Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

La battaglia di Tanagra (457 a.C.)

A. Frediani, Le grandi battaglie dell’antica Grecia, Roma 2005, pp. 170-173.

[…] In un biennio erano successe tante cose, tutte piuttosto lesive del prestigio di Sparta. Viceversa, il prestigio di Atene era salito alle stelle: la capitale attica aveva dimostrato di poter agire brillantemente su ben tre fronti, infliggendo uno schiaffo all’Impero persiano, tenendo sotto scacco Egina e trovando perfino il modo di aiutare un alleato in difficoltà. Pericle aveva infine dato corso al sogno di Temistocle di unire Atene al suo porto del Pireo: i sette chilometri che intercorrevano tra la città e la costa erano pertanto divenuti, sulla scorta di quanto era stato fatto a Megara, un enorme cantiere, nel quale era stata inaugurata la costruzione di due file di mura, l’una, più settentrionale, che univa Atene al porto, l’altra, più a sud, dalla città alla baia di Falero; il tutto, a costituire una fortezza triangolare, inespugnabile da terra e rifornibile dal mare.

Oplita spartano. Illustrazione di P. Connolly.
Oplita spartano. Illustrazione di P. Connolly.

Però, in quell’epoca ebbe anche finalmente termine il decennale assedio al Monte Itome – sebbene i Lacedemoni dovessero accettare di lasciar liberi gli iloti rivoltosi –, e ciò mise finalmente Sparta in condizione di progettare avventure militari più a settentrione. Il primo atto degli efori che, in quel momento, erano i veri detentori del potere, fu di cercare alleati in Beozia, per contrastare l’alleanza tra Ateniesi e Tessali; ma la dissoluzione della Lega beotica, seguita all’invasione persiana, durante la quale Tebe aveva compromesso il proprio prestigio, risultando uno dei più attivi sostenitori di Serse, costrinse gli Spartani a impegnarsi militarmente per ricostruire, prima di ogni altro passo, l’autorità dei Tebani.

L’occasione venne loro offerta da una richiesta di aiuto dalla Doride, alla quale gli Spartani fecero seguire una spedizione con forze ben più consistenti di quelle necessarie a schiacciare l’aggressione dell’alleato, ovvero la Focide. Il nuovo reggente, Nicomede, trasferì per mare oltre il Golfo di Corinto 1.500 opliti spartani e 10.000 peloponnesiaci, e fu uno scherzo non solo sconfiggere i Focesi, ma anche occuparne le sedi.

Non abbiamo modo di sapere se l’incarico del reggente prevedesse anche la prosecuzione della guerra contro Atene; di certo, le mura erano in corso di costruzione e la città era ancora vulnerabile, e inoltre, per tornare nel Peloponneso via terra c’era da attraversare i passi della Megaride, presidiati dalle truppe ateniesi; via mare, poi, le navi di Atene avevano posto un blocco nelle acque del Golfo di Corinto. In ogni caso, poiché le póleis greche non riuscivano mai a essere compatte neanche al loro interno, gli oppositori dei programmi di Pericle invitarono il generale lacedemone a sferrare un attacco alla città, per far cadere il partito democratico e arrestare la dispendiosa costruzione delle mura.

A quel punto, l’invasione dell’Attica da parte degli Spartani sembrava davvero essere la tappa successiva più probabile dell’esercito di Nicomede, sia che questi ne avesse avuto o meno l’intenzione fin dall’inizio della campagna.

Pericle pensò bene di prevenirla, predisponendo una controffensiva in Beozia con un contingente di 13.000 opliti – non si sa bene trovati dove, se gli assedi di Egina e di Menfi erano ancora in corso –, 1.000 argivi e la cavalleria tessala.

L’urto tra i due eserciti avvenne nel maggio o nel giugno del 457 a.C. a Tanagra, in Beozia sull’Asopo, in prossimità del confine con l’Attica. Nulla si sa sullo svolgimento dello scontro, sul quale entrambe le fonti, Tucidide e Diodoro Siculo, sono estremamente laconiche, se non che fu molto cruento e che, forse, vi partecipò anche Pericle, distinguendosi in un ruolo subalterno. Dovette trattarsi della classica battaglia tra opliti, dal corso assai prevedibile, ancor più tipica per via della defezione della cavalleria tessala, che a scontro iniziato abbandonò gli Ateniesi e lasciò il campo alla sola fanteria.

E come ogni scontro oplitico, fu l’oscurità a determinare la fine delle ostilità, con un’appendice che non è chiaro se sia avvenuta contestualmente alle ultime fasi della battaglia, o durante le prime ore della notte. Secondo Diodoro, infatti, i Tessali che avevano defezionato si imbatterono in un convoglio di rifornimenti destinato agli Ateniesi, e lo assalirono approfittando del fatto che la scorta era inconsapevole del loro tradimento; gli Ateniesi gli andarono incontro fiduciosi, solo per essere trucidati uno a uno, sebbene qualcuno riuscisse a salvarsi e ad avvertire i commilitoni al campo. Sul luogo dell’imboscata sopraggiunsero allora altre truppe ateniesi, e poi anche spartane, che si affrontarono in perfetta formazione a falange replicando, in pratica, lo scontro di poco prima, fino a quando non si vide più a un palmo dal naso.

Sebbene Diodoro, l’unica fonte che si dilunghi un po’ sul combattimento di Tanagra, asserisca che il suo esito fu dubbio, tutte le altre fonti minori, da Plutarco a Giustino, da Platone a Cornelio Nepote, attribuiscono la vittoria agli Spartani, che d’altronde non trovarono più alcuna opposizione lungo i passi della Megaride. Il fatto che, dopo la vittoria, Nicomede non abbia neanche provato a minacciare direttamente Atene, e abbia proseguito alla volta dell’Istmo limitandosi a devastare il territorio di Megara, indica tutto sommato chiaramente che i Lacedemoni non avevano intrapreso la campagna per scontrarsi con gli Ateniesi – perlomeno non allora –, sebbene possa darsi che le perdite fossero state tali da sconsigliare il reggente dall’assumersi ulteriori rischi. Né, d’altronde, gli Ateniesi erano in condizione di opporsi alla ritirata spartana.

Però, furono in condizione di vanificare gli effetti della spedizione spartana in Beozia subito dopo. La ricostruzione della Lega beotica era cosa effimera, poiché il sostegno che i Lacedemoni fornivano a Tebe era controbilanciato dalla tendenza anti-federativa e democratica di tutti gli altri centri, cui Atene aveva tutto l’interesse a fornire il proprio appoggio. Ad appena due mesi dalla sconfitta di Tanagra, Mironide condusse nuovamente un esercito attico in Beozia, e colse una netta vittoria sui Tebani a Enofita; l’impresa permise ad Atene di diventare la forza egemone anche di quella regione, nella quale Tebe si ritrovò, da leader della Lega, isolato avamposto settentrionale degli Spartani e nulla più.

