fasi, cronologicamente successive, della storia dell’umanità; ad ognuna di queste fasi corrisponde l’intervento benefico di un essere sovrumano, Epimeteo, Prometeo, Zeus. Ma la disposizione cronologica non è il fine principale del racconto di Protagora: ciò che egli vuole indicare sotto tale disposizione è il peso dei tre fattori, corrispondenti alle tre fasi, nel quadro della società umana[2]. In primo luogo è sottolineata l’insufficienza delle doti naturali umane ai fini della sopravvivenza. Mentre l’ordine del mondo animale si realizza sulla base di un’equa e armonica distribuzione di doti fisico-organiche, la sopravvivenza del mondo umano non è garantita dal possesso delle doti naturali. Le possibilità animali, di numero finito[3], sono diverse da specie a specie, ma nel loro insieme si compensano e si integrano reciprocamente, garantendo, secondo le loro proprietà specifiche, la sopravvivenza di ogni specie. A livello umano – cioè di esseri forniti di λόγος – questo risultato non è ottenuto dalle doti naturali umane, che Protagora considera inesistenti e, in ogni caso, inferiori e destinate al completo insuccesso nei confronti delle doti degli animali; non solo, ma non è neppure ottenuto dalle tecniche artigianali, che in prima approssimazione potrebbero sembrare l’equivalente delle doti naturali animali. Le tecniche artigianali sono distribuite analogamente alle possibilità animali, nel senso che soltanto alcuni individui dispongono dell’una o dell’altra, così come soltanto alcune specie animali hanno la forza o la velocità. L’analogia nella distribuzione si istituisce, secondo Protagora, fra specie animali e individui umani, non fra specie animali e specie umana: cioè come una specie ha una dote e un’altra un’altra dote, così un uomo ha una tecnica e un altro un’altra tecnica. Ma l’analogia non può estendersi oltre: mentre i rapporti fra le doti naturali sono tali che il conflitto tra le specie corrispondenti a tali doti non implica mai l’eliminazione di una specie, i rapporti fra le tecniche artigianali non garantiscono la sopravvivenza degli individui nei conflitti sia con l’ambiente esterno – finché rimangono isolati – sia degli individui tra loro – quando si riuniscono in gruppi. Mentre le doti animali regolano i conflitti tra specie, le tecniche artigianali nella migliore delle ipotesi regolano i conflitti tra il gruppo umano e le specie animali. Ciò presuppone che gli individui umani costituiscano un gruppo: l’efficacia parziale delle tecniche artigianali dipende dall’esistenza di una comunità umana. Le tecniche artigianali acquistano in efficacia non quando sono esercitate globalmente da un solo individuo, ma quando obbediscono al principio della divisione del lavoro all’interno di un gruppo. L’esercizio di una tecnica artigianale vale per altri individui che non sanno o non possono esercitarla. In altre parole, la sopravvivenza umana richiede costitutivamente l’organizzazione in gruppi da parte di individui in possesso di tecniche complementari. Da ciò dipende probabilmente la connessione istituita da Protagora fra la costituzione delle tecniche artigianali e l’origine del linguaggio. La possibilità e la maggiore efficacia di un uso sociale di tali tecniche conduce all’instaurazione di rapporti tra individui: il punto di incontro è una struttura comunicativa, un linguaggio, che non è però ancora il corrispettivo della formazione di un gruppo sociale. In conclusione la differenza fondamentale esistente fra le doti animali e le tecniche artigianali consiste nel fatto che, mentre tali doti non sono suscettibili di un uso nei confronti di specie sprovviste di esse ed hanno, quindi, una funzione puramente autarchica, le tecniche artigianali contengono in sé strutturalmente la possibilità di un tale uso nei confronti di altri individui.

Se il rapporto che lega gli animali alle proprie possibilità è di natura fisico-organica, il rapporto che lega l’uomo alle sue tecniche non è più tale. Mentre il primo rapporto, data la sua struttura, garantisce l’instaurazione di un ordine a livello animale, perché anche i conflitti più forti non sono in grado di annientare le possibilità costitutive di ogni specie, il secondo rapporto non è di per sé garante della sopravvivenza umana. Le tecniche artigianali non sono l’equivalente globale delle doti animali. Una tecnica artigianale da sola non salva l’uomo: occorre una pluralità di tali tecniche, in grado di scambiarsi servizi reciproci. Ma in tal modo emerge una realtà nuova, la riunione in gruppi, che non è però ancora l’instaurazione di un ordine umano. Le prestazioni reciproche, che sole sono in grado di affrontare positivamente l’assalto degli animali e dell’ambiente, non si sistemano naturalmente. Il fatto stesso che una tecnica possa essere usata in funzione di altri individui può portare alla nascita di conflitti interumani. L’esistenza, che la comunità garantisce nei confronti dei pericoli della natura, è minacciata sotto un altro piano. Tali conflitti, come non possono essere risolti dalle tecniche artigianali, che sono parte in causa, così non possono esserlo neppure mediante la religione e il linguaggio, che sono costitutivamente legati nella loro nascita all’affermarsi delle tecniche artigianali[4]. Soltanto una tecnica, diversa da quelle artigianali, può garantire la convivenza ordinata, che rende possibile lo stesso uso sociale delle tecniche con i vantaggi connessi, e la soluzione di eventuali conflitti. Essa è la tecnica politica: questa è la tesi centrale del mito raccontato da Protagora[5]. Ciò che differenzia la tecnica politica dalle altre tecniche è la distribuzione agli appartenenti di ogni gruppo umano. Diversamente dalle altre tecniche, la tecnica politica non è delegabile ad altri, a una minoranza di individui capaci di impiegarla per l’utilità di tutti gli altri, ma deve essere posseduta ed esercitata da tutti.

