ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Il periodo che comincia con il principato di Nerva (96) e arriva fino alla morte di Commodo (192) è – se si eccettuano gli ultimi dodici anni, quelli, appunto, del principato di Commodo! – un secolo intero di stabilità, che non ha uguali (per durata e benefici effetti) in nessun altro periodo della storia romana. Se il primo secolo dell’Impero era stato caratterizzato da tensioni e conflitti di governo, il secondo è contraddistinto da una sostanziale uniformità di conduzione del potere. Ormai saldo nei suoi confini, consapevole della sua grandezza, capace di romanizzare intimamente le genti assoggettate nei secoli, l’Impero sembrava effettivamente tutto pervaso di iustitia e humanitas, quale nessun’altra espressione politica antica conobbe mai. Gli imperatori che si succedettero nell’arco di tempo considerato fecero sincera professione di mitezza e di generosità e alcuni di loro furono addirittura fini intellettuali, di cultura estremamente aristocratica.
M. Cocceio Nerva. Statua equestre, bronzo, fine I sec. da Miseno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Il Senato, di fatto ormai esautorato, ritrovò una sua parvenza di potere nei confronti dell’imperatore e finì per adattarsi a un ruolo limitato, o meglio subordinato, ma non più esposto a quelle aggressioni insultanti e violente che avevano segnato tanto negativamente il governo dei Caesares del I secolo.
Il problema della successione dei principi trovò, dunque, una soluzione soddisfacente nel sistema dell’adozione: e questo garantì, almeno fino a Marco Aurelio, una serie di imperatori dotati di alte qualità personali. La stabilità raggiunta dall’ordinamento governativo attenuò quello che era stato l’assillo continuo di congiure e ribellioni gestite dai grandi generali dell’esercito, pronti a servirsi della propria forza militare per realizzare personali ambizioni di potere; e consentì anche agli stessi principi di procedere a riforme istituzionali e sociali prima del tutto inattuabili.
M. Cocceio Nerva. Statua, marmo, fine I sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti.
In varia misura, ma con costanza, i provinciali furono ammessi a cariche pubbliche di prim’ordine, il che mostra come l’Impero sapesse valersi assennatamente di tutti gli uomini abili e onesti. E perciò tutti sentivano in Roma la loro patria e dalle più lontane regioni guardavano a lei come alla μήτηρ καὶ πατρὶς κοινὴ πάντων («madre e patria comune di tutti») e pregavano, come nell’encomio Εἰς Ῥώμην (Or. 26) del retore asiatico Publio Elio Aristide, che essa durasse in eterno. Fu questo pure il periodo in cui procedette instancabile l’opera di trasformazione dei centri urbani, processo che giustamente è stato definito «urbanizzazione dell’Impero», ma fu anche l’epoca in cui strade, commerci e opere pubbliche raggiunsero il massimo sviluppo.
2. Da Nerva a Traiano
2.1. L’adozione di Traiano e la romanizzazione dell’Occidente
Eliminato Domiziano con una congiura del 96, il Senato e i mandanti dell’esecuzione si accordarono sulla scelta di un illustre senatore, ormai anziano (aveva sessantasei anni) e privo di figli, Marco Cocceio Nerva, leale servitore dell’Impero e legato alla dinastia Flavia. Come primo atto formale, il nuovo principe giurò pubblicamente che sotto il suo governo non ci sarebbero state condanne a morte contro membri dell’aristocrazia, abolì i processi de maiestate, concesse l’amnistia e la restituzione delle proprietà confiscate sotto il predecessore, ma non riuscì comunque a coinvolgere il venerando consesso nella politica di governo; anzi, le sue relazioni con la fazione che aveva sostenuto i Flavi lo esposero a tentativi di congiura e ad ammutinamenti. Asceso al potere per volontà del Senato, Nerva cercò di guadagnarsi il consenso del popolo e dell’esercito con donativi, assegnazioni fondiarie e sgravi fiscali, depauperando così le casse dello Stato. Le misure adottate contro la crisi economica e finanziaria, e cioè l’istituzione di una commissione per ridurre la spesa corrente (i V viri minuendis publicis sumptibus), o la coniazione di monete con il metallo prezioso ricavato dalla fusione delle statue abbattute di Domiziano, non potevano avere una reale efficacia.
M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 96 d.C. AR 3,28 g. Rovescio: concordia exercituum. Simbolo della coniunctio dextrarum davanti a un’insegna legionaria su prora navale.
Presso l’esercito, inoltre, era ancora alto il prestigio del predecessore e Nerva mancava del sostegno di una forza militare. Quando destituì il prefetto del pretorio Tito Petronio, uno degli ufficiali coinvolti dell’assassinio di Domiziano, il vecchio Nerva non assecondò le richieste dei pretoriani che ne desideravano la messa a morte. L’insoddisfazione dei soldati sfociò in aperta rivolta: le guardie assediarono il palazzo e presero l’imperatore in ostaggio; Tito Petronio e altri congiurati furono uccisi. Il nuovo prefetto, Casperio Eliano, e i suoi uomini pretesero con minacce e violenze che il principe pronunciasse pubblici ringraziamenti per l’atto benemerito.
Quell’episodio di alto rischio indusse Nerva a cercare un’altra via per rafforzare la propria posizione e garantire continuità nell’Impero: gli eventi lo costrinsero, dunque, ad adottare e a scegliere come proprio successore il governatore della Germania Superior, Marco Ulpio Traiano. Costui, nato nel municipium di Italica nell’Hispania Baetica (od. Andalusia), poteva contare sul sostegno di un’armata e godeva di grande prestigio e di un’altissima reputazione presso i quadri militari di tutto l’Impero. Dotato di grandi capacità organizzative e strategiche e di ampia autorevolezza, quest’uomo avrebbe certamente contribuito alla soluzione della crisi e restituire all’imperatore il prestigio compromesso.
M. Cocceio Nerva in veste di Giove. Statua, marmo, fine I sec. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.
Nerva sarebbe rimasto a capo dello Stato ancora per poco; eppure, ebbe il tempo di iniziare un’importante svolta politica: ritornando alla collaborazione con il Senato, cui restituì alcune responsabilità giudiziarie che il predecessore aveva avocato a sé, tacitando il pretorio con lauti donativi e tenendo buono il popolino con alcuni sgravi fiscali, Nerva addossò all’amministrazione pubblica una serie di incombenze, come il cursus publicus (il sistema postale), prima a carico degli Italici. Una benemerita iniziativa fu senz’altro l’istituzione dei cosiddetti alimenta, un provvedimento in favore dei bambini bisognosi, legittimi e illegittimi, dell’Italia romana: il principe si impegnava, di tasca propria, ad assicurare a centinaia di bambini un futuro sereno e dignitoso. Questo programma, portato avanti dai successori di Nerva, costituì l’avvio della politica filantropica che segnò il secondo secolo dell’Impero. Nerva morì nel gennaio del 98, dopo appena un anno e quattro mesi di governo; gli successe Traiano senza incidenti.
Tabula alimentaria traianea. Iscrizione (CIL XI 1147), bronzo, c. 107-114, da Lugagnano Val d’Arda (PC). Parma, Museo Archeologico Nazionale.
Di origini iberiche, anche se la sua famiglia vantasse antiche origini umbre, Marco Ulpio Traiano fu il primo provinciale assurto ai fastigi imperiali, segnando la fine della supremazia italica in Senato e nell’esercito, inaugurando la tendenza a preferire alla guida dell’Impero uomini provenienti dalle classi dirigenti provinciali. Il processo di “romanizzazione” dell’Occidente era ormai un fatto compiuto; l’Italia perdeva progressivamente il proprio prestigio rispetto alle altre regioni dell’Impero, e le nuove aristocrazie si dimostravano sempre più vicine agli interessi dei ceti medi in ascesa.
M. Cocceio Nerva. Denarius, Roma 97 d.C. AR. 3,26 g. Dritto: Imp(erator) Nerva Caes(ar) Aug(ustus) P(ontifex) M(aximus) tr(ibunicia) pot(estate). Testa laureata dell’imperatore voltata a destra.
Dopo gli eccessi di Domiziano, Traiano ripropose il modello del princeps che, primus inter pares, operava al servizio della res publica; inoltre, egli cercò una nuova intesa tra il principato e l’ideale tradizionale della libertas, fondata sul riconoscimento della funzione e dei privilegi delle classi dirigenti, e sull’adesione di queste al buon governo dell’imperatore.
2.2. L’espansionismo militare di Traiano
Quando seppe dell’adozione imperiale, Traiano non ebbe fretta di raggiungere Roma, ma preferì potenziare le misure di sicurezza: sostituì la tradizionale guardia del corpo imperiale (i corporis custodes) con 500 (e poi 1000) equites singulares, selezionati con cura dalla cavalleria ausiliaria (il pretorio, invece, continuò a essere prevalentemente composto da italici); privilegiò l’attività militare, rinverdendo una politica di conquiste in grande stile, accantonata dai tempi di Augusto.
M. Ulpio Traiano. Busto con paludamentum del tipo Decennalia, marmo, c. 108. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.
Sotto Traiano, perciò, l’Impero riprese la sua espansione militare, raggiungendo la massima estensione con una serie di conquiste, destinate però a rivelarsi in gran parte effimere. Il nuovo slancio della politica militare fu determinato, al di là delle motivazioni occasionali che scatenarono i singoli conflitti, dall’aggravarsi della crisi economica e finanziaria, che imponeva l’acquisizione di nuove risorse da sfruttare. Una guerra si imponeva su tutte: quella di rivincita su Decebalo, re dei Daci, che aveva umiliato Domiziano e Roma. Il casus belli fu offerto dalla pressione esercitata ai confini settentrionali, lungo il corso del medio e basso Danubio: fatto che richiese l’intervento immediato dei Romani; in realtà, il vero obiettivo di Traiano era quello di assicurare all’Impero il controllo dei ricchi giacimenti auriferi che il territorio dacico custodiva.
All’inizio del II secolo l’esercito romano contava ormai un effettivo di trenta legioni, per un totale stimato di 180.000 uomini, tra i reparti legionari, quasi tutti di provenienza provinciale, e oltre 200.000 auxilia. Traiano poté, dunque, disporre di una forza armata davvero considerevole.
Arco di Traiano. Arco celebrativo, fornice unico, pietra calcarea, opera quadrata e marmo pario, c. 114-117. Benevento.
La conquista e la sottomissione della Dacia furono completate dopo due serie di operazioni: una prima campagna, nel 101-102, con la sonora sconfitta di Decebalo e dei suoi a Tapae, portò alla riduzione del territorio transdanubiano a regno-cliente di Roma. La seconda spedizione, nel 105-106, che si configurò come un’invasione massiccia di truppe romane in risposta a un tentativo di riscossa di Decebalo, si concluse con la presa della capitale, Sarmizegetusa e il suicidio del re. La Dacia fu redatta in provincia e in breve presidiata e romanizzata. La Colonna Traiana, ultimata nel 113, conserva la più splendida illustrazione di queste campagne daciche, mentre la contemporanea documentazione storico-letteraria è andata irrimediabilmente perduta. Fu questa l’ultima grande conquista romana, che fruttò all’aerarium un immenso bottino: l’afflusso dell’oro dei Daci risolse per parecchio tempo i problemi di liquidità finanziaria dell’Impero.
La battaglia di Tapae (XXIV, Cichorius). Rilievo, marmo, 113 d.C. dalla Colonna Traiana.
Negli stessi anni 105-106 Traiano operò anche l’annessione dell’Arabia Petraea (od. Giordania), già un regno-cliente di Roma, che controllava gran parte del vitale e proficuo commercio carovaniero con l’Oriente e occupava un’area strategicamente nevralgica. Negli anni successivi, tra il 107 e il 113, l’imperatore si dedicò al riassetto interno, con particolare riguardo per i problemi delle province, nelle quali promosse imponenti lavori di edilizia pubblica e introdusse su vasta scala i curatores civitatis, funzionari imperiali addetti al controllo delle finanze cittadine su mandato governativo centrale. Siccome, poi, numerosi erano ormai in Senato gli elementi provinciali con interessi locali, Traiano impose loro di investire un terzo del proprio patrimonio in terreni italici, onde incrementarne il valore e rinsanguarne la redditività – in linea, peraltro, con l’orientamento politico di Domiziano. L’Italia, infatti, avvezza da secoli a vivere sulle risorse delle province, subiva ormai la concorrenza di quelle più prospere e urbanizzate, come le Galliae e le Hispaniae. Traiano, inoltre, perfezionò e razionalizzò l’iniziativa del predecessore a beneficio dei bambini poveri: gli interessi sui prestiti concessi ai piccoli proprietari terrieri furono devoluti agli alimenta, che, come si è visto, costituivano una struttura assistenziale per raccogliere in comunità gli orfani italici. Questi bambini, allevati ed educati, avrebbero potuto accedere ai quadri dell’amministrazione pubblica e all’esercito.
Traiano, però, era stato sempre un militare: si comprende quindi che egli desiderasse lasciare traccia di sé nella storia di Roma, specialmente con imprese militari. E proprio la vocazione guerresca avrebbe finito col tradirlo, spingendolo a un’impresa ben al di là delle forze e delle risorse a sua disposizione: l’ossessione di Traiano era di liquidare il Regno dei Parti, che, nel 113, con l’ascesa al trono di Osroe I, aveva ripreso le ostilità con rinnovate pretese sul trono d’Armenia.
M. Ulpio Traiano. Aureus, Roma 116 d.C. AV 7,37 g. Rovescio: P(ontifex) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestas) co(n)s(ul) VI p(ater) p(atriae) SPQR – Parthia capta. Trofeo fra due prigionieri partici seduti.
Nell’ottobre dello stesso anno Traiano lanciò un’offensiva militare in grande stile: nel giro di tre anni, dopo aver annesso l’Armenia, istituito le province di Mesopotamia Superior e Assyria ed espugnato persino una delle capitali reali, Ctesiphon, le forze romane raggiunsero il Golfo Persico. Senonché i Parti fecero quadrato contro gli invasori: nel 116 la Mesopotamia meridionale si sollevò in una sommossa generale, mentre gli attacchi nel nord del Paese e nelle altre regioni occupate logorarono l’esercito, mettendo a repentaglio le linee di comunicazioni romane. Nel frattempo, tutto il Vicino Oriente romano era in ebollizione per violente sommosse giudaiche. L’imperatore ritenne perciò opportuno ritirarsi prima che accadesse l’irreparabile. Giunto in Cilicia, Traiano morì improvvisamente ai primi di agosto del 117, lasciando una situazione oggettivamente precaria, nonostante l’appellativo di optimus princeps con cui sarebbe passato alla storia. Il suo successore, Publio Elio Adriano, preferì rinunciare alle nuove conquiste, sanzionando di fatto il fallimento delle spedizioni di Traiano. L’Armenia, dunque, tornava a essere uno Stato cuscinetto sotto un re nominato dall’imperatore romano.
3. Adriano e gli Antonini
3.1. L’età d’oro del principato
L’epoca di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio rappresenta già nella coscienza dei contemporanei un periodo felice nella vita dell’Impero romano. Il nuovo corso inaugurato da Adriano rispetto alla politica aggressiva del suo predecessore porta all’affermazione di un nuovo tipo di “monarca illuminato”, amante della cultura e delle arti, che si richiama ad Augusto in opposizione a Cesare: «Non cesarizzarti!» era il monito che Marco Aurelio ripeteva a sé stesso prendendo le distanze dalla gloria della vittoria militare e del potere. Alle differenze tra le singole personalità di questi principi e tra le varie vicende dei loro governi corrisponde un comune schema ideologico e una concezione condivisa del potere imperiale, tanto da incarnare il mito platonico del governo affidato ai filosofi.
P. Elio Adriano. Dracma, Alessandria d’Egitto, 133-134. R – L IH Iside Pharia in atto di reggere una vela, mentre naviga verso la città egizia, rappresentata dal Faro a destra.
3.2. L’impero umanistico di Adriano (117-138)
Nel giro di due giorni, Adriano, un parente alla lontana di Traiano, allora ad Antiochia ad Orontem come governatore della Syria, apprese delle ultime volontà dell’imperatore e della propria adozione: ricevette così l’acclamazione imperiale. In effetti, la designazione tardiva a successore di Traiano alimentò il sospetto di una montatura ordita da Adriano in accordo con la moglie del defunto, Plotina, che avrebbe tenuto nascosta la morte dell’Augusto sposo fino all’avvenuta acclamazione del nuovo Caesar da parte degli eserciti.
P. Elio Adriano. Statua, bronzo, 117 d.C. ca. Jerusalem, Israel Museum.
Con Adriano, cugino di Traiano e come lui di origini iberiche, Roma abbandonò la politica di espansionismo militare ritornando a una strategia difensiva, realizzata anche attraverso la costruzione di fortificazioni permanenti lungo i limites dell’Impero, come il celeberrimo “Vallo di Adriano” al confine settentrionale della Britannia. Il nuovo princeps era convinto che impegolarsi in ulteriori avventure orientali avrebbe portato le risorse umane e finanziarie dell’Impero all’esaurimento; rinunciò così alle province di nuova istituzione e si accontentò di insediare ove possibile reguli clienti. Adriano per questo motivo incontrò l’opposizione del Senato e di alti ufficiali dell’esercito, scandalizzati dalla rinuncia alla gloria e alle annessioni, sempre fruttuose: l’imperatore dovette porvi rimedio con durezza, portando all’esecuzione di eminenti consolari. Non coglie peraltro nel segno la polemica contrapposizione – già sostenuta nell’antichità – fra l’imperatore conquistatore e condottiero d’eserciti (Traiano) e il principe portatore di pace (Adriano). Il nuovo capo dello Stato romano, infatti, si era formato sotto le armi e non rinunciò a usarle quando necessario.
P. Elio Adriano rientra a Roma accolto dal Genio del Senato, dal Genio del Popolo e dalla dea Roma. Rilievo, marmo, inizi II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
Per rendersi conto delle necessità urgenti e ovviare agli inconvenienti, Adriano viaggiò instancabilmente per tutto l’Impero da Oriente a Occidente, informandosi ovunque andasse delle condizioni e dei bisogni degli abitanti, per sopperirvi concretamente e partecipare attivamente all’amministrazione delle province. In ogni luogo trascorso, egli promosse inoltre la costruzione o il restauro di infrastrutture e opere pubbliche, ma non mancò di saziare la propria curiosità intellettuale e l’indubbia propensione per le lettere e le arti. Raffinato ellenizzante ed esteta, imbevuto di sapienza greca, Adriano colse l’occasione di visitare luoghi e monumenti, promuovendo manifestazioni culturali e sportive, cimentandosi personalmente nelle dispute dei dotti e dei letterati del suo tempo. Testimonianze architettoniche per eccellenza dei suoi gusti restano la tenuta di Tibur (od. Tivoli), che fece riedificare e ampliare (Villa Adriana), nella quale volle che fossero riprodotti i più importanti edifici e ambienti dei luoghi che aveva visitato; ma anche il rifacimento, con la pianta circolare, del Pantheon di Agrippa.
P. Elio Adriano. Aureus, Roma, c. 120-121, AV 7,26 g. Rovescio: P(ontefix) M(aximus) Tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul) III. Marte stante di fronte con lancia e scudo.
Adriano, con il suo regime, affermò il primato della politica interna su quella estera, dimostrandosi amministratore capace e sensibile ai mutamenti della società. Rispetto a Traiano, l’avvento di Adriano aveva segnato l’inizio di una politica moderata anche nella questione giudaico-cristiana; ma, negli ultimi anni del suo principato, l’imperatore dovette fronteggiare una nuova rivolta, che faceva centro su Gerusalemme. Il mondo giudaico, in fermento fin dai tempi di Caligola, costituiva da sempre un grosso problema per l’Impero romano, tollerante verso ogni religione e cultura che non ponesse problemi politici e di ordine pubblico, ma spietato nel reprimere atteggiamenti non consoni alla prassi imperiale. Ormai il Giudaismo si configurava come un “movimento insurrezionale” e in quanto tale andava soffocato. L’ultima grande rivolta, capeggiata da Simon Bar Kochba, un leader dalle pretese messianiche, impegnò le forze romane per tre anni (132-135). Alla fine, i Romani ebbero ragione dei ribelli, ma a caro prezzo: la repressione fu durissima con centinaia di migliaia di morti. Gerusalemme vide cancellato il proprio nome, mutato ufficialmente in Aelia Capitolina.
La battaglia di Ethri (134), durante la rivolta guidata da Bar Kochba. Illustrazione di P. Dennis.
3.3. Antonino Pio (138-161)
In assenza di eredi, Adriano si era posto il problema della successione. Per motivi che ai moderni sfuggono, ma che potrebbero affondare nei difficili rapporti con la moglie, il principe escluse dall’imperium lo scarso parentado, sopprimendone eventuali capaces a scanso di equivoci. Nel gennaio del 138, poco prima di passare a miglior vita, l’imperatore aveva adottò Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, esponente dell’aristocrazia che vantava origini galliche. Costui meritò il titolo di Pius per essersi battuto con tenacia per l’apoteosi del padre adottivo presso il Senato recalcitrante. Poiché gli erano premorti i due figli maschi, Antonino non ebbe difficoltà ad adottare a sua volta, su richiesta del predecessore, Lucio Vero e Marco Aurelio, suo genero, marito dell’unica figlia femmina, Faustina Minore: in seguito, la successione dei due optimi chiamati a esercitare in coppia il potere imperiale, con una maggiore garanzia di “costituzionalità”, avrebbe espresso l’adesione del principe agli ideali tradizionali del Senato romano.
T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Aureus, Roma, 151-152, AV 7,24 g. Rovescio: tr(ibunicia) pot(estate) XV co(n)s(ul) IIII. L’imperatore in toga con globo e pergamena.
Il lungo principato di Antonino Pio fu abbastanza tranquillo, senza scosse se non per una larvata minaccia degli Alani sui confini orientali. Il nuovo imperatore consolidò il sistema di governo del predecessore, perseguendo una politica di sgravi fiscali, resa possibile dallo sfruttamento delle risorse, ma anche dalla limitazione della spesa per le opere pubbliche. Amministratore attento e oculato, Antonino diede di sé l’immagine sobria del sovrano che agisce per il bene comune, con un continuo richiamo al passato di Roma, segno di una concezione tradizionalistica del potere. Il principe non si avventurò in operazioni militari che non fossero di stabilizzazione dello status quo: torbidi sulla frontiera britannica, causati dai Caledoni, lo indussero, dopo una repressione, ad avanzare le fortificazioni (vallum Antonini).