***

Bibliografia:

J. Van Antwerp Fine, The Ancient Greeks: A Critical History, Cambridge-London 1983, p. 354.

Le riforme di Efialte e la conclusione della III Guerra messenica

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 335-336.

ostrakon risalente alla votazione relativa al caso di cimone. 486-461 a.c. ca. atene, stoà di attalo (museo dell_antica agorà).
Κίμων Μιλτιάδο[υ] (“Cimone, figlio di Milziade”). Ostrakon, 486-461 a.C. ca. dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

Liquidato Cimone, dovette essere ormai facile condurre in porto le riforme costituzionali di Efialte e di Pericle: abolizione dei poteri politici dell’Areopago (la nomophylakía, cioè la sorveglianza sulla costituzione e forse anche la custodia dei testi delle leggi) e riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera giurisdizionale dei delitti di sangue (omicidi volontari). È questo anche il clima in cui, probabilmente, maturano i progetti di creazione di una sorta di stato assistenziale, che si doveva realizzare attraverso la remunerazione dei magistrati, dei buleuti e soprattutto degli eliasti, cioè dei giudici delle giurie popolari. Non dovevano servire allo scopo molto più di 100 talenti annui, se il misthós era ancora di 2 oboli, e se nel 422 a.C., con un’indennità portata a 3 oboli, bastavano 150 talenti[1]; ed è facile immaginare che le nuove entrate, connesse con l’acquisizione dei possedimenti continentali di Taso in Tracia (peraía), potessero al tempo stesso fornire i mezzi e l’idea in quel torno di tempo.
La ribellione messenica era destinata a durare circa dieci anni, periodo del tutto concepibile, se si pensa che dopo i primi tempi, e prima degli ultimi assalti, la guerra si sarà diluita in una serie di scaramucce e di piccoli scontri senza effetto. Non c’è dunque affatto da dubitare del testo tucidideo (I 103, 1) sulla durata decennale, confermata da Diodoro (XI 64, 4). Alla fine un buon numero di Messeni lasciò il Peloponneso, a patto di non tornarvi più, e fu aiutato dagli Ateniesi a raggiungere e colonizzare Naupatto, sul golfo di Corinto, al confine della Locride Ozolia verso l’Etolia.
Nessuna difficoltà fa la struttura del testo tucidideo (I 102103) ad ammettere che la guerra del terremoto sia durata dal 464 al 455 o 454. In un inciso (I 103, 1-3), Tucidide dà, in una specie di parentesi, uno sguardo ad eventi avanzati nel tempo. Né c’è bisogno di far rimontare il terremoto al 469; Diodoro, che lo pone sotto quella data, è infatti lo stesso autore che assegna alla rivolta una durata decennale e che data il trasferimento a Naupatto al 456/455 (XI 63 e 84). Non c’è neanche bisogno di pensare a un primo terremoto del 469, distinto da un secondo nel 464; i terremoti, di cui parla la tradizione, sono una sequenza di eventi sismici coerenti. Proprio Diodoro avrebbe avuto l’interesse, con la sua cronologia, a distinguere fra due terremoti, e non lo fa. ma egli ha una cronologia erronea del regno di Archidamo II (il re che, subito dopo il terremoto, diede l’allerta agli Spartani contro le minacce degli iloti); tale cronologia risulta infatti anticipata di 4-5 anni, per quanto riguarda la sua data di morte: Diodoro lo fa infatti morire nel 432, prima dell’inizio stesso della Guerra archidamica (XII 35, 4), mentre Archidamo muore nella realtà nel 427 a.C. Probabilmente, datando l’inizio della guerra del terremoto sotto il 469, invece che sotto il 464, Diodoro teneva conto del dato (di tradizione spartana), che il terremoto fosse avvenuto nel quarto anno di Archidamo (così, Plut. Cim. 16, 4), ma faceva slittare di alcuni anni verso l’alto l’episodio, come l’intero arco del regno di Archidamo[2].

***

Note:

[1] Cfr. Aristoph. Vesp. 655-663, che calcola 2000 talenti di entrate annue, di cui solo 150 destinati al pagamento di 3 oboli (=1/2 dracma) 300 giorni all’anno (= 150 dracme) per 6000 giurati (= 150 talenti, essendo 1 talento= 6000 dracme).

[2] Diversamente M. Buonocore in Ottava Miscellanea greca e romana, Roma 1982, 57 ss., 73 ss., 97 ss. (cfr. D. Musti, Città di Magna Grecia, II. L’idea di μεγάλη ῾Ελλάς, RFIC 114 [1986], 295, n.1). Nello stesso Diod. XII 42 e 47, Archidamo è vivo tra il 431 e il 429.

***

Bibliografia:

G. Audring, Ephialtes stürzt den Areopag, Altertum 23 (1977), 234-238.

R. Sealey, Ephialtes, Eisangelia and the Council, in G.S. Shrimpton – D.J. McCargar (eds.), Classical Contributions: Studies in Honour of M.F. McGregor, New York 1981, 125-134.

D. Stockton, The Death of Ephialtes, CQ 32 (1982), 227-228.

R.W. Wallace, The Areopagos Council, to 307 B.C., Baltimore-London 1989.

Diodoro e i Celti

I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it., lievemente modificata, di D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 262 s.).

24. [1] […] Τῆς Κελτικῆς τοίνυν τὸ παλαιόν, ὥς φασιν, ἐδυνάστευσεν ἐπιφανὴς ἀνήρ, ᾧ θυγάτηρ ἐγένετο τῷ μεγέθει τοῦ σώματος ὑπερφυής, τῇ δ᾽εὐπρεπείᾳ πολὺ διέχουσα τῶν ἄλλων. Αὕτη δὲδιά τε τὴν τοῦ σώματος ῥώμην· καὶ τὴν θαυμαζομένην εὐπρέπειαν πεφρονηματισμένη παντὸς τοῦ μνηστεύοντος τὸν γάμον ἀπηρνεῖτο, νομίζουσα μηδένα [2] τούτων ἄξιον ἑαυτῆς εἶναι. Κατὰ δὲ τὴν Ἡρακλέους ἐπὶ Γηρυόνην στρατείαν, καταντήσαντος εἰς τὴν Κελτικὴν αὐτοῦ καὶ πόλιν Ἀλησίαν ἐν ταύτῃ κτίσαντος, θεασαμένη τὸν Ἡρακλέα καὶ θαυμάσασα τήν τε ἀρετὴν αὐτοῦ καὶ τὴν τοῦ σώματος ὑπεροχήν, προσεδέξατο τὴν ἐπιπλοκὴν μετὰ πάσης προθυμίας, [3] συγκατανευσάντων καὶ τῶν γονέων. Μιγεῖσα δὲ τῷ Ἡρακλεῖ ἐγέννησεν υἱὸν ὀνόματι Γαλάτην, πολὺ προέχοντα τῶν ὁμοεθνῶν ἀρετῇ τε ψυχῆς καὶ ῥώμῃ σώματος. Ἀνδρωθεὶς δὲ τὴν ἡλικίαν καὶ διαδεξάμενος τὴν πατρῴαν βασιλείαν, πολλὴν μὲν τῆς προσοριζούσης χώρας κατεκτήσατο, μεγάλας δὲ πράξεις πολεμικὰς συνετέλεσε. Περιβόητος δὲ γενόμενος ἐπ᾽ἀνδρείᾳ τοὺς ὑφ᾽αὑτὸν τεταγμένους ὠνόμασεν ἀφ᾽ἑαυτοῦ Γαλάτας· ἀφ᾽ὧν ἡ σύμπασα Γαλατία προσηγορεύθη.

24. [1] […] Nei tempi antichi regnava nella Celtica[1] – così si racconta – un uomo famoso che aveva una figlia di statura eccezionale e molto più bella delle altre. Ella, orgogliosa della sua forza fisica e della sua ammirata bellezza, respingeva tutti coloro che aspiravano a sposarla, ritenendo che nessuno fosse degno di lei. [2] Al tempo della sua spedizione contro Gerione, Eracle venne nella terra dei Celti dove fondò la città di Alesia; la fanciulla lo vide e ne ammirò il valore e l’eccellenza fisica, accettò con grande entusiasmo di unirsi a lui e anche i genitori furono d’accordo. [3] Dall’unione con Eracle nacque un figlio di nome Galate che superava di molto gli appartenenti alla sua stessa tribù per virtù d’animo e forza fisica. Diventato adulto e avendo ereditato il regno avito, egli conquistò molte terre confinanti e compì grandi imprese militari. Ormai famoso per il suo coraggio, Galate chiamò i suoi sudditi “Galati” con il proprio nome: da questi poi prese nome tutta la “Galatia”.

Statua di divinità guerriera. Lamina di bronzo sbalzato e occhi di pasta vitrea, I secolo a.C. da Beauvais. Musée Départmental de l’Oise.