È evidente la matrice democratica di quest’ultima tesi protagorea: con essa Protagora sottolineava non solo la legittimità, ma l’obbligatorietà – pena la scomparsa di ogni gruppo sociale – della partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica. Con questa tesi era giustificata la validità della democrazia ateniese. Il riconoscimento in ogni cittadino del possesso non delegabile della tecnica politica comportava la giustificazione dell’assemblea ateniese, come istituzione tipica di una democrazia diretta esercitata da tutti i cittadini. I valori tradizionali di αἰδώς e δίκη[6], interpretati come proprietà di ogni cittadino, potevano essere completamente recuperati alla cultura democratica. Ma d’altra parte il riconoscimento dell’estensione della tecnica politica a tutti i cittadini poteva anche comportare un’attenuazione del posto privilegiato che, all’interno della democrazia ateniese, potevano detenere e di fatto sovente detenevano gruppi o classi, non esclusa quella degli artigiani[7]. La tesi dell’insufficienza delle tecniche artigianali a garantire l’esistenza di una comunità politica poteva contribuire ad accentuare tale aspetto.

Atene. Acropoli, ricostruzione grafica degli edifici principali (disegno di F. Corni)
Atene. Acropoli, ricostruzione grafica degli edifici principali (disegno di F. Corni).

L’autenticità del mito e il discorso di Protagora

Sull’autenticità di questo mito narrato da Protagora i filologi e gli storici hanno sostenuto le tesi più disparate[8]. Occorre osservare intanto che Protagora, con molta probabilità, si occupò di problemi di storia della civiltà in un’opera intitolata Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως, che Platone, nella stesura del mito, quasi sicuramente dovette utilizzare[9]. Ma il problema dell’autenticità presenta due aspetti distinti, perché si tratta di determinare, da una parte, se la forma mitica con il suo correlato religioso possa già risalire a Protagora e, dall’altra, se tutto il contenuto concettuale appartenga al Protagora storico o contenga interpolazioni platoniche. Sul primo punto è necessario riconoscere l’impossibilità di decidere se l’assunzione di uno strumento come il mito, da parte di un uomo che aveva affermato che non è possibile una conoscenza autentica degli dèi[10], fosse contraddittoria o no. D’altra parte l’impianto mitico-narrativo nell’esposizione di problemi di storia della cultura aveva origini lontane e poteva essere assunto soltanto per rendere più agevole il discorso, mediante riferimenti familiari[11]. Ma è anche possibile che la trascrizione mitica di tale problematica implicasse scelte più sostanziali. In ogni caso più rilevante è il secondo aspetto del problema, perché consente di collocare Protagora e Platone all’interno di un quadro di alternative concernenti il problema delle tecniche e il ruolo dei tecnici nella società. La soluzione della questione dell’autenticità del mito è coinvolta e coinvolge insieme una ricostruzione storiografica della posizione di Platone sulle tecniche. Ma prima di passare a ciò, occorre prendere in considerazione il discorso che Platone, sempre nel Protagora, fa pronunciare al sofista, immediatamente dopo l’esposizione del mito.

Nel discorso, come nel mito, Protagora intende, in primo luogo, giustificare la netta distinzione fra tecniche artigianali e tecnica politica. Se tale distinzione esiste, diventa del tutto comprensibile e giustificabile il fatto che nell’assemblea ateniese le questioni di competenza delle tecniche artigianali siano demandate a un numero limitato di esperti operanti per l’intera comunità, mentre nelle decisioni, nelle quali entra in gioco l’ἀρετή politica, tutti si sentano in diritto di fornire pareri. Questo atteggiamento dipende da una valutazione più generale, che permette di differenziare i due tipi di tecniche. Nell’ambito delle tecniche artigianali la professione di verità è indispensabile: chi professa di saper fare ciò che non è capace di fare, è valutato negativamente dal gruppo, per la sua inutilità e la sua mistificazione. Nell’ambito etico-politico, invece, la professione di verità, ben lungi dall’essere indispensabile, è in determinati casi vietata: chi dichiara la verità, per esempio di essere ingiusto, è considerato pazzo, perché contravviene a uno dei postulati fondamentali della società, nel senso che chi si dichiara ingiusto si pone per ciò stesso fuori dal gruppo sociale. La professione di giustizia – anche se di fatto corrisponde a una falsità – è condizione imprescindibile per l’appartenenza a un gruppo[12]. Ma ciò significa che i due tipi di tecniche divergono radicalmente. Chi fa parte di un gruppo sociale dispone della tecnica politica, che è appunto la tecnica che qualifica l’appartenenza a un gruppo.

