Il potere militare presso i Germani: parentela e seguito

La ricerca storiografica moderna non si è occupata di nessun’altra coppia concettuale in modo tanto più intenso e incontrastato di quanto non abbia fatto con «dominio» (Herrschaft) e «seguito» (Gefolgschaft), stravolgendola con impegno ideologico e dilettantismo polemico. Un trattamento simile hanno conosciuto le categorie di «parentela» (Sippe) ed «esercito tribale» (Stammesheer). Nelle fonti letterarie, da Cesare a Wulfila, ai testi altomedievali del continente, delle isole britanniche e della Scandinavia, si parla piuttosto di «potere militare» e «seguito», ma questi concetti richiedono una spiegazione più esaustiva.

Che fra le popolazioni germaniche vigesse una monarchia o un’oligarchia, c’era pur sempre un’élite che deteneva il potere, o meglio un legittimo diritto sulle azioni altrui. Questa rivendicazione di potere si basava sulla maggiore ricchezza e coinvolgeva sia gli uomini liberi sia quelli non liberi e meno ricchi. Il potere era prima di tutto sulla casa, cioè l’autorità di comando sulla propria famiglia e sui propri dipendenti, ed era esercitato su un gruppo di persone libere da incombenze quotidiane che, come soldati addestrati, agivano in base agli ordini del loro signore. Quando Arminio assediò il suocero Segeste per liberare la moglie Thusnelda, due gruppi abbastanza numerosi di seguaci si affrontarono per espugnare la casa di Segeste, evidentemente ben fortificata; quando Arminio attaccò il re dei Marcomanni, egli era a capo di un esercito multietnico di seguaci che combattevano schiere di guerrieri strutturate in modo simile da Marobodo, alle quali si erano aggiunti anche lo zio di Arminio e il principe cherusco Inguiomero con il loro seguito (Tac. Ann. I 57-59).

Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.

I resoconti di Cesare e di Tacito, che si riferiscono in modo sistematico a un «seguito» germanico, non presentano vuote astrazioni, ma sono molto concreti: sono i resoconti della vita di una società arcaica, naturalmente, come mostrano i confronti fra le istituzioni germaniche e quelle non germaniche. Le fonti latine si riferiscono al «seguito» con il termine comitatus, un fenomeno sociale che si affermò pienamente durante l’epoca delle migrazioni (IV-V secolo), come mostrano le varie espressioni per indicarlo: þiudans in gotico, fylgja in norreno, þeod in sassone, Truste in franco e Gasindium in longobardico.

Ogni capo militare degno del suo rango aveva il suo «seguito», le dimensioni del quale variavano in proporzione alla fama, al prestigio e al carisma: disporre di un gran numero di seguaci era naturalmente motivo di vanto e la dimostrazione pratica della propria competenza militare. I guerrieri accompagnavano il loro condottiero in ogni occasione, sia in guerra sia nelle adunanze pubbliche, vivendo insieme a lui e per lui, quasi fosse la sua scorta armata personale. Tacito (Germ. 13, 3) lo spiega molto chiaramente: haec dignitas, hae vires: magno semper electorum iuvenum globo circumdari in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant («Questa è la dignità, questa la manifestazione di forza: essere sempre seguiti da una folta schiera di giovani scelti, decoro in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. Per ciascun capo militare è motivo di gloria e di onore, non soltanto presso la sua gente ma anche tra le tribù limitrofe, distinguersi per la consistenza e per il valore del proprio seguito; infatti, essi sono richiesti per incarichi diplomatici, sono gratificati con donativi e combattono vittoriosamente le guerre soprattutto grazie alla propria fama»).

Fondamentale era il rapporto di subordinazione del seguace al comandante, rapporto sancito da un solenne giuramento, che regolava i legami e i vincoli di fiducia fra il signore e gli uomini sotto il suo comando. Tacito (Germ. 14, 1), infatti, osserva che principes pro victoria pugnant, comites pro principe («I condottieri combattono per la vittoria, i seguaci combattono per i capi»). I meriti personali conseguiti dal membro del «seguito» sul campo e la considerazione goduta presso il proprio comandante consentivano ad alcuni di distinguersi dal resto del gruppo: questi gregari erano spesso investiti di importanti responsabilità, prove e missioni. A ciò va aggiunto che il condottiero precedeva i suoi in battaglia, ma anche che il suo «seguito» aveva l’obbligo morale di non sopravvivergli: Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis non adaequare (Tac. Germ. 14, 1, «Non appena si viene alle armi, è vergognoso per un capo essere superato in valore e altrettanto turpe per il gruppo non emulare il proprio condottiero»). Il guerriero doveva al suo capo valore e coraggio, difesa e protezione: sopravvivergli in battaglia era motivo di infamia che poteva pesare sulla coscienza per il resto della vita.

Cavaliere germanico. Disco decorativo, bronzo, VI secolo, da una tomba alamannica a Bräunlingen. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

Se i comites costituivano la milizia privata del condottiero, anche costui era tenuto a osservare alcuni obblighi, fra i quali garantire fama e ricchezza ai suoi uomini, condurli alla vittoria in guerra e consentire loro di vivere dignitosamente in pace (Tac. Germ. 14, 2): Exigunt enim principis sui liberalitate illum bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam; nam epulae et quamquam incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt («Infatti, dalla generosità del loro condottiero i gregari richiedono come ricompensa o quel particolare cavallo da guerra o quella speciale lancia insanguinata e vittoriosa, mentre i pasti e il vitto nel suo complesso, semplice seppur abbondante, costituiscono la loro paga»).

Il peso economico rappresentato dal «seguito» doveva essere ragguardevole, considerata la povertà dell’economia germanica, fondata sull’agricoltura; perciò, soltanto condottieri molto potenti potevano permettersi di supportare un «seguito». La munificenza dei condottieri, pertanto, derivava soprattutto dal bottino razziato ai vicini, che veniva spartito equamente tra i guerrieri in base all’onore riconosciuto a ciascuno (Germ. 15, 2): Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum, quo pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magnifica arma, phalerae torquesque («È usanza delle tribù offrire spontaneamente e a titolo personale ai condottieri bestiame e prodotti agricoli, che, accolti come segno di distinzione, sopperiscono anche alle loro necessità. Si compiacciono particolarmente dei doni ricevuti dalle tribù vicine, inviate non solo da singole persone, ma anche a nome di tutta la comunità: cavalli di razza, splendide armi, decorazioni militari e monili»).

Guerriero franco. Pietra tombale, VII secolo, da Niederdollendorf (Königswinter). Bonn, Rheinisches Landesmuseum.jpg

D’altra parte, l’adesione al comitatus era volontaria, per il puro piacere di fare la guerra (Tac. Germ. 14, 2): Si civitas, in qua orti sunt longa pace et otio torpeat, plerique nobilium adulescentium petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt («Se la comunità in cui sono nati s’infiacchisce in un prolungato periodo di pace, molti giovani delle famiglie nobili si trasferiscono presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in qualche conflitto»). In una società arcaica come quella dei Germani la mera capacità di comando non assicurava di per sé il potere; chi intendeva detenerlo doveva disporre di qualcuno che lo precedesse o lo seguisse. Ogni individuo occupava un certo posto all’interno di un ordine gerarchico ed era tenuto a mantenerlo, persino migliorarlo, se non voleva rischiare di perdere la propria posizione (Germ. 13, 3): Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus («Il seguito ha dei gradi, secondo le disposizioni del capo; c’è una certa competizione tra coloro che ne fanno parte, per vedere a chi tocchi il primo posto nella considerazione del capo»).

Analogamente a questo senso di aemulatio, un giovane poteva diventare capo: secondo una concezione tipicamente germanica, l’età decideva di rado l’ordine gerarchico degli individui. L’esperienza militare non era un prerequisito necessario, mentre contavano di più insignis nobilitas aut magna patrum merita («la ragguardevole nobiltà o i grandi meriti dei padri»), che facevano risalire fino ai capostipiti divini il carisma personale e il «credito» che nasceva dal capo. Tra l’altro, i guerrieri più giovani ceteris robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites aspici (Tac. Germ. 13, 2, «si aggregavano ai più forti e ai più esperti e non era motivo di vergogna mostrarsi parte di un seguito»).

La tecnica di combattimento della fanteria germanica, simile alla falange. Illustrazione di A. Gagelmann.

In origine, come per la maggior parte dei barbari, anche la disposizione in battaglia dei Germani era ordinata per famiglie, Sippen e gruppi tribali, ma le forme di organizzazione del seguito finirono per sconvolgere e modificare gli assetti tradizionali. La scelta dei membri del seguito era una decisione che naturalmente spettava a un capo carismatico: coloro che lo avrebbero accompagnato, percorrendo un tratto di strada insieme, costituivano la «compagnia» (das Gesinde < ant. norr. Sinni, «che partecipa a una spedizione, gregario»; a.a.t. sind, «strada, cammino, direzione»).

Senza tutte le premesse materiali, e soprattutto senza il successo in battaglia, il credito e il capitale avevano vita breve. La costituzione di un «seguito» attorno alla figura di un capo carismatico era un atto volontario che comportava, però, determinati obblighi di reciprocità. I guerrieri e il loro leader esercitavano l’uso delle armi, nella convinzione che facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare fosse più facile acquisire fama in mezzo ai pericoli dei conflitti e si potesse mantenere un seguito numeroso solo con la forza e per mezzo della guerra»).

Guerriero cherusco (I secolo d.C.). Illustrazione di Pablo Outeiral.

Presso gli antichi popoli germanici era consuetudine che i ragazzi non assumessero le armi fin quando non ne fossero stati degni: si trattava di un diritto ottenuto compiendo con successo una prova, un rito di passaggio, che consisteva generalmente nell’uccisione di una fiera e nel riportarne la carcassa al cospetto degli anziani per dimostrare l’effettivo superamento della prova. Non era raro che all’abbattimento di un animale feroce si sostituisse l’uccisione del primo uomo in combattimento. Per esempio, si può citare questa usanza presso i Chatti, verso le doti belliche dei quali Tacito mostra una certa ammirazione (Germ. 30, 3): Omne robur in pedite, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant: alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum («La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare»). Da loro vigeva l’uso di lasciarsi crescere barba e capelli nel corso dell’adolescenza, per poi radersi al primo avversario ucciso in battaglia (Germ. 31, 1): Super sanguinem et spolia revelant frontem, seque tum demum pretia nascendi rettulisse dignosque patria ac parentibus ferunt («Sul cadavere insanguinato si radono il volto e solo allora ritengono di aver pagato il prezzo della loro nascita e si considerano degni della patria e dei genitori»). Parimenti, il giovane guerriero doveva ritenersi degno della nuova comunità e del nuovo padre (il princeps) solo dopo aver dimostrato il proprio valore sul campo. Sempre presso i Chatti Tacito informa dell’esistenza di una consorteria di guerrieri, un gruppo ristretto e a carattere iniziatico, che richiedeva ai suoi membri il superamento di una certa prova: Fortissimus quisque ferreum insuper anulum (ignominiosum id genti) velut vinculum gestat, donec se caede hostis absolvat. […] Haec prima semper acies, visu nova: nam ne in pace quidem vultu mitiore mansuescunt («Chiunque sia particolarmente forte tra loro indossa un anello di ferro – motivo di vergogna presso questa gente –, come se si trattasse di un simbolo di servitù, finché non se ne libera uccidendo un nemico […]. A costoro spetta l’inizio di ogni combattimento: la loro schiera è sempre la prima, terribile a vedersi; neppure in tempo di pace si addolciscono assumendo un aspetto più mansueto»).

Le battaglie erano situazioni nelle quali era particolarmente richiesto l’aiuto divino e per questo motivo si ricorreva a rituali di culto. Perciò, i membri di una consorteria guerriera dovevano assumere un aspetto spaventoso e terribile sia nei confronti dei nemici umani sia contro ostili forze soprannaturali. A tal proposito, Tacito (Germ. 43, 5) fornisce un’interessante descrizione dei guerrieri arii orientali, i quali truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur: nigra scuta, tincta corpora; atras ad proelia noctes legunt ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt, nullo hostium sustinente novum ac velut infernum aspectum («truci d’aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo: portano scudi neri e corpi tinti di scuro; per combattere scelgono le notti senza luna e il solo orrore e l’ombra di questo esercito di fantasmi bastano a seminare il panico, perché non esiste avversario capace di sostenere il loro aspetto insolito»). Il fatto che alcuni Arii si mascherassero come un esercito di fantasmi per la battaglia va visto come un gesto eminentemente sciamanico: se da una parte, come la maggior parte dei guerrieri germanici, non disponevano di proprietà personali, non curavano la propria casa, ma campavano sulle spalle degli altri, dall’altra la loro condizione garantiva loro il privilegio di una vita separata rispetto al resto del*þeuda («popolo»), e di ricevere un addestramento segreto, grazie al quale scendevano in battaglia in preda a un’estasi particolare. Certamente, il loro comportamento non era mera espressione di una ritualità ancestrale, ma il simbolo di un forte legame fra uomini che tendeva a rompere l’ordine gerarchico della Sippe.

Placche di Torslunda. Lamine con rilievi a sbalzo, bronzo, c. VI-VIII secolo, da Torslunda (Öland, Svezia). Stockholm, Historiska museet.

Quanto all’estasi del guerriero (ciò che i Romani chiamavano furor), presso i popoli germanici i casi emblematici furono quelli dei cosiddetti cosiddetti berserkir («vestiti da orsi») e ulfedhnar («teste di lupo») – divenuti assai popolari soprattutto in età vichinga (IX-X secolo). Con ogni probabilità, si trattava di varianti dei guerrieri d’élite arii e chatti: erano soliti andare in battaglia completamente nudi, difesi da uno scudo e coperti dalla pelliccia del loro animale totemico. Dopo essersi consacrati al dio *Wōdanaz (Wuoðan), prima della battaglia, questi guerrieri cadevano in uno stato mentale di furia (berserksgangr), ringhiando, ululando e perfino mordendo gli scudi; probabilmente, il rituale prevedeva l’assunzione di sostanze psicotrope, tali da renderli particolarmente feroci e insensibili al dolore e alla fatica e da convincerli di trasformarsi nella fiera di cui indossavano le pelli. Nella mischia i guerrieri invasati dimostravano una forza sovrumana, non avvertendo il dolore delle ferite subite e, incapaci di distinguere tra amici e nemici, massacravano chiunque capitasse loro a tiro.

Sulla panoplia del guerriero germanico, Tacito (Germ. 6) riferisce queste informazioni: Ne ferrum quidem superest, sicut ex genere telorum colligitur. rari gladiis aut maioribus lanceis utuntur: hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt angusto et brevi ferro, sed ita acri et ad usum habili, ut eodem telo, prout ratio poscit, vel comminus vel eminus pugnent. et eques quidem scuto frameaque contentus est, pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in immensum vibrant, nudi aut sagulo leves. nulla cultus iactatio : scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt. paucis loricae, vix uni alterive cassis aut galea. equi non forma, non velocitate conspicui. sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextro agunt, ita coniuncto orbe ut nemo posterior sit. in universum aestimanti plus penes peditem roboris; eoque mixti proeliantur, apta et congruente ad equestrem pugnam velocitate peditum, quos ex omni iuventute delectos ante aciem locant. definitur et numerus: centeni ex singulis pagis sunt, idque ipsum inter suos vocantur, et quod primo numerus fuit, iam nomen et honor est. acies per cuneos componitur. cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur. corpora suorum etiam in dubiis proeliis referunt. scutum reliquisse praecipuum flagitium, nec aut sacris adesse aut concilium inire ignominioso fas, multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt («Nemmeno il ferro abbonda in Germania, come si può dedurre dal tipo di armi. Pochi usano spade o lance abbastanza lunghe: portano piuttosto certe lance, che chiamano “framee”, dalla punta di ferro stretta e corta, così aguzza e adatta all’impiego che la stessa arma è utilizzata sia per combattere da vicino sia da lontano. Anche i cavalieri si accontentano del solo scudo e della framea; i fanti, nudi o coperti da una tunica leggera, scagliano proiettili (ogni guerriero ne lancia molti) a notevole distanza. Non hanno alcuna ricercatezza nell’ornamentazione, tutt’al più marcano gli scudi con i loro colori preferiti. Pochi indossano una corazza e ancor meno l’elmo, sia esso di metallo o di cuoio. I loro cavalli non si distinguono per bellezza né per velocità; non sono nemmeno addestrati a compiere evoluzioni com’è nostro uso: li conducono in linea retta oppure verso destra, con una rotazione estremamente compatta, in modo che nessuno resti indietro. Secondo una valutazione complessiva, la maggior forza d’urto sta nella fanteria: perciò, cavalieri e fanti combattono misti e i secondi mantengono una velocità di movimento adatta al combattimento equestre; i fanti, scelti tra tutta la gioventù, sono schierati in prima linea. Anche il numero di questi guerrieri è prestabilito: cento per ciascun villaggio e tra i Germani sono detti “i cento”, e quello che in origine era soltanto un numero, ora costituisce un titolo di distinzione. Lo schieramento della fanteria si compone di formazioni a cuneo. La ritirata strategica è considerata manifestazione di prudenza e non di viltà, purché poi si torni appunto all’attacco. Riportano dal campo di battaglia i corpi dei caduti anche in caso di scontri dall’esito incerto e considerano una colpa gravissima l’abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è concesso di assistere ai sacrifici né di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano»).