25. [1] Ἐπεὶ δὲ περὶ τῆς τῶν Γαλατῶν προσηγορίας διήλθομεν, καὶ περὶ τῆς χώρας αὐτῶν δέον ἐστὶν εἰπεῖν. Ἡ τοίνυν Γαλατία κατοικεῖται μὲν ὑπὸ πολλῶν ἐθνῶν διαφόρων τοῖς μεγέθεσι· τὰ μέγιστα γὰρ αὐτῶν σχεδὸν εἴκοσι μυριάδας ἀνδρῶν ἔχει, τὰ δ᾽ἐλάχιστα πέντε μυριάδας, ὧν ἕν ἐστι πρὸς Ῥωμαίους ἔχον συγγένειαν παλαιὰν καὶ φιλίαν τὴν μέχρι τῶν καθ᾽ἡμᾶς χρόνων διαμένουσαν. [2] Κειμένη δὲ κατὰ τὸ πλεῖστον ὑπὸ τὰς ἄρκτους χειμέριός ἐστι καὶ ψυχρὰ διαφερόντως. Κατὰ γὰρ τὴν χειμερινὴν ὥραν ἐν ταῖς συννεφέσιν ἡμέραις ἀντὶ μὲν τῶν ὄμβρων χιόνι πολλῇ νίφεται, κατὰ δὲ τὰς αἰθρίας κρυστάλλῳ καὶ πάγοις ἐξαισίοις πλήθει, δι᾽ὧν οἱ ποταμοὶ πηγνύμενοι διὰ τῆς ἰδίας φύσεως γεφυροῦνται· οὐ μόνον γὰρ οἱ τυχόντες ὁδῖται κατ᾽ὀλίγους κατὰ τοῦ κρυστάλλου πορευόμενοι διαβαίνουσιν, ἀλλὰ καὶ στρατοπέδων μυριάδες μετὰ σκευοφόρων καὶ ἁμαξῶν γεμουσῶν ἀσφαλῶς περαιοῦνται. [3] Πολλῶν δὲ καὶ μεγάλων ποταμῶν ῥεόντωνδιὰ τῆς Γαλατίας καὶ τοῖς ῥείθροις ποικίλως τὴν πεδιάδα γῆν τεμνόντων, οἱ μὲν ἐκ λιμνῶν ἀβύσσωνῥέουσιν, οἱ δ᾽ἐκ τῶν ὀρῶν ἔχουσι τὰς πηγὰς καὶ τὰς ἐπιρροίας· τὴν δ᾽ἐκβολὴν οἱ μὲν εἰς τὸν ὠκεανὸν ποιοῦνται, οἱ δ᾽εἰς τὴν καθ᾽ἡμᾶς θάλατταν. [4] Μέγιστος δ᾽ἐστὶ τῶν εἰς τὸ καθ᾽ἡμᾶς πέλαγος ῥεόντων ὁ Ῥοδανός, τὰς μὲν πηγὰς ἔχωνἐν τοῖς Ἀλπείοις ὄρεσι, πέντε δὲ στόμασιν ἐξερευγόμενος εἰς τὴν θάλατταν. Τῶν δ᾽εἰς τὸν ὠκεανὸν ῥεόντων μέγιστοι δοκοῦσιν ὑπάρχειν ὅ τε Δανούβιος καὶ ὁ Ῥῆνος, ὃν ἐν τοῖς καθ᾽ἡμᾶς χρόνοις Καῖσαρ ὁ κληθεὶς θεὸς ἔζευξε παραδόξως, καὶ περαιώσας πεζῇ τὴν δύναμιν ἐχειρώσατο τοὺς πέραν κατοικοῦντας αὐτοῦ Γαλάτας. [5] Πολλοὶ δὲ καὶ ἄλλοι πλωτοὶ ποταμοὶ κατὰ τὴν Κελτικήν εἰσι, περὶ ὧν μακρὸν ἂν εἴη γράφειν. Πάντες δὲ σχεδὸν ὑπὸ τοῦ πάγου πηγνύμενοι γεφυροῦσι τὰ ῥεῖθρα, καὶ τοῦ κρυστάλλου διὰ τὴν φυσικὴν λειότητα ποιοῦντος τοὺς διαβαίνοντας ὀλισθάνειν, ἀχύρων ἐπιβαλλομένων ἐπ᾽αὐτοὺς ἀσφαλῆ τὴν διάβασιν ἔχουσιν.

Testa (forse di un dio). Argilla, 150 a.C. da Keltské Nálezy (Rep. Ceca).

25. [1] Dopo aver parlato del nome dei Galati, bisogna dire qualcosa anche sul loro territorio. La Galatia è abitata da molte tribù di diversa grandezza: quelle più grandi contano circa 200.000 uomini, mentre le più piccole 50.000; una di queste ultime è legata ai Romani da antica parentela e amicizia che si è conservata fino ai nostri tempi. [2] La regione, situata prevalentemente a settentrione, gode di un clima invernale ed è straordinariamente fredda; durante l’inverno, infatti, nei giorni nuvolosi, cade non pioggia bensì neve abbondante, mentre nei giorni di sereno v’è molto ghiaccio e gelo intenso, a causa del quale i fiumi, ghiacciati, si trasformano da soli in ponti: non soltanto i viandanti occasionali, in piccoli gruppi, li attraversano camminando sulla superficie gelata, ma anche interi eserciti con decine di migliaia di uomini, accompagnati da bestie da soma e da carri ricolmi, vi passano sopra indenni. [3] Attraverso la Galatia scorrono numerosi e ampi fiumi che tagliano variamente la pianura con i loro corsi; gli uni scorrono alimentati da laghi estesissimi, gli altri traggono origine e alimentazione dai monti; gli uni sboccano nell’oceano, gli altri nel nostro mare. [4] Il più grande fra quelli che scorrono fino al nostro mare è il Rodano, il quale nasce dalle Alpi e si getta in mare attraverso cinque bocche. Di quelli che scorrono verso l’oceano, i maggiori sembrano essere il Danubio e il Reno, sul quale, ai nostri tempi, Cesare, detto “il Divo”, gettò con meraviglia di tutti un ponte, vi fece passare a piedi l’esercito e assoggettò i Galati che abitavano oltre il fiume. [5] Nella terra dei Celti vi sono anche molti altri fiumi navigabili ma occorrerebbe troppo tempo per descriverli. Quasi tutti, però, solidificati dal gelo, trasformano i loro letti in ponti ma, poiché il ghiaccio, a causa della sua levigatezza, fa scivolare coloro che li attraversano, i locali vi spargono sopra della paglia e si rendono sicuro il passaggio.

26. [1] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον συμβαίνει κατὰ τὴν πλείστην τῆς Γαλατίας, περὶ οὗ παραλιπεῖν οὐκ ἄξιον ἡγούμεθα. Ἀπὸ γὰρ θερινῆς δύσεως καὶ ἄρκτου πνεῖν εἰώθασιν ἄνεμοι τηλικαύτην ἔχοντες σφοδρότητα καὶ δύναμιν, ὥστε ἀναρπάζειν ἀπὸ τῆς γῆς λίθους χειροπληθιαίους τοῖς μεγέθεσι καὶ τῶν ψηφίδων ἁδρομερῆ κονιορτόν· καθόλου δὲ καταιγίζοντες λάβρως ἁρπάζουσιν ἀπὸ μὲν τῶν ἀνδρῶν τὰ ὅπλα καὶ τὰς ἐσθῆτας, ἀπὸ δὲ τῶν ἵππων τοὺς ἀναβάτας. [2] Διὰ δὲ τὴν ὑπερβολὴν τοῦ ψύχους διαφθειρομένης τῆς κατὰ τὸν ἀέρα κράσεως οὔτ᾽οἶνον οὔτ᾽ἔλαιον φέρει· διόπερ τῶν Γαλατῶν οἱ τούτων τῶν καρπῶν στερισκόμενοι πόμα κατασκευάζουσιν ἐκ τῆς κριθῆς τὸ προσαγορευόμενον ζῦθος, καὶ τὰ κηρία πλύνοντες τῷ τούτων ἀποπλύματι χρῶνται. [3] Κάτοινοι δ᾽ὄντες καθ᾽ὑπερβολὴν τὸν εἰσαγόμενον ὑπὸ τῶν ἐμπόρων οἶνον ἄκρατον ἐμφοροῦνται, καὶ διὰ τὴν ἐπιθυμίαν λάβρῳ χρώμενοι τῷ ποτῷ καὶ μεθυσθέντες εἰς ὕπνον ἢ μανιώδεις διαθέσεις τρέπονται. Διὸ καὶ πολλοὶ τῶν Ἰταλικῶν ἐμπόρων διὰ τὴν συνήθη φιλαργυρίαν ἕρμαιον ἡγοῦνται τὴν τῶν Γαλατῶν φιλοινίαν. Οὗτοι γὰρ διὰ μὲν τῶν πλωτῶν ποταμῶν πλοίοις, διὰ δὲ τῆς πεδιάδος χώρας ἁμάξαις κομίζοντες τὸν οἶνον, ἀντιλαμβάνουσι τιμῆς πλῆθος ἄπιστον· διδόντες γὰρ οἴνου κεράμιον ἀντιλαμβάνουσι παῖδα, τοῦ πόματος διάκονον ἀμειβόμενοι.