I due tipi di tecniche, dunque, si differenziano, ma entrambe, d’altra parte, sono insegnabili. L’esistenza in ogni gruppo sociale di una legislazione penale implica, secondo Protagora, il riconoscimento dell’insegnabilità della tecnica etico-politica. In ogni gruppo l’atteggiamento assunto nei confronti di difetti fisici non è di rimprovero o di insegnamento, ma di compassione: ciò è segno che tali difetti sono considerati naturali o casuali e, quindi, non correggibili. Ira e punizione sono atteggiamenti comprensibili soltanto di fronte a difetti considerati frutto di mancanza di insegnamento ed esercizio[13]. L’interpretazione della pena come prevenzione dipende anch’essa dalla tesi dell’insegnabilità della virtù. La colpa non è la giustificazione della pena inflitta, che non può ripristinare la situazione dei fatti nelle modalità antecedenti all’infrazione[14]. La punizione è, invece, uno strumento di difesa e di istruzione sociale per prevenire infrazioni analoghe. Ma questa interpretazione della pena presuppone la possibilità che la pena stessa funzioni da argine e da esempio e possegga, quindi, una capacità educativa di trasformazione; e ciò, ovviamente, dipende dalla convinzione dell’insegnabilità della virtù. La tecnica politica, dunque, come tutte le altre tecniche, non è una dote naturale. Ma qui nasce immediatamente un nuovo problema: la tecnica politica è in possesso di tutti, secondo Protagora, mentre le tecniche artigianali sono prerogativa di pochi individui, che possono trasmetterle ai loro apprendisti. Com’è possibile, allora, la trasmissione a tutti della tecnica politica? La risposta a questa domanda è forse il punto più importante della soluzione di Protagora. Ad Atene esiste un apparato educativo: ogni bambino, fin dalla nascita, è ammaestrato in varie operazioni, apprende un linguaggio e riceve un sistema di valori attraverso prescrizioni e proibizioni. La scuola continua la formazione iniziata in casa, mediante la lettura di poeti che elogiano uomini antichi per le loro virtù, in modo da sollecitare nei giovani processi di identificazione e, attraverso questi, l’acquisizione di valori socialmente positivi. Allo stesso scopo mirano la musica e la ginnastica. Interviene infine nell’opera educativa lo stesso corpo sociale, che obbliga ad apprendere le leggi e le consuetudini sociali – i νόμοι – e a seguirle come modello (παράδειγμα), comminando pene in caso di trasgressione[15]. Protagora considera l’intera società come un immenso apparato educativo[16]. Tutta la vita del cittadino è segnata dalla preoccupazione dell’ambiente sociale circostante affinché egli sia formato nella tecnica politica. di fatto la tecnica politica, attraverso le pressioni e i controlli della società, è insegnata a tutti e di fatto, dunque, tutti la posseggono. In altre parole per Protagora non si può concepire l’uomo in possesso della tecnica politica fuori o prima della società: dire uomo significa dire uomo in società e dire uomo in società significa dire uomo in possesso della tecnica politica. Senza tale tecnica l’uomo non appartiene a un gruppo sociale. Ciò implica che il veicolo di trasmissione di tale tecnica è la società stessa nella sua totalità.

Ma per Protagora le società si differenziano tra loro secondo i valori specifici che perseguono. Tutti gli uomini in società posseggono la virtù, ma il grado di possesso deve essere misurato in riferimento al tipo di civiltà e di cultura alle quali ognuno appartiene. Nell’ipotesi che una città non potesse esistere se tutti i suoi membri non fossero suonatori di flauto, l’apparato educativo di tale città si metterebbe immediatamente in moto per insegnare tale tecnica, che in tal modo diventerebbe patrimonio comune e non privilegio professionale di pochi individui. Così avviene per la giustizia e la legalità, nel cui ambito non regnano la concorrenza e il segreto che caratterizzano le altre tecniche, perché soltanto una certa uniformità nella conoscenza e nell’esercizio della giustizia può garantire una convivenza ordinata. Protagora ammette che le doti naturali costituiscono un condizionamento per l’acquisizione di una tecnica, ma afferma che in un ambiente in cui l’interesse per una determinata tecnica sia al centro, tutti ne diventano almeno discreti possessori[17]. La valutazione delle abilità tecniche e del grado di realizzazione dei valori sociali deve avvenire sempre in stretta connessione con il livello culturale proprio di una determinata società. Un uomo che passa per ingiusto in mezzo a persone cresciute nella piena legalità, è giusto, anzi è addirittura un artefice (δημιουργός) della giustizia in un contesto di uomini allo stato di natura, privi di educazione, di tribunali e di leggi[18]. I valori di un individuo sono, dunque, direttamente proporzionali ai valori che la società, alla quale appartiene, considera vitali e indispensabili[19].

Il confronto fra civiltà diverse, per Protagora, è indubbiamente favorevole alla società ateniese, nella quale tutti, secondo le proprie possibilità, sono insieme maestri, tecnici e allievi di ἀρετή[20]. Tutti, anche se con gradi differenti, posseggono la virtù: questo risultato, raggiunto nel mito, è mantenuto fermo anche nel discorso. Ma come poteva, allora, Protagora dichiarare di essere maestro di virtù e di saper insegnare l’accortezza (εὐβουλία) negli affari pubblici e privati?[21] Se tutti posseggono la tecnica politica, evidentemente il sofista non avrà il compito di trasmettere tale tecnica. Il suo compito sarà piuttosto quello di perfezionarla e di far progredire gli altri nella conoscenza e nell’esercizio della tecnica politica[22]. Ciò rende possibile a Protagora, da una parte, la giustificazione della struttura democratica ateniese e, dall’altra, quella del proprio compito di sofista[23]. Si parla allora di gradi di possesso e di esercizio della tecnica politica, gradi che il sofista deve e può accrescere. Il presupposto di tutta la teoria di Protagora è una considerazione ottimistica della struttura di ogni società in generale e di Atene in particolare. D’altra parte il confronto di Atene con culture meno evolute non poteva non incrementare tale valutazione positiva della democrazia ateniese[24]. Ma considerare la società come un apparato educativo complessivo era possibile soltanto in base alla convinzione che tale società non fosse anomica e turbata da conflitti[25]. Per Protagora Atene era avviata nella direzione giusta e l’insegnamento di un sofista come lui non faceva che perfezionarla nella via dell’ἀρετή che già stava percorrendo.

