Il Preludio del cerilo (PMGF 26)

A giudicare dal metro – l’esametro dattilico – questo frammento, che è forse il più noto di Alcmane, doveva provenire da un προοίμιον citarodico, ovvero da un assolo eseguito dal χοροδιδάσκαλος, che fungeva da introduzione al partenio. Rivolgendosi al coro delle fanciulle, l’esecutore maschile (il poeta stesso?) lamenta la debolezza fisica che gli impedisce di unirsi alle fanciulle in danza, rimpiangendo di non possedere più lo stesso vigore di un tempo e vagheggia di trasformarsi nel «sacro uccello colore di mare», il cerilo, che volteggia sul fiore dell’onda insieme con le femmine, le alcioni. Questa la lettura più credibile del testo di Alcmane, sulla cui interpretazione ha gravato la fantasiosa notizia del paradossografo e teratologo ellenistico Antigono di Caristo (Libro delle meraviglie, 23 ss.), il testimone principale, che cita questi versi per suffragare una tradizione secondo la quale il cerilo, l’alcione maschio, quando per la vecchiaia perde le forze e non riesce più a volare, viene preso sulle ali e trasportato a volo dalle femmine. Interpretazione piuttosto bislacca, in quanto qui il cerilo è visto in atto di volare, non di essere trasportato (D. Page annota giustamente: «ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτῆται, non φορεῖται hic cerylus»). Non si tratta quindi, da parte del poeta, del desiderio di essere trasportato alla danza dalle ragazze del coro (apostrofate al v. 1), quanto piuttosto dello struggimento per la propria menomazione fisica e del rimpianto per la giovinezza perduta.

Οὔ μ᾽ ἔτι, παρσενικαὶ μελιγάρυες ἱαρόφωνοι,

γυῖα φέρην δύναται· βάλε δὴ βάλε κηρύλος εἴην,

ὅς τ᾽ ἐπὶ κύματος ἄνθος ἅμ᾽ ἀλκυόνεσσι ποτήται

νηδεὲς ἦτορ ἔχων, ἁλιπόρφυρος ἱαρὸς ὄρνις[1].


[1] vv. 1-4 «Non più (con οὐ in rilievo in principio di verso e forte stacco rispetto a φέρην δύναται del v. 2), vergini (παρσενικαὶ = παρθένοι) dal canto soave (μελιγάρυες = μελιγήρυες, propriamente “dalla voce di miele”; cfr. Od. XII 187, dove l’aggettivo è riferito al canto delle Sirene) e dal canto sacro (ἱαρόφωνοι = ἱερόφωνοι), le membra hanno forza di portarmi (φέρην = φέρειν; cfr. Sapph. F 58, 15 V γόνα δ’ ο]ὐ φέροισι); fossi, oh fossi (βάλε = lat. utinam, è una forma di imperativo, forse di βάλλω, cristallizzatasi in congiunzione desiderativa) un cerilo (κηρύλος, maschio dell’alcione secondo Antigono, mentre due scoli a Teocrito sostengono che l’alcione prende il nome di “cerilo” nella vecchiaia: cfr. Calame, 473-475), che (ὅς τε: τε è il cosiddetto “τε epico” e ha valore generalizzante, indicando una condizione o attività abituale) sul fior dell’onda (metafora che indica la schiuma delle onde, cfr. Callim. F 260, 57 Pf.) vola (ποτήται = ποτᾶται, πέτεται) insieme con le alcioni con cuore intrepido (νηδεὲς dal prefisso negativo νή + δέος, hapax; cfr. Aristoph. Av. 1376; è correzione di J.F. Boissonade per νηλεές, “spietato”; cfr. Il. XIX 229; IX 497 –, accolto da alcuni editori tra cui Calame, o ἀδεές, tramandati rispettivamente da Antigono e da Fozio), sacro (ἱαρὸς = ἱερὸς, cfr. Riano F 73, 3 P probabilmente in relazione alla leggenda – attestata a partire da Simonid. F 508 – delle “giornate alcionidi”, cioè della quiete marina che si avrebbe al tempo del solstizio d’inverno per consentire all’alcione di nidificare; peraltro, ἱαρὸς è correzione di A. Hecker, mentre la tradizione – Antigono, Fozio, Ateneo – riporta concordemente εἴαρος, e questa lezione ha trovato consensi anche col richiamo a Sapph. F 136 V) uccello dal cangiante colore del mare (ἁλιπόρφυρος, < ἅλς + πορφύρω; cfr. Od. VI 53; XIII 108; Anacr. PMG 447)».