Prigioniero germanico (forse suebico). Statuetta, bronzo, II secolo. Wien, Römermuseum.

Il passo è molto interessante: la maggior parte dei guerrieri era dotata principalmente della framea (forse da fram, «in avanti»), una lancia corta, dalla punta stretta e affusolata; doveva essere un’arma molto versatile e maneggevole, sia da lancio (eminus) sia per il combattimento corpo a corpo (comminus). Fra i proiettili (missilia), lanciati a grande distanza e con estrema precisione, probabilmente figuravano giavellotti, frecce e pietre. La spada era uno strumento bellico piuttosto raro tra i popoli germanici del I secolo: avrebbe trovato maggiore diffusione in seguito, ma all’epoca di Tacito costituiva un elemento di distinzione per i guerrieri scelti e i loro condottieri. Come arma di difesa, i guerrieri portavano lo scutum, cioè lo scudo rettangolare. Ogni tribù doveva avere i propri simboli e i propri colori araldici, per poter riconoscere in combattimento i propri compagni. Gli stessi simboli dipinti dovevano possedere proprietà magiche-apotropaiche. Come lo scudo, anche la framea era considerata un oggetto magico, data la sua capacità di togliere la vita. Percio, perdere, o abbandonare al nemico le proprie armi, costituiva il più grave dei disonori: Tacito riferisce che coloro che se ne macchiavano incorrevano nel biasimo generale e non erano più ammessi alle cerimonie sacre né alle assemblee della tribù. Chi commetteva un atto simile, non di rado, non sopportando l’onta si impiccava per la vergogna.

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Solone

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 226-233.

 

L’opera di Solone, arconte nel 594/93, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/91, secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo. Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoí di Dracone. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/07[1].

Solone. Busto, marmo, copia romana da originale di IV sec. a.C. ca. Malibu, J.P. Getty Museum.

Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta. È soprattutto in gioco la condizione degli hektēmóroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di quest’obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dall’Attica.

Di questo quadro, tutto è stato messo in discussione, con proposta di soluzioni di cui è difficile non vedere la distanza sia dai testi antichi sia dalla verosimiglianza storica. Ora si ammette che ci fosse solo una grande proprietà privata, ma non una media e piccola e che, accanto a grandi proprietà private, ci fossero ancora vaste proprietà pubbliche, che sarebbero dirette eredi e continuatrici di quelle di epoca micenea; ora invece si considera la condizione degli hektēmóroi come il risultato dello scadimento dalla condizione di proprietari privati di un tempo, e quindi si dà un largo spazio alla costituzione e alla diffusione della piccola e media proprietà privata durante i secoli dell’alto e del medio arcaismo. Probabilmente queste rappresentazioni peccano tutte di rigidità e di nominalismo, e tengono poco conto di certe retroiezioni che (a livello formale, soltanto, e senza tradire, a ben guardare, la realtà) Aristotele opera, dalle condizioni economiche del IV secolo a.C. a quelle della fine del VII e dell’inizio del VI[2].

Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., Atene, Museo dell’Acropoli.

Se si opera sulla base di una nozione e condizione teoricamente e giuridicamente ben definita di proprietà, si trasferisce con ogni probabilità nell’epoca pre-soloniana e soloniana uno sviluppo dell’idea e delle forme legali distintive della proprietà terriera, che appartiene ad epoca più tarda. In modo particolare, poi, si trascura il fatto che il sistema delle místhōseis (o dei misthōmata o, in generale, misthoí), cioè un vero e proprio sistema dei fitti, una condizione economica in cui è sviluppato il rapporto proprietà-fitto (e perciò si abitano case prese, o ridotte ad essere prese, in fitto, e si coltivano terreni in analoghe condizioni), è ciò che caratterizza l’evoluzione dei rapporti sociali e lo sviluppo dell’economia monetaria tra V e IV secolo a.C., con particolare forza nel IV secolo. Il rapporto ricchezza-povertà, sul terreno della proprietà terriera (centrale nella concezione di Aristotele e nella sua rappresentazione dell’economia), doveva con molta facilità presentarsi ad Aristotele sotto le vesti del rapporto affittuario: salvo che il fitto o il canone nel IV secolo si pagano prevalentemente in denaro, e quelli della fine del VII o dell’inizio del VI si pagano (ed è una prima correzione storica da apportare ad Aristotele) prevalentemente in natura (benché, per Aristotele stesso, all’inizio del VI secolo molti rapporti sociali figurino ormai mediati dalla moneta, in Attica). Chi pensa agli hektēmóroi come coltivatori di terre appartenenti di diritto allo Stato, come residuo di forme micenee, dà probabilmente minore importanza al fatto che quel tipo di proprietà era collegato col potere palaziale; se permangono (anzi, probabilmente, si sviluppano) le proprietà sacre, è ben difficile che con la fine dei palazzi non abbia coinciso un certo sviluppo della proprietà privata. Ma questo non comporta necessariamente una formazione significativa di piccola e media proprietà, condizione da cui poi, per successivi e crescenti indebitamenti, i titolari sarebbero scaduti nella gravosa e rischiosissima condizione di hektēmóroi. Se però si ammette quel che suggeriscono le parole dello stesso Solone («mi può essere eccellente testimone, nella giustizia del Tempo, la madre grandissima degli dèi Olimpi, la nera Terra, da cui io strappai i cippi che in più luoghi erano infissi, Terra un tempo asservita, ora invece libera!»)[3], egli determinò la liberazione della terra, cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle di servitù che i cippi attestavano e garantivano.

Dunque è plausibile un quadro come quello che segue. Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale). Un interprete del IV secolo (epoca di místhōseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.

Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epí toîs sómasin). Inoltre abolisce i debiti (fa quello che le fonti chiamano chreōn apokop, «taglio dei debiti»). L’osservatore di un secolo di piena economia monetaria può interpretare il taglio come parziale e non totale, e la riduzione del debito così ottenuta può anche collegarla con la riforma monetaria attribuita a Solone, cioè la sostituzione della dracma leggera d’argento (dracma euboica), di g. 4,36, alla dracma pesante (eginetica), di g. 6,2: di fatto, una svalutazione di circa il 30 %, che riduceva i debiti di altrettanto. Ed è proprio così, in termini forse riduttivi, che ragionava l’attidografo Androzione. Non è invero chiaro né il rapporto tra la forma del sistema ipotecario (sarebbe vano negare che esista una forma elementare, e fondamentalmente pre-monetale, di ipoteca già in questo periodo) e il «taglio dei debiti», né quello tra tale taglio e la riforma monetaria. Ma se si dà un minimo credito alla tradizione su un qualche uso di moneta di tipo eginetico ad Atene prima di Solone (del resto, se Atene apparteneva all’anfizionia di Calauria nel VII secolo, tali condizioni esistevano in pieno), si può salvare gran parte della tradizione, e non ridurre tutte le misure soloniane ad un solo atto. L’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura ci dev’essere stata (e questo sarà il senso fondamentale della problematica parola seisáchtheia, o «scuotimento dei pesi»); ma, accanto, ci saranno state prime forme di indebitamento anche attraverso il nuovo sistema economico, non ancora dominante, ma certo affiorante, della moneta: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo, ma non unico, di alleviamento[4]. La condizione della terra, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un consolidamento del rapporto di possesso stabile (tanto più che erano stati fatti sparire i cippi che attestavano un diritto diverso di proprietà).

Sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie “classi” (télē), forse aggiungendone una, la prima, e definendo i termini quantitativi degli ormai quattro télē: pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frumento (o 500 metreti di vino o d’olio); cavalieri (a quota 300); zeugiti (possessori di un paio = zeûgos di buoi? O “opliti”? a quota 200); teti (o salariati), sotto quest’ultimo livello. Le cariche degli arconti e dei tesorieri (tamiaí) erano riservate ai pentacosiomedimni (o forse estese, per quanto riguarda gli arconti, anche alla seconda classe). Ai teti tuttavia la costituzione di Solone garantiva non soltanto la partecipazione all’assemblea (ekklēsía), ma anche al tribunale del popolo (heliaía), di cui egli sarebbe stato creatore o massimo potenziatore. Forse Solone arricchiva il vecchio quadro istituzionale con un nuovo consiglio, quello dei 400, cento per ciascuna delle quattro tribù; ognuna delle tribù era divisa in tre “terzi” (tre trittýes), e in 12 naucrarie (“distretti”, e insieme cariche dei naucrari, con funzioni finanziarie)[5].

Misure attiche per gli aridi (sopra) e per i liquidi (sotto), secondo A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1928, 131 ss.

Come si vede, l’opera di Solone, se e in quanto innovatrice, si limita ad articolazioni ulteriori dell’assetto tradizionale, che equivalgono certo a un suo rafforzamento nella coscienza generale. Egli aveva anzi rifiutato le sollecitazioni di alcuni e la tentazione, offerta dalla situazione oggettiva, di farsi tiranno. A questo fermo atteggiamento sul piano del potere politico corrisponde, sul piano economico, il rifiuto di una redistribuzione della terra (ghēs anadasmós), che avrebbe significato il rovesciamento dei diritti formali di proprietà, quelli cioè dei grandi proprietari, gli unici a possedere probabilmente titoli del genere che fossero formalmente definiti, in quelle condizioni storiche. L’agricoltura non riceveva dunque impulsi particolari dalla sanatoria introdotta da Solone; viceversa, sembra plausibile che egli abbia favorito l’artigianato, la produzione ceramica, in una con un certo sviluppo mercantile, in quanto consentì l’esportazione dell’olio, pur vietando altre forme di esportazione[6]. Egli si configura dunque come un valorizzatore del politico, come un creatore di valori comunitari. La sua debolezza, sul terreno dei fatti, è di operare solo mediazioni: ad Atene egli vuole essere, ed è, il dialaktḗs, il “pacificatore”, il “conciliatore”, il “grande mediatore”: non vuole essere (e non è) il tiranno.

Finita la sua opera, egli si trasferisce per commercio e turismo in Egitto; ad Atene riprendono le stáseis, i “conflitti politici”. Dopo cinque anni un’anarchia (= “assenza di arconte”), dopo altri cinque una nuova anarchia, quindi, per un paio d’anni (582-580), un arcontato di durata eccezionale, di un certo Damasia. Ad Atene si hanno già formazioni politiche di tipo corporativo: abbattuto Damasia, si sperimenta un arcontato decemvirale, composto da 5 eupatrídai (“gente di nobile lignaggio”), 3 ágroikoi (“contadini”), 2 demiourgoí (“artigiani”)[7]. Poco dopo troveremo una diversa articolazione, ancora una volta in tre gruppi politici, questa volta su base territoriale: i pedieîs o pediakoí (cioè i “proprietari terrieri del pedíon”), i parálioi (“proprietari di regioni costiere”), i diákrioi o hyperákrioi (“quelli della – o al di là della – zona montuosa”). Non si tratta di veri partiti, con tanto di ideologie; ma emerge una dialettica politica del più grande interesse, che tende ad affermarsi come uno strumento di soluzione dei conflitti. In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortuni possono spiegarsi solo alla luce della particolare temperie politica ad Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.

 

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Note

[1] Sull’anno dell’arcontato di Solone e la cronologia di Sosicrate (ol. 46, 3 = 594/3 a.C.) in Diog. I 62 (risalente ad Apollodoro), e quella più bassa, di Arist. Ath. 14, 1 (592/1, se l’arcontato di Comea è del 561/0 a.C.); cfr. Plutarco, La vita di Solone, a c. di Manfredini M. – Piccirilli L., Milano 1977, pp. 179-180.

[2] Cfr. Arist. Ath. 2, 2; Plut. Solon 13, 4; Piccirilli L., op. cit., 169-178; Rhodes P.J., Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford 1981, 90-97. In termini meramente lessicali, il confronto più diretto e convincente di ἑκτήμοροι (o ἑκτημόριοι) è γεωμόροι (sull’analogia, del resto, cfr. Piccirilli L., op. cit., 170), quindi dovrebbe trattarsi dei possessori di 1/6, non di 5/6. Nei fatti, sembra preferibile invece l’interpretazione 5/6. La vera difficoltà dell’interpretazione risiede in ciò: che la condizione affrontata da Solone possa essere il punto d’arrivo di un lungo cammino, una condizione ultima raggiunta attraverso una crisi e un progressivo declino.

[3] Solone, fr. 24 Diehl = 30 Gentili-Prato.

[4] Arist. Ath. 10.

[5] Il rapporto tra le naucrarie (12 per ogni trittýs), e le trittie, affermato da Arist. op. cit. 8, 3, è revocato in dubbio da Hignett C., A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Oxford 1952, 67-74 (le naucrarie sono considerate distretti locali, non correlati con le quattro tribù; Pisistrato potrebbe aver rimodellato un sistema collegato – come suggerirebbe l’etimologia – con le esigenze navali, trasformandolo in un sistema amministrativo di portata più generale).

[6] Sulla produzione dell’olio in epoca micenea e arcaica, cfr., ad es., Richter W., Die Landwirtschaft im homerischen Zeitalter, Göttingen 1968, 134-149.

[7] La distinzione eupatrídai-ágroikoi (= gheorgoí)-demiourgoí (circa 580 a.C.) è chiaramente più tarda di quella indicata genericamente come preclistenica in Arist., fr. 385 Ross, Ath. Fr. 5 Oppermann, che conosce solo l’opposizione gheorgoí/demiourgoí (a un’epoca in cui il corpo civico – con 4 tribù, 12 fratrie/trittie, 360 ghéne ciascuno di 30 membri – avrebbe contato 10.800 membri). È come se quel che in origine era distinzione di attività produttiva e professionale (e, in quanto tale, sociale) nella città ancora omogenea (o non troppo eterogenea) al suo interno, avesse dato luogo (al più tardi all’inizio del VI secolo a.C., ma probabilmente già parecchio prima) a una più netta stratificazione, in cui un gruppo emerge ed è connotato solo socialmente (eupatrídai), qualunque ne sia l’attività produttiva e a parte (e anche sotto) stessero quei gruppi che, proprio per essere inferiori, si qualificavano e si distinguevano solo per attività produttiva (quand’anche – e ciò vale certo per l’agricoltura – la condividevano con gli eupatrídai).

Ospitalità e rispetto (D. Chr. Eub. 1-9; 65-71)

in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 639-644. Testo greco: Dionis Prusaensis quem vocant Chrysostomum quae exstant omnia, ed. J. VON ARNIM, I, Berlin 1893, 190-191; 202-203.

 

Caccia al cervo. Mosaico, III-IV sec. da Conimbriga.

 

L’incontro con il cacciatore

I passi presi in esame sono tratti dall’opera più originale di Dione, una lunga orazione intitolata Euboico o il cacciatore. Essa ha tutte le caratteristiche di un ampio racconto autobiografico, in cui, peraltro, è difficile distinguere la realtà oggettiva dal processo di idealizzazione al quale sono stati sottoposti molti particolari. L’autore, vittima di un naufragio, fu costretto ad approdare in una zona della costa meridionale dell’isola Eubea, particolarmente solitaria e impervia, nei pressi del promontorio Cafareo. Qui egli fu accolto cortesemente da un cacciatore incontrato per caso. La semplice e cordiale ospitalità dello sconosciuto permise così a Dione di venire per qualche tempo a contatto con uno stile di vita ormai lontano da quello, più lussuoso, ma certo meno tranquillo, delle grandi città.