La lettura dell’opera di Protagora, offerta da Platone nel mito e nel discorso, ha dunque un carattere unitario. In entrambi è affermata la funzione direttiva della tecnica politica sulle altre tecniche e la presenza di questa stessa tecnica, secondo gradi diversi, in tutti gli individui di un gruppo. L’elemento nuovo del discorso è costituito dall’introduzione di una tecnica sofistica capace di operare positivamente sulla tecnica politica già esistente di fatto. In tal modo Protagora appare inserito in un dibattito sul problema delle tecniche, nel quale la cultura greca era impegnata già da tempo. Ricostruendo il contesto problematico nel quale si inseriscono le tesi protagoree esposte da Platone, e commisurandole a testimonianze di diversa provenienza, sarà possibile chiarire meglio la portata di tali tesi. In tal modo uscirà precisato anche l’atteggiamento di Platone nei confronti del mito di Protagora.

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Note:

[1] Plat. Prot. 320c-322d. Analisi di questo mito si trovano in W. Uxkull-Gyllenband, Griechische Kultur-Entstehungslehren, Berlin 1924, pp. 15-21; W. Nestle, Vom Mythos zum Logos. Die Selbstentfaltung des griechischen Denkens von Homer bis auf die Sophistik und Sokrates, Stuttgart 19422, pp. 282-289; M. Untersteiner, I sofisti, Torino 1949, pp. 75-85; P. Joos, TYXH, ΦYΣIΣ, TEXNH. Studien zur Thematik frühgriechischer Lebensbetrachtung, Winterthur 1955, pp. 54-77; W.K.C. Guthrie, In the Beginning. Some Greek Views on the Origins of Life and the Early State of Man, London 1957, pp. 84-94. Altre indicazioni bibliografiche saranno date nelle note successive.

[2] Questa è anche opinione di W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (trad. it.), Firenze 19532, I, p. 515.

[3] Plat. Prot. 321b-c.

[4] Questo punto fu sottolineato ancor più chiaramente da Prodico di Ceo, secondo il quale si sarebbero avute due fasi nello sviluppo della religione: 1) cose utili e nutrienti furono credute e onorate come dèi; 2) gli scopritori di tali oggetti utili e delle tecniche furono considerati dèi (per esempio, Demetra, Dioniso, ecc.) (Philod. de piet. c. 9, 7, p. 75 G. e Sext. Emp. adv. math. IX 18 = DK 84 B 5). Feticismo e antropomorfismo sarebbero, dunque, secondo Prodico, all’origine della religione (cfr. W. Uxkull-Gyllenband, op. cit., p. 21). In generale per le teorie presocratiche sull’origine della religione cfr. W. Jeager, La teologia dei primi pensatori greci (trad. it.), Firenze 1961, pp. 271-299.

[5] Cfr. J. Moreau, La construction de l’idéalisme platonicien, Paris 1939, p. 37, e E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Haven 1957, pp. 91-92.

[6] Sui valori di αἰδώς e δίκη come «base della società aristocratica» cfr. M. Untersteiner, Le origini sociali della Sofistica, in Studi di filosofia greca, a cura di V.E. Alfieri e M. Untersteiner, in onore di R. Mondolfo, Bari 1950, p. 132. In particolare su αἰδώς cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo (trad. it.), Torino 1963, pp. 242-243. Su Protagora fautore della democrazia periclea cfr. I. Lana, Protagora, «Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino», vol. II, fasc. 4 (1950), pp. 18, 21.

[7] Che anche una democrazia potesse essere ‘aristocratica’, come elezione di uomini più adatti alle cariche, è sostenuto, ad esempio, da A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, II, Oxford 1956, p- 109. D’altra parte J. Ferguson, Moral Values in the Ancient World, London 1958, p. 21, ha sottolineato il fatto che anche in regime oligarchico nessun ὅμοιος prevale sugli altri, per cui la democrazia non sarebbe che l’estensione dello stesso principio all’ambito più vasto dei cittadini: «La democrazia greca è di fatto soltanto un’oligarchia allargata e i privilegi che i democratici richiedevano per una cittadinanza più ampia, non si sarebbe mai sognata di estenderli a schiavi o stranieri». Comunque sull’impossibilità di attribuire a Protagora una posizione politica chiara nettamente delineata sulle scelte istituzionali cfr. T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico (trad. it.), Bari 1961, pp. 79-80. In particolare non mi pare possibile scorgere nell’esposizione di Protagora una difesa di una craftsman democracy, come vorrebbe E.A Havelock, op. cit., p. 187.

[8] Per una rassegna di tali interpretazioni cfr. M. Untersteiner, I sofisti, cit., p. 76, nota 24, il quale da parte sua è favorevole a ritenerlo autenticamente protagoreo, e E.A. Havelock, op. cit., pp. 407-409, il quale ritiene che Platone nel mito voglia distruggere gli effetti della teoria originale protagorea.