Elihu Vedder, Le Pleiadi. Olio su tela, 1885. New York, Metropolitan Museum of Art.

Ricordava Gennaro Perrotta che «quando un Greco diceva “vorrei essere un uccello”, la frase aveva un senso ben diverso da quello che ha per noi: voleva dire che era al colmo dell’infelicità e voleva divenire un essere irragionevole, per non soffrire»: si tratta in effetti di un tópos che ricorre in Anacreonte (PMG 378) e in vari luoghi di Euripide (Hipp. 732 ss.; 1292-1293; Med. 1297; HF 1157-1158; vd. Di Benedetto 1971, 263), ma in Alcmane il riferimento al cerilo mostra un’evidente connotazione positiva, come figura di un desiderio sia pure irrealizzabile, e sembra piuttosto comparabile – per quanto riguarda il nesso fra l’assimilazione a un animale alato e la liberazione dalla vecchiaia – con l’aspirazione, espressa da Callimaco, nel prologo degli Aitia (F 1, 31-36 Pfeiffer), a essere come una cicala:

θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο

ἄλλος, ἐγ]ὼ δ’ εἴην οὑλ[α]χύς, ὁ πτερόεις,

ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω

πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων,

αὖθι τ δ ’ ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος

ὅσσον ἔπεστι τριγλώχιν ὀλοῷ νῆσος ἐπ’ Ἐγκελάδῳ.

Nomos, Metaponto c. 500 a.C. AR 8,05 g. Recto: META(ΠOΝΤΙΟΝ), una spiga di grano con cavalletta/cicala.

Altri ragli simile in tutto alla bestia orecchiuta, ma io

sia il minuscolo alato animaletto – ah, sì! Davvero! –

perché la vecchiaia, perché la rugiada – cibandomi di

questo cibo distillato dall’etere divino io canti ma per

contro mi spogli di quella che addosso mi pesa

quanto l’isola a tre punte pesava su Encelado sciagurato.

Dibattuta l’identificazione dell’io: il disegno metrico (esametri dattilici) e la testimonianza di Antigono («[Alcmane] dice così essendo debole a causa della vecchiaia e non potendo partecipare ai cori né alla danza delle fanciulle») ha indotto a più riprese a ricondurre il brano a un προοίμιον, a un preludio citarodico per un partenio (destinato a essere eseguito subito dopo), e forse non è un caso che troviamo un’allocuzione a un coro di giovani coreute da parte del poeta alla fine (vv. 156 ss.) della sezione delia dell’inno omerico Ad Apollo (che in realtà era propriamente un προοίμιον, non diversamente da tutti i più antichi e più estesi inni detti “omerici”). Assai meno verosimile, in quanto priva di riscontri, parrebbe invece l’ipotesi secondo cui l’apostrofe era diretta alle coreute da un corego o da un χοροδιδάσκαλος diverso dal poeta (è semmai il coro a potersi eventualmente rivolgere al suo corego). «Alcmane guida i virginei cori: / “Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza, / come il cèrilo vola tratto da le alcioni: / vola con le alcioni tra l’onde schiumanti in tempesta, / cèrilo purpureo nunzio di primavera”»: traduzione “bella e fedele”, il Cèrilo (vv. 12-16), tratto dalle carducciane Odi barbare, costituisce la più famosa tra le riprese di questi celebri versi. Eppure, anche nell’antichità questo brano alcmaniano doveva essere famoso, come mostrano tra gli altri i riecheggiamenti in Saffo (F 58, 11-16 Voigt), negli Uccelli di Aristofane (vv. 250-251) e in Apollonio Rodio (IV 363).