 

[1] τόδε μὴν αὐτὸς ἰδών, οὐ παρ᾽ ἑτέρων ἀκούσας, διηγήσομαι. ἴσως γὰρ οὐ μόνον πρεσβυτικὸν πολυλογία καὶ τὸ μηδένα διωθεῖσθαι ῥᾳδίως τῶν ἐμπιπτόντων λόγων, πρὸς δὲ τῷ πρεσβυτικῷ τυχὸν ἂν εἴη καὶ ἀλητικόν. αἴτιον δέ, ὅτι πολλὰ τυχὸν ἀμφότεροι πεπόνθασιν, ὧν οὐκ ἀηδῶς μέμνηνται. ἐρῶ δ᾽ οὖν οἵοις ἀνδράσι καὶ ὅντινα βίον ζῶσι συνέβαλον ἐν μέσῃ σχεδόν τι τῇ Ἑλλάδι.

[2] ἐτύγχανον μὲν ἀπὸ Χίου περαιούμενος μετά τινων ἁλιέων ἔξω τῆς θερινῆς ὥρας ἐν μικρῷ παντελῶς ἀκατίῳ. χειμῶνος δὲ γενομένου χαλεπῶς καὶ μόλις διεσώθημεν πρὸς τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας· τὸ μὲν δὴ ἀκάτιον εἰς τραχύν τινα αἰγιαλὸν ὑπὸ τοῖς κρημνοῖς ἐκβαλόντες διέφθειραν, αὐτοὶ δὲ ἀπεχώρησαν πρός τινας πορφυρεῖσὑφορμοῦντας ἐπὶ τῇ πλησίον χηλῇ, κἀκείνοις συνεργάζεσθαι [3] διενοοῦντο αὐτοῦ μένοντες. καταλειφθεὶς δὴ μόνος, οὐκ ἔχων εἰς τίνα πόλιν σωθήσομαι, παρὰ τὴν θάλατταν ἄλλως ἐπλανώμην, εἴ πού τινας ἢ παραπλέοντας ἢ ὁρμοῦντας ἴδοιμι. προεληλυθὼς δὲ συχνὸν ἀνθρώπων μὲν οὐδένα ἑώρων· ἐπιτυγχάνω δὲ ἐλάφῳνεωστὶ κατὰ τοῦ κρημνοῦ πεπτωκότι παρ᾽ αὐτὴν τὴν ῥαχίαν, ὑπὸ τῶν κυμάτων παιομένῳ, φυσῶντι ἔτι. καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἔδοξα ὑλακῆς ἀκοῦσαι κυνῶν ἄνωθεν μόλις πως διὰ τὸν ἦχον τὸν ἀπὸ τῆς θαλάττης.

[4] προελθὼν δὲ καὶ προβὰς πάνυ χαλεπῶς πρός τι ὑψηλὸν τούς τε κύνας ὁρῶ ἠπορημένους καὶ διαθέοντας, ὑφ᾽ ὧνεἴκαζον ἀποβιασθὲν τὸ ζῷον ἁλέσθαι κατὰ τοῦ κρημνοῦ, καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἄνδρα, κυνηγέτην ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς στολῆς, τὰ γένεια ὑγιῆ κομῶντα οὐ φαύλως οὐδὲ ἀγεννῶς ἐξόπισθεν, οἵους ἐπὶ Ἴλιον Ὅμηρός φησιν ἐλθεῖν Εὐβοέας, σκώπτων, ἐμοὶ δοκεῖν, καὶ καταγελῶν, ὅτι τῶν ἄλλων Ἀχαιῶν καλῶς ἐχόντων οἱ δὲ ἐξ ἡμίσους [5] ἐκόμων. καὶ ὃς ἀνηρώτα με, Ἀλλ᾽ ἦ, ὦ ξεῖνε, τῇδέ που φεύγοντα ἔλαφον κατενόησας; κἀγὼ πρὸς αὐτόν, Ἐκεῖνος, ἔφην, ἐν τῷ κλύδωνι ἤδη· καὶ ἀγαγὼν ἔδειξα. ἑλκύσας οὖν αὐτὸν ἐκ τῆς θαλάττης τό τε δέρμα ἐξέδειρε μαχαίρᾳ, κἀμοῦ ξυλλαμβάνοντος ὅσον οἷός τε ἦν, καὶ τῶν σκελῶν ἀποτεμὼν τὰ ὀπίσθια ἐκόμιζεν ἅμα τῷ δέρματι.παρεκάλει δὲ κἀμὲ συνακολουθεῖν καὶ συνεστιᾶσθαι τῶν κρεῶν· εἶναι δὲ οὐ μακρὰν τὴν οἴκησιν.

[6] ἔπειτα ἕωθεν παρ᾽ ἡμῖν, ἔφη, κοιμηθεὶς ἥξεις ἐπὶ τὴν θάλατταν, ὡς τά γε νῦν οὐκ ἔστι πλόϊμα. καὶ μὴ τοῦτο, εἶπε, φοβηθῇς. βουλοίμην δ᾽ ἂν ἔγωγε καὶ μετὰ πέντε ἡμέρας λῆξαι τὸν ἄνεμον· ἀλλ᾽ οὐ ῥᾴδιον, εἶπεν,ὅταν οὕτως πιεσθῇ τὰ ἄκρα τῆς Εὐβοίας ὑπὸ τῶν νεφῶν ὥς γε νῦν κατειλημμένα ὁρᾷς. καὶ ἅμα ἠρώτα με ὁπόθεν δὴ καὶ ὅπως ἐκεῖ κατηνέχθην, καὶ εἰ μὴ διεφθάρη τὸ πλοῖον. μικρὸν ἦν παντελῶς, ἔφην, ἁλιέων τινῶν περαιουμένων, κἀγὼ μόνος ξυνέπλεον ὑπὸ σπουδῆς τινος. διεφθάρη δ᾽ ὅμως ἐπὶ τὴν γῆν ἐκπεσόν.

[7] οὔκουν ῥᾴδιον, ἔφη, ἄλλως· ὅρα γὰρ ὡς ἄγρια καὶ σκληρὰ τῆς νήσου τὰ πρὸς τὸ πέλαγος. ταῦτ᾽, εἶπεν, ἐστὶ τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας λεγόμενα, ὅπου κατενεχθεῖσα ναῦς οὐκ ἂν ἔτι σωθείη· σπανίως δὲ σῴζονται καὶ τῶν ἀνθρώπων τινές, εἰ μὴ ἄρα, ὥσπερ ὑμεῖς, ἐλαφροὶ παντελῶς πλέοντες. ἀλλ᾽ ἴθι καὶ μηδὲν δείσῃς. νῦν μὲν ἐκ τῆς κακοπαθείας ἀνακτήσῃ σαυτόν· εἰς αὔριον δέ, ὅ τι ἂν ᾖ δυνατόν, ἐπιμελησόμεθα ὅπως σωθῇς, ἐπειδή σε ἔγνωμεν ἅπαξ.

[8] δοκεῖς δέ μοι τῶν ἀστικῶν εἶναί τις, οὐ ναύτης οὐδ᾽ ἐργάτης, ἀλλὰ πολλήν τινα ἀσθένειαν τοῦ σώματος ἀσθενεῖν ἔοικας ἀπὸ τῆς ἰσχνότητος. ἐγὼ δὲ ἄσμενος ἠκολούθουν· οὐ γὰρ ἐπιβουλευθῆναί ποτε ἔδεισα, οὐδὲν ἔχων ἢ φαῦλον ἱμάτιον.

[9] καὶ πολλάκις μὲν δὴ καὶ ἄλλοτε ἐπειράθην ἐν τοῖς τοιούτοις καιροῖς, ἅτε ἐν ἄλῃ συνεχεῖ, ἀτὰρ οὖν δὴ καὶ τότε ὡς ἔστι πενία χρῆμα τῷ ὄντι ἱερὸν καὶ ἄσυλον, καὶ οὐδεὶς ἀδικεῖ, πολύ γε ἧττον ἢ τοὺς τὰ κηρύκεια ἔχοντας· ὡς δὴ καὶ τότε θαρρῶν εἱπόμην.

 

[1] Vi racconterò tutto questo avendolo vissuto io stesso in prima persona, non avendolo udito raccontare da altri. Infatti, forse, l’aver da narrare molte cose e il non lasciarsi distogliere facilmente da nessuno dei discorsi che vengono in mente non è proprio solo della vecchiaia; oltre che caratteristico degli anziani potrebbe esserlo anche dei giramondo. Il motivo è che entrambi rievocano con piacere le molte avventure che si sono trovati a vivere. Vi racconterò dunque quali uomini incontrai quasi nel cuore della Grecia e che genere di vita conducevano.

[2] Per caso, dunque, verso la fine dell’estate, ero salpato da Chio insieme ad alcuni pescatori a bordo di un’imbarcazione molto piccola. Ma, scoppiata una tempesta, con difficoltà e fatica riuscimmo a scamparla presso le Grotte d’Eubea; gli uomini, dopo aver diretto la barca verso un aspro tratto di costa sotto alcuni scogli dirupati, la sfasciarono; essi, invece, si rifugiarono presso alcuni pescatori di porpora, ormeggiati in una baia vicina e pensarono, rimanendo lì, [3] di lavorare insieme a quelli. Lasciato da solo e non avendo una città in cui rifugiarmi, mi aggiravo senza meta lungo il litorale, se per caso riuscissi a vedere qualcuno che navigava o che fosse ormeggiato nei pressi. Ma dopo aver camminato a lungo, non incontrai anima viva; mi imbattei, però, in un cervo che era da poco precipitato giù dai dirupi proprio sulla spiaggia, bagnato dalle onde e che respirava ancora. E dopo un po’ mi parve di sentire, seppur con difficoltà, a causa del rumore della risacca, un latrato di cani, che proveniva dall’alto.

[4] Dopo essere andato avanti ed essermi arrampicato a fatica su un rialzo, vidi i cani che cercavano e correvano qua e là, e mi immaginai che l’animale fosse caduto giù dalla scogliera, spinto a forza da loro; e poco dopo, anche un uomo, un cacciatore, dall’aspetto e dall’abbigliamento, con le guance colorite e con i capelli non tirati indietro in modo trascurato – come Omero racconta che gli Euboici giunsero a Troia, prendendoli in giro, credo, e deridendoli, perché, mentre gli Achei erano ben acconciati, [5] essi avevano soltanto metà capigliatura[1]. Costui mi domandò: «Ehi, straniero, hai visto per caso un cervo che fuggiva per di qua?». Io, allora, gli risposi: «Quello ormai è giù nella risacca»; e, dopo averlo accompagnato, glielo mostrai. Tiratolo fuori dall’acqua, lo scuoiò con un coltello, mentre io lo aiutavo come potevo. Poi, dopo aver tagliato i quarti posteriori delle zampe, se li portava via insieme alla pelle. Invitò anche me ad accompagnarlo e a banchettare insieme a lui con quella carne; infatti, egli non abitava molto lontano.

[6] Poi aggiunse: «Domani all’alba, dopo aver dormito da noi, tornerai sul mare, perché ora non è il momento di imbarcarsi. Non ti preoccupare; vorrei anch’io che il vento cessasse, magari fra cinque giorni; ma non è facile, quando le cime dell’Eubea sono così oppresse dalle nubi, fittamente coperte come le vedi ora». Poi mi chiese anche da dove e in che modo mi fossi spinto fin là, e se la mia barca fosse andata in pezzi. Io risposi: «Era molto piccola, di alcuni pescatori che andavano per mare; e io solo navigavo insieme a loro, per affari miei. Appena ha toccato terra, si è sfasciata».

[7] «Non era facile che accadesse diversamente», rispose lui; «guarda com’è aspra e dirupata la costa dell’isola in direzione del mare aperto. Queste sono le cosiddette Grotte d’Eubea e una nave che sia stata spinta qua non potrebbe mai salvarsi; raramente si salvano alcuni degli uomini, a meno che, come voi, non navighino su un’imbarcazione molto leggera. Ma vieni, e non temere nulla; ora ti riprenderai da quella brutta avventura. Poi, domani, per quanto sarà possibile, ci preoccuperemo di come sistemarti, dopo che avremo fatto conoscenza.

[8] Mi sembra che tu venga dalla città e non un marinaio o un contadino; e dalla magrezza mi pare anche che tu soffra di qualche malessere fisico». Io lo seguii volentieri; infatti, non temevo che mi tendesse qualche insidia, non avendo altro che una povera veste.

[9] Spesso, in altre occasioni, mi ero trovato in simili circostanze, poiché ero sempre in viaggio e avevo sperimentato, come in quel caso, che la miseria è sacra e inviolabile, e nessuno ti fa torto, molto meno che a quelli che portano le insegne di araldo; perciò, anche allora lo seguii fiducioso.

 

Cacciatore e cane (part.). Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. Roma, Museo di S. Sebastiano.

 

L’orazione dalla quale proviene il passo preso in esame è considerata, in genere, l’opera più originale e interessante di Dione di Prusa: […] essa è probabilmente ispirata da una vicenda autobiografica, un’avventura di viaggio che costrinse l’autore a trascorre qualche giorno presso una piccola comunità di agricoltori e cacciatori d’Eubea, un’isola prossima alle coste della Beozia e dell’Attica, che i Romani avevano annesso alla provincia di Macedonia. La descrizione del naufragio denota, tra l’altro, una buona conoscenza della geografia dei luoghi; infatti, nella parte di costa ricordata da Dione l’approdo è difficilissimo e, a causa della conformazione accidentata di tutta la zona, non vi furono mai fondate città, ma solo piccoli villaggi litoranei. Inoltre, le scogliere del promontorio Cafareo, prossimo alle Grotte d’Eubea menzionate dall’autore, erano tristemente famose per l’alto numero di naufragi che vi si verificavano, il più celebre dei quali (a parte quello, mitico, dell’armata achea di ritorno da Troia) era avvenuto durante la Seconda guerra persiana, quando duecento navi, inviate da Serse a circumnavigare l’isola, erano perite in una volta sola, infrangendosi sulle rocce a causa di una violenta burrasca, e che i Greci avevano interpretato come un segno del favore di Poseidone nei loro confronti[2].

Tuttavia, se la topografia si distingue per la sua concreta precisione, il racconto del naufragio assume subito le tinte avventurose del romanzo, con la descrizione della sconsolata solitudine del protagonista, abbandonato dai suoi occasionali compagni, e poi inaspettatamente rassicurato dall’arrivo del buon cacciatore, vero e proprio deus ex machina giunto al momento opportuno per risolvere una situazione difficile. L’abilità retorica di Dione, letterato di raffinata cultura, si nota appunto nella sapiente gradualità con cui egli – narratore e protagonista – prepara l’incontro fra il naufrago e il suo salvatore: prima, la squallida solitudine della spiaggia rocciosa battuta dai marosi e l’ansioso scrutare alla ricerca di una presenza umana o di un’imbarcazione; poi, il cervo ferito, precipitato dall’alto della scogliera; subito dopo, il latrato dei cani, a mala pena udibile in mezzo allo scroscio delle onde; infine, l’arrivo del cacciatore, un uomo forte, dall’aspetto sano, la cui schietta cordialità rassicura subito il povero naufrago.

La scena dell’offerta e della pronta accettazione dell’ospitalità riconduce a uno dei concetti etici più antichi e più profondamente radicati nell’animo greco: quello della sacralità dell’ospite, oggetto, per sua stessa natura, di αἰδώς, di «rispetto» reverenziale. Tale condizione si fondava su motivi religiosi (lo sconosciuto in difficoltà poteva essere un dio sotto false sembianze, sceso in terra per saggiare l’animo degli uomini), ma anche sulla necessità di instaurare rapporti sociali stabili e duraturi anche al di fuori della propria patria, perché la πολιτεία («lo Stato») non garantiva in alcun modo la sicurezza di chi si allontanasse dalla protezione delle leggi cittadine. Ma, se in altri tempi il forestiero avrebbe seguito il suo ospite con piena fiducia nella sua lealtà, ora le certezze non sono più così solide; nel cuore del narratore non manca un’inquietante punta di diffidenza, che lo induce a dichiarare ai lettori di essere pronto a seguire lo sconosciuto non tanto perché creda alla sua sensibilità verso i tradizionali valori della ξενία («ospitalità»), quanto perché sa di avere un aspetto talmente miserando da scoraggiare qualunque tentazione.