T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Busto, marmo, metà II sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Anche per temperamento ed esperienza personale, essendosi formato in incarichi civili e amministrativi, sino a entrare nel consilium principis di Adriano, ormai tramutato in organo di governo istituzionalizzato, Antonino Pio non amava la guerra, e cercò nei limiti del possibile sempre l’accordo diplomatico, anche con l’eterno nemico partico. A differenza del predecessore, però, non si mosse mai da Roma, convinto che il principe dovesse governare dalla capitale.
T. Elio Adriano Antonino Cesare Augusto Pio. Statua, marmo, metà II sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani-Museo Chiaramonti
Tradizionalista in ambito religioso, di condotta ispirata a principi dell’humanitas, anche nell’amministrazione della giustizia, Antonino si segnalò parimenti per l’attività evergetica, ampliando l’area di intervento a favore dei bisognosi e dei diseredati: promosse un piano di assistenza per le ragazze italiche orfane, raccolte e allevate in comunità come puellae Faustinianae (così chiamate in onore della moglie, Faustina Maggiore). Questa iniziativa rientrava nelle misure prese in favore dell’Italia, che Adriano aveva trattato alla stregua delle altre province, mentre Antonino, fedele al suo conservatorismo, volle riconfermare nel ruolo di padrona del mondo, potenziandone le infrastrutture e gli edifici pubblici.
3.4. Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo (161-180)
Dei due figli adottivi di Antonino, il genero Marco Aurelio, maggiore di età, precedette Lucio Vero in carriera, ricevendo già nel 146 l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas. Sul letto di morte, nel 161, il vecchio imperatore trasferì a lui soltanto l’autorità imperiale, ma volle che il Senato riconoscesse Lucio Vero come collega a tutti gli effetti. I due avrebbero governato congiuntamente, sebbene a Marco, come più anziano, sarebbe spettata una sorta di primato, sancito anche dall’investitura a pontifex maximus. Marco Aurelio, inoltre, era un esponente dello Stoicismo, che teorizzava il potere monarchico come la migliore forma di governo per il sapiens. Inaugurando così una prassi che non sarebbe rimasta isolata nella storia di Roma, il nuovo imperatore si associò con pari poteri il fratello adottivo: fu il primo esempio di una diarchia istituzionalizzata ai vertici dello Stato.
Antonino Pio adotta Marco Aurelio e Lucio Vero. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.
A Lucio fu affidato il compito di condurre una campagna militare contro i Parti: questi, nello stesso 161, in occasione dell’insediamento di re Soemo, protetto da Roma, dapprima invasero il Regno d’Armenia, imponendo sul trono Pacoro, fratello del loro re Vologase IV; poi sferrarono una temibile offensiva contro le province romane di Syria e Cappadocia. Il conflitto, protrattosi fino al 166, si concluse a favore dei Romani, che, cinquant’anni dopo Traiano, tornarono a occupare il territorio partico fino a Ctesiphon, che presero e rasero al suolo. Soemo fu restaurato re d’Armenia, e i territori conquistati a est dell’Eufrate costituirono la nuova provincia di Mesopotamia.
Scena di battaglia tra Romani e Parti. Altorilievo, marmo, c. 138, dal Monumento dei Parti di Efeso. Wien, Kunsthistorischen Museum.
Una nuova minaccia proveniva dal settore danubiano, dove alcune popolazioni germaniche, spinte da massicci movimenti migratori, avevano invaso la Pannonia. Nel 167 entrambi gli imperatori mossero contro il nemico, con un esercito nei cui ranghi si stava diffondendo un’epidemia di peste, importata dalla spedizione in Oriente e destinata con il tempo a desertificare intere contrade. All’arrivo dell’armata imperiale ad Aquileia, gli invasori si ritirarono e chiesero una tregua, ma Marco Aurelio preferì spingersi oltralpe per dare ai nemici una prova di forza. Dopo aver svernato ad Aquileia, la ripresa virulenta dell’epidemia consigliò il rientro a Roma; per via Lucio morì di un colpo apoplettico agli inizi del 169.
L. Vero. Busto, marmo, II sec. d.C., dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.
In quel torno di tempo, tuttavia, i Romani patirono due disastrose sconfitte a opera di alcuni popoli federati sotto i vessilli di Quadi e Marcomanni, che, dilagando un po’ ovunque, superarono perfino le Alpi e arrivarono a incendiare Opitergium (od. Oderzo) e ad assediare Aquileia. Come se non bastasse, bande di predoni scesi dai Carpazi penetrarono in Grecia, dove saccheggiarono Eleusi. Marco Aurelio, che nel frattempo era stato impegnato in una spedizione contro gli Iagyzi al di là del Danubio, dovette rientrare e organizzare un’ampia controffensiva: la messa in sicurezza del territorio romano fu lenta e faticosa, ma alla fine riportò l’ordine. L’imperatore consentì l’insediamento di grandi masse di nomadi in Dacia, Pannonia, Moesia, Germania e in alcune zone dell’Italia nordorientale, dove, alle dipendenze dei proprietari terrieri o del demanio, i nuovi arrivati si sarebbero impegnati a lavorare la terra e a difenderla da altri invasori.
Guerrieri transdanubiani. Illustrazione di G. Embleton.
Mentre si stava risolvendo, o tamponando, il problema delle frontiere settentrionali, si ebbe in Oriente la ribellione di Gaio Avidio Cassio, legatus Augusti in Syria, che era stato artefice del successo in Mesopotamia e allora era plenipotenziario per quel settore. Costui nel 175 accampò pretese alla porpora imperiale, avendo appreso che Marco, malato, era dato per spacciato. Ma quando i sostenitori di Cassio seppero che il principe si era ristabilito e si apprestava a marciare contro di loro, sconfessarono il loro capo e lo uccisero. Risolta così la crisi in Oriente, Marco poté riprendere la via del nord, per risolvere la questione germanica, ma ricadde malato e si spense a Vindobona (od. Vienna) il 17 marzo del 180. Ebbe la consecratio, che lo accomunò al già divinizzato Lucio Vero. Per ironia della storia, il principe-filosofo aveva dovuto operare quasi ininterrottamente sui campi di battaglia.
M. Aurelio Antonino. Statua equestre, bronzo, fine II sec. Roma, Musei Capitolini
Come si è visto, il suo equilibrato governo fu dunque attraversato da gravi difficoltà sul fronte esterno, per la pressione delle externae gentes ai confini; ma tali problemi ebbero ripercussioni su quello interno, poiché le difficoltà militari erano fattori d’instabilità politica, acuendo la crisi economico-finanziaria (l’impegno bellico aveva reso necessaria una nuova svalutazione della moneta). L’ultimo atto del principato di Marco Aurelio, in rottura con la prassi dei suoi predecessori, si rivelò dannoso. Rinnegando il principio dell’adozione, nel 176 il principe si era associato nell’imperium il figlio Commodo, che gli successe nel 180 a diciannove anni. In realtà, il principio dell’adizione non aveva mai ricevuto alcuna sanzione giuridica e da Nerva ad Antonino Pio si era trattato di una scelta obbligata, determinata dal fatto che gli imperatori non avessero avuto figli.
M. Aurelio Antonino in veste di pontifex maximus. Busto, marmo, fine II sec. d.C. London, British Museum.
4. Il principato di Commodo (180-192): la fine di un’epoca
A Marco Aurelio successe il figlio Commodo, di soli diciannove anni. Le fonti antiche, come Elio Lampridio, autore della Vita Commodi Antonini, e Cassio Dione, concordi nel giudizio negativo, sono da valutare con cautela, perché ostili per principio al sistema dinastico, che pure rientrava nella logica dei giochi di potere, in cui i vincoli di sangue erano avvertiti come essenziali per la stabilità del regime. Ma come tutti i paladini “del cambiamento”, anche Commodo si guadagnò una pessima nomea, essendo ritratto a tinte fosche. Eppure, attribuirgli tutte le responsabilità per una situazione socio-economica già abbastanza compromessa sarebbe assurdo. Sembra comunque che il giovane imperatore abbia voluto fin da subito imporsi come un autocrate, suscitando la naturale opposizione del Senato con una serie di congiure per eliminarlo. Commodo, ultimo degli Antonini, è considerato a parte rispetto alla gloriosa sequenza dei suoi predecessori: il suo regime costituisce quindi uno spartiacque nella storia dell’Impero, un nuovo capitolo nel quale si manifestarono in modo definitivo numerose trasformazioni nel mondo romano.
Commodo. Testa, marmo, fine II sec. d.C. Wien, Kunsthistorisches Museum.jpg
Conclusa in fretta la pace sul fronte danubiano e consolidatone il confine, Commodo rivelò sin da subito una concezione del potere antitetica rispetto a quella del padre, comportandosi con cinismo e furbizia, ma dimostrandosi altrettanto miope e ottuso. Resosi conto delle possibilità che derivavano dalla sua posizione nel governo, per non consentire ad altri di prevaricarlo tolse di mezzo molti membri del proprio entourage. Il suo fare sospettoso e paranoico e il clima di tensione a palazzo costrinsero alcuni cortigiani, fra i quali anche sua sorella Lucilla, a ordire già nel 182 un complotto ai danni del principe. La congiura fu però sventata e duramente repressa.
Privo di interesse per l’amministrazione dell’immenso dominio di Roma, il giovane imperatore lasciò le redini del governo nelle mani dei propri collaboratori: prima si affidò al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, poi, dopo averlo eliminato con l’accusa (falsa) di tradimento nel 185, lo sostituì con uno dei suoi liberti, Cleandro; ma anche questi, in seguito a una rivolta della plebe urbana nel 192, fu messo a morte da Commodo come capro espiatorio.
Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.
La politica interna del giovane imperatore fu tutta concentrata sui problemi della capitale, sulle dinamiche di palazzo e sull’organizzazione di spettacolari ludi circenses: tale atteggiamento, in breve, gli alienò le simpatie delle masse provinciali. La concezione autocratica del potere da una parte spinse Commodo a ricercare il consenso degli eserciti, aumentando le paghe e conferendo donativi, e del popolino, gratificandolo con congiaria e varie forme d’intrattenimento. Mostrò grande attenzione alla logistica annonaria, creando una nuova flotta, che doveva fare la spola tra l’Italia e l’Africa, e facendo ampliare i magazzini di Ostia. Inoltre, per fronteggiare l’aumentato costo della vita, il principe cercò di imporre un calmiere forzoso, ma questo provvedimento ebbe l’unico risultato di far sparire alcune merci dal mercato, aggravando la carestia e facendogli perdere credibilità.
Come Nerone si era dilettato di esibirsi in vesti di citaredo e di auriga, Commodo nel suoi dodici anni di principato diede nuovo impulso alle arti, facendo erigere monumenti alla gloria del padre – come la Colonna Antonina e la statua equestre di Marco Aurelio in Campidoglio –; tuttavia, egli colpì per la sua smania di scendere nell’arena per duellare contro i gladiatori o per prendere parte agli spettacoli di caccia (venationes), in parte ricollegandosi alla tradizione orientale, che vedeva nelle abilità venatorie dell’uomo la sua bravura militare.
Combattimento tra gladiatori. Mosaico, inizi III sec. d.C. da Lussemburgo.
Certamente in netto contrasto con la tradizione romana fu l’atto assunto in occasione dell’incendio scoppiato nella capitale nel 191: l’imperatore, facendo ricostruire i quartieri più colpiti dal disastro, volle rifondare l’Urbe con il nome di Colonia Commodiana. Oltretutto, pur essendo un devoto seguace di Iside, Commodo fu estremamente tollerante nei confronti di Giudei e Cristiani; ma soprattutto amò identificarsi con Ercole, al punto da impugnare la clava e vestire la leontea durante le sue apparizioni in pubblico e nell’arena. L’imperatore, infatti, assunse il titolo di Hercules Romanus, facendosi rappresentare in quella veste non solo in numerosi ritratti diffusi in tutto l’Impero, ma utilizzando la medesima effige persino sui coni monetali, nell’intento di proporsi ai sudditi come colui che si sarebbe preso cura di loro.
Commodo, come Hercules Romanus. Busto, marmo di Luni, 191-192 d.C. Roma, Museo del P.zzo dei Conservatori.
Una nuova congiura, però, nella notte di fine anno 192, ordita tra gli altri dalla concubina dell’imperatore, Marcia, e dal prefetto del pretorio, Quinto Emilio Leto, tolse di mezzo Commodo, il cui atteggiamento era ormai divenuto insostenibile: secondo le fonti, egli fu strangolato dal suo maestro di ginnastica, Narcisso. L’evento aprì la strada ai pronunciamenti militari, che avrebbero caratterizzato le successioni al soglio imperiale nel secolo incipiente.
da G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 343-355, con inserzioni da F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 84-96.
Anonimo, Seneca. Busto, marmo, XVII sec. Madrid, Museo del Prado.
Giunto a Roma, Seneca ricevette un’ottima educazione sia oratoria sia filosofica, in vista della carriera politica: seguì le lezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e del retore Papirio Fabiano, aderente alla setta dei Sestii, che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vita pubblica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito, intorno al 26 d.C., Seneca si recò in Aegyptus al seguito di uno zio prefetto, e vi soggiornò a lungo forse anche per sfuggire alle persecuzioni ordinate già da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci di pratiche ascetiche e straniere. Ritornato nell’Urbe, nel 31 d.C. iniziò l’attività forense e compì il cursus honorum, ottenendo un successo cospicuo. Il giovane provinciale entrò presto nell’ordine senatorio e ricoprì anche la quaestura. Ma un suo discorso in Senato offese Caligola (37-41 d.C.), che, geloso della sua fama oratoria, l’avrebbe messo a morte, se non fosse stato per l’intercessione di un’amante del princeps.
Non scampò, tuttavia, dalla relegatioche, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola: in realtà, con quest’atto, si voleva colpire l’opposizione politica coagulata attorno alla famiglia di Germanico e discriminare Giulia Livilla, rivale di Messalina a corte. Quanto a Seneca, egli fu dunque allontanato in Corsica, dove rimase per otto lunghi anni, praticando i precetti stoici secondo i quali il bene del sapiens non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore. Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperiale per consolarlo della scomparsa del fratello, ma soprattutto per ottenere con adulazioni smaccate la revoca della pena.
Caduta in disgrazia Messalina, nel 49 d.C. la nuova Augusta Agrippina riuscì a ottenere dall’imperatore il rientro a Roma di Seneca e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, Nerone. Nel ruolo di educatore, affiancato dal praefectus praetorioS. Afranio Burro, Seneca scorse l’occasione per realizzare il sogno platonico di uno Stato perfetto, illuminato dalla sapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza, guidando l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone. Morto Claudio nel 54 d.C., effettivamente Seneca, di comune accordo conBurro, per cinque anni governò in luogo del princeps.
Secondo il programma senecano l’imperatore avrebbe dovuto apparire un modello di virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i suoi cives, in una ritornata età dell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità, prospettandogli la gloria derivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristocrazia senatoria e ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione dei poteri. Anche se – come si legge nel De clementia, dedicato proprio a Nerone e «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamento costituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del princeps.
Tuttavia, il sogno di trasformare il giovane imperatore nel sovrano-filosofo auspicato da Platone non urtava solo contro il corso degli eventi e contro la natura di Nerone, che di lì a poco avrebbe rivelato il suo volto illiberale, paranoico e dispotico, attuando una politica anti-senatoriale, repressiva e autocratica. Collideva anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coerentemente con i precetti enunciati. E questa debolezza lo rendeva poco credibile agli occhi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e finanche l’usura. Inoltre, la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinastici imponeva che Seneca stesso prendesse parte in delitti che non potevano non ripugnare alla sua coscienza morale e filosofica. Così il maestro lasciò che Nerone si sbarazzasse del fratellastro Britannico (55 d.C.) e togliesse di mezzo finanche la madre Agrippina (59 d.C.).
Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quegli anni di reggenza non doveva risultare positivo per Seneca. Alla morte nel 62 dell’amico Burro, egli non fu più disposto ad avallare la politica assolutistica di Nerone, ormai sedotto e controllato da Poppea, avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regime, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Fu questo il periodo in cui attese alla composizione delle sue opere.
Ben presto, però, la politica lo raggiunse anche nel dorato isolamento: inviso ormai e sospetto a Nerone e al suo nuovo praefectus praetorioTigellino, Seneca fu coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65), di cui egli era forse solo al corrente, senza esserne davvero partecipe. Il princeps, condannatolo a morte per lesa maestà, gli ingiunse di tagliarsi le vene: con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente preparato nella riflessione di un’intera vita.
Noël Sylvestre, La morte di Seneca. Olio su tela, 1875. Béziers, Musée des Beaux-Arts.
Le altre opere filosofiche, tramandate autonomamente, sono i sette libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone (in tre libri, di cui restano il primo e l’inizio del secondo), e i venti libri comprendenti le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più propriamente scientifico sono le Naturales quaestiones, in sette libri (in origine, forse, otto), dedicate a Lucilio. Eccone gli argomenti: I. i fuochi celesti; II. i tuoni, i fulmini, i lampi; III. le acque terrestri; IV. la piena de Nilo e le nubi; V. i venti; VI. il terremoto; VII. le comete.
Sono pervenute di Seneca anche nove tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, tramandate dal manoscritto Etruscus della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in quest’ordine: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento romano: una praetexta probabilmente opera di un imitatore.
A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludus de morte Claudii, o Apokolokyntosis(cioè «inzuccatura» o «apoteosi di uno zuccone»), una satira menippea, dai toni feroci, sul singolare processo di beatificazione del defunto imperatore. Fu scritta nel 54, subito dopo la scomparsa di Claudio, e inscenata a corte con il consenso di Agrippina.
Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Diverse sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, svariati trattati di carattere fisico, geografico, etnografico e molti altri testi filosofici (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte l’autore). Parecchie anche le opere di incerta paternità o sicuramente spurie: fra queste ultime il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e l’apostolo Paolo di Tarso, frutto di una leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.
Molte sono le notizie autobiografiche fornite dall’autore in persona (specialmente nelle Epistulae e nella Consolatio ad Helviam matrem); fra le altre fonti, le più importanti sono i libri XIII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico Cassio Dione e le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.
Flora. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
IDialogi e la saggezza stoica
Ben poche, fra le opere senecane rimaste, sono databili con sicurezza o buona approssimazione, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del pensiero dell’autore o collegarle alle sue vicende biografiche. Fra queste dovrebbe essere la Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40) e indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio. Il genere della consolatio, già coltivato nella tradizione filosofica ellenica, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), intorno a quali, a loro volta, ruota gran parte della riflessione di Seneca: a tale repertorio tematico egli torna a far riferimento anche nelle altre due consolationes pervenute. Tutte e due, tra l’altro, sono ascritte agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem, forse del 42, cerca di tranquillizzare la madre sulla propria condizione di esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra, probabilmente del 43, rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente il princeps per ottenere il ritorno a Roma – si tratta, infatti, dell’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo.
I singoli testi della raccolta Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o di problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive: uno Stoicismo, beninteso, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche.
I tre libri del De ira, ad esempio, scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle; all’ira, più precisamente, è dedicato il III libro. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca avrebbe inviato qualche anno dopo, quando Novato avrebbe assunto il cognomen Gallione (dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione) anche il De vita beata (forse del 58): quest’ultimo affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il tema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse, che gli venivano mosse (Tacito, Ann. XIII 42), di incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato, grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato (anche mediante la pratica dell’usura).
François-Léon Benouville, L’ira di Achille. Olio su tela, 1847. Montpellier, Musée Fabre.
Posto che l’essenza della felicità è nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’Epicureismo, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza, se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnauit, «nessuno ha condannato la saggezza alla povertà», 23). Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia, che resta un ideale mai pienamente conseguibile, dovrà saper «sopportare» gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare, secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere beni e ricchezze, ma non farsi possedere da essi.
Del resto, Seneca non pretende di essere un saggio, ma uno che cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. L’accusa di incoerenza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri pensatori del passato:
[18, 1] «Aliter» inquis «loqueris, aliter uiuis». Hoc, malignissima capita […], Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi uiuerent, sed quemadmodum esset et ipsis uiuendum. De uirtute, non de me loquor, et cum uitiis conuicium facio, in primis meis facio: potuero, uiuam quomodo oportet.
Parli in un modo – tu mi dici – e vivi in un altro. Queste accuse […] furono rivolte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavano non come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno anzitutto i miei. Quando ne sarò capace, vivrò secondo virtù. (trad. G. Garbarino)
Tryphe a banchetto. Mosaico, III sec. d.C. da Antakya. Antakya, Museo Archeologico.
Il superiore distacco del sapiens dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della trilogia dedicata all’amico Sereno, che aveva inteso abbandonare le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi.
Il primo dei tre dialoghi, pubblicato dopo il 41, esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità: proprio perché possiede la virtus, il sapiens non può ricevere offesa da parte degli uomini.
Il De tranquillitate animi, scritto all’epoca della collaborazione con Nerone e l’unico parzialmente in forma dialogica, affronta un problema fondamentale nella riflessione senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere di una vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca propone una mediazione, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche vigenti: l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi del tumulto cittadino, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche per ciò si tende a collocare il dialogo poco prima del 62), la scelta totale di una vita appartata è, invece, dichiarata nel De otio: un’opzione forzata, resa necessaria da una situazione politica ormai compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi.
Più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52, sembra risalire il De brevitate vitae, dedicato al suocero Paolino, praefectus annonae. L’opera affronta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che tale può sembrare perché non se ne sa afferrare l’essenza, ma la si disperde in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. La vita è lunga per chi sa impiegarla (vita, si uti scias, longa est, 2, 1), mentre appare brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) per chi sciupa il proprio tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi, rappresentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parrucchiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giorno canzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati senza costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile, ripetendo con «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente il saggio agli occupati.
Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta dei Dialogi, cioè il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae: il testo dibatte l’apparente contraddizione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra punire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, afferma Seneca, Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventure, le avversità che colpiscono chi non se le meriterebbe, non contraddicono tale disegno “provvidenziale”, ma sono, effettivamente, un segno della Providentia divina, che sa distinguere i saggi e, creando ostacoli, consente loro di perfezionarsi: così, il sapiens stoico realizza la propria natura razionale nel riconoscere il posto che, nell’ordine cosmico governato dal λόγος, è stato a lui assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente.
Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Filosofia e potere
Dedicati a Lucilio e successivi al ritiro dalla vita pubblica, sono anche i Naturalium quaestionum libri VII, l’unica opera senecana di carattere scientifico pervenuta. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti, alle comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio) e sembra costituire il supporto “fisico” all’impianto filosofico di Seneca. Ma, in realtà, non c’è integrazione né organicità fra indagine e ricerca morale.
Più o meno allo stesso periodo, intorno al 64, come attesta lo stesso autore in Epistulae ad Lucilium, 81, 3, risale un’altra opera filosofica tramandata autonomamente dai Dialogi, cioè i sette libri De beneficiis, dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiario, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati – si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti. L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una “monarchia illuminata”. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di quel progetto.
L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la propria concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione (Stupazzini lo ha definito il «manifesto della teoria politica» senecana). L’autore non mette in discussione la legittimità costituzionale del principatus, né le forme apertamente monarchiche che esso aveva ormai assunto: il potere unico era più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal λόγος, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formavano l’Impero; senza considerare, infine, che proprio il principato si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana, che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione senatoria. Il problema, piuttosto, era quello di avere un buon princeps: e, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarebbe stata la sua stessa coscienza, che lo avrebbe dovuto trattenere dal governare in modo dispotico. La clementia, che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di «filantropica benevolenza», era la virtù che avrebbe dovuto informare i suoi rapporti con gli altri, cives o peregrini: con essa, e non incutendo timore, l’imperatore avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione, che, da sempre, sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato.
È evidente, in questa concezione di un Principato “illuminato” e paternalistico, che affida alla coscienza del governante, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione con il princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltivò un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, come si è accennato, alla filosofia spettava un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale dell’imperatore e dell’élite politica, ma la rapida degenerazione del regime neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana dovette ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pose, dunque, al servizio dell’umanità.
Seneca-Socrate. Erma bifronte, I sec.-metà III sec. d.C. c. Berlin, Antikensammlung, Staatliche Museen.
La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae morales ad Lucilium
Se è vero, infatti, che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica dell’autore, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, rimase effettivamente forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione di Seneca successiva al suo ritiro egli si mosse soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale.
L’opera principale della sua produzione tarda, la maggiore e la più celebre in assoluto, sono le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di venti libri di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate appunto all’amico Lucilio, un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative; di buona cultura, era poeta e scrittore egli stesso.
Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare – varie lettere, infatti, richiamano quelle di Lucilio in risposta –, ipotesi, peraltro, non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera, come si è detto, è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62/3 d.C.); essa costituisce, in ogni caso, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.
Le lettere fondano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incline a trattare separatamente singoli temi etici. Un antecedente latino erano state le Epistulae di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chi sente l’esigenza della filosofia intensa come ricerca morale, come quotidiana pratica di saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune il fatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il legame stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impanca a maestro, ma parla sottovoce (umilissima uerba, 38, 1), considerando se stesso bisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale, il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.
Ma il modello delle Epistulae morales ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva con i discepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Seneca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigli utili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loro novità rispetto alla produzione epistolare precedente:
[15, 1] Mos antiquis fuit, usque ad meam servuatus aetatem, primis epistulae uerbis adicere: «Si uales bene est, ego ualeo». Recte nos dicimus: «Si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus.
Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in uso, di aggiungere alle prime parole della lettera: «Se stai bene, sono contento; io sto bene». Meglio, noi diciamo: «Se ti dedichi alla filosofia, sono contento; io sto bene». Stare bene, infatti, in definitiva, consiste in questo. Senza ciò l’animo soffre.
In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale, era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’attualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondare l’interiorità:
[118, 1-2] […] nec faciam quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam «si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit scribat». […] Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et uidere quam multarum rerum candidatus sit, et non suffragari.
[…] Non farò quel che Cicerone, uomo eloquentissimo, esige da Attico, cioè scrivergli «anche se non avrà nulla che gli sia venuto a fior di bocca». […] È preferibile affrontare le proprie debolezze che quelle altrui, analizzare se stessi e vedere a quante cose ci si candida e non dare alcun voto favorevole.
Naturalmente, non che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento alla sfera privata. anzi, ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anni remoti; c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono le espressioni di tenerezza per la giovane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o il resoconto dei fatti del giorno. Ma da questi eventi, di per sé irrilevanti, l’autore trae sempre spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che lo ha colpito lo spinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare di lusso lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù dell’uomo.
Dunque, più degli altri generi della letteratura filosofica, l’epistula, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico-discepolo (sul modello delle scuole di filosofia), la lettera ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. Tra l’altro, allo stesso intento concorre l’uso di concludere ogni epistula, almeno nei primi tre libri, con una sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza su cui meditare.
Pieter Paul Rubens, Ritratto di Seneca.
Rifacendosi a uno schema di procedimento in uso nel Giardino epicureo, che graduava i vari momenti del cammino verso la sapientia, Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui fa seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi alla forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla tendenza delle singole lettere, man mano che ci si addentra nell’epistolario, ad assimilarsi al trattato filosofico.
Non meno importante dell’aspetto teorico – più volte, anzi, Seneca polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici – è nella lettera quello parenetico: l’epistula tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare, al bene.
Oltre però a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline piuttosto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti – si è detto – per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui il saggio informa la propria vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti.
Col tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo, ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.
La convinzione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi i servi, per i quali l’autore trova parole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati con una passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazione della componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una “carità cristiana”. Ma le analogie con il Cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del carattere fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fastidio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacoli circensi.
Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.
Un motivo costantemente presente nella sua riflessione è quello della morte, vista non come oggetto di paura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema affermazione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Seneca raccomanda: «Medita la morte: chi ti dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere servo».
Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via della perfezione interiore, Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comunicare i risultati della propria speculazione agli altri, perché possano trarne giovamento. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore funge anche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo e centripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra “predicazione” e “interiorità”. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina, che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirittura inscindibili: «Bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te stesso» (15, 3). E anche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il bene dell’umanità, posteri inclusi:
[8, 1-2] In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. […] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo.
Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato e ho chiuso le porte di casa: per poter essere utile a un maggior numero di persone […]. Mi sono isolato non tanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle mie: ora agisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.
Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistulae, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium quale valore supremo: un otium che, beninteso, non è inerzia, ma alacre ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati anche loro nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistulae stesse possano esercitare il proprio benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore – resasi necessaria la rinuncia alla rivendicazioni sul terreno politico – è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.
Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Lo stile “drammatico”
Se fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent uerba nostra sed prosint (75, 5): queste si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma, ad esempio, di sententiae o di citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo di chi legge un precetto o una norma morale.
In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodare ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un succedersi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto, ma destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca assai ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nell’insegnamento dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica “puntillistica”, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa, fino a cristallizzarla nell’espressione epigrammatica. Di questo stile aguzzo e penetrante, che nella sua continua tensione non sa evitare una certa “teatralità”, Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico», secondo un’efficace definizione), che alterna i toni sommessi della meditazione interiore a quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa tra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.
Pseudo-Seneca. Busto, marmo, II sec. d.C. ca. Zürich, Archäologische Sammlung der Universität.
Le tragedie
Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie, delle quali nove sono generalmente ritenute autentiche (benché qualche dubbio sussista per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco (cothurnatae). Di queste tragedie, le sole, di tutta a letteratura latina, pervenute in forma non frammentaria, si sa molto poco circa le circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tantomeno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Sicché, nell’impossibilità di delineare una cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine in cui la tradizione manoscritta più autorevole le ha trasmesse.
L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia dell’eroe, che, provocata da Giunone, lo induce a uccidere moglie e figli; una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca, infine, ad Atene a purificarsi. Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono sofocleo sono improntate le Phoenissae, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Naturalmente ancora a Euripide (ma forse anche a un’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio) si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e, perciò, assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. Anche la Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell’Ippolito (quello superstite, ma anche quello, anteriore, perduto), nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus, che narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e, quindi, sposo della madre Giocasta: alla scoperta della tremenda verità, egli reagisce accecandosi. All’omonimo dramma di Eschilo si ispira, assai liberamente, l’Agamemnon, che rappresenta l’assassinio del re, dal ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Il Thyestes mette in scena, invece, il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in testi perduti di Sofocle e di Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente): animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Nell’Hercules Oetaeus (cioè “sull’Eta”, il monte su cui si svolge l’evento culminante del dramma dell’eroe), modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e, in realtà, dotato di potere mortale: tra dolori atroci l’eroe si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito l’assunzione fra gli dèi.
Francisco de Zurbarán, La morte di Ercole. Olio su tela, 1634. Madrid, Museo del Prado.
I drammi scritti da Seneca, oltre a costituire una preziosa testimonianza di un intero genere letterario, sono importanti anche come documento della ripresa del teatro tragico latino, dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea aveva fatto per promuovere una rinascita dell’attività teatrale: in questo progetto, tra le altre, si inseriva la produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., in cui la polemica anti-tirannica connessa al soggetto forse aveva avuto come bersaglio M. Antonio. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l’élite intellettuale senatoria sembrò, in effetti, ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime dispotico di certi principes. Tra l’altro, nella tragedia latina, che riprendeva ed esaltava un aspetto già fondamentale in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide.
I tragediografi di età giulio-claudia e flavia di cui si ha notizie furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana del I secolo d.C. Si apprende dagli Annales di Tacito che, sotto il principato di Tiberio, Mamerco Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a togliersi la vita perché in un suo dramma, l’Atreus, erano state ravvisate allusioni all’imperatore. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche il consolato: di lui avrebbe scritto una biografia l’amico Plinio il Vecchio. Pomponio Secondo, oltre a tragedie cothurnatae, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. Si può ricordare, infine, all’epoca di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figurò come interlocutore nel Dialogus de oratoribus di Tacito; delle sue tragedie si conoscono vari titoli, fra cui quelli di due praetextae, il Cato e il Domitius.
La scarsità di notizie sulle tragedie senecane non consente, però, di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che si conosce, anzi, sulla destinazione della letteratura tragica in età già anteriore a Seneca – e cioè che si continuava, sì, a rappresentare normalmente in scena i drammi, ma che ci si poteva anche limitare a leggerli nelle sale di recitazione (odea) – ha indotto gli studiosi a credere (anche sulla base di certe loro peculiarità stilistiche) che quelle di Seneca fossero tragedie destinate prevalentemente alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per talune di esse, la rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, la più diffusa, anche se non tutti gli argomenti di questa tesi sono ugualmente probanti: per esempio, la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano incompatibili con i canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero presupporre, piuttosto che smentire, una messinscena, laddove una semplice lettura avrebbe limitato, se non del tutto annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico.
Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come opposizione fra mens bona e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche – come, per esempio, nella vicenda di Ercole, il tema dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà – rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro di Seneca non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica.
Genève, Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 190, 1 (1410 c.), f. 20r, illustrazione dal De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, raffigurante Atreo che imbandisce a Tieste le membra dei figli.
L’analogia, però, non va troppo accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria (che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato, messinscene paradigmatiche di conflitti interiori), sia perché, nell’universo tragico, il λόγος, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni atroci e orrorosi, e su questo scenario terrificante si scatena la lotta delle forze del male: battaglia che non investe soltanto la psiche dell’uomo, che viene scagliata fin nei suoi angoli più reconditi, spesso attraverso lunghi ed elaborati monologhi, ma il mondo intero, concepito – stoicamente – come unità fisica e morale, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un particolare rilievo, fra le forme in cui più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito politico sul tema del potere, che, come si è visto, occupa un posto centrale nella riflessione e nella biografia senecane.
Di quasi tutte le tragedie dell’autore, come si è detto, si dispone dei corrispettivi precedenti greci, nei confronti dei quali si possono valutare l’atteggiamento che Seneca ha tenuto. Atteggiamento che, rispetto a quello dei drammaturghi latini arcaici, denota, da un lato, una maggiore autonomia (dopo la grande stagione augustea, infatti, la letteratura latina non si limitò più a “tradurre”, ma si misurò alla pari con quella ellenica, in libera emulazione) e, al tempo stesso, però, presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impianto drammatico.
Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il linguaggio poetico delle tragedie senecane ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali, nonché il particolare tipo di senario, già adottato nel teatro tragico augusteo e vicino piuttosto, nel suo rigido schema, al trimetro giambico greco e oraziano che non al più libero senario arcaico.
Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulus espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle sententiae, si sa, è alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stichiche (cioè un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da sempre, infatti, sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (per esempio, nei cataloghi geografici e mitologici), in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.
Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ἐκφράσεις), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica, che alterano i tempi dello sviluppo scenico inserendosi così nella tendenza, propria del teatro senecano, a isolare singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” dovessero essere letti nelle sale di recitazione).
Uno stile, insomma, che con i suoi tratti più peculiari, si inquadra agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i più rappresentativi.
Claudia Ottavia. Busto, marmo, età giulio-claudia, ante 62 d.C. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.
La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragedia d’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Seneca stesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissuadere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun autore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre, la morte del princeps è descritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi, non può essere stata scritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C., tre anni prima dell’imperatore.
Nella vicenda Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze con Poppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione del pupillo, ma è consigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fattori dell’ex moglie, il princeps mette in atto il suo delitto: la donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di forza e coraggio stoici. In chiusura della tragedia, appare l’ombra di Agrippina, madre di Nerone e anche lei sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino i delitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631). Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui l’amato Nerone, tremante, affonda nella propria gola il pugnale crudele.
L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli ambienti dell’opposizione senatoria. Si è ipotizzato che l’autore possa essere stato il tragediografo L. Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annaea, il cui praenomen avrebbe facilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere stata composta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisione di particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, sia perché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbe stata possibile se egli fosse stato ancora in vita. Inoltre, l’Octavia è stata conservata da un ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggiormente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia è stata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente o, quantomeno, vicino agli ambienti senatori, che conoscevano assai bene i comportamenti etici, il pensiero e la produzione letteraria di Seneca: alcuni passi, infatti, sono la trasposizione in versi dei Dialogi del filosofo.
L’ambiente culturale che ha espresso quest’opera, dunque, è certamente senatorio. Lo dimostra – come si accennava sopra – la considerazione dell’imperatore come di un tiranno assassino e il fatto che non compaia mai il Senato, ormai ridotto all’ombra di se stesso, ma solo il popolo anonimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i fruitori del testo, certamente destinata alla sola lettura, come si apprende a proposito delle tragedie di Curiazio Materno dal Dialogus tacitiano, che si immagina iniziato «il giorno dopo a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura (recitauerat) del Catone» (una tragedia che, avendo per protagonista il personaggio simbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi circa il contenuto di opposizione al regime imperiale: e Tacito, infatti, aggiunge che la recitatio «urtò la suscettibilità dei potenti»). In questo clima culturale assai teso, nel quale la tragedia assurse a genere della “resistenza” senatoria alla tirannide imperiale, s’inseriva l’Octavia.
Ormai il genere tragico non aveva più un avvenire: infatti, non sarebbe sopravvissuto alle epurazioni neroniane e alla politica di ricambio dei Flavii, che sostituirono alla vecchia nobilitas una nuova classe di funzionari italici e provinciali.
Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’Apokolokyntosis
Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo intitolano due dei manoscritti principali che lo hanno trasmesso) o Divi Claudii Apokolokyntosis (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo); il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokyntosis, fornito dallo storico Cassio Dione (LX 35). Questa parola implicherebbe un riferimento a («zucca»), forse come emblema di stupidità, e secondo Dione si tratterebbe di una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal Senato post mortem. Il fatto che nel testo senecano non ci sia accenno a una zucca, e che l’apoteosi, di fatto, non abbia luogo, ha fatto sorgere dubbi sull’identificazione dell’opera menzionata da Dione con il Ludus, dubbi che oggi giustamente sono quasi del tutto dissolti: il curioso termine, dunque, andrà inteso non come «trasformazione in zucca», ma piuttosto come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio aveva goduto. Altri dubbi e perplessità sono stati suscitati dal fatto che, a quanto si sa da Tacito (Ann. XIII 3), lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore defunto (pronunciata da Nerone), ed è parso a molti insostenibile un così radicale contrasto di comportamento.
La difficoltà ad ammettere che, subito dopo gli elogi ufficiali, Seneca potesse dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio ha anche indotto diversi studiosi a posticipare, a torto, la data di composizione (attorno al 60) di un pamphlet che si giustificava solo se reso pubblico (magari in forma anonima) sull’onda di un evento, come la divinizzazione di Claudio, che, dietro il fragile velo dell’ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica – la composizione dell’opera va, quindi, collocata nello stesso 54.
Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.
Il princeps, verso il quale il filosofo nutriva personali motivi di risentimento, appena morto (il 13 ottobre del 54, forse avvelenato da Agrippina Minore) ascende all’Olimpo per essere accolto fra gli dèi, in base alla decretata apoteosi. Ma questi, riuniti in un’assemblea a mezza via tra i concilia deorum omerici e le sedute del Senato, dopo un duro intervento di Augusto, che affonda la proposta di divinizzazione, lo spediscono nell’Ade. Passando per Roma, il dio mancato s’imbatte nel proprio sontuoso funerale seguito da gente contenta (omnes laeti, hilares) e solo allora realizza d’essere veramente morto (ubi uidit funus suum intellexit se mortuum esse, 12, 3). Quindi, scene agli inferi, dove prima diviene schiavo di Caligola, poi del liberto Menandro, al cui servizio continuerà a fare quello che aveva fatto in vita, istruire processi e dare ascolto ai liberti: una condanna di contrappasso, per così dire. Allo scherno dell’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’operetta, parole di elogio per il successore, preconizzando l’avvento di un’età di splendore e di rinnovamento.
La descrizione di Claudio è feroce: di lui sono messi in luce impietosamente i difetti fisici e morali. L’imperatore è zoppo, balbuziente, brutto al punto da potersi ascrivere a stento alla specie umana (quasi homo). Il ritratto morale è conforme all’immagine che ne davano i contemporanei. Egli era, anche da vivo, pubblicamente considerato – certamente a torto – inetto, debole, spietato, succube dei suoi potenti liberti. Quando Nerone, leggendo la laudatio funebris, ne elogiò l’avvedutezza e il senno, «nessuno – scrive Tacito (Ann. XIII 3, 1) – seppe trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, sfoggiasse grande eloquenza». Claudio era, insomma, oggetto di scherno negli ambienti di corte anche prima che fosse scritta questa feroce menippea dell’«apoteosi negata».
Pur possedendo i caratteri formali della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l’iniziatore di questa forma letteraria), ovvero il prosimetrum, lo spudaigelaion (“serio-faceto”), l’aggressività espressiva, l’indignatio polemica, e tutti i topoi propri del genere (quali, ad esempio, l’ascesa in cielo e la discesa agli inferi), il Ludus de morte Claudii sembra discostarsi dal modello del filosofo gadarense almeno per l’assenza di un tratto: la demistificazione. La feroce caricatura, infatti, non disvela nulla che non appartenesse all’immagine pubblica del personaggio messo alla berlina, abitualmente deriso e fatto oggetto di strali ironici, critiche, battute pesanti (come ricorda Tacito). Della letteratura satirica mancano l’intento tradizionale, la censura dei costumi. Non sono tipici della menippea originaria, ma nemmeno di quella varroniana, l’attacco ad personam e la tempestività dell’invettiva, che, in questo caso, è composta subito post mortem di Claudio – giacché «libelli così o si scrivono subito o non si scrivono più» (R. Roncali). Da questo punto di vista, il Ludus è più vicino alla satira luciliana, che sbertucciava i primores populi e non esitava a bollare il vizioso per nome, o a certa libellistica polemica d’età giulio-claudia di cui si ha notizia da Svetonio.
La scrittura di questo caustico pamphlet è agile, scorrevole, varia nell’alternanza di livelli stilistici alti e bassi. Si passa dai toni piani della lingua colloquiale, nelle parti prosastiche, alla parodia della magniloquenza epico-tragica nelle parti metriche. L’alternanza di aulico e volgare, i ricalchi e gli adattamenti parodici dei classici, le ironiche citazioni in greco, le frequenti assonanze con la prosa filosofica fanno di questo libello un finissimo divertissement letterario.
Apoteosi di Tib. Claudio Germanico Augusto, nelle vesti di Giove Capitolino. Statua, marmo, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Il ritmo rapido e serrato trascina velocemente il lettore da una scena all’altra (dalla terra al cielo, dal cielo alla terra e poi agli inferi) senza intoppi narrativi. La vivacità degli episodi e la verve satirica hanno fatto pensare anche alla possibilità di una destinazione scenica (non solo di lettura) negli ambienti del palatium.
Gli Epigrammi
Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono adespoti, ma siccome tre di essi, in un altro codice, sono attribuiti all’autore, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione a lui, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso, ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica.
Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La fortuna
Già si è accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rimproverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo insegnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degni di lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sempre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X 1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, leggevano solamente le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1, 126).
Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolo pronunciarono sullo stile “moderno” dello scrittore. In particolare, Frontone sconsigliava all’imperatore M. Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensavano i difetti, consistenti in un’eloquenza aggrovigliata (confusam… eloquentiam) e nella tendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti positivi, poi, gli sembravano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento, ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).
Non molto più benevolo fu il giudizio di Gellio, che dedicò a Seneca un intero capitolo delle Noctes Atticae (XII 2): il filosofo era ritenuto ineptus et insubidus homo per le critiche da lui espresse (ne XXII libro delle Epistulae morales, che non è giunto) riguardo all’oratoria ciceroniana.
Il contenuto etico delle Epistulae e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spesso, fraintendendone il pensiero, lo considerarono uno degli spiriti nobili del paganesimo più vicini al Cristianesimo. Tertulliano usava l’espressione Seneca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20, 1). Lattanzio lo considerava omnium Stoicorum acutissimus; tra l’altro, questi scrisse, inaugurando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioè ai cristiani) similia locutus est! (Ist. I 5, 28). Girolamo lo nominava di frequente nei suoi testi e per primo citò un carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso, che è pervenuto. In realtà, i punti di contatto tra la filosofia senecana e la teologia paolina erano ben pochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza esterna che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67 d.C.), si avvalevano per la loro “predicazione” del mezzo delle lettere. Il carteggio, comunque, contribuì alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero il contrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli sia dipesa dalla fama medievale di Seneca e dalla diffusione della leggenda sulla sua conversione.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Reg. lat. 1500, f. 62r, illustrazione delle Troades.
In età medievale, infatti, grande fu la fortuna del «Seneca morale», come lo chiamò Dante (Inf. IV 141) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo, che sicuramente lesse. La sua morte era stata intesa come martirio cristiano, secondo una leggenda che, attraverso il Roman de la rose, confluì poi nel Novellino. Quest’ultimo, inoltre, presenta aneddoti della vita di Seneca (tolti dai Fiori dei filosofi) come veri exempla, cioè testimonianze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare.