Cernumno assiso in trono fra Apollo e Mercurio. Bassorilievo, calcare, I sec. d.C., da Reims.

 

26. [1] In gran parte della Galatia si verifica un fenomeno particolare e strano che non ci è sembrato opportuno trascurare. Dalla regione dove il sole tramonta e da settentrione, in estate, soffiano abitualmente dei venti di tale impetuosità e violenza da sollevare in alto da terra pietre grosse tanto da empire una mano e una fitta nube di pietrisco: insomma, questi venti, infuriando con veemenza, strappano agli uomini armi e vesti, strappano ai cavalli i cavalieri. Poiché il clima è vessato dal freddo eccessivo, la Galatia non produce né vino né olio. [2] Perciò, tra i Galati quanti sono sprovvisti di tali prodotti, ricavano dall’orzo una bevanda che si chiama zythos e fanno uso dell’acqua con cui lavano i favi di miele. [3] Ma, amando smodatamente il vino, bevono a sazietà e senza diluirlo quello importato dai mercanti; poiché ne fanno dunque un uso selvaggio, spinti dalla loro passione, si ubriacano e cedono al sonno o a stati di furore. Per questo molti mercanti italici, avidi come sempre, ritengono un dono di Ermes la passione dei Galati per il vino. Essi lo trasportano su barche, attraverso i fiumi navigabili, o su carri, attraverso la pianura, e ne ricevono in cambio un utile incredibilmente elevato: cedono un’anfora di vino e ricevono un ragazzino, scambiando, dunque, la bevanda con un servo.

27. [1] Kατὰ γοῦν τὴν Γαλατίαν ἄργυρος μὲν οὐ γίνεται τὸ σύνολον, χρυσὸς δὲ πολύς, ὃν τοῖς ἐγχωρίοις ἡ φύσις ἄνευ μεταλλείας καὶ κακοπαθείας ὑπουργεῖ. Ἡ γὰρ τῶν ποταμῶν ῥύσις σκολιοὺς τοὺς ἀγκῶνας ἔχουσα, καὶ τοῖς τῶν παρακειμένων ὀρῶν ὄχθοις προσαράττουσα καὶ μεγάλους ἀπορρηγνῦσα κολωνούς, πληροῖ χρυσοῦ ψήγματος. [2] Τοῦτο δ᾽οἱπερὶ τὰς ἐργασίας ἀσχολούμενοι συνάγοντες ἀλήθουσινἢ συγκόπτουσι τὰς ἐχούσας τὸ ψῆγμα βώλους, διὰ δὲ τῶν ὑδάτων τῆς φύσεως τὸ γεῶδες πλύναντες παραδιδόασιν ἐν ταῖς καμίνοις εἰς τὴν χωνείαν. [3] Τούτῳ δὲ τῷ τρόπῳ σωρεύοντες χρυσοῦ πλῆθος καταχρῶνται πρὸς κόσμον οὐ μόνον αἱ γυναῖκες, ἀλλὰ καὶ οἱ ἄνδρες. Περὶ μὲν γὰρ τοὺς καρποὺς καὶ τοὺς βραχίονας ψέλια φοροῦσι, περὶ δὲ τοὺς αὐχένας κρίκους παχεῖς ὁλοχρύσους καὶ δακτυλίους ἀξιολόγους, ἔτι δὲ χρυσοῦς θώρακας. [4] Ἴδιον δέ τι καὶ παράδοξον παρὰ τοῖς ἄνω Κελτοῖς ἐστι περὶ τὰ τεμένη τῶν θεῶν γινόμενον· ἐν γὰρ τοῖς ἱεροῖς καὶ τεμένεσιν ἐπὶ τῆς χώρας ἀνειμένοις ἔρριπται πολὺς χρυσὸς ἀνατεθειμένος τοῖς θεοῖς, καὶ τῶν ἐγχωρίων οὐδεὶς ἅπτεται τούτου διὰ τὴν δεισιδαιμονίαν, καίπερ ὄντων τῶν Κελτῶν φιλαργύρων καθ᾽ὑπερβολήν.

27. [1] In Galatia manca totalmente l’argento, ma c’è molto oro che la natura fornisce agli abitanti senza bisogno di miniere e patimenti. Infatti, la corrente dei fiumi, che attraversa anse tortuose e, urtando con violenza contro i fianchi dei monti adiacenti e strappando grossi massi, si riempie d’oro. [2] Gli addetti a tale attività lo raccolgono, frantumano le zolle che lo contengono, eliminano la terra con la forza dell’acqua e consegnano l’oro perché sia fuso nelle fornaci. [3] In questo modo accumulano una grande quantità d’oro e se ne servono come ornamento non solo le donne, ma anche gli uomini. Portano, infatti, intorno al collo, anelli di grande valore e persino corazze d’oro. [4] Presso i Celti del Nord accade un fenomeno particolare e strano riguardo ai recinti dedicati agli dèi: nei templi e nei santuari che si trovano sul territorio, giace abbandonato molto oro che è stato offerto agli dèi; nessuno degli abitanti lo tocca, impediti da timore religioso, per quanto i Celti siano persino troppo avidi di ricchezza.

Torque gallico. Bronzo e oro, 480 a.C. ca. da Vix (Francia). Historisches Museum Bern.