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Serenità campestre e miseria urbana

 

[…] Strada facendo, il cacciatore racconta all’ospite occasionale la storia della sua famiglia e di quella di un suo vicino di casa, entrambi di stirpe libera, discendenti da pastori salariati, trasformatisi, dopo la morte del loro signore, in cacciatori e coltivatori. Le due famiglie hanno dato origine a una minuscola comunità autosufficiente, soddisfatta di un genere di vita estremamente semplice, ma sereno e tranquillo; lo dimostra la familiare affabilità con cui è accolto il forestiero, invitato a banchettare con la carne di cervo.

 

[65] εἰσελθόντες οὖν εὐωχούμεθα τὸ λοιπὸν τῆς ἡμέρας, ἡμεῖς μὲν κατακλιθέντες ἐπὶ φύλλων τε καὶ δερμάτων ἐπὶ στιβάδος ὑψηλῆς, ἡ δὲ γυνὴ πλησίον παρὰ τὸν ἄνδρα καθημένη. θυγάτηρ δὲ ὡραία γάμου διηκονεῖτο, καὶ ἐνέχει πιεῖν μέλανα οἶνον ἡδύν. οἱ δὲ παῖδες τὰ κρέα παρεσκεύαζον, καὶ αὐτοὶ ἅμα ἐδείπνουν παρατιθέντες, ὥστε ἐμὲ εὐδαιμονίζειν τοὺς ἀνθρώπους ἐκείνους καὶ οἴεσθαι μακαρίως ζῆν πάντων μάλιστα ὧν ἠπιστάμην.

[66] καίτοι πλουσίων οἰκίας τε καὶ τραπέζας ἠπιστάμην, οὐ μόνον ἰδιωτῶν, ἀλλὰ καὶ σατραπῶν καὶ βασιλέων, οἳ μάλιστα ἐδόκουν μοι τότεἄθλιοι, καὶ πρότερον δοκοῦντες, ἔτι μᾶλλον, ὁρῶντι τὴν ἐκεῖ πενίαν τε καὶ ἐλευθερίαν, καὶ ὅτι οὐδὲν ἀπελείποντο οὐδὲ τῆς περὶ τὸ φαγεῖν τε καὶ πιεῖν ἡδονῆς, ἀλλὰ καὶ τούτοις ἐπλεονέκτουν σχεδόν τι.

[67] ἤδη δ᾽ ἱκανῶς ἡμῶν ἐχόντων ἦλθε κἀκεῖνος ὁ ἕτερος. συνηκολούθειδὲ υἱός αὐτῷ, μειράκιον οὐκ ἀγεννές, λαγὼν φέρων. εἰσελθὼν δὲ οὗτος ἠρυθρίασεν· ἐν ὅσῳ δὲ ὁ πατὴρ αὐτοῦ ἠσπάζετο ἡμᾶς, αὐτὸς ἐφίλησε τὴν κόρην καὶ τὸν λαγὼν ἐκείνῃ ἔδωκεν. ἡ μὲν οὖν παῖς ἐπαύσατο διακονουμένη καὶ παρὰ τὴν μητέρα ἐκαθέζετο, [68] τὸ δὲ μειράκιον ἀντ᾽ ἐκείνης διηκονεῖτο. κἀγὼ τὸν ξένονἠρώτησα, Αὕτη, ἔφην, ἐστίν, ἧς τὸν χιτῶνα ἀποδύσας τῷ ναυαγῷ ἔδωκας; καὶ ὃς γελάσας, Οὐκ, ἔφη, ἀλλ᾽ ἐκείνη, εἶπε, πάλαι πρὸς ἄνδρα ἐδόθη, καὶ τέκνα ἔχει μεγάλα ἤδη, πρὸς ἄνδρα πλούσιον εἰς κώμην. οὐκοῦν, ἔφην, ἐπαρκοῦσιν ὑμῖν ὅ, τι ἂν δέησθε; οὐδέν, [69] εἶπεν ἡ γυνή, δεόμεθα ἡμεῖς. ἐκεῖνοι δὲ λαμβάνουσι καὶ ὁπηνίκ᾽ ἄντι θηραθῇ καὶ ὀπώραν καὶ λάχανα· οὐ γὰρ ἔστι κῆπος παρ᾽ αὐτοῖς. πέρυσι δὲ παρ᾽ αὐτῶν πυροὺς ἐλάβομεν, σπέρμα ψιλόν, καὶ ἀπεδώκαμεν αὐτοῖς εὐθὺς τῆς θερείας. τί οὖν; ἔφην, καὶ ταύτην διανοεῖσθε διδόναι πλουσίῳ, ἵνα ὑμῖν καὶ αὐτὴ πυροὺς δανείσῃ; ἐνταῦθα μέντοι ἄμφω ἠρυθριασάτην, ἡ κόρη καὶ τὸ μειράκιον.

[70] ὁ δὲ πατὴρ αὐτῆς ἔφη, Πένητα ἄνδρα λήψεται, ὅμοιον ἡμῖν κυνηγέτην· καὶ μειδιάσας ἔβλεψεν εἰς τὸν νεανίσκον. κἀγώ, τί οὖν οὐκ ἤδη δίδοτε; ἢ δεῖ ποθεν αὐτὸν ἐκ κώμης ἀφικέσθαι; δοκῶ μέν, εἶπεν, οὐ μακράν ἐστίν· ἀλλ᾽ ἔνδον ἐνθάδε. καὶ ποιήσομέν γε τοὺς γάμους ἡμέραν ἀγαθὴν ἐπιλεξάμενοι. κἀγώ, Πῶς, ἔφην,κρίνετε τὴν ἀγαθὴν ἡμέραν; καὶ ὅς, Ὅταν μὴ μικρὸν ᾖ τὸ σελήνιον· [71] δεῖ δὲ καὶ τὸν ἀέρα εἶναι καθαρόν, αἰθρίαν λαμπράν. κἀγώ, Τί δέ; τῷ ὄντι κυνηγέτης ἀγαθός ἐστιν; ἔφην. ἔγωγε, εἶπεν ὁ νεανίσκος, καὶ ἔλαφον καταπονῶ καὶ σῦν ὑφίσταμαι. ὄψει δὲ αὔριον, ἂν θέλῃς, ὦ ξένε. καὶ τὸν λαγὼν τοῦτον σύ, ἔφην, ἔλαβες; ἐγώ, ἔφη γελάσας, τῷ λιναρίῳ τῆς νυκτός· ἦν γὰρ αἰθρία πάνυ καλὴ καὶ ἡ σελήνη τηλικαύτη τὸ μέγεθος ἡλίκη οὐδεπώποτε ἐγένετο.

 

[65] Dopo essere entrati, banchettammo per il resto della giornata, noi distesi su un alto giaciglio fatto di frasche e coperto di pelli, la moglie seduta presso il marito. Una figlia in età da sposarsi serviva a tavola e versava da bere vino nero dolce. I figli cucinavano la carne ed essi stessi, imbandendola, partecipavano al pranzo, così che io consideravo fortunate quelle persone e ritenevo che conducessero una vita felice più di tutte quelle che avevo conosciuto.

[66] Eppure, conoscevo le case e le mense dei ricchi, non solo di cittadini privati, ma anche di satrapi e di sovrani, e allora, come già altre volte, mi sembravano ancora più miseri, vedendo qui povertà e generosità, e constatando che non mancava loro niente del piacere del mangiare e del bere, ma che anzi, in un certo senso, ne abbondavano veramente.

[67] Quando ne avevamo già avuto a sazietà, giunse anche l’altro cacciatore. Lo accompagnava il figlio, un bel ragazzo che portava una lepre. Appena entrò, subito arrossì; e mentre suo padre ci salutava, egli diede un bacio alla fanciulla e le diede la lepre. Allora la ragazza smise di servire a tavola e si sedette accanto alla madre, [68] mentre il giovane serviva in sua vece. E io, allora, chiesi al mio ospite: «È lei la figlia alla quale togliesti la tunica per darla al naufrago?[3]». Ed egli: «No», mi rispose ridendo; «quella è andata a marito da tempo, a un uomo ricco del villaggio e ha già dei figli grandi». «Allora», feci io, «vi aiutano, quando ne avete bisogno?». «Ma noi», [69] intervenne la moglie, «non abbiamo bisogno di nulla; loro, piuttosto, ricevono da noi cacciagione, quando ce n’è, frutta di stagione e ortaggi; essi, infatti, non dispongono di un orto. L’anno scorso abbiamo comprato del frumento, proprio per seme, ma subito, al raccolto, lo abbiamo restituito». «E allora?», dissi, «pensate di dare in moglie a un ricco anche costei, perché lei vi presti il frumento?». A questo punto tutti e due, la fanciulla e il ragazzo, arrossirono.

[70] Allora il padre di lei disse: «Prenderà un uomo povero, un cacciatore come noi»; e sorridendo guardò verso il giovane. Allora io: «Perché dunque non gliela date? O bisogno che lo sposo arrivi dal villaggio?». «Io credo», rispose quello, «che non sia lontano; anzi, è già qui dentro. Celebreremo le nozze dopo aver scelto un giorno propizio». E io: «In che modo scegliete un giorno di buon auspicio?». E lui: «Quando la luna non è all’ultimo quarto; [71]  è opportuno che l’aria sia pura, e il sereno limpidissimo». E io, di nuovo: «Allora? È davvero un bravo cacciatore?». «Io sì!», rispose il ragazzo, «sono capace di stancare un cervo e di affrontare un cinghiale. Lo vedrai domani, se vorrai, o straniero». E io: «Hai preso tu anche questa lepre?». «Certo», mi rispose ridendo, «stanotte, con la rete; era, infatti, un sereno splendido e la luna tanto grande come non era mai stata».

Caccia alla lepre. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem. Tunis, Musée du Bardo.

L’Euboico era composto da due parti, diverse per contenuto e per finalità; la prima, descrittiva, si concludeva con il passo qui riportato, l’annuncio delle nozze imminenti tra la figlia del cacciatore e il cugino; la seconda, di tono riflessivo, affrontava il grave problema della povertà nei grandi centri urbani dell’Impero, che nessun intervento filantropico o autoritario era mai stato in grado davvero di risolvere. Bisogna osservare che, nella prima sezione, Dione capovolgeva il tradizionale atteggiamento che, secoli prima, Omero e i tragici (soprattutto Euripide) avevano mostrato nei confronti dell’ospitalità, della ricchezza e della povertà. Essi, infatti, erano apparsi convinti che il povero, anche se lo desiderava, non fosse in grado di ospitare decorosamente un forestiero, perché gliene mancavano i mezzi: basterebbero, a questo proposito, le parole con cui Eumeo, accogliendo Odisseo nella propria capanna, si scusa di non potergli offrire una mensa più ricca e di essere costretto a dargli il mantello soltanto in prestito, perché non ne possiede un altro per sé[4].

Al contrario, chi era ricco poteva donare con larghezza e, se non l’avesse fatto, oltre ad attirarsi biasimo e critiche, si esponeva alla collera delle divinità. Nell’Euboico, invece, l’esperienza personale dell’autore conduce a conclusioni diametralmente opposte: non solo i poveri offrono generosamente tutto ciò che possono donare agli ospiti occasionali, ma appaiono pure soddisfatti del proprio stile di vita e non mostrano di desiderare alcun cambiamento nella propria tranquilla esistenza – assai simile a quella descritta negli Idilli di Teocrito o, più ancora, in alcune scene aristofanesche (Acarnesi, Pace), in cui si ricorda con nostalgia il quieto vivere dei contadini dell’Attica, reso impossibile dalla Guerra del Peloponneso.

La descrizione di Dione presenta molte caratteristiche che contribuiscono a farla considerare un quadro idealizzato e lontano dalla realtà; ma, nell’intenzione dell’autore, l’utopistica serenità del cacciatore e dei suoi parenti, isolati dal resto del mondo nella loro isola aspra ma non avara per chi sa scoprirne le agresti ricchezze, doveva servire a evidenziare, per contrasto, la miseria materiale e morale delle plebi cittadine – oggetto di riflessione nella seconda parte dell’orazione. L’autore, infatti, conosceva bene la situazione delle grandi metropoli imperiali, in cui il fasto di pochi appariva in stridente contrasto con la miseria di una massa innumerevole che, strumentalizzata da demagoghi privi di scrupoli, poteva divenire in qualunque circostanza un elemento capace di mettere drammaticamente in crisi l’equilibrio politico.

Per questo, Dione suggeriva di favorire con ogni mezzo possibile l’allontanamento dalla città di chi non disponesse di sufficienti mezzi di sussistenza, offrendo terre da coltivare, anche gratis, in modo da diminuire, se non da cancellare del tutto, le due massime cause di instabilità sociale e di degrado morale: l’ozio e la miseria, che già intorno al 360 a.C. erano stati additati come due gravi problemi di ordine economico ed etico, oltre che politico, da Isocrate nell’Areopagitico. Questi motivi giustificavano, almeno in parte, il nostalgico quadro di un’esistenza immersa nella pace agreste, fondata sulla semplicità, la schiettezza e la solidarietà, che però traeva origine da una precisa ottica programmatica, non dall’osservazione della vita reale. Tuttavia, in esso traspariva anche quel desiderio di quiete e di serenità dello spirito che, fino alla prima età ellenistica, era apparso come il sogno e il rimpianto dell’uomo di città, consapevole di aver sacrificato al benessere materiale la parte migliore di sé. Da questo punto di vista, il motivo del contrasto fra la lieta povertà della vita campestre e le ricchezze della città, ingiustamente distribuite e fonte di ansie e di intrighi, capaci di corrompere ogni più nobile sentimento, sarebbe divenuto topico nella letteratura posteriore, latina e italiana; per non citarne che un solo, illustre esempio, basterà ricordare l’episodio di Erminia fra i pastori nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VII, ott. 1-22, vv. 1-176).

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Note

[1] In Il. II 541-544 Omero descrive gli Abanti, antichi abitatori dell’Eubea, che si rasavano la parte anteriore del capo per impedire che gli avversari li afferrassero per i capelli, combattendo corpo a corpo. Essi, infatti, sono detti ὄπιθεν κομόωντες («con le chiome fluenti all’indietro»).

[2] Hdt. VIII 7; 13.

[3] Nella parte omessa del racconto, il cacciatore ha raccontato al suo ospite di aver accolto in casa un altro naufrago; e, non avendo di che vestirlo, aveva tolto la veste alla figlia, per darla a lui.

[4] Od. XIV 80-82; 507-514.

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La prima orazione contro Catilina (8 novembre 63 a.C.)

di E. Risari (a cura di), Cicerone, Le Catilinarie, Mondadori, Milano 2008, pp. 9-12; 36-63; testo lat. in M. Tullius Cicero, Against Catiline, in A.C. Curtius (ed.), M. Tulli Ciceronis Orationes, Claredon Press (Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis), Oxford 1908.