Una prova ulteriore della fama goduta dal filosofo nel Medioevo consiste nel gran numero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, ilLiber de moribus, ecc.). L’autore divenne assai popolare nei secoli XII e XIII: a questo periodo, infatti, risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari monasteri, come quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conservazione dei Dialogi, che, in seguito, ebbero grande diffusione nell’Europa settentrionale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesse per il teatro senecano fu espresso, poi, dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.
Le Epistulae morales ad Lucilium e alcuni trattati furono letti anche da Petrarca e da Boccaccio, i quali, però, non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fu considerato un autore nazionale e tradotto e commentato persino da re Alfonso V in persona.
Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse un Seneca Philosophus da un Seneca Tragicus. L’editio princeps delle opere filosofiche fu quella napoletana del 1475.
Nel XVI secolo Seneca assurse a maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’ammirazione di Montaigne, i cui scritti furono densi di citazioni tratte dalle Epistulae morales e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuitica, poi protestante. Le tragedie dell’orrore, inoltre, con il loro barocco cupo e truculento, furono di grande attualità sia in Italia, sia nell’Inghilterra elisabettiana. Così il teatro senecano influenzò moltissimo Shakespeare (in particolare, nel Macbeth e nell’Hamlet). Lessero Seneca anche Racine e Corneille: quest’ultimo, soprattutto, nella Médée e nella Phèdre imitò le tragedie omonime dell’autore latino.
Barcelona, Archivo de la Corona de Aragón. Col. Manuscritos, Sant Cugat 11 (XIV sec.), f. 1r., illustrazione di una miscellanea con le opere morali di Seneca, che raffigura l’autore intento a leggere, davanti a un armarium.
Anche Voltaire conobbe le opere morali e Alfieri fu influenzato dalle vibranti e cupe scene del teatro di Seneca.
Nell’Ottocento lo scrittore latino continuò a essere letto dagli intellettuali. Criticato da Hegel, che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammarato da Schopenhauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancor oggi continua a costituire uno dei capisaldi della paideia umanistica. Non così per il Seneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo, sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si è aggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.
La Lettera a Temistio di Giuliano Imperatore segna un importante capitolo nel dibattito antico sulla figura del filosofo. La sua composizione è stata situata dagli interpreti o nel 355 d.C., quando Giuliano fu nominato Cesare da Costanzo II, oppure alla fine del 361 (sempre che non si ammetta, come pure è stato suggerito, una composizione in due fasi)[1].
Nella lettera Giuliano risponde a un testo precedente di Temistio che, purtroppo, non possediamo. Possiamo, tuttavia, ricostruirne il contenuto generale. Le orazioni di Temistio contengono una ripetuta difesa della sua scelta di essere pienamente impegnato nella politica venendo meno a quella che ad altri appariva come la corretta vita filosofica. Certamente Temistio si confrontava con alcuni oppositori i quali gli rimproveravano il successo politico. Notevole importanza hanno, a questo riguardo, le Orazionicomposte tra il 355 (anno della sua nomina a senatore per opera di Costanzo II) e il 360 circa. Esse costituiscono il retroterra della discussione con Giuliano. Rispondendo ai suoi detrattori, e difendendo la sua scelta di vita come autenticamente filosofica, Temistio elabora un’articolata posizione sul rapporto tra politica e filosofia, secondo la quale non solo non vi è opposizione tra le due, ma la politica è il naturale completamento della filosofia affinché i filosofi non siano tali solo a parole (cfr. Or. 20, 239 a-d): da qui la critica, di ascendenza platonica (Platone, Resp., VI, 486 b), rivolta ai filosofi non socievoli e selvaggi (cfr. Or. 21, 253 c; Or. 22)[2].
A questa concezione si associa una ben definita dottrina della regalità come intrinsecamente associata alla filosofia e superiore al vincolo delle leggi (il sovrano non ne è dunque affatto un semplice guardiano), che Temistio certamente mutua da fonti tradizionali (la dottrina è ben attestata in fonti ellenistiche e imperiali come le orazioni di Dione Crisostomo e i trattati pseudo-pitagorici sulla regalità), ma alla quale conferisce un rilievo peculiare. Il re filantropo, come Costanzo, è per Temistio «la legge in persona ed è al di sopra delle leggi» (Or. 1, 15 b)[3]: egli rimedia così all’imperfezione delle leggi ed è capace di mitigarne la severità adattandole alle situazioni particolari. Per Temistio, pertanto, un imperatore deve essere un autentico filosofo-re, filantropo e pienamente impegnato nella pratica di governo, incarnazione vivente della legge e immagine del governo divino nel mondo[4].
Giuliano. Solidus, Sirmium, 361 d.C. Au. 4,41 gr. Recto. Busto barbato, diademato con perle e paludato, voltato a destra, dell’imperatore. Legenda: Fl(avius) Iulianus p(ater) p(atriae) Aug(ustus).
Temistio aveva invitato Giuliano a seguire questo modello nello scambio precedente la Lettera, paragonando la condizione del sovrano a quella di Eracle e Dioniso, i quali furono allo stesso tempo filosofi e re (Ad Them. 253 c)[5]. Nella sua risposta, però, Giuliano appare ben poco lusingato e respinge l’esortazione di Temistio, distaccandosene in alcuni punti e prendendo le distanze dalla figura del re filosofo. Egli, d’altronde, distingue la sua posizione rispetto a coloro che hanno una piena formazione filosofica (Ad Them. 254 b). La critica dell’unione tra monarchia e filosofia passa attraverso il confronto tra le figure di Socrate e Alessandro, che Giuliano propone a tutto vantaggio del primo: anche se Socrate non è stato signore di nessuno, egli ha in realtà compiuto imprese più grandi di Alessandro salvando molti uomini con la filosofia (Ad Them. 264 c–d). Inoltre, Giuliano si richiama alle Leggi di Platone difendendo il primato delle leggi rispetto al monarca, che ne è guardiano restando sottoposto a esse (Ad Them. 257 d–259 b, cfr. anche 261 a–d). Quindi argomenta che Aristotele (il filosofo di cui Temistio è interprete autorevole) non sostiene affatto l’unità di filosofia e vita politica, ma rivendica la priorità della prima sulla seconda (Ad Them. 263 b–d).
Fatte salve tutte le convenzioni retoriche, il tono di Giuliano è decisamente poco cordiale ed è plausibile che la Lettera a Temistio abbia raffreddato i rapporti tra i due[6]. Durante il regno di Giuliano, Temistio non fu oggetto di persecuzione, ma con buona probabilità mantenne una posizione di riserbo rimanendo sostanzialmente in disparte[7]. La sua attività pubblica riprese con l’orazione Per il consolato dell’imperatore Gioviano, nella quale traspaiono allusioni critiche a Giuliano e al suo governo[8]. Senza ripercorrere nel dettaglio le argomentazioni della Lettera, mi limito a sottolinearne alcuni punti salienti. In primo luogo, è notevole la professione di modestia che apre l’Epistola. Giuliano distingue accuratamente la sua condizione rispetto a quella del re-filosofo auspicato da Temistio. Egli, dunque si dichiara consapevole di non possedere alcuna dote eccezionale per natura: rispetto alla filosofia nutre soltanto un amore che le vicissitudini hanno conservato sterile (Ad Them. 254 b). Il compito che gli prospetta Temistio appare pertanto a Giuliano superiore alle proprie capacità. Non è un passo isolato, perché altre volte Giuliano dichiara di non essere un vero e compiuto filosofo, ma solo di aspirare alla filosofia senza averla raggiunta pienamente[9].
Filosofo a pieno titolo è per lui il maestro Massimo di Efeso – allievo di Edesio, a sua volta allievo di Giamblico, ed esponente di spicco del neoplatonismo teurgico proprio della cosiddetta “scuola di Pergamo” –, che Giuliano venera tanto da suscitare la disapprovazione dei contemporanei (cfr. Ammiano Marcellino, XXII, 7, 3–4)[10].
Spesso si prende la professione di modestia di Giuliano alla lettera e la si adduce come prova della sua mediocre statura filosofica. In realtà, come vedremo meglio in seguito, la situazione è forse più complessa. Per adesso basterà notare che nella Lettera l’iniziale professione di modestia si associa allo sforzo profuso da Giuliano per dimostrare la sua padronanza delle questioni filosofiche evocate da Temistio. Per questo motivo, è importante soffermarsi sul modo in cui Giuliano richiama le autorità filosofiche. In primo luogo, egli si confronta con Epicuro. Nelle Orazioni Temistio condanna il “Vivi nascosto” di Epicuro considerandolo un precetto assolutamente negativo «per il quale non è naturale che l’uomo sia sociale e civile» (Or. 26, 324 a; cfr. Or. 20, 236 a) e rispetto a cui il filosofo autentico deve contrapporsi attraverso l’impegno pubblico. Giuliano ne è consapevole e accuratamente differenzia la sua posizione da quella epicurea: egli non ritiene affatto che vada perseguita una vita contemplativa al completo riparo dalla politica (Ad Them. 255 b; 259 b)[11]. D’altra parte, Giuliano precisa che non bisogna spingere alla vita politica qualsiasi uomo e anzi si deve tenerne lontani quelli meno dotati di qualità intrinseche e non ancora completamente formati: a conferma di questo, fa menzione dell’esempio di Socrate, che cercò di trattenere dalla politica il giovane Glaucone e Alcibiade (senza per altro riuscirvi con quest’ultimo) (Ad Them. 255 c). Questa visione dell’insegnamento socratico, nettamente contrapposto all’impegno politico, tornerà più oltre nella Lettera, nel parallelo già richiamato tra Socrate e Alessandro Magno.
Segue una sezione critica rispetto agli Stoici: nella politica non dominano solo la virtù e la retta intenzione, ma hanno
un ruolo cruciale «la fortuna, il caso e le altre cause esterne di questo tipo che interferiscono nella vita pratica» (Ad Them. 255 d). A torto Crisippo non ha riconosciuto l’importanza di simili fattori, che sfuggono al nostro controllo e rendono l’azione politica incerta. Lo dimostrano Catone e Dione di Sicilia, ai quali virtù e impegno politico non offrirono garanzia alcuna di successo e felicità. Inoltre, anche quando la fortuna arrechi i suoi benefici, non sempre le conseguenze sono positive: lo dimostra Alessandro il quale si lasciò sedurre e rovinare dalla buona fortuna «mostrandosi più crudele e orgoglioso di Dario e Serse, dopo che divenne padrone del loro impero» (Ad Them. 257 a).
Il confronto con Temistio diviene serrato quando Giuliano oppone al suo interlocutore proprio i modelli filosofici a cui quest’ultimo si richiamava: gli scritti di Platone e Aristotele, l’esempio di Socrate. Due citazioni dalle Leggi (IV, 709 b e IV, 713 c-714 a) sono usate da Giuliano a conferma sia dell’importanza di caso e fortuna nelle vicende umane, sia dei limiti intrinseci al governo in questo mondo. Solo un re divino come Crono potrebbe arrestare questa situazione: egli infatti, conoscendo la debolezza degli uomini, mise a capo delle città non uomini, ma esseri di stirpe superiore, ossia dei demoni. Tuttavia la nostra condizione è differente e l’unico rimedio è affidarsi alla legge come principio regolatore. Giuliano, insomma, non fa suo tanto il modello politico della Repubblica di Platone e non esalta la figura del re filosofo nella città ideale. Piuttosto, egli si fonda sulle Leggi per cercare una sorta di “second best”, ossia la migliore approssimazione possibile del governo ideale in un mondo imperfetto, dove il caso e la fortuna pongono limiti invalicabili all’azione umana[12].
Il fondamento di questa buona approssimazione è dato dalle leggi, delle quali chi governa deve essere guardiano. In breve: per Giuliano l’ideale del filosofo re è talmente alto da essere irrealizzabile per un uomo: solo un essere divino o un demone potrebbero conformarsi a questo compito. Ma questo, tiene a ribadire, non significa certo che egli cerchi rifugio in una vita contemplativa estranea al mondo: «non è mai avvenuto […] che io sia stato visto preferire questo alle fatiche» (Ad Them. 259 b).
È però soprattutto nella cruciale sezione dedicata ad Aristotele che emerge la «rispettosa animosità» tipica della Lettera. Traspare qui la competizione rispetto a Temistio. Giuliano sembra far uso dell’arma della dissimulazione. Se egli trascriverà dei passi di Aristotele a suo sostegno, non lo farà per portare «nottole agli Ateniesi», ma per dimostrare a Temistio che non trascura assolutamente gli scritti quel filosofo (Ad Them. 260 c–d). In realtà, proprio richiamandosi ad Aristotele Giuliano contesta due tesi centrali di Temistio: la concezione della regalità e l’unione tra filosofia e attività politica. Fondandosi su Pol. III, 16, 1286 b (22)-1287 a (29) Giuliano si oppone all’idea che la monarchia dinastica sia la forma migliore di governo, sostenendo, ancora una volta, che il monarca sia servo e custode delle leggi. Inoltre, Giuliano contesta la lettura di Pol. VII, 3, 1325 b (21)-(22) offerta da Temistio nella sua precedente missiva, rivendicando anche nell’interpretazione di quel passo il primato della vita contemplativa sulla vita attiva. Gli «architetti delle nobili azioni» menzionati da Aristotele non sono infatti i re, come proposto da Temistio, ma i legislatori e i filosofi politici, ossia «coloro che agiscono con l’intelletto e con la parola» non «quanti operano autonomamente e compiono azioni politiche» (Ad Them. 263 d).
Infine, è l’esempio di Socrate a essere ricordato in un senso diametralmente opposto rispetto a Temistio. Se per l’oratore Socrate incarna l’unione di filosofia e impegno politico, per Giuliano la grandezza di Socrate risiede tutta nella filosofia contemplativa. È questo che ha permesso a Socrate di sopravanzare Alessandro, le cui imprese, secondo Giuliano, non hanno condotto nessuno a diventare più saggio:
Al contrario, quanti oggi si salvano grazie alla filosofia, si salvano attraverso Socrate. E non sono il solo a pensar questo: anche Aristotele, prima di me, sembra averlo pensato, quando dice che del suo trattato teologico (ἐπὶ τῇ θεολογικῇ συγγραφῇ)[13] gli conveniva esser fiero non meno di chi distrusse la potenza persiana (Ad Them. 264 d–265 a).
Con questo nuovo richiamo ad Aristotele, si chiude la discussione delle autorità filosofiche nella Lettera. Il bilancio può essere riassunto come segue. Come Temistio, Giuliano respinge il “Vivi nascosto” di Epicuro e rivendica il proprio impegno pratico. Il suo non è affatto un elogio della vita contemplativa al riparo dall’azione. Né Temistio né Giuliano ritengono che filosofia e impegno politico vadano separati: per tutti e due, la filosofia deve incarnarsi in una vita filosofica attiva nel mondo[14].
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Mentre, però, Temistio proclama l’unione di filosofia e impegno pratico, Giuliano difende la priorità della prima a scapito del secondo. Mentre Temistio concepisce la regalità come un’immagine del governo divino del mondo, ritenendo il monarca superiore al vincolo delle leggi, Giuliano differenzia nettamente la condizione umana rispetto a quella divina, facendo propria la tesi che il monarca sia guardiano delle leggi. Certamente la Letteraa Temistio appare, a una prima lettura, come un elogio della speculazione filosofica. Tuttavia, a ben guardare la situazione è più complessa. Per Giuliano la concezione della filosofia difesa da Temistio è troppo “mondana” e, di conseguenza, di rango inferiore rispetto all’autentica speculazione filosofica. Da qui l’enfatico richiamo ad Aristotele, che avrebbe giudicato il valore del suo trattato di teologia non inferiore alla vittoria nelle guerre persiane. Scopo di Giuliano, però, non è rimuovere l’azione pratica dalla filosofia, ma, se mai, regolare l’azione a partire da una corretta visione della filosofia, che non l’abbassi alla posizione di un’attività umana soggetta ai limiti del mondo sensibile e governato dalla fortuna. Vi è certamente una differenza di tono tra la Lettera gli scritti successivi in cui Giuliano appare sempre più cosciente di essere un filosofo e monarca scelto dagli dèi (si veda, in particolare il celebre mito autobiografico in Ad Heraclium cynicum 227 c–234 c). Il suo scarto rispetto a Eracle e Dioniso, chiaramente enunciato in apertura della Lettera, tende ad annullarsi. Egli continua a distinguere la sua condizione da quella del vero filosofo, ma la separazione è meno marcata che nella Lettera a Temistio. Tuttavia, questa innegabile differenza di tono non deve indurre a porre un’inconciliabile contraddizione tra queste opere. Si può affermare che la Lettera a Temistio è la pars destruens di un discorso positivamente elaborato nelle orazioni successive.
Nella Lettera, Giuliano si preoccupa di criticare una concezione falsa della filosofia (o per meglio dire della vita filosofica), che ne misconosce l’autentico rango e finisce per abbassare la filosofia al governo delle contingenze umane, senza riguardo per la sua vera natura divina. Nelle orazioni successive (in particolare i discorsi teologici Alla Madre degli dèi e A Helios re), Giuliano presenta l’autentica concezione della filosofia ed elabora, a partire da essa, la propria visione teologica e politica, secondo la quale l’οἰκουμένη romana è stata creata nella sua universalità dalla provvidenza divina[15].
Il carattere della filosofia
Nell’Orazione funebre per il padre (Eugenio, anch’egli un filosofo, nel descrivere il quale Temistio illustra in realtà la propria posizione intellettuale)[16], Temistio descrive così il suo atteggiamento verso la filosofia:
Il volto dunque e l’aspetto intero di Aristotele erano presenti ai misteri, ma tutti insieme si aprivano i santuari dei sapienti ed egli ne contemplava le dottrine, quelle che Pitagora di Samo portò nell’Ellade dall’Egitto e poi quelle di Zenone di Cizio nel Portico. Egli infatti era sempre pronto a dimostrare che i riti del grande Platone si celebrano poco lontano, anzi nel recinto del medesimo tempio, e non cambiava i paramenti sacerdotali passando dal Liceo all’Accademia, anzi più volte, dopo aver cominciato la celebrazione sacrificando ad Aristotele, le completava sacrificando a Platone (Or. 20, 235 c).
Da queste linee traspare una visione armonica della tradizione filosofica ellenica (fatte salve le debite eccezioni, in particolare Epicuro che tuttavia non è condannato completamente), nella quale hanno una posizione eminente Platone e Aristotele. Temistio sottolinea il reciproco accordo delle loro dottrine. Il linguaggio dei misteri è usato, ma in un contesto esclusivamente filosofico (niente affatto inusuale e risalente, in ultima analisi, a Platone: cfr. Symp. 210 a–211 b). Pitagora è nominato, ma non ha una posizione privilegiata e non si ha certamente una lettura in senso pitagorico della tradizione filosofica. Nessun cenno è fatto alla teurgia e agli Oracoli caldaici[17].
Può essere interessante mettere in parallelo questi aspetti della posizione di Temistio con la concezione concordistica della filosofia greca difesa da Porfirio e fondata sull’idea che vi sia un’armonia tra le filosofie di Platone e di Aristotele[18]. Anche l’enfasi moderata posta su Pitagora è simile alla posizione porfiriana (in Porfirio non si ha una lettura in senso pitagorizzante dell’intera filosofia greca simile a quella poi sviluppata da Giamblico)[19]. Infine, può messa in parallelo con il platonismo di Plotino e Porfirio l’assenza di riferimenti, sopra richiamata, agli Oracoli caldaici e alla teurgia. Sebbene la questione sia complessa e le valutazioni degli specialisti non siano unanimi, Porfirio accordava un ruolo tutto sommato marginale agli Oracoli, non li metteva affatto al centro del proprio progetto filosofico e teologico, e manteneva rispetto alle pratiche teurgiche un atteggiamento di relativo distacco, accordando invece un chiaro privilegio a un tipo di purificazione intellettuale[20].
Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.
Il parallelo tra Temistio e Porfirio va considerato con molta prudenza, poiché manca uno studio approfondito che metta in parallelo le Parafrasi temistiane con ciò che possiamo ricostruire dell’esegesi aristotelica di Porfirio. È dunque opportuno sospendere il giudizio, anche se i paralleli prima richiamati rimangono piuttosto interessanti. Maggiore sicurezza, invece, si può avere sull’atteggiamento ostile di Temistio verso Giamblico e i suoi seguaci. In effetti, nelle sue parafrasi di Aristotele, Temistio si attiene a un metodo esegetico sobrio, attento all’esegesi del testo aristotelico e fondato principalmente sui commenti peripatetici (in particolare Alessandro di Afrodisia)[21]. Ciò ha portato alcuni interpreti a supporre che Temistio sia l’ultimo filosofo peripatetico antico e che le sue tesi siano inassimilabili al platonismo[22]. È un’interpretazione poco persuasiva: come si è appena osservato, l’ideale difeso da Temistio si fonda, se mai, sull’armonia tra le dottrine di Aristotele e di Platone.
Certamente, però, Temistio è ben lontano dal platonismo di Giamblico e dal suo metodo esegetico. In questa prospettiva, acquista notevole importanza la testimonianza di Boezio, secondo cui Temistio riteneva inautentico il trattato di Archita sulle categorie (cfr. Boezio, In Cat., PL64, 162 a), a cui Giamblico aveva invece accordato una posizione centrale nell’interpretazione di Aristotele rivendicando l’origine pitagorica della dottrina (cfr. Simplicio, In Cat., 2, 15-25). Più che un improbabile scrupolo ‘filologico’[23], la tesi di Temistio appare come una vera e propria critica dell’esegesi pitagorizzante di Giamblico, che era probabilmente sviluppata dai filosofi vicini a Giuliano (in particolare Prisco come vedremo tra poco)[24]. Ancora una volta, è interessante osservare che l’esegesi aristotelica di Temistio è invece più simile a quella di Porfirio, il quale (per quanto possiamo ricostruire) si attenne sostanzialmente al metodo dei commentatori peripatetici introducendo solo dei riferimenti molto discreti al platonismo[25].