28. [1] Oἱ δὲ Γαλάται τοῖς μὲν σώμασίν εἰσιν εὐμήκεις, ταῖς δὲ σαρξὶ κάθυγροι καὶ λευκοί, ταῖς δὲ κόμαις οὐ μόνον ἐκ φύσεως ξανθοί, ἀλλὰ καὶ διὰ τῆς κατασκευῆςἐπιτηδεύουσιν αὔξειν τὴν φυσικὴν τῆς χρόας ἰδιότητα. [2] Τιτάνου γὰρ ἀποπλύματι σμῶντες τὰςτρίχας συνεχῶς καὶ ἀπὸ τῶν μετώπων ἐπὶ τὴν κορυφὴν καὶ τοὺς τένοντας ἀνασπῶσιν, ὥστε τὴν πρόσοψιν αὐτῶν φαίνεσθαι Σατύροις καὶ Πᾶσιν ἐοικυῖαν· παχύνονται γὰρ αἱ τρίχες ἀπὸ τῆς κατεργασίας, ὥστε μηδὲν τῆς τῶν ἵππων χαίτης διαφέρειν. [3] Τὰ δὲ γένεια τινὲς μὲν ξυρῶνται, τινὲς δὲ μετρίως ὑποτρέφουσιν· οἱ δ᾽εὐγενεῖς τὰς μὲν παρειὰς ἀπολειαίνουσι, τὰς δ᾽ὑπήνας ἀνειμένας ἐῶσιν, ὥστε τὰ στόματα αὐτῶν ἐπικαλύπτεσθαι. Διόπερ ἐσθιόντων μὲν αὐτῶν ἐμπλέκονται ταῖς τροφαῖς, πινόντων δὲ καθαπερεὶ διά τινος ἡθμοῦ φέρεται τὸ πόμα. [4] Δειπνοῦσι δὲ καθήμενοι πάντες οὐκ ἐπὶ θρόνων, ἀλλ᾽ἐπὶ τῆς γῆς, ὑποστρώμασι χρώμενοι λύκων ἢ κυνῶν δέρμασι. Διακονοῦνται δ᾽ὑπὸ τῶν νεωτάτων παίδων ἐχόντων ἡλικίαν, ἀρρένων τε καὶ θηλειῶν. Πλησίον δ᾽αὐτῶν ἐσχάραι κεῖνται γέμουσαι πυρὸς καὶ λέβητας ἔχουσαι καὶ ὀβελοὺς πλήρεις κρεῶν ὁλομερῶν. Τοὺς δ᾽ἀγαθοὺς ἄνδρας ταῖς καλλίσταις τῶν κρεῶν μοίραις γεραίρουσι, καθάπερ καὶ ὁ ποιητὴς τὸν Αἴαντα παρεισάγει τιμώμενον ὑπὸ τῶν ἀριστέων, ὅτε πρὸς Ἕκτορα μονομαχήσας ἐνίκησε, «Νώτοισιν δ᾽Αἴαντα διηνεκέεσσι γέραιρε». [5] Καλοῦσι δὲ καὶ τοὺς ξένους ἐπὶ τὰς εὐωχίας, καὶ μετὰ τὸ δεῖπνον ἐπερωτῶσι, τίνες εἰσὶ καὶ τίνων χρείαν ἔχουσιν. Εἰώθασι δὲ καὶ παρὰ τὸ δεῖπνον ἐκ τῶν τυχόντων πρὸς τὴν διὰ τῶν λόγων ἅμιλλαν καταστάντες, ἐκ προκλήσεως μονομαχεῖν πρὸς ἀλλήλους, παρ᾽οὐδὲν τιθέμενοι τὴν τοῦ βίου τελευτήν· ἐνισχύει γὰρ παρ᾽ αὐτοῖς ὁ Πυθαγόρου λόγος, [6] ὅτιτὰς ψυχὰς τῶν ἀνθρώπων ἀθανάτους εἶναι συμβέβηκε καὶ δι᾽ἐτῶν ὡρισμένων πάλιν βιοῦν, εἰς ἕτερον σῶμα τῆς ψυχῆς εἰσδυομένης. Διὸ καὶ κατὰ τὰς ταφὰς τῶν τετελευτηκότων ἐνίους ἐπιστολὰς γεγραμμένας τοῖς οἰκείοις τετελευτηκόσιν ἐμβάλλειν εἰς τὴν πυράν, ὡς τῶν τετελευτηκότων ἀναγνωσομένων ταύτας.

28. [1] I Galati sono alti di statura, muscoli flaccidi, pelle bianca, capelli naturalmente biondi ed essi, anche con artifici, sogliono accentuare la particolarità naturale del colore. [2] Lavano, infatti, frequentemente le chiome con acqua di calce e li tirano indietro dalla fronte alla sommità della testa e già fino alla nuca, così da sembrare simili nell’aspetto ai Satiri o a Pan: a seguito di questo trattamento, i capelli diventano tanto pesanti da non differire in nulla dalla criniera dei cavalli. [3] Alcuni radono la barba, altri la fanno un po’ crescere; i nobili radono le guance, lasciando crescere i baffi in modo tale da nascondere la bocca. Perciò quando mangiano, i baffi si riempiono di cibo, quando bevono, la bevanda passa come attraverso un filtro. [4] Tutti mangiano seduti non su sedili, ma per terra, adoperando come tappeti pelli di lupo o di cane. Sono serviti dai più giovani, maschi e femmine, che abbiano l’età adatta. Vicino a loro vi sono camini traboccanti di fuoco, con calderoni e spiedi pieni di pezzi di carne. Ricompensano gli uomini valorosi, donando loro i pezzi di carne migliori: e così il Poeta presenta Aiace, onorato dai capi quando riuscì vincitore nel duello con Ettore: «il filetto allungato lo donò in premio ad Aiace»[2]. [5] Invitano anche gli stranieri ai banchetti e dopo il pranzo chiedono loro chi siano e di che cosa abbiano bisogno. Anche durante il convito, venuti a diverbio per motivi occasionali, sono soliti sfidarsi e affrontarsi in duello, senza dare alcuna importanza alla morte. Presso di loro, infatti, si è imposta la dottrina pitagorica, [6] secondo la quale, le anime degli uomini sono immortali e, dopo un certo numero di anni, l’anima penetra in un altro corpo e torna a vivere. Perciò alcuni, in occasione di esequie funebri, gettano sul rogo le lettere che hanno scritto ai loro parenti morti, convinti che i defunti un giorno potranno leggerle.

Gaesate gallico. Illustrazione di Miłek Jakubiec.

 

29. [1] Ἐν δὲ ταῖς ὁδοιπορίαις καὶ ταῖς μάχαις χρῶνται συνωρίσιν, ἔχοντος τοῦ ἅρματος ἡνίοχον καὶ παραβάτην. Ἀπαντῶντες δὲ τοῖς ἐφιππεύουσιν ἐν τοῖς πολέμοις σαυνιάζουσι τοὺς ἐναντίους, καὶ καταβάντες τὴν ἀπὸ τοῦ ξίφους συνίστανται μάχην. [2] Ἔνιοι δ᾽αὐτῶν ἐπὶ τοσοῦτο τοῦ θανάτου καταφρονοῦσιν, ὥστε γυμνοὺς καὶ περιεζωσμένους καταβαίνειν εἰς τὸν κίνδυνον. Ἐπάγονται δὲ καὶ θεράποντας ἐλευθέρους ἐκ τῶν πενήτων καταλέγοντες, οἷς ἡνιόχοις καὶ παρασπισταῖς χρῶνται κατὰ τὰς μάχας. Κατὰ δὲ τὰς παρατάξεις εἰώθασι προάγειν τῆς παρατάξεως καὶ προκαλεῖσθαι τῶν ἀντιτεταγμένων τοὺς ἀρίστους εἰς μονομαχίαν, προανασείοντες τὰ ὅπλα καὶ καταπληττόμενοι τοὺς ἐναντίους. [3] Ὅταν δέ τις ὑπακούσῃ πρὸςτὴν μάχην, τάς τε τῶν προγόνων ἀνδραγαθίας ἐξυμνοῦσι καὶ τὰς ἑαυτῶν ἀρετὰς προφέρονται, καὶτὸν ἀντιταττόμενον ἐξονειδίζουσι καὶ ταπεινοῦσι καὶ τὸ σύνολον τὸ θάρσος τῆς ψυχῆς τοῖς λόγοις προαφαιροῦνται. [4] Τῶν δὲ πεσόντων πολεμίων τὰς κεφαλὰς ἀφαιροῦντες περιάπτουσι τοῖς αὐχέσι τῶν ἵππων· τὰ δὲ σκῦλα τοῖς θεράπουσι παραδόντες ᾑ μαγμένα λαφυραγωγοῦσιν, ἐπιπαιανίζοντες καὶ ᾄδοντες ὕμνον ἐπινίκιον, καὶ τὰ ἀκροθίνια ταῦτα ταῖς οἰκίαις προσηλοῦσιν ὥσπερ οἱ ἐν κυνηγίοις τισὶ κεχειρωμένοι τὰ θηρία. [5] Τῶν δ᾽ἐπιφανεστάτων πολεμίων κεδρώσαντες τὰς κεφαλὰς ἐπιμελῶς τηροῦσιν ἐν λάρνακι, καὶ τοῖς ξένοις ἐπιδεικνύουσι σεμνυνόμενοι διότι τῆσδε τῆς κεφαλῆς τῶν προγόνων τις ἢ πατὴρ ἢ καὶ αὐτὸς πολλὰ χρήματα διδόμενα οὐκ ἔλαβε. Φασὶ δέ τινας αὐτῶν καυχᾶσθαι διότι χρυσὸν ἀντίσταθμον τῆς κεφαλῆς οὐκ ἐδέξαντο, βάρβαρόν τινα μεγαλοψυχίαν ἐπιδεικνύμενοι· οὐ γὰρ τὸ μὴ πωλεῖν τὰ σύσσημα τῆς ἀρετῆς εὐγενές, ἀλλὰ τὸ πολεμεῖν τὸ ὁμόφυλον τετελευτηκὸς θηριῶδες.