 

Il 63 è un anno cruciale per la storia di Roma: contrassegnato dal consolato di Cicerone (che era tanto convinto dell’importanza della propria opera a favore della Repubblica da iniziare la stesura di un poema De consulatu suo – di cui restano 65 esametri – e da progettare – come documenta una lettera ad Attico [II 1, 3] – la raccolta e la pubblicazione di un corpus delle proprie orazioni consolari), esso è anche l’anno in cui Cesare, sostenuto dalle ingenti ricchezze di Crasso, comincia a sviluppare la sua azione politica come esponente di spicco dei populares, il cui programma si fonda su due capisaldi: la richiesta di una riforma agraria e la lotta per l’abolizione del senatusconsultum ultimum. Al primo si ispira – nel mese di gennaio – la proposta di una legge agraria da parte del tribuno della plebe Rullo; ma i grandi proprietari terrieri e gli uomini dell’alta finanza temono un simile provvedimento, che giudicano un tentativo di conferire peso politico alle classi umili, di trasformare i rapporti di forza e – alla lunga – di cambiare il “sistema”: convinto dalle orazioni pronunciate da Cicerone, il senato respinge la proposta di Rullo. La lotta contro il ricorso al senatusconsultum ultimum in caso di grave pericolo per la Repubblica si esplica nel processo che durante la primavera Labieno, futuro luogotenente di Cesare in Gallia, istituisce contro il vecchio senatore Rabirio, accusato di aver messo a morte nel dicembre del 100 il tribuno Saturnino senza permettegli di ricorrere al popolo; il processo però rimane in sospeso. Nel frattempo Cesare stesso, che ha solo trentasette anni, riesce a farsi eleggere pontifex maximus sconfiggendo il ben più anziano e degno ex console Quinto Catulo, che ne diviene un acerrimo nemico. In luglio si riuniscono i comizi per l’elezione dei consoli del 62: Catilina ancora una volta è tra i candidati. Cicerone vi presenzia rivestendo la corazza sotto la toga: un’abile mossa propagandistica per scuotere l’opinione pubblica, come confessa apertamente in un’orazione tenuta nel corso dell’anno: «Mi era noto che torme di congiurati scendevano armati con Catilina in Campo Marzio; io stesso vi andai con un saldo presidio di uomini coraggiosi e rivestendo la mia ampia e vistosa corazza: non perché essa potesse proteggermi dai suoi colpi – so bene che è abituato a mirare alla testa o alla gola, non certo al fianco o al ventre – ma per richiamare l’attenzione di tutti gli onesti» (pro Murena, 26, 52). Ancora una volta il responso delle urne è sfavorevole a Catilina: risultano infatti eletti Lucio Murena, valoroso luogotenente di Pompeo, e Giunio Silano, un giurista cognato di Catone il Giovane. Dopo le elezioni, con Catilina rimangono schierati soltanto Cesare e Metello Nepote, mentre il console Antonio Hybrida lo abbandona, allettato dal gesto di Cicerone che rinuncia al proconsolato in Macedonia “sacrificando” all’avidità del collega la ricca provincia che la sorte gli aveva riservato. Le vie legali sono ormai completamente precluse: Catilina progetta la conquista del potere per altra via. La sua azione sovversiva si articola su più fronti: Roma, dove i complici sono numerosi e ben rappresentati anche in senato; l’Etruria, dove il centurione Gaio Manlio sta raccogliendo un esercito; Capua, dove è attivo Publio Silla, il console destituito del 65, che cerca di sobillare i gladiatori; l’Apulia e il Piceno, dove si trovano Gaio Giulio e Settimio da Camerino. La giustificazione ideologica è fornita alla congiura dalla recente bocciatura della legge agraria proposta da Rullo: Catilina intende presentarsi al popolo come difensore delle classi oppresse e promette una generale cancellazione dei debiti. Nel corso dell’autunno la situazione precipita: il 20 ottobre Crasso consegna a Cicerone delle lettere anonime in cui si afferma che Catilina progetta un massacro di cittadini; nella seduta del senato del 21 ottobre si diffonde la notizia che il centurione Manlio sta raccogliendo truppe in Etruria; in quella stessa occasione Cicerone rende di pubblico dominio le rivelazioni fattegli da Fulvia, amante di uno dei congiurati, fino allora tenute segrete: per il 27 ottobre è prevista una sollevazione in Etruria, per il 28 l’eccidio degli ottimati a Roma. Come reazione a queste sconvolgenti rivelazioni il senato vota il senatusconsultum ultimum, conferendo ai consoli poteri dittatoriali […]. La fatidica giornata del 28 trascorre in realtà senza particolari incidenti, ma si viene a sapere che la sera del 27 è scoppiata la ribellione in Etruria; pochi giorni dopo, il 1 novembre, viene sventato un tentativo di occupare Preneste. Nel frattempo, in seguito dell’accusa de vi intentatagli da Lucio Emilio Paolo, Catilina invoca il provvedimento della libera custodia, e a questo proposito fa il nome di alcuni senatori e dello stesso Cicerone, che rifiuta con sdegno: la richiesta di arresti domiciliari in casa del console è interpretata da Cicerone nella prima Catilinaria come mossa propagandistica da parte di Catilina, che vuol farsi passare per innocente calunniato. Eludendo però il provvedimento, nella notte tra il 6 e il 7 novembre Catilina convoca in casa di Marco Lega una riunione, nel corso della quale ordina ai suoi di passare all’azione: la prima cosa da farsi è togliere di mezzo Cicerone. Se ne incaricano Vargunteio e Cornelio, ma il loro piano viene sventato dalla delazione di Fulvia: quando, la mattina seguente, si presentano in casa di Cicerone per mescolarsi ai suoi clienti raccoltisi nell’atrio per l’abituale salutatio, trovano là riuniti un gran numero di senatori, che Cicerone ha convocati e a cui ha predetto l’arrivo dei sicari, che sono così costretti a darsi alla fuga per evitare l’arresto. Il console riunisce d’urgenza il senato nel tempio di Giove Statore sul Palatino, dove, in presenza dello stesso Catilina, la mattina dell’8 novembre pronuncia la prima orazione contro di lui…

 

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

 

ORATIO QVA L. CATILINAM EMISIT IN SENATV HABITA

I.1. Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum præsidium Palati, nihil urbis uigiliæ, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora uoltusque mouerunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos conuocaueris, quid consili ceperis quem nostrum ignorare arbitraris? [2] O tempora, o mores! senatus hæc intellegit, consul uidet; hic tamen uiuit. Viuit? Immo uero etiam in senatum uenit, fit publici consili particeps, notat et designat oculis ad cædem unum quemque nostrum. Nos autem fortes uiri satis facere rei publicæ uidemur, si istius furorem ac tela uitamus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem quam tu in nos omnis iam diu machinaris. [3] An uero uir amplissimus, P. Scipio, pontifex maximus, Ti. Gracchum mediocriter labefactantem statum rei publicæ priuatus interfecit: Catilinam orbem terræ cæde atque incendiis uastare cupientem nos consules perferemus? Nam illa nimis antiqua prætereo, quod C. Seruilius Ahala Sp. Mælium nouis rebus studentem manu sua occidit. Fuit, fuit ista quondam in hac re publica uirtus ut uiri fortes acrioribus suppliciis ciuem perniciosum quam acerbissimum hostem coercerent. Habemus senatus consultum in te, Catilina, uehemens et graue, non deest rei publicæ consilium neque auctoritas huius ordinis: nos, nos, dico aperte, consules desumus. 2. [4] Decreuit quondam senatus uti L. Opimius consul uideret ne quid res publica detrimenti caperet: nox nulla intercessit: interfectus est propter quasdam seditionum suspiciones C. Gracchus, clarissimo patre, avo, maioribus, occisus est cum liberis M. Fuluius consularis. Simili senatus consulto C. Mario et L. Valerio consulibus est permissa res publica: num unum diem postea L. Saturninum tribunum plebis et C. Seruilium prætorem mors ac rei publicæ poena remorata est? At uero nos uicesimum iam diem patimur hebescere aciem horum auctoritatis. Habemus enim eius modi senatus consultum, uerum inclusum in tabulis, tamquam in uagina reconditum, quo ex senatus consulto confestim te interfectum esse, Catilina, conuenit. Viuis, et uiuis non ad deponendam, sed ad confirmandam audaciam. Cupio, patres conscripti, me esse clementem, cupio in tantis rei publicæ periculis non dissolutum uideri, sed iam me ipse inertiæ nequitiæque condemno. [5] Castra sunt in Italia contra populum Romanum in Etruriæ faucibus conlocata, crescit in dies singulos hostium numerus; eorum autem castrorum imperatorem ducemque hostium intra moenia atque adeo in senatu uidetis intestinam aliquam cotidie perniciem rei publicæ molientem. Si te iam, Catilina, comprehendi, si interfici iussero, credo, erit uerendum mihi ne non hoc potius omnes boni serius a me quam quisquam crudelius factum esse dicat. Verum ego hoc quod iam pridem factum esse oportuit certa de causa nondum adducor ut faciam. Tum denique interficiere, cum iam nemo tam improbus, tam perditus, tam tui similis inueniri poterit qui id non iure factum esse fateatur. [6] Quam diu quisquam erit qui te defendere audeat, uiues, et uiues ita ut nunc uiuis, multis meis et firmis præsidiis obsessus ne commouere te contra rem publicam possis. Multorum te etiam oculi et aures non sentientem, sicut adhuc fecerunt, speculabuntur atque custodient. 3. Etenim quid est, Catilina, quod iam amplius exspectes, si neque nox tenebris obscurare coetus nefarios nec privata domus parietibus continere voces coniurationis tuæ potest, si inlustrantur, si erumpunt omnia? Muta iam istam mentem, mihi crede, obliuiscere cædis atque incendiorum. Teneris undique; luce sunt clariora nobis tua consilia omnia, quæ iam mecum licet recognoscas. [7] Meministine me ante diem XII Kalendas Nouembris dicere in senatu fore in armis certo die, qui dies futurus esset ante diem ui Kal. Nouembris, C. Manlium, audaciæ satellitem atque administrum tuæ? Num me fefellit, Catilina, non modo res tanta tam atrox tamque incredibilis, uerum, id quod multo magis est admirandum, dies? Dixi ego idem in senatu cædem te optimatium contulisse in ante diem V Kalendas Nouembris, tum cum multi principes civitatis Roma non tam sui conseruandi quam tuorum consiliorum reprimendorum causa profugerunt. Num infitiari potes te illo ipso die meis præsidiis, mea diligentia circumclusum commouere te contra rem publicam non potuisse, cum tu discessu ceterorum nostra tamen qui remansissemus cæde contentum te esse dicebas? [8] Quid? cum te Præneste Kalendis ipsis Nouembribus occupaturum nocturno impetu esse confideres, sensistin illam coloniam meo iussu meis præsidiis, custodiis, vigiliis esse munitam? Nihil agis, nihil moliris, nihil cogitas quod non ego non modo audiam sed etiam videam planeque sentiam. 4. Recognosce mecum tandem noctem illam superiorem; iam intelleges multo me uigilare acrius ad salutem quam te ad perniciem rei publicæ. Dico te priore nocte uenisse inter falcarios — non agam obscure — in M. Læcæ domum; conuenisse eodem compluris eiusdem amentiæ scelerisque socios. Num negare audes? Quid taces? Conuincam, si negas. Video enim esse hic in senatu quosdam qui tecum una fuerunt. [9] O di immortales! Vbinam gentium sumus? Quam rem publicam habemus? In qua urbe uiuimus? Hic, hic sunt in nostro numero, patres conscripti, in hoc orbis terræ sanctissimo grauissimoque consilio, qui de nostro omnium interitu, qui de huius urbis atque adeo de orbis terrarum exitio cogitent. Hos ego uideo consul et de re publica sententiam rogo, et quos ferro trucidari oportebat, eos nondum uoce uolnero! Fuisti igitur apud Læcam illa nocte, Catilina, distribuisti partis Italiæ, statuisti quo quemque proficisci placeret, delegisti quos Romæ relinqueres, quos tecum educeres, discripsisti urbis partis ad incendia, confirmasti te ipsum iam esse exiturum, dixisti paulum tibi esse etiam nunc morae, quod ego uiuerem. Reperti sunt duo equites Romani qui te ista cura liberarent et se illa ipsa nocte paulo ante lucem me in meo lecto interfecturos esse pollicerentur. [10] Hæc ego omnia uixdum etiam coetu uestro dimisso comperi; domum meam maioribus præsidiis muniui atque firmaui, exclusi eos quos tu ad me salutatum mane miseras, cum illi ipsi uenissent quos ego iam multis ac summis uiris ad me id temporis uenturos esse prædixeram. 5.Quæ cum ita sint, Catilina, perge quo coepisti: egredere aliquando ex urbe; patent portæ; proficiscere. Nimium diu te imperatorem tua illa Manliana castra desiderant. Educ tecum etiam omnis tuos, si minus, quam plurimos; purga urbem. Magno me metu liberaveris, modo inter me atque te murus intersit. Nobiscum uersari iam diutius non potes; non feram, non patiar, non sinam. [11] Magna dis immortalibus habenda est atque huic ipsi Iovi Statori, antiquissimo custodi huius urbis, gratia, quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicæ pestem totiens iam effugimus. Non est sæpius in uno homine summa salus periclitanda rei publicæ. Quam diu mihi consuli designato, Catilina, insidiatus es, non publico me præsidio, sed priuata diligentia defendi. Cum proximis comitiis consularibus me consulem in campo et competitores tuos interficere uoluisti, compressi conatus tuos nefarios amicorum præsidio et copiis nullo tumultu publice concitato; denique, quotienscumque me petisti, per me tibi obstiti, quamquam uidebam perniciem meam cum magna calamitate rei publicæ esse coniunctam. [12] Nunc iam aperte rem publicam uniuersam petis, templa deorum immortalium, tecta urbis, uitam omnium ciuium, Italiam totam ad exitium et uastitatem uocas. Qua re, quoniam id quod est primum, et quod huius imperi disciplinæque maiorum proprium est, facere nondum audeo, faciam id quod est ad seueritatem lenius, ad communem salutem utilius. Nam si te interfici iussero, residebit in re publica reliqua coniuratorum manus; sin tu, quod te iam dudum hortor, exieris, exhaurietur ex urbe tuorum comitum magna et perniciosa sentina rei publicæ. 6. Quid est, Catilina? [13] Num dubitas id me imperante facere quod iam tua sponte faciebas? Exire ex urbe iubet consul hostem. Interrogas me, num in exsilium? Non iubeo, sed, si me consulis, suadeo. Quid est enim, Catilina, quod te iam in hac urbe delectare possit? In qua nemo est extra istam coniurationem perditorum hominum qui te non metuat, nemo qui non oderit. Quæ nota domesticæ turpitudinis non inusta uitæ tuæ est? Quod priuatarum rerum dedecus non hæret in fama? Quæ libido ab oculis, quod facinus a manibus umquam tuis, quod flagitium a toto corpore afuit? Cui tu adulescentulo quem corruptelarum inlecebris inretisses non aut ad audaciam ferrum aut ad libidinem facem prætulisti? [14] Quid uero? Nuper cum morte superioris uxoris nouis nuptiis locum uacuefecisses, nonne etiam alio incredibili scelere hoc scelus cumulauisti? Quod ego prætermitto et facile patior sileri, ne in hac ciuitate tanti facinoris immanitas aut exstitisse aut non uindicata esse uideatur. Prætermitto ruinas fortunarum tuarum quas omnis proximis Idibus tibi impendere senties: ad illa uenio quæ non ad priuatam ignominiam uitiorum tuorum, non ad domesticam tuam difficultatem ac turpitudinem, sed ad summam rem publicam atque ad omnium nostrum uitam salutemque pertinent. [15] Potestne tibi hæc lux, Catilina, aut huius cæli spiritus esse iucundus, cum scias esse horum neminem qui nesciat te pridie Kalendas Ianuarias Lepido et Tullo consulibus stetisse in comitio cum telo, manum consulum et principum ciuitatis interficiendorum causa parauisse, sceleri ac furori tuo non mentem aliquam aut timorem tuum sed Fortunam populi Romani obstitisse? Ac iam illa omitto — neque enim sunt aut obscura aut non multa commissa postea — quotiens tu me designatum, quotiens uero consulem interficere conatus es! Quot ego tuas petitiones ita coniectas ut uitari posse non uiderentur parua quadam declinatione et, ut aiunt, corpore effugi! Nihil agis, nihil adsequeris, neque tamen conari ac uelle desistis. quotiens iam tibi extorta est ista sica de manibus, [16] quotiens excidit casu aliquo et elapsa est! Quæ quidem quibus abs te initiata sacris ac deuota sit nescio, quod eam necesse putas esse in consulis corpore defigere. 7. Nunc uero quæ tua est ista uita? Sic enim iam tecum loquar, non ut odio permotus esse uidear, quo debeo, sed ut misericordia, quæ tibi nulla debetur. Venisti paulo ante in senatum. Quis te ex hac tanta frequentia, tot ex tuis amicis ac necessariis salutauit? Si hoc post hominum memoriam contigit nemini, uocis exspectas contumeliam, cum sis grauissimo iudicio taciturnitatis oppressus? Quid, quod aduentu tuo ista subsellia uacuefacta sunt, quod omnes consulares qui tibi persæpe ad cædem constituti fuerunt, simul atque adsedisti, partem istam subselliorum nudam atque inanem reliquerunt, quo tandem animo tibi ferendum putas? [17] Serui mehercule mei si me isto pacto metuerent ut te metuunt omnes ciues tui, domum meam relinquendam putarem: tu tibi urbem non arbitraris? Et si me meis ciuibus iniuria suspectum tam grauiter atque offensum uiderem, carere me aspectu ciuium quam infestis omnium oculis conspici mallem: tu, cum conscientia scelerum tuorum agnoscas odium omnium iustum et iam diu tibi debitum, dubitas quorum mentis sensusque uolneras, eorum aspectum præsentiamque uitare? Si te parentes timerent atque odissent tui neque eos ratione ulla placare posses, ut opinor, ab eorum oculis aliquo concederes. Nunc te patria, quæ communis est parens omnium nostrum, odit ac metuit et iam diu nihil te iudicat nisi de parricidio suo cogitare: huius tu neque auctoritatem uerebere nec iudicium sequere nec uim pertimesces? [18] Quæ tecum, Catilina, sic agit et quodam modo tacita loquitur: «Nullum iam aliquot annis facinus exstitit nisi per te, nullum flagitium sine te; tibi uni multorum ciuium neces, tibi uexatio direptioque sociorum impunita fuit ac libera; tu non solum ad neglegendas leges et quæstiones uerum etiam ad euertendas perfringendasque ualuisti. Superiora illa, quamquam ferenda non fuerunt, tamen ut potui tuli; nunc uero me totam esse in metu propter unum te, quicquid increpuerit, Catilinam timeri, nullum uideri contra me consilium iniri posse quod a tuo scelere abhorreat, non est ferendum. Quam ob rem discede atque hunc mihi timorem eripe; si est uerus, ne opprimar, sin falsus, ut tandem aliquando timere desinam». 8. [19] Hæc si tecum, ut dixi, patria loquatur, nonne impetrare debeat, etiam si uim adhibere non possit? Quid, quod tu te in custodiam dedisti, quod uitandæ suspicionis causa ad M’. Lepidum te habitare uelle dixisti? A quo non receptus etiam ad me uenire ausus es, atque ut domi meæ te adseruarem rogasti. Cum a me quoque id responsum tulisses, me nullo modo posse isdem parietibus tuto esse tecum, quia magno in periculo essem quod isdem moenibus contineremur, ad Q. Metellum prætorem uenisti. A quo repudiatus ad sodalem tuum, uirum optimum, M. Metellum demigrasti, quem tu uidelicet et ad custodiendum te diligentissimum et ad suspicandum sagacissimum et ad uindicandum fortissimum fore putasti. Sed quam longe uidetur a carcere atque a uinculis abesse debere qui se ipse iam dignum custodia iudicarit? [20] Quæ cum ita sint, Catilina, dubitas, si emori æquo animo non potes, abire in aliquas terras et uitam istam multis suppliciis iustis debitisque ereptam fugæ solitudinique mandare? «Refer – inquis – ad senatum»; id enim postulas et, si hic ordo placere sibi decreuerit te ire in exsilium, obtemperaturum te esse dicis. Non referam, id quod abhorret a meis moribus, et tamen faciam ut intellegas quid hi de te sentiant. Egredere ex urbe, Catilina, libera rem publicam metu, in exsilium, si hanc uocem exspectas, proficiscere. Quid est? Ecquid attendis, ecquid animaduertis horum silentium? Patiuntur, tacent. Quid exspectas auctoritatem loquentium, quorum uoluntatem tacitorum perspicis? [21] At si hoc idem huic adulescenti optimo P. Sestio, si fortissimo uiro M. Marcello dixissem, iam mihi consuli hoc ipso in templo senatus iure optimo uim et manus intulisset. De te autem, Catilina, cum quiescunt, probant, cum patiuntur, decernunt, cum tacent, clamant, neque hi solum quorum tibi auctoritas est uidelicet cara, uita uilissima, sed etiam illi equites Romani, honestissimi atque optimi uiri, ceterique fortissimi ciues qui circumstant senatum, quorum tu et frequentiam uidere et studia perspicere et uoces paulo ante exaudire potuisti. Quorum ego uix abs te iam diu manus ac tela contineo, eosdem facile adducam ut te hæc quæ uastare iam pridem studes relinquentem usque ad portas prosequantur. 9. [22] Quamquam quid loquor? Te ut ulla res frangat, tu ut umquam te corrigas, tu ut ullam fugam meditere, tu ut ullum exsilium cogites? Vtinam tibi istam mentem di immortales duint! Tametsi uideo, si mea uoce perterritus ire in exsilium animum induxeris, quanta tempestas inuidiæ nobis, si minus in præsens tempus recenti memoria scelerum tuorum, at in posteritatem impendeat. Sed est tanti, dum modo tua ista sit priuata calamitas et a rei publicæ periculis seiungatur. sed tu ut uitiis tuis commoueare, ut legum poenas pertimescas, ut temporibus rei publicæ cedas non est postulandum. Neque enim is es, Catilina, ut te aut pudor a turpitudine aut metus a periculo aut ratio a furore reuocarit. [23] Quam ob rem, ut sæpe iam dixi, proficiscere ac, si mihi inimico, ut prædicas, tuo conflare uis inuidiam, recta perge in exsilium; uix feram sermones hominum, si id feceris, uix molem istius inuidiæ, si in exsilium iussu consulis iueris, sustinebo. Sin autem seruire meæ laudi et gloriæ mauis, egredere cum importuna sceleratorum manu, confer te ad Manlium, concita perditos ciuis, secerne te a bonis, infer patriæ bellum, exsulta impio latrocinio, ut a me non eiectus ad alienos, sed inuitatus ad tuos isse uidearis. [24] Quamquam quid ego te inuitem, a quo iam sciam esse præmissos qui tibi ad forum Aurelium præstolarentur armati, cui sciam pactam et constitutam cum Manlio diem, a quo etiam aquilam illam argenteam quam tibi ac tuis omnibus confido perniciosam ac funestam futuram, cui domi tuæ sacrarium sceleratum constitutum fuit, sciam esse præmissam? Tu ut illa carere diutius possis quam venerari ad caedem proficiscens solebas, a cuius altaribus sæpe istam impiam dexteram ad necem civium transtulisti? 10. [25] Ibis tandem aliquando quo te iam pridem tua ista cupiditas effrenata ac furiosa rapiebat; neque enim tibi hæc res adfert dolorem, sed quandam incredibilem voluptatem. Ad hanc te amentiam natura peperit, uoluntas exercuit, fortuna seruauit. Numquam tu non modo otium sed ne bellum quidem nisi nefarium concupisti. Nactus es ex perditis atque ab omni non modo fortuna uerum etiam spe derelictis conflatam improborum manum. [26] Hic tu qua lætitia perfruere, quibus gaudiis exsultabis, quanta in uoluptate bacchabere, cum in tanto numero tuorum neque audies uirum bonum quemquam neque uidebis! Ad huius uitæ studium meditati illi sunt qui feruntur labores tui, iacere humi non solum ad obsidendum stuprum uerum etiam ad facinus obeundum, uigilare non solum insidiantem somno maritorum uerum etiam bonis otiosorum. Habes ubi ostentes tuam illam præclaram patientiam famis, frigoris, inopiæ rerum omnium quibus te breui tempore confectum esse senties. [27] Tantum profeci, cum te a consulatu reppuli, ut exsul potius temptare quam consul uexare rem publicam posses, atque ut id quod esset a te scelerate susceptum latrocinium potius quam bellum nominaretur. 11. Nunc, ut a me, patres conscripti, quandam prope iustam patriæ querimoniam detester ac deprecer, percipite, quæso, diligenter quæ dicam, et ea penitus animis uestris mentibusque mandate. etenim si mecum patria, quae mihi uita mea multo est carior, si cuncta Italia, si omnis res publica loquatur: «M. Tulli, quid agis? Tune eum quem esse hostem comperisti, quem ducem belli futurum uides, quem exspectari imperatorem in castris hostium sentis, auctorem sceleris, principem coniurationis, euocatorem seruorum et ciuium perditorum, exire patiere, ut abs te non emissus ex urbe, sed immissus in urbem esse uideatur? Nonne hunc in uincla duci, non ad mortem rapi, non summo supplicio mactari imperabis? Quid tandem te impedit? Mosne maiorum? [28] At persæpe etiam priuati in hac re publica perniciosos ciuis morte multarunt. An leges quæ de ciuium Romanorum supplicio rogatæ sunt? At numquam in hac urbe qui a re publica defecerunt ciuium iura tenuerunt. An inuidiam posteritatis times? Præclaram uero populo Romano refers gratiam qui te, hominem per te cognitum, nulla commendatione maiorum tam mature ad summum imperium per omnis honorum gradus extulit, si propter inuidiam aut alicuius periculi metum salutem ciuium tuorum neglegis. [29] Sed si quis est inuidiæ metus, non est uehementius seueritatis ac fortitudinis inuidia quam inertiæ ac nequitiæ pertimescenda. An, cum bello uastabitur Italia, uexabuntur urbes, tecta ardebunt, tum te non existimas inuidiæ incendio conflagraturum?» 12. His ego sanctissimis rei publicæ uocibus et eorum hominum qui hoc idem sentiunt mentibus pauca respondebo. Ego, si hoc optimum factu iudicarem, patres conscripti, Catilinam morte multari, unius usuram horæ gladiatori isti ad uiuendum non dedissem. Etenim si summi uiri et clarissimi ciues Saturnini et Gracchorum et Flacci et superiorum complurium sanguine non modo se non contaminarunt sed etiam honestarunt, certe uerendum mihi non erat ne quid hoc parricida ciuium interfecto inuidiæ mihi in posteritatem redundaret. Quod si ea mihi maxime impenderet, tamen hoc animo fui semper ut inuidiam uirtute partam gloriam, non inuidiam putarem. [30] Quamquam non nulli sunt in hoc ordine qui aut ea quæ imminent non uideant aut ea quæ uident dissimulent; qui spem Catilinæ mollibus sententiis aluerunt coniurationemque nascentem non credendo conroborauerunt; quorum auctoritate multi non solum improbi uerum etiam imperiti, si in hunc animaduertissem, crudeliter et regie factum esse dicerent. Nunc intellego, si iste, quo intendit, in Manliana castra peruenerit, neminem tam stultum fore qui non uideat coniurationem esse factam, neminem tam improbum qui non fateatur. Hoc autem uno interfecto intellego hanc rei publicæ pestem paulisper reprimi, non in perpetuum comprimi posse. Quod si sese eiecerit secumque suos eduxerit et eodem ceteros undique conlectos naufragos adgregarit, exstinguetur atque delebitur non modo hæc tam adulta rei publicæ pestis uerum etiam stirps ac semen malorum omnium. 13. [31] Etenim iam diu, patres conscripti, in his periculis coniurationis insidiisque uersamur, sed nescio quo pacto omnium scelerum ac ueteris furoris et audaciæ maturitas in nostri consulatus tempus erupit. Nunc si ex tanto latrocinio iste unus tolletur, uidebimur fortasse ad breue quoddam tempus cura et metu esse releuati, periculum autem residebit et erit inclusum penitus in uenis atque in uisceribus rei publicæ. Vt sæpe homines ægri morbo graui, cum æstu febrique iactantur, si aquam gelidam biberunt, primo releuari uidentur, deinde multo grauius uehementiusque adflictantur, sic hic morbus qui est in re publica releuatus istius poena uehementius reliquis uiuis ingrauescet. [32] Qua re secedant improbi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, quod sæpe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suæ consuli, circumstare tribunal prætoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque quid de re publica sentiat. Polliceor hoc uobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in uobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis uirtutem, tantam in omnibus bonis consensionem ut Catilinæ profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, uindicata esse uideatis. [33] Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicæ salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus hæc urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi uere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a uita fortunisque ciuium omnium arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriæ, latrones Italiæ scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos æternis suppliciis uiuos mortuosque mactabis.

 

I.1. Fino a quando, Catilina, intendi dunque abusare della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora questo tuo comportamento fazioso si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua illimitata sfrontatezza? Non ti turbano il presidio notturno a difesa del Palatino, le pattuglie armate che perlustrano la città, l’angoscia del popolo, l’accorrere di tutti i cittadini onesti, e neppure la scelta di questa sede – così difesa – per le riunioni del senato, né l’espressione del volto di costoro? Non ti accorgi che i tuoi progetti sono stati scoperti? Non ti rendi conto che il tuo complotto è ostacolato dal fatto che tutti qui ne sono a conoscenza? Credi forse che qualcuno di noi ignori che cosa hai fatto la notte scorsa e quella precedente, dove sei stati, quali congiurati hai convocato e quali decisioni hai preso? 2. Che tempi! Che costumi! Il senato è informato di questi progetti, il console ne è consapevole: eppure quello lì continua a vivere! A vivere? Non solo, ma addirittura viene in senato, gli si permette di prender parte alle decisioni d’interesse comune, osserva ciascuno di noi e con un’occhiata gli assegna un destino di morte! Quanto a noi, uomini di grande coraggio, siamo convinti di fare abbastanza per la Repubblica vanificando i furiosi tentativi assassini di costui. Ti si sarebbe dovuto condannare a morte già in precedenza, Catilina, per ordine del console; su di te avrebbe dovuto riversarsi la rovina che tu già da lungo tempo trami contro tutti noi! 3. Se un uomo di grandissimo prestigio, quale fu il pontefice massimo Publio Scipione, pur non ricoprendo cariche pubbliche, mandò a morte Tiberio Gracco che peraltro attendeva solo in misura marginale alla stabilità della Repubblica, noi consoli tollereremo che Catilina accarezzi l’idea di devastare con stragi e incendi il mondo intero? Tralascio il noto esempio, ormai troppo lontano, di Gaio Servilio Ahala, il quale uccise di propria mano Spurio Melio che ordiva trame estremistiche. Ma vi assicuro che vi fu, vi fu anche in questa Repubblica un tempo il coraggio, quando gli uomini di grande energia infliggevano al cittadino sedizioso un supplizio più crudele di quello riservato al peggior nemico. Contro di te, Catilina, un decreto del senato energico e severo lo possediamo: la Repubblica non è priva della saggezza e della capacità di decisione del collegio senatorio; siamo noi consoli – lo riconosco davanti a tutti – siamo noi a venir meno al nostro dovere. II. 4. Un tempo, il senato conferì al console Lucio Opimio i pieni poteri con l’incarico di vigilare affinché la Repubblica non subisse danni; non trascorse nemmeno una notte che per un semplice sospetto di congiura venisse messo a morte Gaio Gracco (eppure suo padre era famosissimo, così come il nonno materno e i vari antenati); anche l’ex console Marco Fulvio fu ucciso insieme con i figli. Un analogo decreto del senato affidò la salvezza dello Stato ai consoli Gaio Mario e Lucio Valerio. Ebbene, la condanna a morte decretata dal senato non attese nemmeno un giorno a colpire il tribuno della plebe Lucio Saturnino e il pretore Gaio Servilio. Noi invece già da venti giorni tolleriamo che la decisione dei senatori rimanga senza conseguenze. Abbiamo a disposizione, infatti, un senatusconsultum dell’efficacia che sapete, ma lo lasciamo ben chiuso negli archivi ufficiali, come una spada nel fodero! In conformità a tal decreto, Catilina, saresti dovuto essere ucciso senza indugio. Vivi invece, e sei ancora in vita non per moderare la tua arroganza, ma per rafforzarla. Desidero essere clemente, padri coscritti; ma in un momento di così grave pericolo per la Repubblica desidero anche non apparir indolente: io stesso quindi mi accuso di pigrizia e negligenza. 5. In Italia, allo sbocco delle valli toscane, vi è un esercito schierato contro il popolo romano; il numero dei nemici cresce di giorno in giorno; il comandante, la guida di tal esercito, lo potete vedere in città, e persino in senato, ordire giorno per giorno le sue trame contro la Repubblica. Se ora ordinassi di arrestarti, Catilina, o di ucciderti, sono convinto che tutti i cittadini onesti direbbero che l’ho fatto troppo tardi, e non che ho agito con eccessiva crudeltà. Ma io per una ben precisa ragione sono portato a credere che sia bene non fare ancor ciò che si sarebbe dovuto fare in precedenza. Alla fine sarai comunque giustiziato, quando ormai non si troverà più nessuno tanto ingiusto, tanto corrotto, tanto simile a te, da non riconoscere apertamente che ho agito secondo la legge. 6. Finché ci sarà uno solo che oserà difenderti vivrai, ma vivrai così come stai vivendo ora, assediato dalle mie numerose e risolute guardie, in modo che tu non possa ordire trame contro la Repubblica. Molti occhi e molte orecchie ti osserveranno e ti ascolteranno, senza che tu te ne accorga, come hanno fatto finora. III. E dunque, Catilina, che motivo c’è per attendere ancora, se nemmeno la notte riesci a nascondere con le tenebre i tuoi incontri scellerati, se neppure le pareti di un’abitazione privata bastano a coprire le voci della tua congiura, se tutto è chiaro, se tutto viene allo scoperto? Dammi ascolto: cambia il tuo proposito, dimentica massacri e incendi. Sei accerchiato: tutti i tuoi piani sono per noi più chiari della luce; se vuoi, possiamo passarli insieme in rassegna. 7. Non ricordi che il 21 ottobre in senato ho sostenuto che in un giorno stabilito, che sarebbe stato il 27 ottobre, Gaio Manlio, tuo compare d’azioni temerarie e tuo braccio destro, sarebbe sceso in armi? Mi è forse sfuggita, Catilina, l’enormità del tuo tentativo – così crudele e incredibile – o peggio – e ciò colpisce ancor più – la data? Inoltre sono stato io a rivelare in senato che tu avevi posticipato il massacro dei senatori al 28 ottobre, giorno in cui molti notabili della città lasciarono Roma non tanto per mettersi in salvo quanto per vanificare i tuoi progetti. Puoi forse negare che proprio in quel giorno, circondato dalle mie guardie e dalla mia attenta vigilanza, non hai potuto attuare i tuoi piani contro la Repubblica, e – giacché gli altri erano partiti – andavi dicendo che ti saresti accontentato di eliminare me che non mi ero allontanato? 8. Che cosa vuoi ancora? Confidando nel fatto che l’1 novembre con una sortita notturna avresti conquistato Preneste, non ti rendesti conto che quella colonia, per mio ordine, era custodita dai miei soldati, dalle mie guardie, dalle mie sentinelle? Non puoi fare né tramare né pensar nulla senza che io non solo senta, ma anche veda e comprenda perfettamente. IV. Ripercorri dunque con me la penultima notte: ti accorgerai così che io veglio sulla sicurezza della Repubblica molto più attentamente di quanto tu non ti adoperi per la sua rovina. La penultima notte ti sei recato nella via dei fabbricanti di falci – intendo parlar chiaro – in casa di Marco Leca. Là si erano radunati parecchi complici del tuo piano folle e scellerato. Osi forse negarlo? Perché te ne stai zitto? Se neghi, addurrò prove della tua colpevolezza: vedo, infatti, che qui in senato sono presenti alcuni che erano là insieme con te! 9. Dèi immortali! In che mondo viviamo? In che città abitiamo? Che governo abbiamo mai? Qui, proprio qui, in mezzo a noi, senatori, in quest’assemblea, la più sacra e autorevole della terra, sono seduti quelli che tramano la morte di noi tutti, la distruzione di questa città e persino del mondo intero. A me, console, tocca sopportare la loro presenza e devo chiedere il loro parere per la salvezza della Repubblica senza neppure riuscire a ferire con la voce coloro che sarebbe stato necessario passar per le armi. Dunque, Catilina, quella notte andasti da Leca: distribuisti gli incarichi ai congiurati delle varie zone d’Italia e decidesti dove ti pareva opportuno che ciascuno si recasse; stabilisti anche chi lasciare a Roma e chi portare con te. Designasti i quartieri della città da incendiare, confermasti che la tua partenza era ormai prossima e dicesti di doverti trattenere ancora – ma per poco – per il fatto che io ero ancora in vita. Si trovarono due cavalieri romani disposti a liberarti anche da questa preoccupazione, i quali s’impegnarono a uccidermi nel mio letto quella notte stessa poco prima dell’alba. 10. Tutte queste cose sono venuto a saperle non appena sciolta la vostra riunione. Rafforzai il presidio di guardie intorno alla mia casa, vietai l’ingresso a coloro che al mattino tu hai mandato a salutarmi, poiché erano venuti proprio quelli la cui visita in quel momento mi aspettavo – come avevo già predetto a molti illustri cittadini. V. Questa è la situazione, Catilina: porta a termine ciò che hai intrapreso; esci una volta per tutte dalla città; le porte sono spalancate: vai! Da troppo tempo ormai le celebri truppe del tuo amico Manlio ti attendono, loro comandante! Portati via tutti i tuoi, o almeno il maggior numero possibile: ripulisci la città! Sarò liberato da una grande preoccupazione quando un muro si leverà tra me e te. Ormai non puoi restare tra noi più a lungo: io non voglio, non posso, non ho assolutamente intenzione di sopportarlo. 11. Dobbiamo nutrire grande riconoscenza verso gli dèi immortali e in particolare verso Giove Statore, da sempre custode di questa città, per il fatto che già tante volte siamo riusciti a sfuggire a questa rovina, così spaventosa, orribile e pericolosa per la Repubblica, la cui sopravvivenza non bisogna mai più permettere che venga messa a repentaglio da un solo uomo. Fino a che tu, Catilina, hai tramato contro di me, quando ero console designato, mi son difeso non con una scorta pubblica, ma con una guardia del corpo privata. Quando poi, nel corso degli ultimi comizi per l’elezione dei consoli, hai tentato di uccidermi – allora ero console in carica – nel Campo Marzio insieme con i candidati tuoi concorrenti, sono riuscito a reprimere i tuoi tentativi assassini grazie alla protezione degli amici e delle loro guardie, senza ricorrere a una leva straordinaria. Insomma, ogni volta che hai preso di mira me mi sono opposto da solo ai tuoi dardi, sebbene mi rendessi conto che la mia morte avrebbe comportato una grave rovina per la Repubblica. 12. Ora però tu attenti apertamente all’intera cosa pubblica, vuoi trascinare alla distruzione e alla catastrofe i templi degli dèi immortali, gli edifici della città, la vita di tutti i cittadini, insomma l’Italia intera. Perciò, dato che non oso ancora provvedere con la decisione che sarebbe la prima da prendere e la più conveniente a questo mio grado e alla tradizione, farò quanto risulta meno grave dal punto di vista del rigore, ma più utile alla salvezza comune. Se, infatti, impartissi l’ordine di ucciderti rimarrebbe nella Repubblica un manipolo di congiurati. Se invece tu – cosa a cui ti esorto già da parecchio tempo – te ne andrai, la fogna della città, la numerosa ed esiziale torma dei tuoi complici, sarà ripulita. 13. Che c’è, Catilina? Esiti a fare per mio ordine ciò che avresti fatto di tua spontanea volontà? Il console ordina al nemico di allontanarsi dalla città. In esilio, mi chiedi? Non te lo posso ordinare, ma, se mi chiedi un consiglio, te lo suggerisco! VI. Che cosa c’è, Catilina, che non ti possa trattenere ancora in questa città, nella quale non vi è nessuno – tranne questa banda di tuoi scellerati complici – che non ti tema, che non ti abbia in odio? Quale marchio d’immoralità non bolla la tua vita privata? Quali azioni disonorevoli non macchiano la tua fama? Da quale dissolutezza rifuggirono mai i tuoi occhi, da quale delitto le tue mani, da quale scandalo la tua persona? Quale adolescente, dopo averlo irretito con gli allettamenti della tua corruzione, non hai guidato al delitto o alla passione sfrenata? 14. Che dire di più? Quando, poco tempo fa, con l’uccisione della tua prima moglie hai sgomberato la casa per nuove nozze, non hai forse sommato a quest’infamia anche un delitto impronunciabile? Ma lo passo sotto silenzio, e volentieri evito di parlarne, perché non risulti che in questa città è stato perpetrato o non è stato punito un delitto tanto esecrabile. Ometto lo stato rovinoso delle tue finanze: ti accorgerai alle prossime Idi della minaccia che incombe su di te; vengo piuttosto a quei fatti che non riguardano l’obbrobrio della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, ma il supremo bene della Repubblica e la vita e la sicurezza di tutti noi. 15. Come può, Catilina, esserti gradita questa luce o l’aria che respiri, sapendo che nessuno dei presenti ignora che l’ultimo giorno dell’anno di consolato di Lepido e Tutto hai preso parte ai comizi armato, che avevi raccolto un pugno di uomini per uccidere i consoli e i cittadini più in vista e che al progetto scellerato non un tuo pensiero di ravvedimento o un qualche timore si è opposto, ma la Fortuna del popolo romano? Ma tralascio anche questi delitti: infatti, quelli commessi in seguito non sono né sconosciuti né pochi. Quante volte hai tentato di uccidermi quand’ero console designato e quante volte persino dopo che ero divenuto console! Da quanti tuoi colpi assestati in modo che sembrasse impossibile evitarli mi son difeso con un semplice scarto del corpo! Perdi tempo, non ottieni nulla, eppure non metti fine ai tuoi velleitari tentativi. 16. Quante volte già questo pugnale ti è stato strappato dalle mani! Quante volte per qualche motivo ti è caduto e non ha avuto effetto! Non so con quali riti sia stato consacrato e promesso in voto, se ritieni necessario conficcarlo nel corpo di un console. VII. Ma dimmi, che vite è ora la tua? Ormai ti rivolgo la parola non mosso dall’odio, come dovrei, ma dalla misericordia, che tu non meriti affatto. Poco fa sei venuto qua in senato. Chi di tutta questa folla, chi dei tuoi numerosi amici e clienti ti ha rivolto il saluto? A memoria d’uomo non si ricorda che qualcuno abbia mai ricevuto un’accoglienza così ostile: e allora? Attendi il disprezzo delle parole quando già sei colpito dal durissimo giudizio del silenzio? E ancora: al tuo arrivo questi sedili sono stati lasciati liberi, non appena ti sei seduto, tutti gli ex consoli da te più volte condannati a morte hanno abbandonato completamente questo settore di seggi. Con che animo insomma pensi di sopportare tutto ciò? 17. Se i miei servi mi temessero al punto a cui ti temono tutti i tuoi concittadini, mi riterrei costretto ad abbandonare la mia casa. Non pensi tu di dover lasciare la città? Se mi vedessi da loro sospettato e accusato di cose tanto gravi – sia pur a torto –, preferirei essere privato della possibilità di vederli piuttosto che essere guardato da tutti con occhi ostili. Tu invece, nonostante riconosca – per la coscienza che hai dei tuoi crimini – che l’odio di tutti è giustificato e dovuto a te da tempo, esiti tuttavia ad allontanarti dagli occhi e dalla presenza di quelli cui ferisci la mente e l’anima? Se i tuoi genitori avessero paura di te e ti odiassero e non ti fosse possibile in alcun modo ricondurli alla ragione, te ne andresti lontano – immagino – dai loro occhi. Ora è la patria, madre comune di tutti noi, a odiarti e temerti, ormai da tempo convinta che tu non accarezzi altro progetto che il parricidio: non ne rispetterai l’autorità, non ne accetterai la sentenza, non ne temerai la forza? 