Herbert James Draper, Halcyone. Olio su tela, 1915

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Bibliografia:

GIANGRANDE G., On a Passage of Alcman, QUCC 2 (1979), 161-165.

GRESSETH G.K., The Myth of Alcyone, TAPhA 95 (1964), 88-98.

HENDERSON W.J., Received Responses: Ancient Testimony on Greek Lyric Imagery, ActClass 41 (1998), 5-27.

NERI C. (ed.), Lirici greci. Età arcaica e classica, Roma 2011, 98; 273-274.

TSITSIBAKOU-VASALOS E., Alcman: Poetic Etymology Tradition and Innovation, RCCM 43 (2001), 15-38

VESTRHEIM G., Alcman fr.26: A Wish for Fame, GRBS 44 (2004), 5-18.

Insegnare Omero oggi: colloquio con Franco Ferrari

di R. Carnero, in Treccani, l’enciclopedia italiana.

Franco Ferrari è docente di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere dell’Università dell’Aquila, autore di importanti saggi e di un manuale di letteratura greca molto diffuso nei licei classici. Riflettiamo con lui sull’insegnamento di Omero, ma anche sui problemi legati all’attività di traduzione a scuola.

Exekias. Achille e Aiace giocano ai dadi. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), da Vulci. 530 a.C. ca. Roma, Museo Gregoriano Etrusco.

Prima di parlare con Franco Ferrari, conviene dare una seppur rapida scorsa alla sua ricchissima bibliografia scientifica, all’interno della quale ricordiamo i volumi Ricerche sul testo di Sofocle (Pisa, Scuola Normale Superiore, 1983), Oralità ed espressione: ricognizioni omeriche (Pisa,Giardini, 1986), L’alfabeto delle Muse. Storia e testi della letteratura greca, I-III (Bologna, Cappelli, 1995), Una mitra per Kleis. Saffo e il suo pubblico (Pisa, Giardini, 2007), La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche (Torino, UTET Libreria, 2007). Inoltre Ferrari ha curato l’edizione critica del Romanzo di Esopo (1997) e ha tradotto molti testi di letteratura greca fra cui AntigoneEdipo reEdipo a Colono di Sofocle (1982), PersianiSette contro Tebe e Supplici di Eschilo (1987), i frammenti di Saffo (1987), le Elegie di Teognide (1989), l’Anabasi e la Ciropedia di Senofonte (1985 e 1995), le Olimpiche di Pindaro (1998), Menandro e la commedia nuova (2001), l’Odissea (2001).

Professor Ferrari, quale spazio ritiene che sia bene venga riservato alle traduzioni dei poemi omerici di Monti e Pindemonte nell’insegnamento alla scuola superiore?
L’Omero delle traduzioni del Monti e del Pindemonte è l’Omero della tradizione classicistica italiana, rimasto nella memoria per locuzioni entrate nell’uso come “l’ira funesta” o “l’uom dal multiforme ingegno”. Ormai questo Omero è lontano dal nostro gusto, ma può conservare un suo spazio nella storia letteraria italiana come testimonianza della produzione di questi autori e di un modo di riappropriazione del passato in un determinato contesto storico.