29. [1] Nei viaggi e in battaglia essi si servono di cocchi a due cavalli, sui quali viaggiano un auriga e un guerriero. Quando in guerra s’imbattono in cavalieri nemici, lanciano contro di loro il giavellotto e, poi, scesi dal carro, li affrontano con la spada. [2] Alcuni di loro disprezzano a tal punto la morte da farsi incontro al pericolo nudi con addosso soltanto una fascia. Si fanno accompagnare anche da assistenti di nascita libera, scelti fra i poveri, dei quali si servono in combattimento come aurighi e scudieri. In occasione delle battaglie campali, sono soliti spingersi oltre la prima linea dello schieramento e sfidare a duello i più valorosi fra i nemici, scuotendo le armi per spaventare gli avversari. [3] Quando qualcuno accetta di combattere, celebrano con canti il coraggio degli avi e vantano il proprio valore; ingiuriano e umiliano l’avversario e, in generale, cercano di fargli perdere le staffe con insulti prima del combattimento. [4] Tagliano le teste dei nemici caduti in battaglia e le appendono ai finimenti del cavallo; consegnano ai servi le armi insanguinate e le portano via come bottino, innalzando un peana e un canto di vittoria; appendono con chiodi in casa queste prede di guerra, come quelli che hanno ucciso delle belve feroci a caccia. [5] Imbalsamano con olio di cedro le teste dei nemici più illustri e le custodiscono con cura in casse, mostrandole agli ospiti e vantandosi se qualcuno degli avi o i padri o loro stessi non vollero accettare il lauto riscatto offerto per la testa: dicono che alcuni di loro vadano orgogliosi per non aver accettato una quantità d’oro pari al peso della testa, mostrando così una certa barbarica magnitudo animi. Eppure, se è atto nobile non vendere la prova tangibile del proprio valore guerriero, è parimenti da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla propria stirpe.

Illustrazione ricostruttiva di un tipico carro da guerra celta. A. McBride.

30. [1] Ἐσθῆσι δὲ χρῶνται καταπληκτικαῖς, χιτῶσι μὲν βαπτοῖς χρώμασι παντοδαποῖς διηνθισμένοις καὶ ἀναξυρίσιν, ἃς ἐκεῖνοι βράκας προσαγορεύουσιν· ἐπιπορποῦνται δὲ σάγους ῥαβδωτοὺς ἐν μὲν τοῖς χειμῶσι δασεῖς, κατὰ δὲ τὸ θέρος ψιλούς, πλινθίοις πυκνοῖς καὶ πολυανθέσι διειλημμένους. [2] Ὅπλοις δὲ χρῶνται θυρεοῖς μὲν ἀνδρομήκεσι, πεποικιλμένοις ἰδιοτρόπως· τινὲς δὲ καὶ ζῴων χαλκῶν ἐξοχὰς ἔχουσιν, οὐ μόνον πρὸς κόσμον, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀσφάλειαν εὖ δεδημιουργημένας. Κράνη δὲ χαλκᾶ περιτίθενται μεγάλας ἐξοχὰς ἐξ ἑαυτῶν ἔχοντα καὶ παμμεγέθη φαντασίαν ἐπιφέροντα τοῖς χρωμένοις, ὧν τοῖς μὲν πρόσκειται συμφυῆ κέρατα, τοῖς δὲ ὀρνέων ἢ τετραπόδων ζῴων ἐκτετυπωμέναι προτομαί. [3] Σάλπιγγας δ᾽ἔχουσιν ἰδιοφυεῖς καὶ βαρβαρικάς· ἐμφυσῶσι γὰρ ταύταις καὶ προβάλλουσιν ἦχον τραχὺν καὶ πολεμικῆς ταραχῆς οἰκεῖον. Θώρακας δ᾽ἔχουσιν οἱ μὲν σιδηροῦς ἁλυσιδωτούς, οἱ δὲ τοῖς ὑπὸ τῆς φύσεως δεδομένοις ἀρκοῦνται, γυμνοὶ μαχόμενοι. Ἀντὶ δὲ τοῦ ξίφους σπάθας ἔχουσι μακρὰς σιδηραῖς ἢ χαλκαῖς ἁλύσεσιν ἐξηρτημένας, παρὰ τὴνδεξιὰν λαγόνα παρατεταμένας. Τινὲς δὲ τοὺς χιτῶνας ἐπιχρύσοις ἢ καταργύροις ζωστῆρσι συνέζωνται. [4] Προβάλλονται δὲ λόγχας, ἃς ἐκεῖνοι λαγκίας καλοῦσι, πηχυαῖα τῷ μήκει τοῦ σιδήρου καὶ ἔτι μείζω τὰ ἐπιθήματα ἐχούσας, πλάτει δὲ βραχὺ λείποντα διπαλαίστων· τὰ μὲν γὰρ ξίφη τῶν παρ᾽ἑτέροις σαυνίων εἰσὶν οὐκ ἐλάττω, τὰ δὲ σαυνία τὰς ἀκμὰς ἔχει τῶν ξιφῶν μείζους. Τούτων δὲ τὰ μὲν ἐπ᾽εὐθείας κεχάλκευται, τὰ δ᾽ἑλικοειδῆ δι᾽ὅλων ἀνάκλασιν ἔχει πρὸς τὸ καὶ κατὰ τὴν πληγὴν μὴ μόνον τέμνειν, ἀλλὰ καὶ θραύειν τὰς σάρκας καὶ κατὰ τὴν ἀνακομιδὴν τοῦ δόρατος σπαράττειν τὸ τραῦμα.

30. [1] Fanno uso di vestiti terrificanti: tuniche tinte e ricamate con vari colori, pantaloni che essi chiamano brachæ; sulle spalle assicurano con fibbie dei mantelli a righe, pesanti d’inverno e leggeri d’estate, sui quali alternano fittamente quadrati di diversi colori. [2] Usano come armi scudi alti quanto un uomo, ornati in modo vario e particolare; alcuni di essi presentano figure bronzee di animali ben lavorate a sbalzo, non a scopo ornamentale, ma al fine di proteggere. Indossano sul capo elmi di bronzo, ornati con grandi figure a sbalzo, che danno un aspetto di grande imponenza a chi li usi: ad alcuni elmi sono applicate, in modo da formare un tutt’uno, delle corna, mentre su altri sono rappresentate teste d’uccello o di quadrupede. [3] Hanno trombe di tipo particolare e barbarico: soffiandovi dentro, emettono un suono aspro, adatto alla mischia di guerra. Gli uni portano corazze lavorate a maglia di ferro, altri ritengono sufficiente quanto hanno ricevuto dalla natura e vanno nudi in battaglia. Hanno spade non corte, ma lunghe, legate con catene di ferro o di bronzo e portate a destra. Alcuni hanno sulle tuniche cinture dorate o argentate. [4] Impugnano delle aste (loro le chiamano lanciæ), che hanno punte di ferro lunghe anche più di un cubito e larghe poco meno di due palmi. Le loro spade non sono più piccole dei giavellotti usati da altri popoli, i loro hanno la punta più larga di quella delle spade; alcuni giavellotti sono stati fabbricati con la punta dritta, altri presentano una ripiegatura tortuosa su tutta la punta, affinché non solo taglino per effetto del colpo, ma persino lacerino le carni e, tirando indietro l’asta, squarcino la ferita.

Spade hallstattiane. Disegno ricostruttivo di J.G. Ramsauer.