Ben diversa è la posizione di Giuliano rispetto alla filosofia del suo tempo. In un passo del discorso Alla Madre degli dèi, egli – prendendo le distanze dal peripatetico Senarco – descrive precisamente il suo atteggiamento rispetto alle autorità filosofiche:
Lasciamo pure ai Peripatetici più consumati di stabilire con sottigliezza se quanto dice [Senarco] sia giusto o no; tuttavia è chiaro a chiunque che le sua idee non mi stanno bene, poiché io ritengo che le teorie dello stesso Aristotele siano incomplete, se non si integrano con quelle di Platone (εἰς ταὐτὸ τοῖς Πλάτωνος ἀγοί) e, ancora di più, con gli oracoli resi dagli dèi (Ad Matrem deorum 162 c-d)[26].
È, riassunto in poche parole, il programma filosofico e religioso di Giamblico. Lo studio di Aristotele non è affatto escluso, ma è subordinato a quello di Platone ed entrambi devono essere integrati da una rivelazione di tipo sopra-razionale, ossia «gli oracoli resi dagli dèi»[27]. La differenza rispetto a Temistio è evidente ed è confermata dalla loro diversa concezione dei destinatari dell’insegnamento filosofico. Per Temistio, tutti possono godere dei benefici della filosofia a prescindere dalla rispettiva formazione e dalla provenienza sociale (cfr. Or. 20, 240 b; Or. 22, 265ad; Or. 26, 313d, 324b-325a; Or. 28, 341 d); viceversa Giuliano, seguendo la linea pitagorico-giamblichea, insiste sul carattere rigidamente esoterico delle dottrine filosofiche più elevate, che non sono accessibili al volgo (cfr. Ad Heraclium cynicum 221 c–d; Ad Matrem deorum 172d). Sarebbe però affrettato opporre in modo rigido Giuliano e Temistio. In realtà, gran parte del loro programma filosofico è identico ed è fondato sulla lettura e il commento dei testi normativi della παιδεία ellenica, in particolare, Platone e Aristotele, nella convinzione che le loro tesi principali siano in reciproco accordo. La differenza sta nel modo in cui questa lettura è condotta. Mentre in Temistio l’esegesi filosofica è il vertice della παιδεία e non rinvia a una rivelazione superiore, in Giuliano è netta la subordinazione alla rivelazione ricevuta attraverso gli oracoli. Solo la teurgia permette all’anima di purificarsi e rendersi simile a dio: i «misteri» della filosofia celebrati dal padre di Temistio, se non sono completati da una rivelazione superiore, rimangono insufficienti[28].
Medaglione con la scritta «omnia tibi [f]elicia». Mosaico, IV sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunisi, Musée National du Bardo.Un documento interessante è, a questo proposito, la Lettera 12 Bidez indirizzata da Giuliano a Prisco (discepolo di Edesio – a sua volta discepolo di Giamblico – maestro di Giuliano ad Atene e influente membro della sua cerchia). La datazione è dibattuta, ma Richard Goulet ha proposto con buoni argomenti che vada collocata dopo il pronunciamento di Parigi nel 360[29]. Giuliano invita Prisco a raggiungerlo e, nel farlo, lo prega di cercargli una copia di «tutte le opere di Giamblico sul mio omonimo», ossia, con ogni probabilità, il commento di Giamblico agli Oracoli caldaici, del quale il genero della sorella di Prisco possiede una copia corretta[30].
Gli specialisti si sono soffermati su queste linee, ponendo in luce il legame di Giuliano rispetto a Giamblico e la sua dipendenza dal platonismo teurgico. L’atteggiamento di Giuliano è confermato dalla sua affermazione per cui proprio mentre sta scrivendo gli si è manifestato anche un «segno meraviglioso». Poco dopo, infine, Giuliano afferma di essere un ammiratore fanatico di Giamblico in filosofia e «del mio omonimo [ossia Giuliano il teurgo] in teosofia».
La lettera, però, non fornisce solo queste indicazioni e non è soltanto una appassionata dichiarazione di entusiasmo per il platonismo teurgico. Giuliano offre importanti informazioni sul dibattito nelle scuole neoplatoniche posteriori a Giamblico. Egli invita, infatti, Prisco a non seguire i seguaci di Teodoro, i quali affermavano che Giamblico era un ambizioso. Sappiamo, in effetti, che Teodoro di Asine, pur essendo probabilmente allievo di Giamblico, si distaccò nettamente dalle posizioni del proprio maestro tornando al platonismo intellettualistico di matrice plotiniana e porfiriana.
Evidentemente, Teodoro non era rimasto affatto isolato nel suo atteggiamento, se Giuliano si preoccupa così tanto della possibile influenza dei suoi discepoli (probabilmente attivi ad Atene) su Prisco[31].
A questa importante indicazione sulla prima posterità di Giamblico, sulla quale torneremo tra poco, se ne aggiunge un’altra. La lettera si chiude con un elogio delle «sillogi» (συναγωγαί) di Aristotele apprestate da Prisco. Ancora una volta, Giuliano associa l’elogio di un platonico (Prisco, come prima aveva celebrato Giamblico) alla presa di distanza rispetto a un suo concorrente: se prima era Teodoro di Asine, ora è il caso di Porfirio, sui cui lavori aristotelici Giuliano si esprime in modo apertamente critico:
Lo scrittore di Tiro ha saputo inserire solo pochi elementi di logica in numerosi libri, tu, invece, con un solo libro, hai fatto forse di me un baccante nella filosofia aristotelica, e non un semplice nartecoforo[32].
Giamblico e Prisco sono dunque entrambi esponenti di una filosofia ispirata e veramente divina rispetto a cui Giuliano proclama il suo entusiasmo. Dall’altra parte stanno Teodoro di Asine e Porfirio, esponenti di un platonismo al quale egli guarda con diffidenza[33]. Gli studiosi dibattono sull’effettiva conoscenza delle opere aristoteliche posseduta da Giuliano[34]. Certamente non si può provare che Giuliano le avesse lette estesamente (ma neppure che non le conoscesse affatto) ed è possibile che egli si fondasse in gran parte su sintesi o compendi come quelli di Prisco. D’altra parte, i riferimenti ad Aristotele sono piuttosto numerosi nelle sue opere. Si è visto che nella Lettera a Temistio Giuliano critica il suo interlocutore e antico maestro per aver male interpretato passi della Politica. Inoltre, una tradizione ben attestata informa che Giuliano si interessò a questioni di logica aristotelica intervenendo in una controversia sulla dottrina del sillogismo[35].
In tutto questo non c’è a ben guardare niente di sorprendente. Giamblico e la sua scuola non rinnegarono minimamente gli aspetti tecnici e scolastici della formazione filosofica: essi si proposero invece di integrarli in un contesto più ampio, pitagorico in filosofia e coronato dalla rivelazione degli Oracoli. Quando, d’altronde, Temistio delinea il ritratto caricaturale del filosofo impostore e vanaglorioso, al quale egli si contrappone e in cui alcuni hanno riconosciuto Massimo di Efeso, egli ne mette in luce proprio l’ostentazione della tecnica filosofica (Or. 21, 247 c)[36].
Certamente questi autori non erano filosofi professionali e accademici e sicuramente lo studio della filosofia, anche nei suoi aspetti più astratti e tecnici, era indissociabile dallo sforzo di purificazione. Tuttavia, non si trattava neanche di «guru» e non ha alcun senso ridurre la loro posizione filosofica a una specie di ideologia identitaria o «religione del libro»[37]. Figure carismatiche e «pagan holy men»[38] potevano disporre di un’ottima e tecnica preparazione filosofica: i due aspetti sono inscindibili ed è del tutto fuorviante privilegiare l’uno a scapito dell’altro[39].
L’Accademia di Platone. Mosaico, I sec. a.C., dalla Casa di T. Siminio Stefano a Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Giuliano prosegue, a suo modo, anche questo punto del loro programma filosofico. Non è dunque corretto opporre rigidamente una corrente ispirata e religiosa del neoplatonismo a una corrente “analitica”, scolastica e incline ai tecnicismi filosofici. La differenza di Giamblico e dei suoi seguaci rispetto a Porfirio e ai suoi seguaci non sta nel fatto di leggere e interpretare Aristotele, confrontandosi con aspetti tecnici del suo pensiero, ma nella maniera di leggere Aristotele. Per Porfirio, l’esegesi rimane confinata al pensiero aristotelico (del quale si sostiene comunque la compatibilità rispetto alla filosofia di Platone), i punti dottrinali tipicamente platonici sono introdotti, ma in modo per lo più discreto e riservando l’approfondimento di essi a una fase successiva del curriculum. Il riferimento alla filosofia di Pitagora non ha un ruolo privilegiato. La situazione è del tutto diversa in Giamblico, come possiamo evincere soprattutto dalle testimonianze sul suo commento perduto alle Categorie conservate in Simplicio. Come attesta Simplicio, Giamblico, pur seguendo spesso Porfirio alla lettera, si distingueva da lui per l’esegesi pitagorizzante (riteneva infatti che il trattato pitagorico sulle Categorie attribuito ad Archita fosse stata la fonte a cui si era ispirato Aristotele) e per l’introduzione di una «dottrina intellettuale» (νοερά θεωρία), ossia di una dottrina che faceva riferimento agli intelligibili (cfr. Simplicio, In Cat., 2, 13-14)[40]. Forse Prisco aveva composto le sue sillogi seguendo lo stesso metodo di Giamblico: da qui l’apprezzamento di Giuliano.
Si ritiene talora che Giamblico abbia segnato una svolta irreversibile nel platonismo tardoantico e che il suo platonismo teurgico sia sta accettato ben presto nei circoli filosofici pagani diventando una specie di ortodossia[41]. Le Lettere di Giuliano e le Orazioni di Temistio dimostrano che ciò non è vero. Per quanto possiamo riscostruire, le resistenze non mancarono tra gli stessi seguaci di Giamblico, se è vero che Teodoro ritornò a posizioni plotiniane e Dessippo, la cui opera sulle Categorie di Aristotele è parzialmente conservata, passò quasi del tutto sotto silenzio l’interpretazione pitagorica del proprio maestro[42]. Come si è osservato sopra, Temistio reagisce a sua volta con scarsissimo entusiasmo alla svolta di Giamblico. D’altra parte, lo stesso rapporto di Giuliano rispetto a Giamblico è tutt’altro che semplice da definire. Certamente, Giuliano subisce profondamente l’influenza del programma filosofico e religioso giamblicheo, ma sarebbe affrettato ritenere che la restaurazione pagana di Giuliano sia una diretta applicazione del platonismo teurgico di Giamblico. La realtà è molto più complessa e sfaccettata e, se mai, si deve proprio a Giuliano (è il tratto principale della sua originalità filosofica) l’aver costruito una versione politica della teurgia, tanto da configurarla come una sorta di «religione di stato»[43]. È solo con Giuliano che la teurgia di Giamblico si innesta in una vera e propria teologia politica. Gli aspetti più complessi delle elaborazioni metafisiche sono abbandonati, mentre si dà pieno risalto a una dimensione politica che invano si cercherebbe, almeno in queste proporzioni, nel pensiero dei maestri neoplatonici[44].
Conclusione
Il dibattito sulla figura del filosofo nella Lettera a Temistio può acquistare un senso più ricco e storicamente fondato se valutato in questa prospettiva. Come si è già osservato, le professioni di modestia di Giuliano vanno considerate con prudenza. Certamente egli afferma di non avere una completa formazione filosofica, ma ciò non gli impedisce di contestare l’esegesi aristotelica di Temistio, suo antico maestro. È altrettanto indubbio che Giuliano separi nettamente la propria condizione rispetto a quella del re filosofo, e si dichiari incapace di accogliere su di sé un carico tanto pesante. Tuttavia, anche queste parole vanno accolte con cautela. Senza disconoscerne la sincerità, si è però giustamente notato che Giuliano fa proprio un preciso schema argomentativo di origine platonica (Platone, Resp. VI, 489 c), secondo il quale coloro meglio dotati per governare non lo fanno spontaneamente, ma devono essere convinti e persuasi ad accettare il loro incarico[45].
Meno si è qualificati a governare, tanto più si è disposti a prendere il potere. Considerate in questa prospettiva, le professioni di modestia filosofica di Giuliano appaiono, in realtà, rivendicazioni di una reale competenza fondata su una filosofia divina e ispirata (ma non per questo meno precisa e rigorosa), che egli riteneva superiore a quella dei suoi avversari (Porfirio, Teodoro, Temistio). Parimenti, la sua concezione modesta della sovranità è in realtà la rivendicazione di una regalità ben superiore rispetto a quella teorizzata da Temistio, perché fondata su una concezione divina del governo della quale Giuliano si riteneva portatore. Nel suo insieme, il dibattito tra Giuliano e Temistio esprime la ricchezza e complessità di temi proprio del pensiero tardoantico, che non si lascia formulare correttamente attraverso rigide e semplicistiche dicotomie (vita teoretica vs vita pratica; ispirazione religiosa vs tecnicismo filosofico). Proprio in questo fatto risiede il suo interesse[46].
[3] Delle orazioni di Temistio, si cita la traduzione in Temistio, Discorsi, a cura di Maisano R., Torino 1995. Sulla sua concezione politica e la differenza rispetto al neoplatonismo, cfr. Cfr. O’Meara D.J., op. cit., pp. 206-208.
[4] Questa concezione si trova pienamente esplicitata nell’Or. 5 per il consolato dell’imperatore Gioviano: «Vuoi sapere qual è il contributo che può venire dalla filosofia? Essa può dirti che “il principe è legge vivente”, legge divina scesa dall’alto nel nostro tempo, emanazione della natura divina che si è appressata alla terra, che si rivolge costantemente al bene ed è pronta a imitarlo […] (Or. 5, 64 b). I luoghi temistiani in cui viene formulata sono numerosi: cfr. Or. 1, 4b-6b, 8a-c; Or. 10, 132b-c; Or. 11, 146c-147b. Lo studio di riferimento è Downey G., Philanthropia in Religion and Statecraft in the Fourth Century after Christ, Historia 4 (1955), pp. 199-208.
[5] Cfr. Elm S., op. cit., p. 105 e, sul paragone tra Giuliano ed Eracle, Pagliara A., op. cit., pp. 38-41.
[8] Su questo punto mi limito a rinviare a Cracco Ruggini L., Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo (Roma, Atene, Costantinopoli; Numa, Empedocle, Cristo), in Studi storici in onore di O. Bertolini, vol. 1, Pisa 1972, pp. 177-300, in part. pp. 224-234.
[13] L’identificazione di questo scritto è problematica. È possibile che si trattasse di una raccolta di sezioni di argomento teologico tratte da opere aristoteliche: cfr. Micalella D., La Politica di Aristotele in Giuliano imperatore, in Ricerche di Filologia Classica, III: Interpretazioni antiche e moderne di testi greci, Pisa 1987, pp. 67-81.
[14] Su questo punto rinvio ancora una volta all’analisi illuminante di Elm S., op. cit., p. 105.
[15] Rinvio ancora a Elm S., op. cit., pp. 286-321.
[17] Gli Oracoli caldaici consistevano probabilmente in una silloge di responsi oracolari in esametri (ora perduti e trasmessi parzialmente solo attraverso fonti posteriori). La loro composizione è usualmente fatta risalire al ii secolo d.C. ed è associata alle due enigmatiche figure di Giuliano il Caldeo e Giuliano il Teurgo. Gli Oracoli, ispirati al Timeo di Platone e influenzati dalla teologia medioplatonica, assunsero una posizione assolutamente centrale nel neoplatonismo a partire da Giamblico, diventando il fondamento della “rivelazione” religiosa neoplatonica in accordo alla quale l’ascesa dell’uomo al divino non può essere conseguita mediante il solo intelletto, ma richiede l’adozione di precise pratiche rituali (Franz Cumont arrivò a definirli come la «Bibbia dei Neoplatonici»). La letteratura sull’argomento è vastissima e non è questa la sede per fornirne un resoconto. Un’aggiornata ed equilibrata discussione può trovarsi in Tanaseanu Döbler I., Theurgy in Late Antiquity: The Invention of a Ritual Tradition, Göttingen 2013.
[18] Tra i molti contributi dedicati a questo tema, mi limito a segnalare Karamanolis G., Plato and Aristotle in Agreement? Platonists on Aristotle from Antiochus to Porphyry, Oxford 2006, pp. 243-330.
[20] A mia conoscenza, manca a tutt’oggi uno studio dettagliato sul rapporto Temistio-Porfirio. Alcune osservazioni si trovano in Vanderspoel J., op. cit., p. 26. Tuttavia, l’analisi di Vanderspoel muove dall’assunto, ora superato, che Temistio riprenda argomenti anticristiani di Porfirio nell’Or. 5. Per una critica di questa interpretazione, avanzata a suo tempo da Dagron, cfr. Cracco Ruggini L., op. cit., p. 221 ss. Cfr. anche Heather P. – Moncur D. (dir.), op. cit., p. 170 n. 109.
[23] Simile a quello che, ad esempio, conduce un philologos (ossia un letterato) a giudicare come inautentica un’opera falsamente attribuita a Galeno e messa in vendita in una libreria nel Sandalario, in base allo stile e all’intestazione: l’aneddoto è riportato in Galeno, De libris suis, XIX, 8-9 Kühn.
[24] Non sarebbe affatto un caso isolato perché allusioni polemiche al platonismo giamblicheo sono ben riconoscibili nelle Orazioni di Temistio: si vd. supra, n. 20.
[28] L’atteggiamento di Giuliano rispetto alla teurgia è comunque complesso e non può senz’altro essere assimilato a quello di Giamblico: cfr. Tanaseanu Döbler I., op. cit., pp. 144-148.
[30] L’identificazione di questo oscuro personaggio è molto difficile. Con argomenti interessanti, Goulet R., op. cit., suggerisce che si tratti di Giamblico II (da non confondere con il più famoso Giamblico di Calcide), nipote di Sopatro di Apamea e, a sua volta, filosofo neoplatonico, al quale si deve probabilmente l’introduzione ad Atene del platonismo di Giamblico.
[31] Un’ottima presentazione sintetica di questo intricato dossier si trova in Goulet R., op. cit., pp. 42-43.
[32] Sul testo di queste linee, cfr. Goulet R., s.v. Priscus de Thesprotie, p. 1531.
[33] È significativo che anche nel discorso Alla Madre degli dèi Giuliano sembri guardare con una certa distanza all’esegesi porfiriana del mito di Attis, che egli dichiara di non aver letto: cfr. Ad Matrem deorum 161 c.
[34] Scetticismo (forse eccessivo) in proposito è espresso da Bouffartigue J., op. cit., pp. 197-214.
[35] Riferimenti in Goulet R., op. cit., p. 44 n. 73. La notizia è riportata da Ammonio, in An. Pr., 31, 11-23 e dallo scritto di Temistio In risposta a Massimo sulla riduzione dei sillogismi di seconda e terza figura a quelli di prima, conservato in arabo ed edito (ancorché in modo insoddisfacente) in Badawi ʽA., La transmission de la philosophie grecque au monde arabe, Paris 19872.
[36] Sappiamo da Simplicio che Massimo fu autore di un commento alle Categorie: cfr. Simpl., in Cat., 1, 15.
[37] È la tesi avanzata in Athanassiadi P., op. cit.
[39] Mi riferisco, in particolare, ad Athanassiadi P., op. cit. Le ripetute svalutazioni della «tecnica» filosofica (cfr. pp. 126, 206-207, etc.) e l’enfatica affermazione (riferita a Giamblico e Damascio) per cui «le fondement de la philosophie est la religion» (p. 189), caratterizzano la lettura sostanzialmente a-filosofica del platonismo tardoantico offerta nel suo libro.
[41] Tesi sostenuta, ancora una volta, in Athanassiadi P., op. cit. (cfr. p. es. p. 172: «sa [scil. di Giamblico] méthode d’enseignement, ses règles et son interprétation furent religieusement observées pendant plusieurs siècles: le carcan de Jamblique dispensait de l’obligation de penser par soi-même»). Va detto, però, che la valutazione di Giamblico negli studi recenti è decisamente più articolata e si tende a mettere sempre maggiormente in luce la portata filosofica e argomentativa delle sue concezioni. Si vedano, ad esempio, gli studi raccolti in Iamblichus and the Foundations of Late Platonism, Afonasin E. – Dillon J. – Finamore J. (dir.), Leiden 2012.
[43] Così De Vita M.C., op. cit., pp. 247-252; si veda, nel medesimo senso, Tanaseanu Döbler I., op. cit., pp. 136-148. Sul rapporto tra platonismo e pensiero politico in Giuliano, cfr. il fondamentale studio di Elm S., op. cit. più volte richiamato. L’importanza del condizionamento cristiano in Giuliano è stata recentemente ben illustrata da De Vita M.C., op. cit., secondo la quale il progetto di restaurazione pagana può essere compreso sotto certi aspetti come un tentativo di emulazione della religione combattuta. Nel programma teurgico di Giuliano sarebbe così percepibile la «volontà di riorganizzare la liturgia pagana sul modello di questa cristiana» (p. 241).
[44] Ciò non vuol dire affatto che manchino importanti spunti di filosofia politica nelle loro opere. Particolare rilievo hanno, a questo proposito, alcune Lettere di Giamblico conservate nell’Antologia di Giovanni Stobeo (cfr. Taormina D.P. – Piccione R.M., Giamblico. I frammenti delle Epistole, Introduzione, testo, traduzione e commento, Napoli 2010) sulle quali ha da tempo, e opportunamente, attirato l’attenzione O’Meara D.J., op. cit., pp. 99-100 e passim. Per una presentazione sintetica, cfr. Chiaradonna R., op. cit., pp. 746-748.
[45] Seguo l’analisi illuminante di Elm S., op. cit, p. 74: «The greater the reluctance to accept public office, the higher the leadership potential […] Julian’s declaration to his friends and confidants of his desire for the philosophical life thus complemented rather than contradicted his activities as Caesar and military commander»; si vd. anche ibid., pp. 160-161.
[46] Desidero ringraziare Maria Carmen De Vita ed Elisa Coda, che hanno letto una prima versione di questo studio, per i loro suggerimenti. Sono, naturalmente, il solo responsabile di eventuali errori.
Dice Voltaire che di Giuliano filosofo la miglior parte è nelle lettere scritte ai capi dell’organizzazione religiosa pagana, ispirate a sensi di clemenza e di saggezza, e tali che, pur condannandone gli errori, noi ammireremo sempre la grandiosa figura di questo sventurato imperatore. Le lettere, come è noto, costituiscono, coi frammenti delle leggi da lui promulgate, un documento vivacissimo della sua attività politica, sebbene molte ne siano andate perdute, perché distrutte dagli avversari, e non poche delle conservate siano, purtroppo, mutile. La sua politica religiosa dovremo ricostruirla e studiarla leggendone le lettere, poiché Giuliano non fu soltanto un teorico, ma anche un vero uomo d’azione, e capace di mirabili energie di condottiero e di politico tutte le volte che l’occasione lo richiedesse, o la necessità lo imponesse.