Lei ha tradotto testi della letteratura greca in italiano. Quali sono state le sue principali preoccupazioni e difficoltà nello svolgere questo delicato lavoro?
Io ho tradotto numerosi testi greci sia di poesia (Omero, Saffo, Teognide, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide, Menandro) sia di prosa (Platone, Senofonte) in un arco di tempo che va dal 1982 al 2001. Inizialmente, traducendo la tragedia, cercavo l’energia, l’essenzialità, un certo ‘straniamento’. Negli anni ’70 erano di moda Brecht e Osborne, e sentivo la suggestione di Leopardi, non tanto per i suoi pur importanti ‘volgarizzamenti’, quanto per certe notazioni dello Zibaldone sul senso di ‘distanza’ che il traduttore deve avere per dare la sensazione che il testo provenga da un passato remoto e favoloso. Più tardi ho però maturato un più forte desiderio di comunicare, e quindi ho scelto un approccio più cordiale, più colloquiale: in particolare, le versioni del Simposio di Platone e della Ciropedia di Senofonte e anche quella dell’Odissea sono, credo, di fruizione più immediata. D’altra parte, credo che in una certa misura ogni testo tenda a suggerire esso stesso il modo migliore per essere trasposto in un altro sistema linguistico, stimolando il traduttore a cercare nella tradizione espressiva che gli è familiare i giacimenti più idonei, i ‘fondi’ più consentanei: sempre tenendo conto che il tradurre è un lavorio di approssimazione a una méta per sua natura irraggiungibile, un tentativo comunque vano di sanare la ferita conseguente al dramma di Babele: in chiave dolorosa questo mito biblico è al centro delle riflessioni di W. Benjamin sul ‘compito’ del traduttore, ma, secondo G. Steiner, appunto in Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione (Milano, Garzanti, 2004), può anche alludere in positivo alla scoperta del pluralismo e della diversità come risorse della specie umana. E ho trovato il maggior piacere proprio nel rimodellare più e più volte, alla ricerca di una resa soddisfacente, un abbozzo iniziale allestito per capire filologicamente il senso (e la polisemia) del testo originario.

Pittori di Cambridge 49. Priamo ucciso da Neottolemo, figlio di Achille. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, da Vulci. 520-510 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

C’è un dibattito tra gli insegnanti di lettere classiche: è meglio leggere molto in traduzione o poco in lingua originale? Qual è la giusta misura tra le due parti dell’insegnamento?
Tradurre è anzitutto un modo per rendere accessibile un testo, del passato come del presente, a chi ignori la lingua in cui esso è stato originariamente composto, ma si traduce anche per chi, con maggiore o minore competenza, conosce la lingua di partenza. Ogni traduzione è un’interpretazione, un tentativo di cogliere almeno alcune delle connotazioni nascoste nel linguaggio. Così, analogamente, gli studenti possono usare le traduzioni, e confrontarle l’una con l’altra, per addentrarsi fra le pieghe dei testi, ma possono anche usarle per conoscere sezioni più ampie di un’opera di cui riescono a leggere nell’originale solo un numero limitato di versi o di pagine. Direi che le due attività del leggere in originale e del leggere in traduzione sono complementari, non antagonistiche. È chiaro, per esempio, che una lettura globale anche di uno solo dei poemi omerici nell’originale è improponibile non solo al liceo ma anche all’università, e tuttavia per comprendere il duello finale fra Achille e Ettore è necessario tener conto dei momenti di preparazione che il narratore ha dislocato in diverse zone del poema (momenti che possono essere recuperati anche solo in traduzione).

Spesso gli insegnanti delle scuole superiori per far capire i classici agli studenti di oggi si sforzano di ‘attualizzarli’. Quanto è lecita secondo lei un’operazione di questo tipo? E a quali condizioni una tale strada è praticabile?
Una ‘attualizzazione’ è giusta e quasi doverosa per far capire ai giovani che i grandi temi della vita e della morte, dell’eros e della violenza, della guerra e della pace e così via o istituzioni come la democrazia sono largamente presenti e dibattuti già nel mondo antico e, pertanto, ci avvicinano a uomini e donne vissuti in un remoto passato, ma altrettanto (e forse più) importante è l’attenzione a una prospettiva storica e antropologica: cogliere la diversità nella similarità, intravedere modi di vivere e di pensare che ci sono diventati sconosciuti.