 

31. [1] Aὐτοὶ δ᾽εἰσὶ τὴν πρόσοψιν καταπληκτικοὶ καὶ ταῖς φωναῖς βαρυηχεῖς καὶ παντελῶς τραχύφωνοι, κατὰ δὲ τὰς ὁμιλίας βραχυλόγοι καὶ αἰνιγματίαικαὶ τὰ πολλὰ αἰνιττόμενοι συνεκδοχικῶς· πολλὰ δὲ λέγοντες ἐν ὑπερβολαῖς ἐπ᾽αὐξήσει μὲν ἑαυτῶν, μειώσει δὲ τῶν ἄλλων, ἀπειληταί τε καὶ ἀνατατικοὶ καὶ τετραγῳδημένοι ὑπάρχουσι, ταῖς δὲ διανοίαις ὀξεῖς καὶ πρὸς μάθησιν οὐκ ἀφυεῖς. [2] Εἰσὶ δὲ παρ᾽αὐτοῖς καὶ ποιηταὶ μελῶν, οὓς βάρδους ὀνομάζουσιν. Οὗτοι δὲ μετ᾽ὀργάνων ταῖς λύραις ὁμοίων ᾄδοντες οὓς μὲν ὑμνοῦσιν, οὓς δὲ βλασφημοῦσι. Φιλόσοφοί τέ τινές εἰσι καὶ θεολόγοι περιττῶς τιμώμενοι, οὓς δρουίδας ὀνομάζουσι. [3] Χρῶνται δὲ καὶ μάντεσιν, ἀποδοχῆς μεγάλης ἀξιοῦντες αὐτούς· οὗτοι δὲ διά τε τῆς οἰωνοσκοπίας καὶ διὰ τῆς τῶν ἱερείων θυσίας τὰ μέλλοντα προλέγουσι, καὶ πᾶν τὸ πλῆθος ἔχουσιν ὑπήκοον. Μάλιστα δ᾽ὅταν περί τινων μεγάλων ἐπισκέπτωνται, παράδοξον καὶ ἄπιστον ἔχουσι νόμιμον· ἄνθρωπον γὰρ κατασπείσαντες τύπτουσι μαχαίρᾳ κατὰ τὸν ὑπὲρ τὸ διάφραγμα τόπον, καὶ πεσόντος τοῦ πληγέντος ἐκ τῆς πτώσεως καὶ τοῦ σπαραγμοῦ τῶν μελῶν, ἔτι δὲ τῆς τοῦ αἵματος ῥύσεως τὸ μέλλον νοοῦσι, παλαιᾷ τινι καὶ πολυχρονίῳ παρατηρήσει περὶ τούτων πεπιστευκότες. [4] Ἔθος δ᾽αὐτοῖς ἐστι μηδένα θυσίαν ποιεῖν ἄνευ φιλοσόφου· διὰ γὰρ τῶν ἐμπείρων τῆς θείας φύσεως ὡσπερεί τινων ὁμοφώνων τὰ χαριστήρια τοῖς θεοῖς φασι δεῖν προσφέρειν, καὶ διὰ τούτων οἴονται δεῖν τἀγαθὰ αἰτεῖσθαι. [5] Οὐ μόνον δ᾽ἐν ταῖς εἰρηνικαῖς χρείαις, ἀλλὰ καὶ κατὰ τοὺς πολέμους τούτοις μάλιστα πείθονται καὶ τοῖς μελῳδοῦσι ποιηταῖς, οὐ μόνον οἱ φίλοι, ἀλλὰ καὶ οἱ πολέμιοι· πολλάκις δ᾽ἐν ταῖς παρατάξεσι πλησιαζόντων ἀλλήλοις τῶν στρατοπέδων καὶ τοῖς ξίφεσιν ἀνατεταμένοις καὶ ταῖς λόγχαις προβεβλημέναις, εἰς τὸ μέσον οὗτοι προελθόντες παύουσιν αὐτούς, ὥσπερ τινὰ θηρία κατεπᾴσαντες. Οὕτω καὶπαρὰ τοῖς ἀγριωτάτοις βαρβάροις ὁ θυμὸς εἴκει τῇσοφίᾳ καὶ ὁ Ἄρης αἰδεῖται τὰς Μούσας.

31. [1] Essi sono terrificanti nell’aspetto e hanno una voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni [e alludono prevalentemente per sineddoche], chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di sminuire quelli degli altri; sono spavaldi, minacciosi e teatrali, acuti nel pensare, disposti naturalmente ad apprendere. [2] Presso di loro vi sono anche poeti lirici, che chiamano “bardi”. Costoro, cantando con strumenti simili alle lire, celebrano alcuni personaggi e vituperano altri. Vi sono poi filosofi e teologi che godono di straordinario onore e si chiamano “druidi”. [3] Si servono anche d’indovini che ritengono degni di grande rispetto: questi predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime; tutto il popolo è loro soggetto. Osservano un’usanza strana e terrificante, soprattutto quando devono indagare su qualche importante decisione: offrono in sacrificio un uomo e lo colpiscono con un coltello poco sopra il diaframma; l’uomo, colpito, cade a terra: osservando come cade, come le membra si contraggono, come scorra il sangue, gli indovini comprendono il futuro, mantenendosi fedeli in ciò a un modo di indagare antico e da molto tempo praticato. [4] È invalso l’uso presso di loro di non offrire sacrifici in assenza di un filosofo: a loro avviso, infatti, bisogna offrire primizie in ringraziamento agli dèi per mezzo di persone esperte della natura divina e che parlano – per così dire – la stessa lingua degli dèi; ritengono pure che occorra chiedere i favori con l’aiuto di tali esperti. [5] Non solo in pace, ma anche in tempo di guerra obbediscono ciecamente ai filosofi e ai poeti lirici, e obbediscono non solo agli amici ma anche ai nemici. Spesso, in occasione di battaglie campali, quando le armate si stanno avvicinando con le spade sguainate e le lance protese, essi avanzano nel mezzo e li fermano, come se stessero incantando delle belve. Così, anche fra i barbari più selvaggi, il furore cede alla sapienza e Ares ha rispetto delle Muse.

Carnyx. Bronzo, II-I sec. a.C. dal santuario di Tintignac (Francia).