Giuliano. Siliqua, Lugdunum, 360 d.C. Æ 1,83gr. Recto: legenda: Fl(avius) Cl(audius) IulianusP(ater) p(atriae) Aug(ustus). Busto diademato di perle, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato verso destra.
Dalla sua politica è lecito dire che seguì uno sviluppo lineare e coerente; che fu un’accorta politica: voluta e fatta da un uomo il quale non si lasciò mai dominare da altri interessi che quelli superiori delle norme alle quali ubbidiva, o meglio della fede in cui militava. Il suo gioco politico, che parte da una forma di tolleranza e giunge, o minaccia di giungere, alla più stretta e tenace intransigenza, è onesto gioco; non da irrequietezza né da cieco abbandono, ma da sempre vigile coscienza esso è retto e soprattutto dalla volontà di trasformare il vacillante Impero, corrotto e tarato, in un organismo che rispondesse alle esigenze dei tempi. Del Cristianesimo egli riconosce i meriti e capisce l’importanza sociale; però tenta di strappare alle organizzazioni cristiane i mezzi che ne affermano la potenza, per farne mezzi del nuovo Paganesimo, o dell’Ellenismo del quale si elegge pontefice massimo.
Come mai e perché Giuliano sia passato dalla fede cristiana alla pagana c’è ignoto. L’opera sua Contra Galilaeos non ci è giunta che in frammenti, e la ricostruzione tentatane sarà ingegnosa ma non certo sicura. Irrequietezza? È probabile. Ma il fatto solo ch’egli non trovò neppure nel Cristianesimo la legge morale nella quale pacificarsi denunzia in lui un pagano. Nel vecchio Paganesimo, crollante e miserabilmente confuso e diviso, non gli era possibile trovare leggi che potessero reggere i popoli dell’Impero, e dare un volto all’Impero che non aveva più una sua fisionomia; e però egli inventa, si può dire che crei, una nuova religione che non è né cristiana né pagana; e cerca di imporla. Io, dunque, capovolgerei i termini della questione, e direi piuttosto che l’uomo di governo ha fatto nascere in lui il capo della nuova religione, e non già che il religioso ha creato l’uomo politico. Giuliano, nelle lettere, ci presenta il caso singolare di un imperatore che ormai è ribelle alla fede cristiana, e, tuttavia, non è più un pagano: la sua vera fede è nella fusione geniale dei due poteri, del religioso e del politico, che minacciavano di separarsi irreparabilmente e di costituire due Stati l’uno all’altro avverso o l’uno all’altro sottomesso. Le precedenti persecuzioni contro i cristiani avevano denunziato che l’esercito era inficiato dallo spirito indipendente e rivoltoso del Cristianesimo, ma Giuliano è il primo ad accorgersi che tutte le gerarchie dell’Impero sono o minacciano di essere dominate dalle nuove correnti ufficialmente immessevi da Costantino. I documenti pubblicati pochi anni or sono da Idris Bell sulle lotte tra Atanasiani e Melitani in Alessandria d’Egitto dimostrano fino all’evidenza quanto malfermo dovesse essere l’Impero di Costanzo, e come si trovasse alla mercé di movimenti religiosi cristiani che lo costringevano a fare della politica uno strumento della nuova religione. Era dunque naturale che un imperatore il quale non era né ortodosso né cristiano, ma dalla fede cristiana era ritornato alla morta fede pagana, dovesse trovarsi innanzi alla necessità di un programma politico nuovo e gigantesco: dare allo Stato una religione, e combattere le organizzazioni cristiane. In una parola, riformare, o meglio rivoluzionare lo Stato e creare un nuovo Stato.
Che Giuliano odiasse il Cristianesimo è certo. La sua opera Contra Galilaeos tendeva a dimostrare che neppure i cristiani erano capaci di dare al mondo una legge morale. L’Apostata si compiace di considerare ironicamente aspetti della vita vissuta dei cristiani, coglierne le contraddizioni con le norme evangeliche, sorride della loro frenesia di martirio. Giuliano, ad esempio, si accorge che dare nuovi martiri al Cristianesimo che già tanti ne aveva, è un pericolo, e cerca, quando lo può, di evitare persecuzioni sanguinose, nello stesso modo che s’adopera affannosamente a strappar loro quelle istituzioni filantropiche che ne possono rendere sempre più efficaci fra il popolo la predicazione. I cristiani avevano ospizi, organizzazioni culturali, scuole, ecc.: Giuliano creerà ospizi pagani, organizzazioni culturali pagane, e avocherà allo Stato il diritto di nominare professori. Egli non soltanto toglie ai cristiani le concessioni ottenute con Costantino, ma li isola dallo Stato senza altre persecuzioni che questa – se persecuzione può dirsi – derivante dalla proclamazione dello Stato ad arbitro inappellabile di scegliersi funzionari, di dare alle scuole insegnanti e all’esercito soldati che non riconoscano nessun’altra autorità umana o divina superiore allo Stato. Stato totalitario.
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Barberini Lat. 2154, Chronographia (VII-VIII sec. d.C.). Miniatura relativa all’anno 354, raffigurante Costanzo II.
Ma l’odio suo per il Cristianesimo non è soltanto un odio letterario o filosofico, non deriva soltanto da un atteggiamento spirituale del tutto diverso. In Giuliano, nella vita sua, c’erano altri elementi che valevano a giustificare l’odio dell’imperatore. Il padre, il fratello Gallo e altri parenti suoi erano stati uccisi dalla corte di Costanzo, dove dominavano i cristiani ariani: lui stesso, Giuliano, era stato segregato dal mondo e costretto alla solitudine nel Fundus Macelli nei pressi di Cesarea di Cappadocia. Ragioni politiche, che non siamo in grado di controllare, ne lo richiamarono, e gli ottennero il governo delle Gallie come Caesar, vale a dire come «vice-imperatore». E nelle Gallie Giuliano si rivelò ottimo condottiero così da destare gelosie nella corte di Costantinopoli e indurre Costanzo a privarlo del prefetto del pretorio, il valoroso Sallustio. Giuliano era sempre in relazione con membri della corte di Costantinopoli rimastigli fedeli. In una lettera ad Oribasio, che fu poi suo medico, egli racconta un sogno che gli sembra foriero di grandi novità: ha sognato di un albero grande accanto al quale, dalle stesse radici, nasce un arbusto che a poco a poco s’irrobustisce e si leva su dritto, mentre l’altro, quello grande, si piega a terra. Giuliano teme per l’arbusto che non soccomba anch’esso con la rovina del grande albero, ma un amico gli dice di non aver paura ch’esso verrà su forte perché buone sono le radici, e ben ferme e fresche nella terra. Quando Giuliano scrive quella lettera, nel 358, Sallustio è già stato richiamato, e anche di Sallustio infatti egli scrive ad Oribasio, dolente di non averlo più seco nel campo.
Allora, egli meditava già, e sognava, nuovi tempi, l’Impero nelle sue mani, la rivolta. Egli era un letterato, conosceva bene i classici. Conosceva certo anche Sofocle, e di Sofocle avrà, senza dubbio, letto anche l’Elettra. Nell’Elettra, quando Crisotemi reca alla tomba di Agamennone le offerte sacrificali di Clitemnestra ed Elettra le domanda come mai l’omicida osi far sacrifici sulla tomba dell’assassinato, la dolce creatura narra di un sogno che Clitemnestra ha avuto la notte prima: Agamennone, nella terrificante visione, avrebbe afferrato il suo antico scettro, usurpato dall’adultero Egisto, e lo avrebbe infisso nella terra, donde subito nacque un germoglio, rigoglioso che in poco si fece grande così da coprire con la sua ombra l’intera Micene (417 sgg.). Nella mente di Giuliano era presente il sogno di Clitemnestra. La tragedia degli Atridi è un po’ simile alla tragedia della casa dei Costantinidi, e in Giuliano, anche se le vicende politiche gli hanno suggerito di operare altrimenti, viva doveva essere la volontà di vendicare gli assassinii compiuti dalla corte di Costanzo.
Giunge, invece, due anni più tardi il giorno della rivolta dei soldati che lo proclamano imperatore; e si rinnovano per lui, ancora titubante ed amletico, i dubbi di Germanico. Per lealismo il cavalleresco Germanico aveva rifiutato di battersi contro Tiberio; Giuliano si sente invece chiamato alla grande prova da tutto un tragico passato, dall’uomo di lettere e dal filosofo che vivono in lui accanto all’uomo d’armi, da un ardore mistico che lo trascina a volere potentemente la riforma dello Stato.
Testa di Costanzo II. Marmo, IV secolo d.C. dalla Siria. University of Pennsylvania’s Museum of Archaeology.
A Niš, nell’odierna Serbia, sulla via di Costantinopoli, il novembre del 361 gli giunse improvvisa la notizia della morte di Costanzo:
«Inter quae tam suspensa advenere subito missi ad eum legati Theolaphus atque Aligildus, defunctum Constantium nuntiantes addentesque quod eum voce suprema successorem suae fecerit potestatis» (Amm., XXII 2, 1).
Proclamato imperatore nelle Gallie, dal luglio al novembre, alla testa di un esercito bene agguerrito era sceso lungo il Danubio senza contrasto, e s’era fatto signore di tutte le terre occidentali fino al cuore dei Balcani, mentre altre truppe guidate da Giovino e Giovio scendevano per l’Italia. Aveva promulgato editti e indirizzato lettere alle autorità delle varie province, a Roma e ad Atene, denunziando le ragion della guerra e accusando Costanzo di intransigenza, scagionandosi dalle possibili gravi conseguenze della lotta fratricida; ma di fatto aveva cercato di venire a trattative con il cugino e di accordarsi con lui su una divisione dell’Impero. Il suo primo programma, nel dubbio del successo, dovette essere di farsi signore dell’Occidente e rafforzarsi in posizioni che, minacciose per l’avversario, avrebbero potuto consigliare l’accordo; donde la sua aperta adulazione al Senato romano e a quello ateniese, ma specialmente al primo, ch’egli promette di riformare e di rendere autorevolissimo distruggendo le innovazioni di Costantino, quod barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas consulares. Abilmente, egli giocava sulle gelosie tra l’Oriente e l’Occidente, più sicuro in questa che non nell’altra parte dell’Impero, dove c’erano una corte che l’odiava, e un esercito in marcia per combatterlo. Ma ecco che Costanzo muore, e la politica di Giuliano si volge verso un altro programma, più vasto e più difficile ad attuare, ma certo più grandioso e suggestivo.
Da Niš si diresse a marce forzate su Costantinopoli. Durante l’avanzata scrive agli amici che lo raggiungano a corte, e lascia già intravedere la volontà di riformare e d’iniziare tutto un lavoro di rivoluzione. I primi giorni di governo li impiega nelle cosiddette assise di Calcedonia e nella proclamazione di tolleranza, due atti che documentano la caduta di Costanzo e della corte di Costanzo e il sorgere improvviso di un imperatore che si era fatto dell’Impero un concetto troppo diverso dal comune. Chi legga i Caesares, l’operetta morale in cui passa in rassegna gli imperatori romani, intende subito a che mirasse il nostro e dove tendesse la mente ansiosa di raggiungere la meta. Egli disprezza apertamente la politica di Costantino ed esalta senza riserve Marco Aurelio, ma errerebbe chi volesse crederlo diverso da Costantino e cieco imitatore di Marco Aurelio del quale egli apprezza soprattutto la mentalità filosofica e quel suo rigoglioso spirito stoico. Né la sua personalità si concretizza in qualche cosa di mezzo tra quei due suoi predecessori. Uomo di governo, concepisce il magistrato come Ammiano Marcellino lo descrive nelle sue storie, dotato di cultura, virtuoso e sobrio, intenditore di poesia e di musica, secondo l’ideale risultante dal contemperamento di tutte le filosofie pagane nella teurgia di Giamblico. La legge è per lui ἔκγονος τῆς δίκης ἱερόν ἀνάθημα καὶ θεῖον ἀληθῶς τοῦ μεγίστου θεοῦ, emanazione diretta del dio; e quindi l’imperatore è artefice infallibile di questa legge, o, se si vuole, l’interpreta inappellabile, appunto perché ὁ δὲ ἀγαθός βασιλεύς, μιμούμενος ἀτεχνῶς τὸν θεόν, οἶδε μέν καὶ ἐκ τῶν πετρῶν ἐσμούς μελιττῶν ἐξιπταμένους, καὶ ἐκ τοῦ δριμυτάτου ξύλον τὸν γλυκύν καρπόν φυόμενον, è depositario, cioè, delle virtù divine e capace di far volare dalle pietre sciame di api e far nascere frutti dal tronco di arido legno. Sono parole di Giuliano, pronunciate nel discorso in onore di Costanzo, pochi giorni prima di iniziare l’attività sua di governo: chi dunque vorrà negare che dal concetto ieratico ch’egli aveva dell’Impero e dell’assoluta prevalenza dell’autorità imperiale e dei supremi diritti dello Stato su qualunque altra autorità o diritto siano nate le decisioni di Calcedonia e l’editto di tolleranza?
Le assise di Calcedonia. Ecco il primo atto ostile ai cristiani. La corte di Costanzo aveva offerto a Giuliano il mezzo migliore per legittimare l’usurpazione e la rivolta annunziandogli ufficialmente che l’imperatore suo cugino, morendo, lo aveva proclamato erede dell’Impero. La notizia era falsa, giacché dallo stesso racconto di Ammiano (XXI 15, 4) risulta che la designazione del nuovo imperatore fu piuttosto abile mossa della corte di Costanzo che non volontà di Costanzo. Si trattava di rimediare alla meglio a una situazione terribile quale era quella della corte imperiale, che, avversa a Giuliano, veniva a trovarsi, per l’improvvisa morte di Costanzo, alla mercé di Giuliano. Urgeva correre ai ripari, ed Eusebio stesso, il comes cubiculi, l’anima, si può dire, del passato governo, sembra aver consigliato di rendere a Giuliano segnalatissimo servizio nella speranza che si potesse così placarne il rancore e la vendetta, o, anzi, la giustizia: incitante, ut ferebatur, Eusebio, quem noxarum conscientia stimulabat.
Missorium di Kerch, con Costanzo II.
Ci fu dunque un tentativo di riavvicinamento fra la corte di Costanzo e Giuliano, ma non sortì buon esito, poiché il giovane imperatore agì con la severità necessaria, e le assise di Calcedonia condannarono a morte i consiglieri di Costanzo, Eusebio per primo. Tanto severamente funzionò quella corte penale, che Ammiano non può tacere l’ingiustizia di certe condanne, ad esempio di Ursulo, comes sacrarum largitionum, pur affermando altrove che una delle virtù di Giuliano, la più spiccata di tutte, era per l’appunto la giustizia. Comunque, le condanne numerose e atroci ridussero al nulla le resistenze e le velleità di una corte, piena di eunuchi, barbieri, cuochi e prostitute, e di tutta una funesta turba di malfattori; in altri termini, della parassitaria casta di cortigiani che da Costantino in poi aveva fatto di Costantinopoli una sentina di vizi.
Orbene, del disordine e della corruzione dominanti nella corte di Costanzo le Chiese erano complici dirette o indirette, o, se non le Chiese, i cristiani, o per lo meno gli Ariani. Costanzo, ambizioso e confusionario qual era, aveva gettato l’Impero nel groviglio delle eresie e convocato in pochi anni tre concili: a Seleucia, a Rimini e a Costantinopoli, provocando persecuzioni, rapine ed esili, ma riuscendo a sollevare le sorti dell’Arianesimo contro il partito ortodosso. Era quindi naturale che lo spettacolo di una corte corrotta e di un Impero diviso dalle discordie religiose dovesse far sorgere nell’animo di Giuliano sentimenti di viva indignazione e la volontà di ripristinare l’ordine e la legge; e però egli sostituisce subito i governatori delle province con uomini a lui fedeli, quasi tutti pagani, o θεοσεβεῖς, come suole chiamarli, nello stesso tempo che promulga l’editto di tolleranza.
Gli storici della Chiesa quando giudicano i motivi di quell’editto cadono in contraddizione. Alcuni lo ritengono emanato allo scopo di accattivarsi tutte le sette cristiane non-ariane, e sono Rufino, Teodoreto e Socrate; altri, come gli ariani Sozomeno e Filostorgio, credono invece che Giuliano mirasse a combattere più facilmente il Cristianesimo quando esso si fosse riunito, o, magari, lasciato libero, si fosse più rumorosamente diviso. Sta di fatto però che Giuliano convocò a Costantinopoli i capi dell’Arianesimo e dell’ortodossia e li invitò a non turbare la quiete dello Stato; esiste, cioè, un irrefragabile documento della sua volontà di proclamare lo Stato estraneo a ogni sorta di confessionalismo. L’editto, del resto, contemplava – secondo la ricostruzione più attendibile che se ne può fare mettendo insieme le notizie forniteci, si badi bene, dai nemici stessi di Giuliano – tre articoli principali: tolleranza per tutti i culti cristiani senza distinzione; restituzione dei beni usurpati dalla Chiesa alle comunità pagane; revoca dei bandi di esilio e delle confische avvenute sotto il regno di Costanzo a danno dei non-ariani e quindi richiamo di molti vescovi cacciati dai loro uffici. Il solo Atanasio di Alessandria doveva rientrare in patria a patto che non ritornasse nel suo vescovado a capo della sua diocesi, e ciò in considerazione delle gravi risse e turbolenze provocate dall’intransigenza di quel vescovo.
Giuliano. Solidus, Sirmium, 361 d.C. Au. 4,41 gr. Recto. Busto barbato, diademato con perle e paludato, voltato a destra, dell’imperatore. Legenda: Fl(avius) Iulianusp(ater) p(atriae) Aug(ustus).
La lettera 46 ad Aetio fondatore della setta degli Anomei, e confidente e maestro del povero suo fratello Gallo, è ben chiara: «Indistintamente – egli scrive – a tutti quelli che furono dalla beata anima di Costanzo banditi per la follia dei Galilei, io ho revocato il bando, ma te non solo richiamo dall’esilio, bensì, memore della nostra antica intima amicizia, prego di venire da me […]». E più tardi, il 1 agosto del 362, nella lettera 114 ai cittadini di Bostra dirà fra l’altro:
«Io credevo che i capi dei Galilei conservassero più gratitudine a me che al mio predecessore nel governo dell’Impero, poiché, mentre, durante quel regno, buon numero di loro furono esiliati, perseguitati e imprigionati, e spesso i cosiddetti “eretici” furono giustiziati in massa, e in Samosata, a Cizico, in Paflagonia, in Bitinia e in molti altri luoghi, contrade intere furono rase al suolo, durante il mio regno, invece, è avvenuto il contrario: i proscritti sono stati liberati, e quelli i cui beni erano stati confiscati ne sono rientrati in pieno possesso per una legge da me promulgata».
Ma, dice Voltaire a proposito di Giuliano, la tolleranza è il più grave rimedio contro il fanatismo. Si capisce, dunque, perché l’editto colpiva i cristiani nel vivo e destava nelle loro file malcontento e confusione. D’altra parte, l’editto conteneva articoli che menomavano l’autorità e l’influenza dei cristiani, e i fatti poi dimostrarono chiaro che tale voleva essere l’intenzione dell’imperatore. Sempre nella lettera 114 ai cittadini di Bostra, Giuliano dice che i cristiani, e specialmente i vescovi, sono giunti a tale eccesso di follia, che, vedendosi impediti di esercitare la loro tirannia e di continuare nelle loro violenze, si accapigliavano tra loro e quindi offendevano le autorità dello Stato. Definisce cioè λυσσομανία e ἀπόνοια la resistenza di quei vescovi che, come Tito nella diocesi di Bostra, osano imputare alle leggi nuove gli eccidi e le sommosse, e così constata le conseguenze più o meno immediate dell’editto. Il quale, fra l’altro, esautorava i vescovi di un’autorità giudiziaria loro concessa già da Costantino, e per la quale essi avevano facoltà di giudicare gli ecclesiastici colpevoli di delitto; e veniva a privare il clero di una forza veramente temibile. Sozomeno, Teodoreto e il Codex Theodosianus citano infatti una legge che toglieva al clero cristiano i privilegi e le immunità: la legge non possiamo più leggerla oggi perché non compare più nelle raccolte delle lettere e dei documenti dell’Apostata, ma è comunque certo che la sua promulgazione fu corollario del famoso editto.
Busto di ignoto diademato (forse Giuliano l’Apostata). Marmo, IV secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
È ovvio che se Giuliano avesse un solo momento approvato la politica di Costantino non avrebbe agito come agì, o, una volta promulgato l’editto di tolleranza, non avrebbe poi promulgato anche l’altro editto della restituzione dei privilegi al clero pagano nel tempo stesso che li toglieva al clero cristiano. Invece, nell’azione di questo imperatore filosofo c’è la logica della propria morale politica che non conosce, appunto perché logica di una filosofia che si identifica nella fede, altra logica, e non ammette altra fede. Egli dunque chiama al potere uomini nuovi quali Aproniano, Venusto, Pretestato, ma sono θεοσεβεῖς, e giustifica così il suo atto nella lettera 83:
«Per la follia dei Galilei poco mancò che tutto non andasse sottosopra e ciononostante con l’aiuto degli dèi ci siamo salvati: dunque dobbiamo onorare gli dèi e favorire quegli uomini e quelle città che onorano gli dèi».
Ecco un programma chiaro, sebbene formulato con sillogismo difettoso. Ma era pensato, concepito e dettato da un uomo che identificava l’Impero in un sistema filosofico laddove ne combatteva un altro che si identificava nel Cristianesimo. Nessuna differenza di metodo c’è tra la politica sua e quella dei cristiani.
Iscrizione onorifica a L. Turcio Aproniano Asterio (CIL VI, 1768). Base di statua, marmo, 346 d.C. Roma, Musei Capitolini.
In sostanza, quando afferma che l’Impero dev’essere estraneo al confessionalismo dei cristiani, Giuliano riconosce implicitamente che una parte dell’Impero è cristiana, ortodossa o eretica importa poco. La tolleranza ha quindi per lui lo stesso valore che per Costantino ha il riconoscimento ufficiale di un culto, fino allora Stato nello Stato e spesso Stato contro lo Stato. Giuliano ripete all’inverso l’editto di Costantino, ma tollera tutti i culti cristiani appunto per metterli nella più difficile condizione o di essere contro lo Stato o di subirne le leggi. Ma, soprattutto, egli vuole dir questo, che lo Stato non s’interesserà più delle questioni religiose cristiane, delle lotte tra ortodossi ed eretici, se non per quello che ne compete alla polizia. Lo Stato punirà quei facinorosi che turberanno la quiete pubblica.