Si dice spesso che sarebbe bello poter estendere la conoscenza delle letterature classiche anche agli studenti di scuole diverse dai licei. Secondo lei è possibile farlo? In che modo?
Questo è un grosso tema che riguarda la democrazia del nostro Paese, la conquista di un sapere condiviso. Sì, alcuni testi classici fondamentali dovrebbero essere letti (inevitabilmente in traduzioni moderne e fruibili) anche da studenti che non frequentino i licei classici o scientifici, così come alcuni aspetti della storia antica, soprattutto quelli relativi alle istituzioni politiche e ad alcuni snodi economici e sociali, dovrebbero essere oggetto di riflessione in ogni tipo di scuola.

Se lei dovesse parlare a un docente di Lettere di un liceo scientifico, quali testi e quali opere della letteratura greca direbbe che è giusto ed essenziale vengano fatte conoscere ai suoi studenti (naturalmente in traduzione)?
Non ci sono regole generali, non credo sia proponibile un ‘canone’ di autori e opere valido per tutti. Molto dipende dai gusti di quei particolari studenti e di quel particolare insegnante, dai percorsi culturali che essi compiono in un determinato lasso di tempo. Autori come Omero, Sofocle o Platone non sono ‘classici’ per caso, ma anche scrittori minori o minimi, o magari ‘anticlassici’ (penso per esempio all’anonimo Romanzo di Esopo), possono tornare utili nell’ambito di un certo itinerario e di un certa fase della formazione del gusto. I Greci inventarono la nozione di kairòs, di occasione o momento opportuno. Saper cogliere il kairòs è, credo, una grande qualità del bravo docente.

Pittore Cleofrade. Achille cura le ferite di Patroclo. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500 a.C. ca. da Vulci. Antikensammlung Berlin.

E, analogamente, a un docente di un istituto tecnico cosa suggerirebbe di far leggere della letteratura greca e di quella latina?
Vale lo stesso discorso che per il docente di un liceo scientifico, magari con qualche ulteriore collegamento con i percorsi specifici di un determinato istituto tecnico. In fondo la scienza e la techne rappresentano un aspetto essenziale della cultura antica, e autori come Euclide o Archimede o Vitruvio sono riproponibili con selezioni di passi e adeguate spiegazioni (mi viene in mente Il grande Archimede di M. Geymonat, pubblicato da Teti Editore nel 2006, un agile volume che qualsiasi studente di scuola secondaria potrebbe leggere con interesse).

Un’ipotesi potrebbe essere quella di legare lo studio delle letterature classiche a quello della letteratura italiana?
La cultura antica è parte integrante della nostra letteratura. Determinate opere e determinati passi di autori greci o latini hanno agito come ‘ipotesti’. Gli esempi sono innumerevoli, alcuni macroscopici, altri più ambigui e sfuggenti. Qualche volta l’ipotesto ha prodotto una crescita di senso lungo una linea coerente, come nel caso del sonetto del Foscolo In morte del fratello Giovanni rispetto al carme 101 di Catullo, in altri casi ha invece innescato un rapporto critico, come per la vicenda di Orfeo e di Euridice, narrata da Virgilio alla fine del IV libro delle Georgiche, nelle riprese di Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (1947) o di Gesualdo Bufalino nel Ritorno di Euridice (1986). Quale che sia il tipo di rapporto fra testo e ipotesto, non ha comunque senso, in alcun tipo di scuola, far leggere il brano più recente senza confrontarlo con il suo modello di riferimento. E il discorso può essere allargato al cinema, come per la Medea di Pasolini rispetto al dramma di Euripide o per il Satyricon di Petronio rivisitato da Fellini.

*Docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano

Pubblicato il 20/11/2007