32. [1] Χρήσιμον δ᾽ἐστὶ διορίσαι τὸ παρὰ πολλοῖς ἀγνοούμενον. Τοὺς γὰρ ὑπὲρ Μασσαλίας κατοικοῦντας ἐν τῷ μεσογείῳ καὶ τοὺς παρὰ τὰς Ἄλπεις, ἔτι δὲ τοὺς ἐπὶ τάδε τῶν Πυρηναίων ὀρῶν Κελτοὺς ὀνομάζουσι, τοὺς δ᾽ὑπὲρ ταύτης τῆς Κελτικῆς εἰς τὰ πρὸς ἄρκτον νεύοντα μέρη παρά τε τὸν ὠκεανὸν καὶ τὸ Ἑρκύνιον ὄρος καθιδρυμένους καὶ πάντας τοὺς ἑξῆς μέχρι τῆς Σκυθίας Γαλάτας προσαγορεύουσιν· οἱ δὲ Ῥωμαῖοι πάλιν πάντα ταῦτα τὰἔθνη συλλήβδην μιᾷ προσηγορίᾳ περιλαμβάνουσιν, ὀνομάζοντες Γαλάτας ἅπαντας. [2] Αἱ δὲ γυναῖκες τῶνΓαλατῶν οὐ μόνον τοῖς μεγέθεσι παραπλήσιοι τοῖς ἀνδράσιν εἰσίν, ἀλλὰ καὶ ταῖς ἀλκαῖς ἐνάμιλλοι. Τὰ δὲ παιδία παρ᾽αὐτοῖς ἐκ γενετῆς ὑπάρχει πολιὰκατὰ τὸ πλεῖστον· προβαίνοντα δὲ ταῖς ἡλικίαις εἰς τὸ τῶν πατέρων χρῶμα ταῖς χρόαις μετασχηματίζεται. [3] Ἀγριωτάτων δ᾽ὄντων τῶν ὑπὸ τὰς ἄρκτους κατοικούντων καὶ τῶν τῇ Σκυθίᾳ πλησιοχώρων, φασί τινας ἀνθρώπους ἐσθίειν, ὥσπερ καὶ τῶν Πρεττανῶν τοὺς κατοικοῦντας τὴν ὀνομαζομένην Ἴριν. [4] Διαβεβοημένης δὲ τῆς τούτων ἀλκῆς καὶ ἀγριότητος, φασί τινες ἐν τοῖς παλαιοῖς χρόνοις τοὺς τὴν Ἀσίαν ἅπασαν καταδραμόντας, ὀνομαζομένους δὲ Κιμμερίους, τούτους εἶναι, βραχὺ τοῦ χρόνου τὴν λέξιν φθείραντος ἐν τῇ τῶν καλουμένων Κίμβρων προσηγορίᾳ. Ζηλοῦσι γὰρ ἐκ παλαιοῦ λῃστεύειν ἐπὶ τὰς ἀλλοτρίας χώρας ἐπερχόμενοι καὶ καταφρονεῖν ἁπάντων. [5] Οὗτοι γάρ εἰσιν οἱ τὴν μὲν Ῥώμην ἑλόντες, τὸ δὲ ἱερὸν τὸ ἐν Δελφοῖς συλήσαντες, καὶ πολλὴν μὲν τῆς Εὐρώπης, οὐκ ὀλίγην δὲ καὶ τῆς Ἀσίας φορολογήσαντες, καὶ τῶν καταπολεμηθέντων τὴν χώραν κατοικήσαντες, οἱ διὰ τὴν πρὸς τοὺς Ἕλληνας ἐπιπλοκὴν Ἑλληνογαλάται κληθέντες, τὸ δὲ τελευταῖον πολλὰ καὶ μεγάλα στρατόπεδα Ῥωμαίων συντρίψαντες. [6] Ἀκολούθως δὲ τῇ κατ᾽αὐτοὺς ἀγριότητι καὶ περὶ τὰς θυσίας ἐκτόπως ἀσεβοῦσι· τοὺς γὰρ κακούργους κατὰ πενταετηρίδα φυλάξαντες ἀνασκολοπίζουσι τοῖς θεοῖς καὶ μετ᾽ἄλλων πολλῶν ἀπαρχῶν καθαγίζουσι, πυρὰς παμμεγέθεις κατασκευάζοντες. Χρῶνται δὲ καὶ τοῖς αἰχμαλώτοις ὡς ἱερείοις πρὸς τὰς τῶν θεῶν τιμάς. Τινὲς δ᾽αὐτῶν καὶ τὰ κατὰ πόλεμον ληφθέντα ζῷα μετὰ τῶν ἀνθρώπων ἀποκτείνουσιν ἢ κατακάουσιν ἤ τισιν ἄλλαις τιμωρίαις ἀφανίζουσι. [7] Γυναῖκας δ᾽ἔχοντες εὐειδεῖς ἥκιστα ταύταις προσέχουσιν, ἀλλὰ πρὸς τὰς τῶν ἀρρένων ἐπιπλοκὰς ἐκτόπως λυττῶσιν. Εἰώθασι δ᾽ἐπὶ δοραῖς θηρίων χαμαὶ καθεύδοντες ἐξ ἀμφοτέρων τῶν μερῶν παρακοίτοις συγκυλίεσθαι. Τὸ δὲ πάντων παραδοξότατον, τῆς ἰδίας εὐσχημοσύνης ἀφροντιστοῦντες τὴν τοῦ σώματος ὥραν ἑτέροις εὐκόλως προΐενται, καὶ τοῦτο αἰσχρὸν οὐχ ἡγοῦνται, ἀλλὰ μᾶλλον ὅταν τις αὐτῶν χαριζομένων μὴ προσδέξηται τὴν διδομένην χάριν, ἄτιμον ἡγοῦνται.

32. [1] È utile fare una distinzione ignorata da molti. Si chiamano Celti quelli che abitano nella regione interna a nord di Marsiglia, lungo le Alpi e sopra i Pirenei; si chiamano invece Galatai, quelli che sono stanziati al di sopra della «zona celtica», verso le terre settentrionali, sia lungo l’Oceano, sia lungo il monte Ercinio, e tutti gli altri di seguito fino alla Scizia. I Romani, invece, comprendono insieme sotto un’unica denominazione tutti questi gruppi etnici e li chiamano complessivamente Galli. [2] Le donne dei Galati non solo sono simili agli uomini nell’imponenza fisica ma possono competere con loro anche in coraggio. I loro bambini, quando nascono, sono per lo più di carnagione chiara; con il passare degli anni mutano colore fino ad assumere quello dei padri. [3] Essendo particolarmente selvaggi quelli di loro che abitano nel Nord e quelli che confinano con la Scizia, che alcuni di loro – si dice – mangino uomini, come i Britanni che popolano l’isola chiamata Iris[3]. [4] Ovunque sono rinomati il loro coraggio e la loro ferocia e, infatti, secondo alcuni, i popoli chiamati «Cimmeri», che in tempi antichi scorrazzarono per l’Asia intera, erano proprio i Galati, poiché la denominazione «Cimmeri» si corruppe presto in quella di «Cimbri», nome con il quale sono chiamati ancor oggi. Fin da tempi remoti essi amano assalire, depredare i territori altrui e disprezzare tutti. [5] Sono proprio loro, infatti, che presero Roma, saccheggiarono il santuario di Delfi, imposero tributi a gran parte dell’Europa e, persino, a non piccola parte dell’Asia, che si stanziarono sul territorio degli sconfitti e furono chiamati «Ellenogalli», per i loro stretti rapporti con i Greci, che infine distrussero molti e grandi eserciti dei Romani. [6] Proprio perché così selvaggi, essi si macchiano di rara empietà anche quando compiono sacrifici: dopo aver tenuto in prigionia i delinquenti per cinque anni, infatti, li impalano in onore degli dèi; alcuni di costoro vengono uccisi insieme con gli animali catturati in guerra, oppure li bruciano, o li sopprimono con qualche altro supplizio. [7] Pur avendo donne di gradevole aspetto, non se ne curano per niente ma vanno pazzi – oltre ogni dire – per le relazioni omosessuali. Hanno l’abitudine di dormire per terra o su pelli di animali e di voltolarsi con due compagni, uno per parte. La cosa più strana di tutte è la seguente: incuranti del decoro, concedono facilmente ad altri il proprio corpo nel fiore dell’età né ritengono turpe un simile atto, considerando piuttosto disonorevole che qualcuno non accetti il favore concesso quando essi siano disposti a compiacerlo.

*****

Note:

[1] Κελτική sta per Γαλατία; con questo termine l’autore si riferisce alla regione chiamata Gallia dai Romani. I Γαλάται sono dunque i Galli.

[2] (Il., VII 321).

[3] Ἶρις, cioè l’Irlanda (lat. Hibernia).

Diodoro e gli Etruschi

I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it. D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 271 s.).

Coppia di danzatori (dettaglio di un affresco murale), dalla Tomba del Triclinium, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia). 470 a.C. ca. Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia.

Λείπεται δ᾽ ἡμῖν εἰπεῖν περὶ τῶν Τυρρηνῶν. οὗτοι γὰρ τὸ μὲν παλαιὸν ἀνδρείᾳ διενεγκόντες χώραν πολλὴν κατεκτήσαντο καὶ πόλεις ἀξιολόγους καὶ πολλὰς ἔκτισαν. ὁμοίως δὲ καὶ ναυτικαῖς δυνάμεσιν ἰσχύσαντες καὶ πολλοὺς χρόνους θαλαττοκρατήσαντες τὸ μὲν παρὰ τὴν Ἰταλίαν πέλαγος ἀφ᾽ ἑαυτῶν ἐποίησαν Τυρρηνικὸν προσαγορευθῆναι, τὰ δὲ κατὰ τὰς πεζὰς δυνάμεις ἐκπονήσαντες τήν τε σάλπιγγα λεγομένην ἐξεῦρον, εὐχρηστοτάτην μὲν εἰς τοