ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Bione di Boristene (c. 335-c. 245 a.C.) fu filosofo peripatetico, ma anche un pensatore eclettico; nacque a Olbia sul Ponto Eusino, alla foce del fiume Boristene (od. Dnieper). La maggior parte delle notizie e degli aneddoti sul suo conto si può leggere nel IV libro delle 𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖 di Diogene Laerzio (Dɪᴏɢ. IV 46-58). A proposito delle origini di Bione e della sua famiglia, il biografo riporta che il filosofo, interrogato al riguardo da re Antigono, rispose: «Mio padre era un servo affrancato, che era solito pulirsi il naso con il braccio – intendeva significare che era un venditore di pesci in salamoia -, di stirpe boristenita, che non aveva personalità, ma una scritta sul volto, segno dell’asprezza del suo antico padrone. Mia madre, poi, era tale quale un uomo come mio padre avrebbe potuto sposare, proveniente com’era da un bordello. Successivamente, mio padre, poiché aveva commesso qualche frode nel pagamento delle gabelle, fu venduto con l’intera sua famiglia, insieme con noi. E a comperare me, che ero piuttosto giovane e bello, fu un retore, il quale, quando venne a mancare, mi lasciò in eredità tutti i suoi beni» (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 46). In seguito, Bione si trasferì ad Atene e vi studiò filosofia, prima all’Accademia, dove insegnavano Senocrate e Cratete (sul cui conto si vd. 𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 10; 51), quindi frequentò i Cinici, poi i Cirenaici (fu discepolo di Teodoro l’Ateo) e, infine, si spostò presso i Peripatetici, seguendo le lezioni di Teofrasto (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 52). Dopo aver completato la propria formazione filosofica, Bione fu solito spostarsi di città in città, dove teneva lezioni a pagamento: invero, egli fu definito «il Socrate dei poveri», un Socrate di seconda mano. Di lui qualcuno, forse Eratostene, scrisse che per primo «rivestì la filosofia di abiti vivacemente colorati» (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 52), attuando, insomma, il programma di volgarizzazione e abbassamento che Cicerone attribuì allo stesso Socrate: «… per primo fece scendere la filosofia dal cielo, la collocò nelle città, la introdusse nelle case e costrinse gli uomini a interrogarsi sul senso della vita, sui comportamenti, sul bene e sul male» (Cɪᴄ. 𝑇𝑢𝑠𝑐. V 10). Bione, dunque, conferenziere itinerante, comunicatore piuttosto che elaboratore di contenuti originali, soggiornò anche a Rodi, quindi a Pella, alla corte di Antigono II Gonata, re di Macedonia, presso la quale entrò in polemica con due maestri stoici, Perseo e Filonide (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 47). Bione morì a Calcide in Eubea; ebbe numerosi allievi, ma nessuno di loro fu davvero degno di succedergli nel magistero (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 53): di questi le fonti tramandano solo il nome di un certo Aristone, forse lo stoico Aristone di Chio. Gli scritti di Bione influenzarono il pensiero di Telete di Megara, Orazio, Seneca, Epitteto e Plutarco, ma anche la tradizione omiletica cristiana.