[9] Così pensano, ad esempio, W. Jaeger, Paideia, cit., I, p. 488, nota 29, e La teologia, cit., p. 276; W. Nestle, op. cit., pp. 282-289; M. Untersteiner, op. cit., pp. 21-22; I. Lana, op. cit., pp. 6 e 76; P. Joos, op. cit., p. 61. Recentemente una tesi radicale sul mito è stata avanzata da A. Capizzi, Protagora, Firenze 1955, secondo il quale dal Protagora platonico non sarebbe possibile ricavare alcuna testimonianza sulle dottrine del sofista di Abdera. Ma questa tesi è fondata sul presupposto che Protagora sia impegnato a discutere sempre e soltanto di logica e non di politica, morale o religione (cfr., per esempio, pp. 65, 238, 259) e cade perciò nella misura in cui cade tale interpretazione. Utilizza, invece, a fondo il mito per ricostruire il pensiero di Protagora S. Zeppi, Protagora e la filosofia del suo tempo, Firenze 1961.

[10] DK 80 B 4. L’impossibilità di conciliare questo frammento di Protagora sugli dèi con l’impostazione mitico-religiosa del mito è stata finora l’argomentazione più forte condotta contro l’autenticità del mito di Protagora (cfr. P. Friedländer, Platon, I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, Berlin 19542, p. 346, note 7 e 10; E.A. Havelock, op. cit., pp. 93-94; A. Levi, Storia della Sofistica, a cura di D. Pesce, Napoli 1966, p. 87, nota 10). Ma occorre ricordare che la parentela con gli dèi, connessa al dono delle tecniche, e la religione che ne nasce non sono elementi sufficienti alla conservazione di un gruppo sociale: il primato degli dèi nella storia della civiltà umana non impedisce di riconoscere la posizione subordinata della religione. Già questo permette di intravvedere la funzione puramente strumentale della veste mitica.

[11] Una ricca documentazione su questo punto, oltre al riferimento al Prometeo di Eschilo, ovvio per un pubblico ateniese, si può trovare in A. Kleingünther, Πρῶτος εὑρετής. Untersuchungen zur Geschichte einer Fragestellung, «Philologus», Supplbd. XXVI, H. I, Leipzig 1933. Sulla popolarità della forma mitica di racconto cfr. anche P. Joos, op. cit., pp. 54 ss. Giustamente poi P.-M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la pensée platonicienne, Pari 19492, pp. 165 ss., fa notare come il mito del Protagora contenga un capovolgimento esatto della teoria di Esiodo, secondo la quale i primi uomini erano felici e poi furono abbandonati da αἰδώς e δίκη. E anche Esiodo era un riferimento ovvio per il pubblico ateniese.

[12] Plat. Prot. 322d-323c.

[13] Plat. Prot. 323c-d.

[14] Ibid. 324a-b.

[15] Ibid. 325c-326c.

[16] Su ciò cfr. anche A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera (trad. it.), Firenze 1968, p. 381. Di pressione del gruppo sociale come produttrice di cultura parla E.A. Havelock, op. cit., p. 173; di controllo sociale parla E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (trad. it.), Firenze 1959, p. 220.

[17] Plat. Prot. 327a-c.

[18] Ibid. 327c-d. Protagora fa un riferimento alla commedia I selvaggi del poeta comico Ferecrate. Ma era un tema ampiamente diffuso nella produzione dei commediografi e, quindi, altamente popolare (cfr. W. Nestle, op. cit., p. 456).

[19] Al discorso di Protagora J. Moreau, op. cit., pp. 37-38, avvicina la teoria di Durkheim della società come coscienza collettiva e tradizionale che forma l’individuo alla moralità, attraverso un’educazione sociale anonima. Il discorso del Protagora si accorda perfettamente con la tesi protagorea esposta nel Teeteto (167c), secondo la quale una città impone i valori che considera migliori per essa.

[20] Plat. Prot. 327e.

[21] Ibid. 318e-319a.

[22] Ibid. 328a-c. I superlativi ἄριστα e δυνατώτατος che compaiono in ibid. 318e-319a, chiariscono il carattere di perfezionamento, non di trasmissione integrale di valori, che caratterizza l’insegnamento di Protagora. S. Zeppi, op. cit., dopo aver giustamente riconosciuto nella teoria sociale di Protagora «un pedagogismo assoluto» (p. 17), sostiene che tale teoria non sarebbe né liberale né democratica, ma una teoria aristocratica, un «sofistocratismo» (pp. 18 ss.). Ma in Protagora non c’è il problema politico del potere né tende egli a rintracciare nei sofisti o nel sofista il o i legittimi detentori del potere: in realtà il sofista è un educatore e, poiché l’educazione è una funzione eminentemente sociale, per tale via, non attraverso gli strumenti del potere, egli esplica una funzione politico-sociale.

[23] Cfr. P.-M. Schuhl, op. cit., p. 350. Non bisogna confondere la teoria di Protagora con una teoria generale della democrazia. Il suo scopo è soprattutto quello di riconoscere che l’istituzione nella quale il sofista può esercitare meglio la propria professione è la democrazia. Cfr. anche I. Lana, op. cit., p. 27.

[24] Ibid., p. 28.

[25] Questo aspetto è giustamente sottolineato da J. Moreau, op. cit., p. 40. Sull’ottimismo dell’attività educativa dei sofisti in generale cfr. W. Jaeger, op. cit., I, pp. 527-528. Alla base di questa impostazione ottimistica c’era in Protagora la tendenza a identificare con l’ἀρετή i valori tradizionali propri di una data società, cioè il νόμος (cfr. A.E. Taylor, op. cit., pp. 383-384).