La riforma della corte, le disposizioni sul cursus publicus fino ad allora nelle mani di infingardi e disonesti amministratori, la restaurazione delle finanze, la diminuzione degli oneri fiscali, l’accrescimento dell’autorità del Senato, la riforma amministrativa e quella giudiziaria formano un complesso di leggi degno di ammirazione; sono l’attività sorprendente di un imperatore che salito al trono nel novembre del 361, nel giugno del 363 cadeva trafitto nel deserto asiatico dalle armate di Šāpūr. In un anno, se si tiene conto del tempo impiegato nella marcia e nelle battaglie combattute, in un anno o poco più Giuliano era riuscito a cambiare l’ordine delle cose, a sostituire un ordine al disordine. È gloria questa che gli riconoscono, piena e grandiosa, gli stessi Padri della Chiesa Ambrogio e Prudenzio, e che neppure Gregorio di Nazianzo osa contestargli: Giuliano ha potuto commettere errori veramente gravi, ma non una volta sola è venuto meno all’ideale che si era prefisso di raggiungere nel governo dei sudditi.
Giuliano. Aes, Antiochia, 361-363 d.C. Æ 7,26 gr. Obverso: Toro, stante, voltato a destra, con due stelle sul capo. Legenda: securitas rei pub(licae).
La sua attività appare tirannica e la visione che egli mostra di avere dell’Impero abbraccia tutti i problemi di politica interna, amministrazione, comunicazioni, finanze, esercito; e di politica estera, sicurezza dei confini, guerra contro i Sasanidi, così che nessuna regione del vasto dominio gli è ignota ma di tutte le città si preoccupa egualmente, con lo stesso ardore. Egli accentra nelle sue mani i poteri principali, è sommo magistrato ed è capo delle forze armate; ed è, come vedremo più avanti, pontefice massimo. Ma per intendere giustamente quest’ultima sua potestà non dobbiamo dimenticare le altre due, quelle per l’appunto che insieme alla terza fanno di lui il capo del potere legislativo, del militare e del religioso, in una parola l’Imperatore del nuovo Stato.
Una mente aperta come la sua ai problemi della politica interna ed estera, non poteva non considerare un altro problema fino ad allora trascurato, o perlomeno non direttamente discusso e risolto, dallo Stato. Le riforme di Giuliano, che in conclusione sboccano nell’accentramento dei poteri, spianarono la via ad un’altra più recisa e addirittura nuovissima riforma che appassionò a lungo in controversie e polemiche i rappresentanti della cultura pagana e di quella cristiana. Il Codex Theodosianum, XIII 3,5 contiene un editto datato al 17 giugno 362 e pubblicato a Spoleto il 29 luglio dello stesso anno:
«Magistros sudiorum doctoresque excellere oportet moribus primum, deinde facundia. Sed quia singulis civitatibus adesse ipse non possum, iubeo quisque docere vult, non repente nec temere prosiliat ad hoc munus, sed iudicio ordinis probatus decretum curialium mereatur, optimorum conspirante consensu. Hoc enim decretum ad me tractandum referetur, ut altiore quodam honore nostro iudicio studiis civitatum accedant. Dat. XV Kal. Jul., acc. IV Kal. Aug. Spoletio Mamertino et Nevitta conss».
Un commento, certamente, posteriore all’editto lo leggiamo nella lettera 61 priva di indirizzo, se mai fu lettera, ma ad ogni modo interessante per la conoscenza degli scopi di Giuliano. Prescindiamo però dal commento e leggiamo l’editto nudo e secco com’è. Ne risulta che l’imperatore rivendica allo Stato la scuola e vuol sorvegliare per mezzo di speciali commissioni, quando non può farlo direttamente, la nomina degli insegnanti. Non tanto si preoccupa della dottrina quanto dei costumi degli insegnanti, e soprattutto afferma il diritto dello Stato di impedire che siano abilitati all’insegnamento uomini che non corrispondono moralmente alle qualità del maestro.
Una scuola. Bassorilievo da un sarcofago romano. 150 d.C., marmo. Treviri
In verità, tutte le volte che si esamina un atto della politica di Giuliano si è portati a riconoscervi gli elementi suggeriti dalle sue credenze religiose, se non addirittura a considerarlo motivato da esse. Nel caso specifico poi dell’editto e degli editti sull’insegnamento il sospetto sembrò avvalorato dalla lettera 61. Ci sia dunque permesso di illustrare il primo editto senza, per ora, tener conto delle disposizioni che lo seguirono, e però ci sia anche lecito esporre brevemente le condizioni dell’istruzione pubblica nell’Impero ereditato da Giuliano. È inutile parlare della scuola che noi moderni chiameremmo «elementare»: gli imperatori e le autorità dello Stato non s’interessarono mai a questa sorta d’insegnamento al quale noi con ragione diamo somma importanza. Lo stesso si deve dire delle scuole «professionali» e «di mestiere», che pure erano frequenti e frequentate, ma che solo molto tardi furono oggetto di particolari cure da parte dello Stato. Non così delle scuole «superiori», la più parte delle quali furono o sussidiate o fondate dalla munificenza degli imperatori, che molto spesso si interessarono anche delle biblioteche e di tutti i problemi dell’alta cultura. È dei tempi di Commodo e di Diocleziano un editto che intende sopprimere le biblioteche cristiane; e la confusa vicenda delle immunità e dei privilegi a favore degli insegnanti si può dire sia stata un po’ di tutti i governi che si succedettero da Augusto in poi, specialmente dopo i Flavii. Ma in sostanza, considerata bene ogni cosa, non si può affermare che prima di Giuliano sia stato promulgato un editto contro la libertà dell’insegnamento, pur essendoci dei casi speciali in cui l’imperatore preferiva nominare gli insegnanti direttamente, gli insegnanti – s’intende – delle scuole «superiori», di questa o di quella città, stipendiati dallo Stato, o stipendiati dall’amministrazione cittadina per conto dello Stato.
Orbene, in tempi posteriori, quando il Cristianesimo trionfante aveva ormai imposto quasi dovunque l’autorità dei suoi rappresentanti, ed era diventato, senza pericolo che potessero sorgere reazioni deprecabili, religione ufficiale, dico ai tempi di Giustiniano, un editto citato in Codex Justinianus, 1, 5, 18, 4 e 1, 11, 10, 2-3 bandisce esplicitamente dai diritti degli insegnanti quelli affetti dall’insania del paganesimo, accusandoli di corrompere le anime dei giovani e di trascinarle nell’errore. La stessa disposizione allontana i pagani dall’esercito e da ogni pubblica carica. È naturale il confronto con le disposizioni emanate da Giuliano in senso del tutto contrario, e però solo così possiamo spiegarci la riforma dell’Apostata, considerandola cioè risultato di quella concezione dell’Impero che lui s’era venuta formando a contatto con le questioni più gravi della politica interna.
Il Giuliano della lettera 61 è il solito Giuliano ironico e letterato, lo stesso che sofistica anche nelle prime battute dell’editto e che distingue abilmente l’importanza dei mores da quella della facundia nei professori. La differenza consiste in questo, che si può essere abilissimi insegnanti senza però avere le doti di una buona educazione che è διάθεσιν ὑγιῆ νοῦν ἐχούσης διανοίας, «armonica fusione delle facoltà intellettive», e, come diremmo noi, «umanità». Credere una cosa e professarne un’altra, ecco per Giuliano il delitto da punire negli insegnanti cristiani e quindi la necessità di circoscrivere il diritto dell’insegnamento ai soli pagani e di abolire la libertà fino ad allora dominante nel mondo della cultura.
Perché mai Giuliano, che aveva sollecitato l’arrivo a corte di Proeresio, retore cristiano, e suo antico maestro in Atene; che aveva nominato lo stesso Proeresio storiografo del suo regno; che aveva emanato un editto di tolleranza in fatto di culto e quindi di libertà religiosa, ad appena cinque mesi da provvedimenti così liberali emana un editto di tutt’altra natura? A sentire alcuni storici della Chiesa l’editto fu giudicato aspramente, e, difatti, lo stesso Ammiano lo definisce «tirannico», nel senso che non mai prima di allora lo Stato aveva avocato a sé la cultura. L’editto svelò chiaramente le intenzioni del principe, anche perché di lì a poco seguirono eguali ordinanze per l’esercito e, forse, sebbene parzialmente, per le altre magistrature. Giuliano lasciava ai cristiani la libertà di insegnare i testi cristiani, di commentarli e di diffonderli, non impediva ai giovani cristiani di frequentare le scuole «superiori» pagane nella speranza che potessero guarire dalla loro «malattia», giudicando doveroso illuminare e non già punire i giovani sviati dalla via della ragione. Dunque, sempre quella netta divisione tra i due mondi e i due imperi: da una parte il mondo cristiano e le autorità delle Chiese cristiane, dall’altro il mondo pagano e l’Impero di Giuliano. Egli è coerente anche in questo, ora che gli dèi hanno concesso la «libertà e bandito il dominio dell’ipocrisia». Le parole gravi che pronunzia sul commento all’editto contro l’incoerenza e la sofistica e la pura eloquenza, allorché afferma che «il buon insegnamento consiste nella sana disposizione della mente padrona di un esatto concetto del bene e del male, del turpe e dell’onesto», mettono Giuliano in aperto contrasto con la cultura del tempo. I cristiani, per chi giudicasse come giudicava Giuliano, erano l’esempio tipico della nuova cultura: i grandi classici, Omero, Esiodo, i lirici, gli oratori, i tragici ecc. erano letti e studiati come reliquie del passato, senza che si credesse più né agli dèi né agli eroi, senza che più si cercasse in quel morto contenuto la legge o le leggi morali. Domandarci a questo punto se Giuliano calpestasse o no con l’editto la libertà dell’insegnamento è ridicolo. Domandiamoci invece se non la calpestasse, piuttosto, due secoli dopo, l’editto di Giustiniano; poiché questo è certissimo, che Giuliano e Giustiniano ebbero tutti e due la stessa concezione totalitaria dell’Impero.
La lotta per la cultura rientra, dunque, e giustamente, nella politica dell’infelice Giuliano, come vi rientrano le disposizioni per le cariche pubbliche e per l’esercito. Uomini probi erano necessari e devoti alla causa dell’Impero, per riformare la macchina dello Stato e rafforzarne la compagine. Giuliano errò solo in questo, di non accorgersi che era opera vana dare al mondo una nuova religione quando già quella cristiana bastava alla rinnovazione dei popoli. Fu cieco?
Può darsi. Ma chi negherà che vide bene quando vide l’Impero politico vacillare perché in tutte le sue parti più vitali si affermava una nuova gerarchia che gli interessi dello Stato credeva inferiori a quelli dell’autorità divina?
Da questa necessità di fondere ad ogni costo le due autorità dello Stato e della religione in una sola, nasce la grande riforma del Paganesimo, che vedremo condotta abilmente e tragicamente finire dopo due anni di entusiastica opera organizzatrice. Ma questi primi suoi atti di governo, le assise di Calcedonia, l’editto di tolleranza e la riforma scolastica sono le basi della grande riforma del Paganesimo. Le assise di Calcedonia riducono all’impotenza le interferenze nefaste di una corte di effemminati e di pettegoli; l’editto di tolleranza significa chiaramente che lo Stato si disinteressa delle lotte tra cristiani ortodossi ed eretici; la riforma scolastica avrebbe dovuto dare con il tempo nuovi capi alle nascenti organizzazioni, nuovi funzionari allo Stato, nuovi ufficiali all’esercito, nuovi governatori alle province. Non era possibile rinnovare lo Stato senza rinnovare l’elemento uomo: Giuliano intese questa suprema necessità e diede opera alla sua attuazione. In sostanza, egli non faceva grande stima della filosofia se non per l’utilità che potesse apportare allo Stato, e però egli si sentiva soprattutto trascinato dalle questioni morali. Odiava il Cristianesimo ma intendeva conciliare la prassi cristiana con il vecchio mondo pagano, conciliare la fede con l’Impero solo perché l’Impero fosse salvo e con esso quel vecchio mondo che lo entusiasmava. Conciliare la filosofia indipendente con lo spiritualismo cristiano, le organizzazioni sociali con quelle dello Stato e dare al nuovo mondo, al futuro Impero da lui sognato, un’anima e una fede, era un programma che per attuarsi imponeva la riforma religiosa.
San Gregorio di Nazianzo. Affresco russo-bizantino, IX-X sec.
La tragedia della riforma del Paganesimo che noi studieremo, dei πιθήκων μιμήματα, «degli scimmiottamenti di Giuliano», come Gregorio di Nazianzo definisce sprezzantemente le riforme religiose dell’odiato avversario, è soprattutto in questo, che Giuliano non si accorge che il suo grandioso sono politico denunzia la fine del Paganesimo.
Le sue riforme constatano che il Paganesimo morente si adatta da sé ai costumi del Cristianesimo, ne accetta le organizzazioni, ne ammira la legge. Comincia da ora, quando i cristiani costituiscono ancora una minoranza, la drammatica sostituzione del Cristianesimo al Paganesimo, e l’uno cede all’altro qualche cosa di suo. Rovinano i templi degli dèi, ma le colonne, le pietre, le suppellettili servono ai templi cristiani, i martiri cristiani sono adorati come santi e sostituiti nel nuovo politeismo gli dèi spodestati, poiché l’immaginazione popolare riporta la terra e il cielo di una moltitudine di figure animate. Lo stesso Giuliano vive la stessa vita di asceta ed ha la stessa energia di fede che ha Basilio il Grande, suo contemporaneo.
Nei primi giorni della primavera del 362 Giuliano accompagnato dal prefetto del pretorio Sallustio e da Anatolio e Memorio si recò ad una conferenza del cinico Eraclio: uno dei rappresentanti più famosi di quei «falsi» filosofi capaci di tutto, e dannosi al Paganesimo ancor più degli stessi cristiani. Eraclio parlò dell’arte del governo ed ebbe spesso nel suo discorso parole offensive per gli dèi, ma soprattutto si mostrò animato di quello spirito rivoluzionario e antisociale che inficiava le basi dell’Impero e sprezzava tutto ciò che era tradizione e civiltà. Giuliano ascoltò fino alla fine il discorso di Eraclio, sebbene fremesse e fosse più volte tentato di far sciogliere la riunione, ma rispose più tardi, in un pubblico discorso, sconfessando apertamente lo scetticismo dei cinici.
Non che Eraclio con la sua irriverente conferenza abbia avuto influenza sulla politica giulianea, la quale ormai doveva camminare diritta e fatale verso la meta; ma è certo che in quegli stessi giorni l’imperatore tentò un’interpretazione della mitologia pagana che riuscisse finalmente a strappare i miti e gli dèi all’incredulità e arginasse le minacce di un movimento pericoloso, già abbastanza diffuso e seducente. I miti, per Giuliano, sono un poetico travestimento della verità, poiché:
«La Natura ama il segreto e non vuole che il mistero dell’essenza degli dèi sia manifestato con espressioni comprensibili anche agli impuri; il mito è necessario non solo alla rivelazione ma anche al carattere magico delle iniziazioni. Più un’allegoria è incredibile e prodigiosa, più essa ci invita a non attenerci a ciò che ci dice ma a ricercare il senso enigmatico nascosto nel mito […]».
Egli stesso, in quei giorni, tenta una nuova esegesi del mito di Attis, rifiutando l’interpretazione naturalistica di Porfirio e giungendo, confusamente, a far dell’adolescente salvato dalla Grande Madre Cibele, e poi eviratosi in un eccesso di follia per ritrovare, alla fine, la sua virilità e l’amore della ninfa che lo amava, il demiurgo creatore che venne sulla terra a fecondarla, che è devoto a Cibele, sorgente delle idee e provvidenza infinita, per la promessa di un amore costante, ma che, trascinato dall’ebbrezza della vita, conobbe la via del peccato e ne fu alla fine liberato per opera del Sole, «con l’essenza invisibile, incorporea, divina e pura dei suoi raggi per cui esso attrae e fa salire fino a lui le anime sante». Nel mito di Attis il Sole è raffigurato nel leone che è segno della forza ascensionale del fuoco, e l’ebbrezza della vita è rappresentata dall’acqua nella quale Attis cade: il Sole è il lógos, e Cibele è la Madre degli dèi, come Cristo e la Vergine Maria.
Statua di Cibele, da Nicea. Istanbul Archaeological Musem.
Giuliano, dunque, non dimentica la sua educazione cristiana, ma interpreta il Paganesimo come un cristiano, con spirito cristiano e con quell’eloquenza che fu propria dei dottrinari Padri della Chiesa d’Egitto e d’Asia. Sono in lui lo stesso entusiasmo, la stessa poesia, lo stesso credo; e perfino le anime pagane, «fiammelle del celeste fuoco», che cadono insieme con Attis nella perdizione, ritornano poi, liberate dal Sole come da Cristo, alla patria loro, a Dio. Questa mortale vita è una prigione; qui, le anime «folli si sono cambiate in desideri alati che volano in un raggio di primavera dalle labbra del giovane a quelle della donna amata e ci supplicano di coglierle in un bacio per dar loro un corpo»; qui, l’amore celeste è diventato amore terreno, ma è pur sempre cosa divina. Giuliano interpreta Platone attraverso la dottrina di Cristo, e finisce, difatti, con il bandire dalle scuole tutti quei testi che Basilio, suppergiù negli stessi anni, proibiva di leggere nella famosa dissertazione De legendis libris gentilium.
Su queste basi, l’imperatore che aveva proclamato l’editto di tolleranza e che aveva tentato una riforma della scuola inaugurando il concetto di «scuola di Stato», costruiva l’edificio della Chiesa pagana. Messo tra i cinici e i cristiani, costretto a scegliere tra uno Stato agnostico e uno Stato cristiano, Giuliano preferì crearne uno nuovo che fosse avverso agli uni e agli altri e che richiamasse in vita l’agonizzante Paganesimo. Non era possibile uno Stato agnostico perché antisociale ed egualitario. I cinici distruggevano lo Stato, i cristiani erano già uno Stato che non poteva tollerare altro Stato il quale non fosse a lui sottomesso. L’esperimento di Costantino era fallito subito dopo la sua morte, poiché i cristiani ebbero il sopravvento durante il regno di Costanzo e governarono di fatto; e però non restava altra via che governare a modo loro ma senza di loro.
Giuliano fu logico, e però il suo dramma politico è il dramma di uno spirito troppo logico, che, commesso l’errore, subisce la logica delle conseguenze dell’errore, fatalmente. Egli parte da una visione giusta delle cause che sconvolgono l’ordine dell’Impero, ma cerca poi il rimedio lì donde esso non può venire, e fa più cruda la piaga. Egli dice: se i cristiani sono un elemento dannoso per lo Stato, impediamo loro di far danno e lo Stato sarà guarito; se i cristiani sono forti perché hanno una fede, perché sono una grande comunità, perché hanno una loro morale, ebbene diamoci anche noi una fede, diventiamo anche noi una comunità, creiamo anche noi, con l’opera e la parola, una nostra morale, e torneremo ad essere noi i più forti. Ma l’esame conduce al dubbio, e Giuliano non s’accorgeva che la fede da lui restaurata era frutto di un esame al quale non potevano accedere le folle. Egli trascinava dietro di sé non una fede necessaria alla società, ma una filosofia armata di poesia e di ironia, mentre i cristiani trascinavano con sé una fede pericolosa armata di martelli, avida di rovine ed esaltata dal sacrificio dei martiri. Ecco perché, alieno persecuzioni sanguinose, e cosciente della sua responsabilità, Giuliano fu vittima della sua logica la quale non teneva conto del fatto che le verità si rinfrescano nei bagni di sangue e che i cristiani avevano già fatto quel bagno.
Stele funeraria di un archigallus (grande sacerdote di Cibele). Bassorilevo, marmo, II sec. d.C. da Roma.
Credette invece che la legge del giugno 362 potesse frantumare la potenza dei cristiani nelle scuole, così come, poco più tardi, credette che la ricostruzione del tempio ebreo di Gerusalemme potesse dimostrare al mondo che la profezia di Cristo non si era avverata. Ma quel tempio, pochi giorni dopo che s’era posto mano alla sua ricostruzione, rovinò per un terremoto uccidendo molti operai, e le scuole, avocate allo Stato, subirono rassegnate, non soffocate, la nuova legge. Egli costruiva il suo edificio in un miracolo di volontà e di fede, me le pietre non erano solide perché d’intorno a lui pochissimi credevano, con lui, nella restaurazione dell’Impero, e molti erano invece già corrotti da quello scetticismo irriverente di cui facevano professione i cinici. A chiunque egli avesse domandato come restaurare lo Stato, tutti gli avrebbero risposto che lo Stato era il presente ma non il futuro: anche il suo Massimo, ch’era vanitoso; anche Libanio, che fu suo storiografo; anche Ammiano, che lo esalta come un eroe, ma che insieme con Libanio ne ammira piuttosto le gigantesche proporzioni dello spirito che l’opera, conscio che essa si riduceva a un mirabile sogno.
Ond’è che noi restiamo ammirati dinnanzi alla sua concezione della Chiesa pagana considerando come logicamente essa sia costruita e suggestiva. Gli dèi scompaiono; gli dèi pare che non ci siano, ma che resti il volto dell’idea dello Stato etico, la visione di un organismo immenso che doveva a un tempo stesso essere tempio di Dio e sede del potere imperiale. Commistione superata di due autorità alla quale la folla non si sarebbe facilmente accomodata, e che misconosciuta avrebbe condotto all’annullamento della religione e della regalità. Giuliano credeva, sperava, che quelli intorno a lui che con lui combattevano la stessa battaglia fossero, come lui, spiriti superiori: essi erano invece spiriti mediocri, espressioni degli interessi materiali del vecchio mondo pagano. Si illuse di dare un colpo mortale al Cristianesimo e non gli dette che una ferita, credette di salvare il Paganesimo e non fece che raccoglierne l’ultimo sospiro, poiché come sempre avviene, finito lui, uccisi i pochi fedeli, gli altri preferirono immolare gli dèi piuttosto che accusare se stessi.
Statua di sacerdote di Serapide con pallio e corona (precedentemente ritenuta di Giuliano). Marmo, 120-130 d.C. ca. Paris, Musée national du Moyen Âge.