«Filosofo di Antikythera». Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Bione, beninteso, non fu un sofista, ma un intellettuale eclettico, particolarmente influenzato dalla dottrina cinica: come loro, anche lui condannava ogni forma di dogmatismo culturale, rifiutava rigorosamente la speculazione teoretica negli ambiti della fisica, della logica e della metafisica, e ciò che suscitava il suo maggiore interesse era l’etica, riflettendo sulla quale sosteneva la παρρησία e l’αὐτάρκεια: a suo avviso, la felicità umana poteva derivare dalla capacità dell’individuo di adattarsi alle circostanze e di accettare la sorte data dal fato. La sua dottrina sembra essere una forma moderata di κυνισμός, caratterizzata da una visione della vita più realistica e pragmatica rispetto a quella dei Cinici prima maniera e anche da un certo opportunismo. Sul piano teologico, egli accolse la critica che i Cinici muovevano all’antropomorfismo, alla pratica di pregare agli dei, all’uso di amuleti, alla credenza negli oracoli e alla celebrazione di misteri, e cercò di dimostrare l’assurdità del concetto di empietà. Diogene Laerzio, biasimandone l’ateismo, compose alcuni versi sul conto di Bione: il poemetto si basa sulla notizia che, poco prima di morire, il filosofo avesse compiuto sacrifici agli dèi, avesse fatto voto di portare al collo un amuleto e avesse rinunciato a tutti i sacrilegi che aveva commesso in vita (Dɪᴏɢ. IV 54). Si tratta chiaramente di una critica che riflette una tradizione ostile a Bione. Della sua produzione scritta si tramandano almeno due titoli: 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑣𝑖𝑡𝑢̀ (Περὶ δουλείας) e 𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑖𝑟𝑎 (Περὶ τῆς ὀργῆς). Ma ha pure lasciato «un gran numero di commentari (ὑπομνήματα) e di massime (ἀποφθέγματα) utili per la vita pratica» (𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 47); lo stesso Laerzio menziona anche delle διατριβαί, caratterizzate dalla grande vivacità e varietà polemica e umoristica dell’esposizione: di questo genere retorico Bione fu considerato l’esponente di spicco. D’altronde, la sua divulgazione filosofica faceva largo uso di espedienti retorici e stilistici destinati a suscitare e conservare, anche con sistemi poco ortodossi, l’attenzione dell’uditorio, sempre soggetta a mille distrazioni, a maggior ragione se l’argomento dell’esposizione era di tipo morale. Sebbene egli fosse, come si è detto, prevalentemente un cinico, la diatriba fu un veicolo neutro di filosofia, impiegato per combattere la follia e l’errore.
In questa Diatriba, che costituisce un piccolo trattato sull’amicizia, Epitteto riporta l’amicizia all’interno dell’etica stoica: l’uomo nutre amicizia e amore per ciò che è bene, e quindi vivrà la vera amicizia solo colui, come il saggio, che conosce che cosa sia veramente il bene. Amicizia c’è solo dove c’è anche bene e conoscenza del bene. Al di fuori di ciò, avremo solo apparenza di amicizia e contrasti.
Dextrarum iunctio. Cammeo, onice e pasta vitrea, II-III sec. d.C. su un anello d’argento.
Pittore di Castelgiorgio. Due giovani a colloquio. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.
Sull’amicizia
[1] L’oggetto in cui si mette il proprio zelo, com’è naturale, lo si ama. Gli uomini mettono forse il loro zelo in quel che è male? Nient’affatto! Forse in ciò che non ha alcuna relazione con loro? Neppure in questo. [2] Resta, pertanto, che mettono il loro zelo solo nelle cose buone; e se vi mettono il loro zelo, le amano. [3] Di conseguenza, chiunque è conoscitore di quel che è buono saprebbe anche amarlo; al contrario, chi non è in grado di distinguere, gli uni dagli altri, i beni, i mali e gli oggetti che non sono né beni né mali, come potrebbe anche amarlo, quel che è buono? Pertanto, è prerogativa del solo saggio amare.
[4] «Perché mai?» dice l’interlocutore. «Io, infatti, senza essere un saggio, nondimeno amo mio figlio».
[5] Mi stupisco, per gli Dèi, che tu ammetta, fin dal principio, di non essere un saggio. Che cosa non hai del saggio? Non usi i sensi, non distingui le rappresentazioni, non dai al tuo corpo gli alimenti di cui ha bisogno, non gli dai vestiti e una casa? Come fai, allora, a riconoscere di non essere saggio? [6] Perché spesso, per Zeus, sei sconvolto dalle rappresentazioni e confuso per causa loro e sei vinto dalla loro capacità di persuasione. E a volte queste cose le ritieni buone, poi, le medesime, le ritieni cattive e, in seguito, né buone né cattive, con la conseguenza di essere preda del dolore, della paura, dell’invidia, della confusione e della volubilità. Ecco perché riconosci di non essere saggio. E nell’amicizia non sei volubile? [7] La ricchezza, il piacere e, insomma, le cose medesime indipendenti da noi, ora le supponi dei beni ora dei mali; e gli uomini, i medesimi uomini, non li consideri ora buoni ora cattivi, e non li tratti ora familiarmente ora con ostilità, ora lodandoli ora rimproverandoli?