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  • Villa romana di Aiano – Torraccia di Chiusi
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  • World Monuments Fund
  • Yacimiento arqueológico de la ciudad romana de Complutum
  • Zea Harbour Project (ZHP)

Database di papirologia

  • Advanced Papyrological Information System (APIS UM)
  • AIP | Association Internationale de Papyrologues
  • Archimedes Palimpsest
  • Berliner Papyrusdatenbank (BerlPap)
  • Catalogue of Paraliterary Papyri (CPP)
  • Centre de Documentation de Papyrologie Littéraire (CEDOPAL)
  • Centro papirologico M. Norsa
  • Chartes | Catalogo dei Papiri Ercolanesi online
  • Checklist of Editions of Greek and Latin Papyri, Ostraca and Tablets
  • Collezione dei Papiri dell'Università di Genova (PUG)
  • Corpus dei Papiri Filosofici
  • Corpus dei Papiri Storici greci e latini (CPS)
  • Demotic Texts
  • Die ägyptische und orientalische „Rubensohn-Bibliothek“ (ÄMP, SMB, Berlin)
  • DIGITAL PAPYRUS – Intelligent Agent
  • Ductus.it
  • DVCTVS Papyrological Portal
  • Expopapiros
  • General Syriac Tools
  • Giessener Papyri- und Ostrakadatenbank
  • Greek Paleography Sites
  • Griechische Papyri der Heidelberger Papyrussammlung
  • Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (GIROTA)
  • Harvard Papyri Online
  • Heidelberger Gesamtverzeichnis der griechischen Papyrusurkunden Ägyptens
  • Institut für Papyrologie
  • Interpreting Ancient Manuscripts
  • Köln Papyrus Collection
  • La banque des images des papyrus de l'Aphrodité byzantine (BIPAb)
  • Leuven Database of Ancient Books
  • Mingana Collection
  • MP³ database
  • New Testament Virtual Manuscript Room
  • Organa Papyrologica
  • Papiri della Società Italiana (PSI)
  • Papyri.info
  • Papyrology at Oxford
  • Papyrology Home Page
  • Papyrus Project | Universität Leipzig
  • Papyrus-Projekt Halle-Jena-Leipzig
  • Papyrus-Sammlung in Köln
  • Photographic Archive of Papyri in the Cairo Museum
  • Princeton University Library Papyrus
  • Progetto Mertens-Pack³
  • Reception of Greek Literature 300 B.C. – A.D. 800 | Traditions of the Fragment
  • Recording, Processing and Archiving Carbonized Papyri
  • Tebtynis Papyri
  • The American Society of Papyrologists (ASP)
  • The Center for the Tebtunis Papyri (CTP)
  • The iMouseion Project
  • The Schøyen Collection
  • Welcome to the Oxyrhynchus Papyrus Project

Database geografici

  • Ancient Ports – Ports Antiques
  • Ancient World Mapping Center
  • Antiquity À-la-carte 3.0 Beta
  • Archaeological Atlas of Antiquity | Vici
  • Atlante Linguistico Italiano (ALI)
  • Atlas of the Greek & Roman World
  • Benthos: Digital Atlas of Ancient Waters Search for:
  • CAWM Tile Server | Consortium of Ancient World Mappers
  • Digital Atlas of the Roman Empire
  • Digital Atlas of the Roman Empire
  • Exploring Ancient World Cultures
  • GeaCron | Atlante Storico Mondiale Interattivo dal 3000 a.C.
  • Google Earth
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  • Index of Cartographic Images illustrating maps from the Ancient Period: 6,200 B.C. to 400 A.D.
  • Lost Trails
  • Mapping Death Database
  • Maps of the Ancient World
  • Metis
  • Mithraeum.eu
  • OmnesViae: Itinerarium Romanum| Ricostruzione di una antica carta romana con tecniche moderne
  • Orbis Latinus
  • ORBIS: The Stanford Geospatial Network Model of the Roman World
  • Pleiades
  • Roman-Britain
  • Stanford Digital Forma Urbis Romae Project
  • Tabula Peutingeriana
  • Via Appia Antica
  • Vici.org – Classical Antiquity Nearby

Strumenti per l'E-Learning e la Didattica a distanza

  • Ancient Greek Tutorials
  • Ancient Greek Tutorials @ AtticGreek.org
  • Ancient History Hit
  • Ancient Rome Live
  • App Antiche | Lingue classiche, tecnologie moderne
  • Archivio storico di materiali informatici per l'istruzione – ASMI
  • Athena Nova
  • Atticus: la nuova piattaforma di Latino Pearson
  • Avanguardie Educative
  • Biblioteca MyZanichelli
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  • Cultura storica. Risorse didattiche di storia antica
  • DesignDidattico
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  • DIDASCA | The First Italian Cyber Schools for Lifelong Learning
  • Digital & Public History
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  • Rai.edu – Letteratura
  • Rassegna degli Strumenti Informatici per lo Studio dell'Antichità Classica
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  • Scuola Superiore di Studi Storici
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  • Storia della Magna Grecia
  • Storia Digitale | Contenuti Online per la Storia
  • Storia Facile – l'età antica
  • Syriaca.org | The Syriac Reference Portal
  • The Ancients
  • The Digital Classicist
  • The Hellenistic Age Podcast
  • The Latinum Institute
  • Voice of the Shuttle – Classical Studies
  • Wargaming.net | Let's battle
  • Wikiscuola
  • ZOOM Cloud Meeting
  • Zotero.org