Aveva avuto un precursore in Massimino. Circa quarant’anni prima, Massimino aveva cercato di resuscitare il culto pagano avocando a sé la nomina degli ἀρχιερεῖς («sommi-sacerdoti») per affidar loro la sorveglianza sulle organizzazioni provinciali. Ma tra la sua politica e questa di Giuliano corre una profonda differenza, poiché mentre la prima provoca confusione tra il potere politico e quello religioso, la seconda invece si preoccupa di evitarla. L’imperatore solo è imperatore e pontefice massimo nello stesso tempo, i sacerdoti sono invece nei confini dei sacri recinti indipendenti dall’autorità politico-militare, e nel tempio sono arbitri supremi. Sono tutelati dall’altro potere, non sopraffatti; e non già essi devono andare dai magistrati, ma questi devono recarsi a conferire con i sacerdoti, nel tempio. Se Massimino credette opportuno nominare sacerdoti del culto pagano uomini che si erano distinti nelle amministrazioni pubbliche, Giuliano invece si propone di sceglierli fra i migliori.
«Gli amministratori delle città – egli dice nella lettera 89 – sorveglieranno che la giustizia regni conformemente alle leggi, ma è necessario che voi sacerdoti diate l’esempio di rispettare le leggi che sono di provenienza divina. Inoltre, poiché la vita del sacerdote richiede una santità maggiore di quella civile, voi dovete guidare ad essa, mercé il vostro insegnamento, gli uomini, e i migliori vi seguiranno certamente […]».
Il concetto di φιλανθρωπία che deve sollevare i miseri e punire i cattivi, provvedere ai bisogni dei poveri ed esaltare gli onesti, è un concetto politico, dunque, poiché nel passo citato della lettera 89 egli mostra di volere che autorità religiose e politiche collaborino insieme alla riforma dei costumi. In questo senso Giuliano inserisce la nuova religione di Stato nello Stato, come se debba essere il concime poiché dalla terra fino ad allora arida e trascurata nascano germi di vita totalmente rinnovata. In un altro passo della stessa lettera, scrive:
«I sacerdoti sacrificano e pregano per tutti noi; è dunque giusto che da parte nostra si renda loro gli stessi onori e anzi maggiori che ai magistrati civili. Se si ritiene che questi ultimi hanno diritto a molta considerazione perché, essendo custodi delle leggi, sono anche sacerdoti degli dèi, ebbene dobbiamo ai primi riverenza più grande […]. Non dobbiamo fermarci su rilievi personali, ma per tutto il tempo che un uomo esercita il sacerdozio dobbiamo onorarlo e aver per lui dei riguardi. Se è disonesto, priviamolo del sacerdozio e disprezziamolo, perché se n’è mostrato indegno, ma tutto il tempo che egli sacrifica e prega per noi e si avvicina agli dèi, veneriamolo santamente poiché egli è prezioso servo degli dèi […]».
Io ho avvicinato a bella posta questo passo della lettera all’altro precedentemente tradotto, per dimostrare, meglio che con altri esempi, come e in che limiti Giuliano interpretasse la condizione dei nuovi sacerdoti verso l’autorità politica. Divine sono le leggi, e quindi i magistrati che le rappresentano sono degni di onore, ma i sacerdoti sono sulla terra rappresentanti degli dèi dai quali ci sono venute le leggi e però ad essi è dovuto un rispetto anche maggiore. Ne consegue che le due autorità si completano, ed è però logico che si debbano confondere nella sola persona dell’imperatore, capo dello Stato e capo della religione. Che il suo programma fosse soprattutto di carattere etico risulta dalla stessa lettera 89, dove accenna brevemente alle cause che hanno distrutto o per lo meno mortificato l’antica pietas:
«Vedendo la nostra grande indifferenza verso gli dèi, e constatando che il rispetto dovuto alle superiori potenze è stato interamente bandito da un’impura e vile mollezza di costumi, da lungo tempo i deploro la nostra situazione. I seguaci della religione dei Giudei spingono il loro fervore fino a morire per essa, fino a sopportare la privazione di ogni bene e a soffrire la fame pur di non toccare carni di maiale e di altri animali dalle cui carni non sia estratto tutto il sangue, ma noi, invece, per la nostra negligenza verso gli dèi, dimentichiamo la tradizione dei nostri padri e ignoriamo perfino se mai ci siano state norme religiose per noi. È vero però che i Giudei sono religiosi nel senso che il loro Dio è un Dio solo, potentissimo e buono, che regge il mondo sensibile e che noi veneriamo con altri nomi […]».
Giuliano non dà torto agli Ebrei che però errano quando disprezzano tutti gli altri dèi pagani, ma taccia i cristiani di νόσημα («malanno») e riprova assolutamente come antisociale quel loro desiderio di fuggire la società ritirandosi nel deserto. Il contemporaneo Basilio, che fu poi vescovo di Cesarea e divenne capo temuto ed energico del giovane partito ortodosso, sentì come Giuliano che antisociale ed inumana era la vita ascetica se fine a se stessa, e fondò quindi il primo ordine monastico dal quale non uscirono degli asceti, ma dei militi della Chiesa, agguerriti alla propaganda della fede e disposti al sacrificio, devoti alla causa dell’umanità sofferente, esempio di carità cristiana e abilissimi sostenitori dei diritti della società cristiana nello Stato. Giuliano e Basilio si può dire che collaborino insieme, in due campi tanto diversi e tanto nemici, per la stessa riforma, poiché anche Giuliano si propone di far uscire dalle file del sacerdozio militi della nuova fede pagana. Egli vuol fondare παρθενῶνας per le donne, e φροντιστήρια per gli uomini, asili di religione pagana nei quali si dovrebbe educare lo spirito a principi etici severi; egli sa che soltanto un costume di vita austero ed esemplare può creare una barriera alla rovina che travolge il Paganesimo.
Si può dire perciò che nella lettera 89 siano contenuti i principali paragrafi della sua regola. Che deve fare il prete pagano? Egli deve la mattina e la sera – come il sacerdote cristiano – pregare gli dèi; deve astenersi dal teatro; deve provvedere alle necessità dell’umanità bisognosa; deve amare il suo prossimo e stare lontano da tutto ciò che possa minimamente turbare il suo colloquio con gli dèi. Nei trenta giorni che il prete dimora nel tempio a purificarsi con le lustrazioni prescritte dal rituale, niente che non sia rigidamente sacro deve distrarlo; e poi, quando ritorna alla vita del secolo, deve frequentare i migliori, non tutti indistintamente. Nel tempio deve portare vesti magnifiche; fuori del tempio deve vestire senza ostentazione, e deve essere armato della modestia di Anfiarao. Prostituire in pubblico i vestimenti sacri, è peccato; offrire alla folla lo spettacolo di una magnificenza perché i curiosi l’ammirino, è peccato; frequentare i teatri dove si rappresentano cose sconvenienti e che tuttavia non è possibile proibire per non privare il teatro delle sue volgari attrattive, è peccato. Giuliano sa bene che il Paganesimo trova la sua ragion d’essere in ciò che è appariscente e può, anche se volgare, attrarre la folla; si propone perciò di correggere a poco a poco con norme piene di umanità l’errore. Egli afferma che il sacerdote è sempre un uomo e che qualcosa si deve pur concedere all’uomo; quindi distingue sapientemente la vita del sacerdote dalla vita dell’uomo, l’anima dal corpo – come egli dice – il divino dall’umano.
Sacerdote in atto di sacrificare ad Attis. Rilievo, marmo, III sec. d.C. dalla Necropoli di Porta all’Isola Sacra. Ostia, Museo Ostiense
Ma è una distinzione da filosofo la sua, e sa di sofisma. Essa è teorica, non pratica, perché in realtà nessun contenuto pratico riesce a darle vita nella lettera di Giuliano. Il che non è difetto di chi ha scritto la lettera, non è colpa di Giuliano. Né Giuliano, né altri pagani, avrebbero potuto evitarlo praticamente. Basilio sì, perché Basilio parlava ad un popolo nuovo che non aveva tradizioni da difendere, anzi doveva combattere la tradizione. Lo Stato rivoluzionario, lo Stato antisociale, lo Stato egualitario avrebbero formato il nuovo Impero; uomini che nascevano alla vita sprezzando il passato e calpestando i templi degli dèi per erigere chiese di Dio. Si può perfino credere che Giuliano abbia sofferto e lavorato per essi, per questi uomini nuovi, attirando l’attenzione dei capi del Cristianesimo sulla possibilità di inquadrare anche meglio le loro forze e di inserirle nello Stato per trasformarlo. Ma i suoi, invece, Bacchio e altri confratelli nel Mitraismo, furono, chi più chi meno, pessimi sacerdoti e abili profittatori, e quasi mai attivi collaboratori del principe; e non per colpa loro, ma perché quel mondo etico-religioso in cui avrebbero dovuto credere era finito per sempre, o meglio era straziato dalla folla che gli era rimasta sensualmente non già spiritualmente fedele. Restava l’Impero: ma l’Impero sarebbe stato del più forte, e Giuliano sentiva che questa volta la forza non era nella armi ma nello spirito, e però si trova costretto a distinguere il bene dal male nella stessa tradizione pagana, a bandire Archiloco e Ipponatte, Aristofane e la commedia antica, a porre dei limiti in dolorosa contraddizione. Così distinguono anche i Padri della Chiesa orientale, ma la distinzione loro è giustificata, perché del passato, una volta rinnegatolo, potevano, comunque, accettare qualche cosa, e fare diciamo così concessioni da vincitori ai vinti.
Appunto per questo la riforma della Chiesa pagana di Giuliano, che giunge fino a copiare in molti particolari quella cristiana, a noi sembra un contributo al Cristianesimo e non già una restaurazione del Paganesimo. Egli fece, infelice e grande imperatore, più cruda la piaga, quando ne mostrò le labbra sanguinolenti e ne scrutò il fondo, poiché anche la sua fede era la fede di un pagano convertito al Cristianesimo.
Campagna persiana di Giuliano (363).
«Già la primavera si avvicina e gli alberi fioriscono e si aspettano le rondini, il cui ritorno caccerà di casa noialtri soldati e darà il segnale di passare oltre la frontiera […]»,
scrive Giuliano nella lettera 40 a Filippo di Cappadocia. Di fatti l’estate del 362 passava il Bosforo con l’esercito e muoveva attraverso l’Asia contro Šāpūr II di Persia.
Non aveva voluto andare contro i Goti sicuro che i Galati sarebbero bastati a rintuzzarne l’insolenza, ma aveva preferito combattere i Persiani per imitare Alessandro e Traiano. In realtà, fino ad allora vittorioso, e senza che nessuno osasse in una qualunque parte dell’Impero di opporsi a lui, Giuliano si sentiva capace di risolvere finalmente il più grave problema di frontiera assoggettando la Persia. Lo stesso Šāpūr, che sotto Costanzo era riuscito a minacciare duramente il confine orientale, all’annuncio che il vincitore delle Gallie era stato eletto imperatore, aveva creduto meglio non inorgoglire della vittoria ma attendere gli eventi. Cercò anche di trattare non appena Giuliano fu giunto ad Antiochia, ma l’imperatore rifiutò e riprese la marcia. Sentiva Giuliano necessaria quella spedizione al consolidamento del suo potere, ovvero la sola ambizione ne affrettò la rovina? Io non esito ad affermare che l’impresa contro la Persia gli sembro condizione necessaria per la restaurazione dell’Impero. Aveva domato l’Occidente, voleva ora tranquillizzare l’Oriente: sicuro nei suoi confini, e restituito all’antico splendore militare, l’Impero sarebbe stato meglio all’interno. Partì da Costantinopoli nel solstizio d’estate del 362, riprese la marcia nel marzo del 363: quando gli giunse l’ambasceria di Šāpūr II egli non aveva più saputo rinunciare al programma militare, perché ormai aveva constatato che il Cristianesimo era ben più forte di quel che s’immaginasse, e che lo si sarebbe potuto combattere al solo patto di essere completamente libero da ogni preoccupazione esterna. La sua potenza sarebbe stata ancor più temibile quando fosse riuscito a piegare perfino l’orgoglio degli invincibili Sasanidi.
Colonna di Giuliano. Ankara, 362 d.C.
Era giunto ad Antiochia passando per Calcedonia, Libyssa, le rovine di Nicomedia, Angora, Pessinunte, Tyana, e sfuggendo ad attentati dei cristiani. In Pessinunte fu offeso da due giovani, e quasi dovunque trovò resistenza contro il culto pagano: Antiochia, che pure l’accolse con sincero entusiasmo, gli riserbava amarezze più gravi. Gli Antiocheni erano cittadini di una città che oggi si direbbe veramente civile, ed erano, pertanto, piuttosto inclini all’indifferenza e al motteggio. Quando si accorsero che Giuliano li avrebbe voluti più severi nei loro costumi e più riguardosi verso gli dèi, e che egli stesso spendeva buona parte del giorno in sacrifici e preghiere, cominciarono a tormentarlo con facezie e con l’ironia. Dicevano che se il regno di Giuliano fosse durato ancora qualche anno, l’Impero non avrebbe avuto più bovini, perché l’imperatore li sgozzava nei sacrifici; lo chiamavano «ciclope», schernivano la sua castità, e mettevano in ridicolo i suoi costumi severi e frugali. Come se non bastasse, l’imperatore, a fin di bene, per opporre una resistenza all’ingordigia dei profittatori, aveva fatto venire del grano dall’Egitto e da altre regioni e lo aveva fatto vendere a vilissimo prezzo, ma non era riuscito nello scopo perché i primi ad accaparrarselo furono i soliti profittatori, e però quell’uomo che in verità era onesto quant’altri mai apparve agli occhi della folla per lo meno inabile ed incapace. A colmare la misura si aggiunse l’incidente di Daphne, dove Giuliano aveva ordinato che si rimuovessero le tombe dei martiri cristiani intorno al tempio di Apollo, e allora i cristiani per vendetta bruciarono il magnifico tempio. La rappresaglia fu mite ma dispettosa: Giuliano fece chiudere il tempio cristiano di Antiochia, scrisse il Misopogon e affrettò la ricostruzione del tempio ebreo di Gerusalemme. Fu la rappresaglia di un letterato, degno di un uomo che rifuggiva la lotta civile, ma pare meditasse in cuor suo la vendetta non appena fosse ritornato dalla Persia. In realtà, egli scorgeva intorno indifferenza ostile, e ne soffriva.
Ma non ritornò. Avanzava distruggendo per chiudersi la via del ritorno in caso di sconfitta, e per domare l’avversario costringendolo alla fame in caso di vittoria. Affamava invece il suo esercito, che dopo più di tre mesi di marcia, logorato dalla resistenza qua e là abbastanza ferma, estenuato dalle malattie, dalle privazioni e dal caldo, si vide il 16 giugno 363 minacciato da un nemico dieci volte più forte e che tuttavia non osava affrontarlo, ma lo stancava sempre più sui fianchi. Unica speranza era una possibile congiunzione con l’esercito comandato da Procopio o con i soccorsi di Arsace, ma né Procopio né Arsace avevano obbedito al piano dell’imperatore; la ritirata era possibile a costo di sacrifici ancora più gravi che l’avanzata e poteva, come questa, mutarsi in sconfitta: era dunque destino che Giuliano cadesse lì, e vi cadde infatti il 26 giugno mentre si gettava nella mischia senza corazza, colpito da un giavellotto.
Aveva trentadue anni e aveva regnato venti mesi. Morì come Socrate, sprezzando questa vita e cosciente che la sua anima sarebbe salita al cielo e si sarebbe confusa con il fuoco delle stelle, di una di quelle tante stelle che erano la corona luminosa di Attis. Fu sepolto a Tauro in Cilicia e sulla sua tomba fu scritto questo semplice e bel distico: «Dalle rive del Tigri impetuoso, Giuliano è venuto a riposare qui, buon sovrano e valoroso guerriero».
Illustrazione di A. McBride. Giuliano nell’imboscata dei Sasanidi a Samarra (Mesopotamia), 363 d.C, in cui verrà ferito a morte.
Che cosa è rimasto della sua opera? Molti hanno detto che non è rimasto niente e pochi soltanto hanno intravvisto in lui un uomo politico. In complesso, possiamo dire che egli è stato un isolato, un grande imperatore che meritava uomini più degni e più onesti. Il suo odio contro i cristiani non era odio per la dottrina che professavano, ma odio naturale di chi, venuto al potere, considerasse la condizione dell’Impero, e tenesse piuttosto alla riforma dell’amministrazione e alla sicurezza dello Stato, che al gioco pericoloso di proteggere questa o quella eresia o di combatterle tutte per favorire l’ortodossia. Non si può non riconoscere che Costanzo aveva dimostrato eccessiva debolezza lasciandosi trascinare dalle lotte tra Ariani ed ortodossi, e che la politica inaugurata da Costantino aveva fatto con lui cattiva prova. Costantino aveva incorporato – diciamo così – il Cristianesimo nell’Impero, ma non si era accorto che i termini della sua politica di equilibrio e di tolleranza potevano essere capovolti, come di fatto lo furono, e che il sopravvento del Cristianesimo sullo Stato diventava una minaccia sempre maggiore. Poiché la minaccia si avverò sotto il regno di Costanzo, il successore si trovava stretto da un dilemma: o con i cristiani o contro i cristiani. Giuliano preferì la seconda perché il suo temperamento e gli avvenimenti della sua vita lo facevano avverso al Cristianesimo, ma non si deve dimenticare che tutta una rete di interessi economici e politici agiva su di lui e che nel suo piano di riforma entrava il disegno di un Impero che fosse un vero Impero, che avesse cioè un imperatore come autorità assoluta. Di qui l’editto di tolleranza e quindi la riforma religiosa. La quale, come già dimostrammo, è riforma etica, e appunto perché riforma etica ci dà il modo di interpretare nel suo effettivo valore la politica di Giuliano.
Della politica di questo sventurato imperatore rimane qualche cosa di più che dei semplici e nudi particolari: rimane il principio politico. Egli supera Costantino nella visione dell’Impero futuro, ed è, nello stesso tempo che lo supera, un continuatore dell’opera di Costantino. Questi aveva valutato i cristiani come numero e come organizzazione, Giuliano li valutò come numero, come organizzazione e come società, riconoscendo la loro entità etica. Sentì cioè, o meglio presentì che l’Impero di ieri crollava perché i principi etici, sui quali si era retto fino ad allora, non bastavano più a sostenere la compagine mostruosa e che tante vittorie non erano sufficienti a giustificare il suo compito. L’Impero non poteva restare più a lungo estraneo a quel vasto movimento etico che distruggeva il passato e che attirava a poco a poco nella sua orbita uomini e cose che per tradizione o naturalmente avrebbero dovuto resistere. L’Impero si trovava dunque costretto ad accettare e far suo quel movimento, ma non con atti di ordinaria amministrazione, bensì con una riforma politica che fosse sostanzialmente religiosa ed etica.
Giuliano è il primo imperatore che sente la gravità di questo grande problema politico. Non già Costantino, ma Giuliano capisce finalmente che il nuovo Impero non può trascurare correnti di pensiero che concorrono minacciosamente verso lo Stato. Egli non si preoccupa come Costantino di una questione di numero, non dà importanza alle sole questioni amministrative, studiando come i cristiani possano giovare all’Impero, ma vede, perché è uno spirito religioso, l’altro aspetto del problema, che è etico e politico insieme e che consiste niente di meno che nella fusione di due poteri in uno solo. Io dico che la politica di Giustiniano e il grande edificio dell’Impero Romano d’Oriente, continuando ancora per secoli nella Chiesa ortodossa soggetta all’imperatore riconosciuto come capo spirituale e politico, erano già nel programma di Giuliano. Allora, chi concepiva lo Stato come Giuliano, non poteva altrimenti agire che come agì lui, e quindi doveva soccombere perché stretto tra un’inutile maggioranza pagana e una forte minoranza cristiana, che appunto perché minoranza era ancora ribelle al potere politico; allora, chi come Giuliano affrontava in pieno il problema di una religione politica, doveva necessariamente subire la realtà di una politica religiosa e quindi sentire il peso morto di quella maggioranza e il peso vivo di quella minoranza fino a diventare, come è diventato Giuliano, attore di un dramma mistico, fino ad assumere per noi, che ricostruiamo a distanza di secoli la sua personalità politica e religiosa, proporzioni tragiche. Tragica fu infatti la sua vita; ma sbaglieremmo se noi credessimo fuori della realtà storica il tentativo di ricostruire la Chiesa pagana. Così doveva avvenire fatalmente, quello doveva essere il collasso del Paganesimo; in un uomo, nel pensiero politico di un uomo, doveva risolversi la lotta che da circa un secolo il trionfante Cristianesimo combatteva contro il morente Paganesimo, il Cristianesimo di Paolo contro il Paganesimo di Augusto. La pietas come religione di Stato, o meglio come la base religiosa dello Stato, fu il programma religioso di Augusto, il quale presentì con Agrippa che i culti orientali avrebbero sovvertito l’Impero, quegli stessi culti che erano invece parte essenziale del programma religioso e politico di Antonio e di Cleopatra. Noi dobbiamo tener conto di questi precedenti per meglio capire in che modo e fino a che punto la politica religiosa di Giuliano costruisse il suo sogno, e da quali realtà contemporanee esso fosse irrimediabilmente distrutto. Naturalmente, egli vi portò il suo cuore, la sua mente e la sua vita, in una parola la sua personalità, che fu veramente complessa e in un certo senso misteriosa; ma, pur commosso da sentimenti profondi e sebbene dotato di un temperamento caldo ed animoso, egli cominciò, come Augusto, con un editto di tolleranza, e come Augusto ebbe dell’Impero non un concetto astratto ma concreto. Concreta voleva essere anche la riforma religiosa, perché essa abbracciava e cercava di risolvere problemi etici che erano e sono ancora problemi dell’umanità, la quale li vive e li sente drammaticamente.
È quindi molto facile attribuire al grande Giuliano commozioni mistiche che erano nel tempo e del tempo, quella tendenza all’universale, quell’abbandonarsi improvviso, e però spesso ingiustificabile, a fantasmi di grandezza e di potenza, che sono caratteristica del IV secolo e che preparano la civiltà bizantina. Spiriti che lottano tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano hanno in sé il destino dell’errore e la luce della verità politica ed etica. La sovrastruttura religiosa non è il vero aspetto dell’edificio che si andava costruendo, mentre quello vecchio rovinava: essa è soltanto la contrazione dolorosa in cui si esprime la tragedia politica dell’Impero, che dopo quattro secoli si riconosceva finalmente destinato a rinnovarsi o a morire.
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