18. Essa, Catilina, discute con te silenziosa, in un certo qual modo, ti rivolge la parola così: «Ormai da molti anni non è stato perpetrato alcun delitto se non per opera tua, nessuna azione infamante senza la tua partecipazione; soltanto per te l’uccisione di molti cittadini, la vessazione e la depredazione degli alleati sono rimasti impuniti e privi di conseguenze: sei stato capace non solo di calpestare le leggi e i tribunali, ma anche di distruggerli e annientarli. I noti delitti del passato, che non avrei dovuto sopportare, tuttavia, come ho potuto, li ho sopportati. Ora però sono in grande ansietà per causa soltanto tua: a ogni rumore si teme Catilina; sembra che nessun complotto possa essere ordito contro di me senza la tua scellerata partecipazione: non intendo più sopportarlo. Perciò vattene, e liberami da questo timore: se è fondato, perché io non ne sia uccisa, se invece è falso, perché una volta per tutte io smetta di aver paura!». VIII. 19. Se, come ho detto, la patria ti rivolgesse queste parole, non dovrebbe forse ottenere ciò che ti chiede, anche se non fosse in grado di usare la forza? E che dirò del fatto che hai chiesto gli arresti domiciliari e che fugare i sospetti hai dichiarato l’intenzione di trasferirti presso Marco Lepido? Ma Lepido non ti ha accolto, e hai osato venire anche da me a chiedere di essere ospitato in casa mia. Ricevuta la medesima risposta, cioè che io non potevo ritenermi sicuro abitando tra le stesse pareti in cui abitavi tu, poiché correvo già un grave pericolo vivendo entro la stessa cerchia di mura, ti sei recato dal pretore Quinto Metello. Rifiutato anche da lui, te ne andasti dal tuo amico Marco Metello, ottima persona, che credesti sarebbe stato molto zelante nel custodirti, astutissimo nel sorvegliarti e durissimo nel punirti. Ma quanto è giusto che stia lontano dai ceppi del carcere uno che da se stesso si giudica degno degli arresti domiciliari? 20. Vista la situazione, Catilina – dal momento che non sei in grado di morire con animo fermo –, esiti ad andare in altre terre e ad affidare la tua vita, sottratta a numerosi supplizi giusti e meritati, a quella forma di fuga che è la solitudine? «Fanne proposta formale al senato» mi dici: lo chiedi tu stesso e, se il senato decretasse il tuo esilio, ti proclami disposto a obbedire. Non lo proporrò, perché ciò è contrario alle mie abitudini, e farò tuttavia in modo che tu percepisca chiaramente che cosa pensano di te. Vattene dalla città, Catilina, libera la Repubblica dal terrore! Va’ in esilio, se aspetti il loro giudizio! E allora? Ma presti attenzione? Non senti il loro silenzio? Lasciano che parli io, loro tacciono. A che scopo attendi un ordine esplicito, quando la loro volontà traspare anche solo dal silenzio? 21. Se io avessi detto le stesse cose a questo giovane valoroso, Publio Sestio, o a Marco Marcello, uomo di grande coraggio, il senato avrebbe già reagito violentemente contro di me in questa stessa sede e a buon diritto, nonostante io sia il console. Invece, trattandosi di te, approvano con il silenzio, lasciandomi parlare pronunciano sentenze, tacendo gridano; e non soltanto costoro, dei quali rispetti l’autorità pur tenendo scarso conto della loro vita, ma anche tutti i cavalieri romani, uomini di grande onore e valore e tutti gli altri cittadini coraggiosi che circondano il senato, dei quali puoi costatare di persona il numero, intuire i propositi e di cui poco fa hai anche potuto sentire le voci. A fatica tengo lontani da te le loro armi e i loro colpi. Ma potrei facilmente convincerli a farti da scorta fino alle porte se tu decidessi di abbandonare questi luoghi che già da tempo ti proponi di distruggere. IX. 22. Ma perché parlare? Con la speranza che qualcosa ti pieghi, che prima o poi tu ti corregga, che tu giunga finalmente alla decisione di fuggire o di andare in esilio? Magari entrassi in tale ordine d’idee! Eppure mi è chiaro che, nel caso ti convincessi ad andare in esilio per effetto delle mie parole, un’immensa grandine d’impopolarità ne verrebbe per me, se anche non oggi – è vivo, infatti, il ricordo dei tuoi recenti delitti –, certo in futuro. Ciononostante ne vale la pena, purché la sventura colpisca me soltanto e la Repubblica non sia minacciata. Ma non si deve pretendere che tu sia spinto dai tuoi vizi a temere le pene sancite dalla legge, che ti sacrifichi per la difficile situazione della Repubblica. Infatti, Catilina, non sei certo il tipo che la vergogna trattiene dal compiere un’azione infamante, o la paura dell’affrontare un pericolo, o la ragione dal commettere una follia. 23. Perciò, come ti ho già ripetuto più volte, vattene e se vuoi suscitare odio contro di me – tuo nemico, come dici, personale – va’ in esilio immediatamente. Sarà una dura fatica sopportare le calunnie dei malvagi se farai ciò. A stento sarò in grado di sostenere il peso di quest’odio se andrai in esilio per ordine del console. Se invece vuoi essere utile alla mia fama futura, allora vattene insieme con la schiera impudente dei tuoi fidi, raggiungi Manlio, raccogli i peggiori cittadini, allontanati dai buoni, dichiara guerra alla patria, gioisci di questa guerra di briganti, in modo che non sembri che io ti abbia cacciato in mezzo a degli stranieri ma che tu abbia raggiunto i tuoi dietro loro invito. 24. Perché mai dovrei tentare di persuaderti, sapendo che hai inviato alcuni ad attenderti armati a Foro Aurelio? Sapendo che hai preso accordi con Manlio sul giorno dell’incontro? Sapendo che hai mandato avanti anche l’aquila d’argento, che – ne sono sicuro – sarà segno di luttuosa rovina per te e per tutti i tuoi, aquila a cui hai addirittura eretto un empio sacrario in casa tua? È mai possibile che possa starle lontano tu che eri solito pregarla prima di uscire per commettere un delitto, tu che dai suoi altari hai spesso ritratto la mano sacrilega per andare a uccidere dei concittadini? X. 25. Te ne andrai insomma una volta per tutte là dove già in precedenza ti trascinava la tua sfrenata e insana smania! E questo fatto non ti provoca dolore, ma una sorta di sconvolgente voluttà: per tale follia ti ha generato la natura, ti ha allenato la volontà, ti ha protetto il destino. Non solo non hai mai desiderato la pace, ma neppure la guerra, a meno che non fosse rovinosa. Ti sei imbattuto in una masnada di mascalzoni, un’accozzaglia di uomini perduti, non solo traditi dalla sorte ma anche privi di qualsiasi speranza. 26. Con loro chissà che felicità potrai sperimentare, quali gioie ti faranno esultare, quale immenso diletto t’inonderà quando ti accorgerai che in un così numeroso gruppo di persone non ne ascolterai e non ne potrai vedere una che sia perbene. A questo genere di vita erano indirizzate le tue fatiche, di cui si favoleggia: dormivi per terra non solo per progettare un adulterio ma anche per commettere un delitto, vegliavi non solo per insidiare il sonno dei mariti ma anche i beni dei cittadini pacifici. Ti si offre un’occasione per dar prova della tua tanto celebrata capacità di sopportare la fame, il freddo, la privazione di tutto: senti che tra breve ne sarai sopraffatto. 27. Respingendoti dal consolato ho ottenuto almeno un risultato positivo: hai assalito la Repubblica da esule, piuttosto che vessarla da console, e quanto di scellerato hai intrapreso è stato giudicato un atto di brigantaggio piuttosto che di guerra. XI. Ora, senatori, affinché io possa prevenire o respingere un rimprovero in un certo qual modo fondato per la Repubblica, ascoltate con attenzione – vi prego – ciò che sto per dire e imprimetevelo bene nel cuore e nella mente. Infatti, se la patria, che mi è molto più cara della vita, se l’Italia intera, se tutta la Repubblica mi parlasse così: «Marco Tullio, che fai? Hai scoperto che è un nemico, prevedi che porterà guerra, ti accorgi che gli avversari lo aspettano come comandante, lui, autore di delitti, capo di una congiura, sobillatore di schiavi e di cittadini ridotti in rovina, eppure sopporti che se ne vada, in modo che sembrerà non che tu l’abbia cacciato, ma che l’abbia fatto entrare in città. Non darai dunque l’ordine di imprigionarlo, di condannarlo a morte, di punirlo con l’estremo supplizio? 28. Che cosa mai te lo impedisce? Il mos maiorum? Più e più volte in questa Repubblica anche dei privati cittadini hanno condannato a morire i cittadini pericolosi. Forse le leggi che sono state emanate riguardo alla condanna a morte di cittadini romani? Mai in questa città chi si è messo contro la Repubblica ha potuto conservare i diritti civili. Temi forse l’odio dei posteri? Dunque nutri una riconoscenza davvero mirabile verso il popolo romano, che ha elevato te – uomo fattosi da solo e privo di qualsiasi raccomandazione dovuta a parentele – attraverso tutta la serie delle cariche pubbliche così giovane al sommo comando, se per timore dell’odio o di qualche rischio personale trascuri la sicurezza dei tuoi concittadini. 29. Tuttavia, se pure non può mancare il timore d’incorrere nel biasimo, si deve forse temere più quello proveniente dall’aver operato con un severo vigore di quello attirato da una malvagia insolenza? Quando l’Italia sarà sconvolta dalla guerra, le città devastate, gli edifici dati alle fiamme, non pensi che anche tu allora verrai travolto dall’incendio del biasimo?». XII. Risponderò brevemente a queste accorate parole della Repubblica e ai pensieri di coloro che provano sentimenti analoghi. Se avessi ritenuto che la cosa migliore, senatori, fosse condannare Catilina a morte, non avrei concesso nemmeno il godimento di un’ora di vita in più a questo delinquente. Infatti, se uomini grandi e famosi non solo non restarono contaminati dal sangue di Saturnino, dei Gracchi, di Flacco e di molti altri ribelli dei tempi passati, ma addirittura ne guadagnarono onori, senza dubbio io non avrei dovuto temere che – per l’uccisione di quest’assassino di cittadini – si riversasse su di me, tuttavia sono sempre stato del parere che l’odio guadagnato col valore non sia da considerare tale, ma gloria. 30. Sennonché nell’ordine senatorio vi sono alcuni che o non vedono ciò che sta per accadere oppure dissimulano ciò che vedono; alcuni che alimentarono con deboli proposte le speranze di Catilina e – non prestandovi credito – diedero forza alla nascente congiura. In base all’autorevole consiglio di costoro, se i lo avessi punito, molti, non soltanto male intenzionati ma anche ingenui, avrebbero sostenuto che agivo in modo crudele e dispotico. Ma comprendo: se questo qui giungerà agli accampamenti di Manlio, dov’è diretto, non vi sarà nessuno tanto stolto da non vedere che è stata ordita una congiura, nessuno tanto disonesto da non ammetterne l’esistenza. Inoltre, ucciso lui soltanto, è chiaro che questo flagello della Repubblica sarebbe frenato per un po’, ma non debellato per sempre. Se invece se ne andrà da sé portandosi via i suoi, e raccoglierà in quel luogo gli altri sbandati che ha convocato da ogni parte, sarà completamente estirpato non solo questo flagello tanto radicato nella cosa pubblica, ma anche il seme e la radice di tutti i mali. XIII. 31. Già da parecchio tempo, infatti, senatori, ci troviamo in questo insidioso pericolo della congiura, ma, non so proprio per quale motivo, il culmine di tutti i delitti, del furore antico e dell’estremismo politico è stato raggiunto durante il mio consolato. Se dunque di tutta questa cosca di briganti viene ucciso soltanto costui, forse sembrerà di essere stati liberati dalla preoccupazione e dal terrore, ma per brevissimo tempo: il pericolo perdurerà, rimanendo chiuso nel profondo, nelle vene e nelle viscere della Repubblica. Come spesso accade a chi è gravemente ammalato e in preda all’arsura della febbre, che sembra in un primo momento provare sollievo quando beve dell’acqua gelida, ma in seguito le sue condizioni si aggravano, così questo morbo, che affligge la Repubblica, alleviato dalla morte di costui, s’inasprirà se rimangono in vita i suoi complici. 32. Perciò se ne vadano i malvagi; si separino dai buoni, si radunino tutti nello stesso luogo. Un moro, come ho ripetuto spesso, li divida da noi. Smettano di tramare insidie al console nella sua casa, di accerchiare il tribunale del pretore urbano, di assediare con spade la curia, di preparare proiettili incendiari e torce per dar fuoco alla città; una buona volta, ciascuno porti scritte in fronte le sue idee politiche. Vi prometto, senatori, che grazie all’infaticabile impegno di noi consoli e alla vostra somma autorità, all’immenso valore dei cavalieri romani, all’unanime consenso di tutti i cittadini onesti, con l’allontanamento di Catilina vedrete tutti gli intrighi scoperti, messi in luce, soffocati e puniti. 33. Con questi auguri, Catilina, con la somma salvezza della Repubblica, con la rovinosa distruzione tua e di quelli che si sono uniti a te in ogni delitto e nell’assassinio, parti per una guerra empia e nefasta. Tu, o Giove, il cui culto è stato stabilito in questo luogo da Romolo con gli stessi auspici con cui è stata fondata la città, che chiamiamo «Protettore» di questa città e giustamente anche del sommo comando, tieni lontani costui e i suoi compari dai tuoi templi e da quelli degli altri dèi, dalle abitazioni e dalle mura urbane, dalla vita e dai beni dei cittadini, e questi uomini, avversi ai buoni, nemici della patria, predatori dell’Italia, uniti da un patto delittuoso e da una nefasta amicizia, puniscili vivi e morti con eterni supplizi!