Strutture della ricerca scientifica dell'Antichità classica

  • Académie des inscriptions et belles-lettres
  • Academia Belgica – Roma
  • Academia Europaea
  • Academy of Institutions and Cultures Society
  • Accademia Fiorentina di Papirologia e di Studi sul Mondo Antico
  • Accademia Roveretana degli Agiati
  • ACClaIM | Autism and Classical Myth Network
  • AIER | Asociación Interdisciplinar de Estudios Romanos
  • AIUCD | Associazione per l’informatica umanistica e la cultura digitale
  • American Classical League (ACL)
  • Archaeological Institute of America (AIA)
  • Association Mnémosyne
  • Associazione "Glaucopis"
  • Associazione "Glaucopis" Roma
  • Associazione Culturale "Rodopis"
  • Associazione Italiana di Public History (AIPH)
  • Ateneo di Brescia | Accademia di Scienze Lettere ed Arti – Onlus
  • Ateneo di Salò
  • École Nationale des Chartes (ENC)
  • Österreichische Akademie der Wissenschaften
  • Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften| Die Griechischen Christlichen Schriftsteller (GCS)
  • Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften|Zentrum Grundlagenforschung Alte Welt
  • Boston University|Institute for the Classical Tradition (ICT)
  • Brandeis University|Department of Classical Studies
  • Brill Publishers
  • Brown University|Department of Classics
  • Cairo University|Department of Classics (Greek & Latin Studies)
  • Canadian Institute in Greece (CIG)
  • Cardiff School of History, Archaeology and Religion – Centre For Late Antique Religion & Culture (CLARC)
  • Center for Hellenic Studies
  • Centro de Estudos Clássicos | Facultade de Letras, Universidade de Lisboa (FLUL)
  • Classics and Ancient History | University of Leeds
  • Clio '92 | Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della Storia
  • Columbia University | Department of Classics
  • Consulta Universitaria di Studi Latini
  • Consulta Universitaria per la Storia Greca e Romana (CUSGR)
  • Cornell College | Classical Studies
  • Corso di Papirologia | Università degli Studi di Parma
  • CUCD Bulletin | Council of University Classical Departments
  • CUG | Consulta Universitaria del Greco
  • Department of Classics and Archaeology | University of Nottingham
  • Department of Classics at the University of Reading
  • Deutschen Archäologischen Instituts (DAI)
  • Dickinson College Commentaries
  • Digital Humanities Leipzig
  • DPH Venice | The Venice' Centre for Digital and Public Humanities
  • Dublin Institute for Advanced Studies|School of Celtic Studies
  • Durham University|Department of Classics and Ancient History
  • Eberhard Karls Universität Tübingen|Institut für Klassische Archäologie
  • EPCS Campus Condorcet
  • ERC| European Research Council
  • European Association for Digital Humanities (EADH)
  • Expedition Novae WA UW
  • FCB | Fondazione Civiltà Bresciana
  • Fondazione Ceur
  • Friedrich-Schiller-Universität Jena|Institut für Altertumswissenschaften
  • Furman University|Department of Classics
  • Göteborgs universitet |Humanistiska fakulteten: Institutionen för språk och litteraturer
  • Indogermanistik Albert-Ludwigs-Universität Freiburg
  • Institut de recherche et d’histoire des textes (IRHT)
  • Institut für Kulturgeschichte der Antike
  • Institut français d’archéologie orientale (IFAO)
  • Institut français d’histoire en Allemagne (IFHA)
  • Institute for Ancient Near Eastern Studies – IANES, Tübingen
  • Institute for European and Mediterranean Archaeology (IEMA)
  • Institute for the Study of Ancient Culture
  • Institute for the Study of the Ancient World
  • Institute of Classical Studies
  • Instituto de Estudios Islámicos y del Oriente Próximo
  • International Institute of Social History
  • IOS | International Ovidian Society
  • Istituto Italiano per la Storia Antica
  • Istituto nazionale di studi romani
  • Istituto Studi Umanistici F. Petrarca
  • Istoricul Institutului de Arheologie Iași|Arheologia Moldovei
  • Johannes Gutenberg-Universität Mainz| Alten Geschichte
  • King's College London | Faculty of Arts & Humanities
  • L'Agence nationale de la recherche (ANR)
  • LASLA | Laboratoire d'Analyse Statistique des Langues Anciennes
  • Les amis du Clos de la Lombarde
  • Liceo "E. Fermi" Salò (BS)
  • London Classicists of Colour
  • Maison de l’Orient et de la Méditerranée – Jean Pouilloux
  • Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg|Klassische Altertumswissenschaften
  • Münchener DigitalisierungsZentrum (MDZ)
  • McGill University (Montréal)|Department of History and Classical Studies
  • Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR)
  • Missione Archeologica italo-albanese a Phoinike – Progetto Phoinike
  • National and Kapodistrian University of Athens|School of Philosophy – Faculty of Philology
  • New York University|Institute for the Study of the Ancient World
  • Ohio State University|Department of Classics
  • Olimpiadi di Lingue e Civiltà Classiche
  • OpenScholar@Harvard
  • Oude Culturen van de Mediterrane Wereld| Universiteit Leiden
  • Oxford Latinitas
  • Oxford Scholarly Editions Online — Classics
  • Oxford University | Faculty of Classics
  • Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica
  • Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC)
  • Psique Humanities Academy
  • Queen's University Belfast|Irish Studies
  • Queen's University of Belfast|Archaeology and Palaeoecology
  • Queen's University of Belfast|School of History and Anthropology
  • Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn|Institut für Archäologie und Kulturanthropologie
  • Rijksuniversiteit Groningen|Faculteit Wijsbegeerte
  • Scuola Normale Superiore di Pisa (SNS)|Facoltà di Lettere