«Sì, è proprio quel che sento».
[8] «E che? Ti pare che l’uomo che si è ingannato sul conto di un altro possa essergli amico?».
«Per niente!».
«E quello che è incostante nello scegliere gli amici, ti pare che possa essere benevolo verso di loro?».
«Nemmeno costui».
[9] «E allora? Non hai mai visto dei cagnolini scodinzolare e giocare tra loro, così da osservare: “Non c’è niente di più affettuoso?”. Ma, perché tu veda cos’è l’amicizia, getta della carne in mezzo a loro, e capirai. [10] Getta tra te e tuo figlio un campo, e saprai quanta fretta ha tuo figlio di sotterrarti, e come tu stesso preghi che muoia. E poi dirai: “Che razza di figlio ho tirato su: da un pezzo vorrebbe vedermi al cimitero”. [11] Getta tra voi una bella ragazza e amatela, tu, vecchio, e il tuo ragazzo; o, se vuoi, un po’ di gloria. Qualora, poi, ci fosse un pericolo da affrontare, ripeterai le parole del padre di Admeto: “Tu vuoi vedere la luce: non pensi che anche il padre lo voglia?” (Eurip. Alc. 691). [12] Credi che quello non avesse affetto per suo figlio, quando era piccolo; quando aveva la febbre, non fosse in ansia e non dicesse spesso: “Oh! Avessi piuttosto io la febbre!”?. Infine, quando viene il momento del pericolo ed esso è imminente, guarda quali parole grida! [13] Eteocle e Polinice non avevano lo stesso padre e la stessa madre? Non erano stati allevati insieme, non avevano passato la vita insieme, non avevano mangiato alla stessa tavola e dormito nello stesso letto, spesso non si erano abbracciati l’un l’altro? Di conseguenza, chi li avesse visti, credo che avrebbe deriso i filosofi per le loro tesi paradossali sull’amicizia. [14] Ma quando la tirannide cadde in mezzo a loro come un pezzo di carne, guarda che frasi si scambiano:
Eteo.: “Dove mai ti porrai davanti alle mura?”.
Poli.: “Perché me lo chiedi?”.
Eteo.: “Bramo di scontrarmi con te e di ucciderti!”.
Poli.: “Anch’io ho questo desiderio” (Eurip. Phoen. 621).
[15] In generale, infatti – non ingannatevi – ogni essere vivente niente ricerca per sé con tanto interesse quanto il suo utile particolare. Qualunque cosa gli paia d’impaccio al suo utile, si tratti di un fratello, del padre, di un figlio, di un essere amato o amante, lo odia, lo respinge, lo maledice. [16] Perché niente ama per natura quanto il suo proprio utile: questo è per lui padre, fratello, parente, patria e Dio. [17] Quando ci sembra che gli Dèi ci intralcino il cammino per conseguirlo, ingiuriamo anche loro, ne rovesciamo le statue e ne incendiamo i templi, come fece Alessandro, che ordinò di bruciare il tempio di Asclepio perché era morto il suo amato. [18] Perciò, se si fa coincidere l’utile con il santo, il bello, la patria, i genitori e gli amici, tutto ciò è salvaguardato; se, invece, si pone altrove l’utile e altrove gli amici, la patria, i parenti e la giustizia stessa, tutto questo va in rovina, oppressato dal peso dell’utile. [19] Dove, infatti, si trovano l’“io” e il “mio”, lì necessariamente piega l’essere vivente: se si trovano nella carne, lì si trova ciò che ci domina; se sono nella scelta morale, il potere dominante è lì; se sono negli oggetti esterni, sarà in essi. [20] Pertanto, solo se il mio “io” coincide con la scelta morale, sarò un amico, un figlio e un padre quale dev’essere. Perché, allora, mi sarà utile salvaguardare l’uomo fedele, rispettoso, tollerante, moderato e solidale, e custodire le relazioni sociali. [21] Ma se pongo il mio “io” da una parte, e dall’altra il bello, in tal caso prende valore la sentenza di Epicuro, secondo la quale il bello non è niente o, se è qualcosa, è stima del volgo.