 (trad. it. E. Risari)

Traiano: l’optimus princeps che usò il “fiscus” per aiutare i poveri

di G. Di Muro

«[Traiano] amministrò lo Stato così da essere anteposto giustamente a tutti i principi, per la singolare civiltà e fortezza d’animo. Egli estese in lungo e in largo i confini della potenza romana che, dopo Augusto, era stata difesa maggiormente piuttosto che ampliata egregiamente»[1]. E ancora Traiano nell’amministrazione fu così clemente che «che superò anche la gloria militare con civiltà e moderazione, apparendo a Roma e per le province uguale a tutti… non danneggiando nessuno dei senatori, non facendo nulla di ingiusto per accrescere il fisco, liberale verso tutti quanti…»[2].

Sono le parole utilizzate da Eutropio per descrivere la figura di Marco Ulpio Traiano, imperatore di Roma dal 98 al 117 d.C.

Nato a Italica in Spagna, di famiglia illustre più che nobile (il padre era stato un governatore provinciale chiamato per meriti e capacità da Vespasiano nei ranghi senatoriali) fu il primo imperatore di Roma nato fuori dell’Italia e a superare in modestia, temperanza e civiltà la gloria militare. Plinio il Giovane ed Eutropio, fonti storiche più accreditate, concordano nel ritenere che, grazie alle sue grandi qualità di soldato e amministratore pubblico, sapientemente fuse ed equilibrate, Roma raggiunse, sotto il suo principato, il periodo di massima espansione.

M. Ulpio Traiano. Busto, marmo, inizi II sec. da Olbia. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Come ufficiale militare seguì tutto il cursus honorum previsto dalla scala gerarchica augustea e ricoprì importanti funzioni (quaestor, praetor, legatus) maturando una considerevole esperienza soprattutto all’estero. Un particolare di non poco conto per l’epoca che gli avrebbe permesso di affrontare, a 45 anni, il difficile passaggio al ruolo di imperatore. Onorò l’incarico sin dagli inizi del mandato al punto tale da meritarsi, dopo due soli anni di governo, l’appellativo di optimus princeps. Il titolo, secondo alcune fonti storiografiche, sarebbe stato direttamente riconosciuto dal Senato, mentre per altre è da attribuire a Plinio il Giovane, scrittore e senatore romano, che lo usa a ragion veduta nel suo «Panegirico a Traiano». Un trattato sulla figura dell’imperatore che ancora oggi costituisce una delle maggiori fonti di informazioni, ricche di particolari inediti. Di Plinio il Giovane si ricordano, oltre al «Panegirico a Traiano» anche i 10 libri delle Epistole. Proprio il decimo libro contiene ben 79 lettere indirizzate dall’autore, a quel tempo governatore della Bitinia, all’imperatore Traiano. In queste 79 lettere sono stati rinvenuti ben 50 quesiti di carattere fiscale che Plinio il Giovane formula a Traiano a cui seguono altrettante risposte. Una sorta di formulario fiscale delineato dall’imperatore che doveva servire a Plinio il Giovane come «vademecum» nella gestione fiscale e amministrativa del governatorato romano.

Riassetto urbanistico della penisola, rinnovamento dell’apparato statale, centralità politico-amministrativa, economia. Sono i quattro caratteri distintivi della politica traianea, divisa tra la necessità di rafforzare l’identità dell’impero contro le spinte alla delocalizzazione e far fronte alla crisi economica e demografica della penisola.

Oltre a migliorare le vie di comunicazione per favorire e incrementare gli scambi commerciali, Traiano considera fondamentale un’altra priorità: gli interventi in campo economico e sociale. A lui si deve il rafforzamento di uno dei primi interventi di stato sociale della storia, l’institutio alimentaria. Introdotto dal suo diretto predecessore, vale a dire Nerva, questo istituto fiscal-finanziario fu regolamentato da Traiano in modo puntuale, tanto da divenire uno strumento di intervento per far fronte alla crisi economica dell’Impero.

L’istituto finanziario prevedeva un prestito ipotecario (obligatio praedorium) concesso direttamente dal patrimonio personale dell’imperatore (il fiscus). Grazie alle istituzioni alimentari, che potremo definire istituzioni statali di carattere assistenziale, la versione arcaica delle Ipab (Istituti pubblici di assistenza e beneficenza), gli agricoltori ricevevano in prestito capitali fornendo, a loro volta, una specifica garanzia ipotecaria e a un basso tasso di interesse che, all’epoca, era, secondo alcune fonti storiche, nell’ordine del 2,5% e, secondo altre, del 5%. Le rendite erano devolute direttamente all’assistenza dei fanciulli orfani e indigenti assicurando loro il giusto sostentamento. L’obiettivo dell’imperatore non era soltanto di aiutare gli orfani e i bisognosi, che attraverso questa forma di sostentamento avrebbero potuto studiare e pensare eventualmente a un futuro impiego nei ranghi dell’amministrazione imperiale, ma anche la ripresa dell’economia romana, stretta come era tra la crisi economica e la contrazione demografica.

Apposite tavole (tabula alimentaria) riportavano in dettaglio le disposizioni dell’imperatore per l’istituzione del prestito ipotecario. In particolare, ricorda Monica Miari, direttrice dell’area archeologica di Veleia, «la somma del prestito, distribuita in relazione alle terre possedute, le obbligazioni contratte da ogni singolo proprietario, il nome dell’intermediario incaricato della dichiarazione (descriptio), la stima delle proprietà date in pegno (aestimatio) e la somma corrisposta dall’amministrazione per conto dell’Imperatore». Tra l’altro, di ogni terreno, che veniva offerto come garanzia del prestito, era riportato il nome (tecnicamente vocabulum) con indicate le eventuali pertinenze annesse, tra cui le fattorie, gli ovili e le fornaci, e, non ultimo, la localizzazione toponomastica. Di queste tavole, realizzate in bronzo, sono state rinvenute tracce, con le relative iscrizioni, negli scavi archeologici della città romana di Veleia e a Macchia di Circello nei pressi di Benevento.

Di indole pragmatica, Traiano era consapevole dell’importanza e della centralità degli scambi commerciali per favorire il rilancio economico della Penisola. Ed è per questo motivo che si adoperò per far approvare dal Senato, con cui era in ottimi rapporti di confronto e collaborazione (a differenza di Nerone n.d.r.), una serie di provvedimenti che avrebbero contribuito ad accelerare il rinnovamento delle infrastrutture. Dalla estensione e manutenzione della rete viaria imperiale alla realizzazione di porti, strade e acquedotti. Tra le opere di maggiore rilievo, soltanto per citarne alcune, si ricordano quelle per favorire l’attracco delle navi nei porti di Ostia, Civitavecchia e Ancona, la costruzione di ponti e acquedotti come l’Aqua Traiana, realizzato nel 109 dall’ingegnere Sesto Giulio Frontino, curator aquarum, famoso sovrintendente delle acque sin dai tempi di Nerva, che dal lago di Bracciano approvvigionava le località del Gianicolo e Trastevere. Tra le altre opere di rilievo commissionate da Traiano vi è anche l’acquedotto sul Tago presso Alcantara e quello sul Danubio a Drobetae, il riordino delle cloache romane, la costruzione di un canale per far defluire le acque delle piene del Tevere. Di lui Eutropio scrive ancora «tutti credono che a causa di queste cose sia stato considerato in tutta la terra simile a un dio e che abbia meritato ogni tipo di venerazione sia da vivo che da morto»[3].


[1] Eutr., Brev. Hist. Rom. VIII 2, 2: «Rem publicam ita administravit, ut omnibus principibus merito praeferatur, inusitatae civilitatis et fortitudinis. Romani imperii, quod post Augustum defensum magis fuerat quam nobiliter ampliatum, fines longe lateque diffudit».

[2] Eutr., op.cit. VIII 4, 1: «Gloriam tamen militarem civilitate et moderatione superavit, Romae et per provincias aequalem se omnibus exhibens … nullum senatorum laedens, nihil iniustum ad augendum fiscum agens, liberalis in cunctos…».

[3] Eutr., op.cit. VIII 4, 2: «Ob haec per orbem terrarum deo proximus nihil non venerationis meruit et vivus et mortuus».