  • Scuola ZOO
  • Società Internazionale di Studi Neroniani (SIEN)
  • Svenska Rominstitutets hemsida
  • Swiss School of Archaeology in Greece
  • The American Institute for Roman Culture
  • The Athens Centre
  • The Center for Epigraphical and Palaeographical Studies at OSU
  • The Digital Humanities Center
  • The Ebrew University of Jerusalem
  • The Oriental Institute
  • The Oriental Institute
  • The Paideia Institute
  • The Roman Society
  • The UCL Institute of Archaeology
  • Universidad Autónoma de Madrid|Área de Historia Antigua
  • Universidad de Navarra|Facultad de Filosofía y Letras
  • Universidad Nacional de Cuyo|Facultad de Filosofía y Letras – Instituto de Lenguas y Literaturas Clásicas
  • Universidad Nacional de Educación a Distancia (UNED)|Departamento de Historia Antigua
  • Università "Alma Mater Studiorum" di Bologna|Dipartimento di Storia, Culture, Civiltà
  • Università "Ca' Foscari" di Venezia | Corso di Laurea Triennale in Lettere
  • Università "Ca' Foscari" di Venezia | Dipartimento di Studi Umanistici
  • Università "Ca' Foscari" di Venezia|Dipartimento di Studi Umanistici (DSU)
  • Università "La Sapienza" di Roma|Facoltà di Lettere e Filosofia
  • Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) | Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell'arte
  • Università degli Studi del Piemonte Orientale|Dipartimento di Studi Umanistici
  • Università degli Studi di Enna "Kore"|Facoltà di Studi Classici, Linguistici e della Formazione
  • Università degli Studi di Firenze|Dipartimento di Lettere e Filosofia (DILEF)
  • Università degli Studi di Milano|Studi umanistici
  • Università degli Studi di Padova|Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell'Antichità (DISSGeA)
  • Università degli Studi di Palermo|Dipartimento di Studi Greci, Latini e Musicali "Aglaia"
  • Università degli studi di Perugia|Centro di Ricerca "Constantinus Magnus"
  • Università degli Studi di Pisa|Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
  • Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"|Dipartimento di Antichità e Tradizione Classica (DATRC)
  • Università degli Studi di Siena|Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne
  • Università degli Studi di Torino|Dipartimento di Studi Umanistici
  • Università degli Studi di Trento | Dipartimento di Lettere e Filosofia
  • Università del Salento|Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Beni Culturali
  • Università del Salento|Laboratorio Archeologia Medievale
  • Universität Augsburg | Philologische-Historische Fakultät
  • Universität Heidelberg|Insitut für Papyrologie
  • Universität Heidelberg|Institut für Altertumswissenschaften – Seminar für Papyrologie
  • Universität Leipzig|Institut für Klassische Philologie und Komparatistik
  • Universität Leipzig|Institutes für Klassische Archäologie und des Antikenmuseums
  • Universität Mannheim|Philosophischen Fakultät
  • Universität Wien|Institut für Alte Geschichte und Altertumskunde Papyrologie und Epigraphik
  • Universität Wien|Philologisch-Kulturwissenschaftliche Fakultät
  • Universität zu Köln|Philosophische Fakultät – Institut für Altertumskunde
  • Université catolique de Louvain|Centre d'étude des mondes antique (CEMA)
  • Université de Lausanne|Faculté des Lettres
  • Université de Namur|Faculté de philosophie et lettres
  • Universitetet i Oslo|Institutt for filosofi, ide-og kunsthistorie og klassike språk (Det humanistiske fakultet)
  • University College Cork|Arts, Celtic Studies and Social Sciences
  • University of Aberdeen|Research Institute of Irish and Scottish Studies
  • University of British Columbia|Department of Classical, Near Eastern, and Religious Studies
  • University of California (Los Angeles)|Celtic Studies
  • University of Cambridge|Department of ASNC Anglo-Saxon, Norse & Celtic
  • University of Cambridge|Faculty of Classics
  • University of Chicago|Department of Classics
  • University of Edimburgh | Classics
  • University of Edimburgh| School of History, Classics & Archaeology
  • University of Kentucky| Modern and Classical, Languages, Literatures and Cultures
  • University of Kent|Classical & Archaeological Studies
  • University of Leeds | Department of Greek & Latin
  • University of Leeds|International Classical Studies
  • University of London (Birkbeck)|History, Classics and Archaeology
  • University of London (Royal Holloway) | Classics Department
  • University of Manchester|Classics and Ancient History
  • University of North Carolina (Asheville)| Classics Department
  • University of Nottingham|Department of Archaeology
  • University of Nottingham|Department of Classics
  • University of Otago – Department of Classics
  • University of Oxford| Faculty of Classics
  • University of Reading|Department of Classics
  • University of Texas (Austin)|Department of Classics
  • University of Washington|Department of Classics
  • University of Waterloo|Institute for Hellenistic Studies
  • University of Wisconsin-Milwaukee|College of Letters & Science
  • Women in Ancient Cultures

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Informazioni sul curatore

Alumnus dell'Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia).
LT 10 - Lettere e Filosofia (Lettere classiche): 110/110 - Tesi in Epigrafia ed antichità romane;
LM 14 - Filologia moderna (indir. storico-letterario): 110 e lode/110 - Tesi in Storia romana.
A11 - Docente di discipline letterarie e latino presso i Licei Paritari "Isaac Newton", Brescia.

Progetto patrocinato da:

Associazione Culturale Lo Stilo di Fileta

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