[22] Dall’ignoranza di tutto ciò derivano i contrasti tra gli Ateniesi e gli Spartani, tra i Tebani e i precedenti, tra il Gran Re e l’Ellade, tra i Macedoni e i due ultimi, e, ai nostri giorni, tra i Romani e i Geti; e, ancora prima, gli avvenimenti di Ilio sorsero per la medesima causa. [23] Alessandro era ospite di Menelao; e chi li avesse visti così benevoli l’uno verso l’altro, non avrebbe creduto, se gli avessero detto che erano amici. Ma fu gettata tra loro una cosetta da poco, una bella donna, e per lei scoppiò la guerra. [24] E, adesso, quando vedi degli amici, dei fratelli che sembrano andare d’amore e d’accordo, non affermare subito che tra loro c’è amicizia, neppure se giurano, né se dicono che è impossibile che si separino mai. [25] Non è leale la parte dominante di un uomo dappoco: non è salda, non è in grado di discernere, si lascia vincere ora da una rappresentazione ora da un’altra. [26] Non andare a vedere, come fanno gli altri, se sono figli degli stessi genitori, se sono stati allevati insieme e dallo stesso pedagogo, ma esamina solo questo: dove pongono il loro utile, se fuori di loro o nella scelta morale. [27] Se fuori, non considerarli amici e neppure leali, coraggiosi o liberi, e nemmeno uomini, se sei assennato. [28] Non è, infatti, un giudizio umano quello che induce gli uomini a mordersi reciprocamente, a insultarsi e ad occupare i luoghi deserti o le piazze come i briganti occupano le montagne, e a rivelare davanti ai tribunali gesta di briganti; non è un giudizio umano neppure quello che rende intemperanti, adulteri e seduttori, e provoca tutti gli altri crimini con cui gli uomini si danneggiano reciprocamente; e ciò è causato da questo solo giudizio, cioè dal porre, negli oggetti che non dipendono dalla scelta morale, se stessi e quel che è proprio. [29] Se, invece, senti dire che questi uomini credono veramente che il bene si trova unicamente ove si trova la scelta morale e il retto uso delle rappresentazioni, non affaticarti più a cercare se sono padre e figlio o fratelli, se sono stati per molto tempo a scuola insieme e sono compagni, ma, avendo saputo quest’unica cosa, non esitare ad affermare che sono amici, come anche leali e giusti. [30] Dov’è, infatti, l’amicizia, se non ove si trova la lealtà, il rispetto, la devozione al bello e nient’altro?».
[31] «Ma si è curata di me per tanto tempo, e non mi amava?».
«Come fai a sapere, schiavo, se si curava di te come pulisce le sue calzature, come striglia l’asino? Come fai a sapere se, quando perderai la tua utilità di vaso da cucina, non ti getterà via come un piatto rotto?».
[32] «Ma è mia moglie, e abbiamo vissuto insieme per tanto tempo!».
«E quanto tempo non aveva vissuto Erifile con Anfiarao, e non era madre di molti più figli? Ma una collana venne a mettersi tra i due. [33] Che cos’è una collana? Il giudizio delle cose di tal genere. Fu quello la forza brutale, fu esso a rompere l’amicizia, fu esso che non consentì a una donna di essere moglie e ad una madre di essere madre. [34] Chi di voi si è dato davvero pensiero di essere amico di un altro o di procurarsi l’amicizia di un altro, elimini questi giudizi, li odi e li scacci dalla sua anima. [35] In tal modo, innanzitutto, non avrà più ad insultare se stesso, a pentirsi, a torturarsi; [36] in secondo luogo, non lotterà con il suo prossimo, per niente con chi gli somiglia; e, quanto a chi gli dissimile, invece, sarà tollerante, condiscendente, mite, disposto al perdono, come si fa con un ignorante, con uno che s’è disperso in una materia della massima importanza: non sarà aspro con nessuno, perché conosce bene le parole di Platone: “è contro sua voglia che l’anima viene privata della verità”. In caso contrario, voi agirete in tutto come gli amici e berrete insieme e vivrete sotto lo stesso tetto e navigherete sulla stessa nave e potrete avere anche gli stessi genitori. Perché lo possono anche i serpenti: ma amici non sono i serpenti, né lo sarete voi, finché avrete quei giudizi selvaggi e perversi».
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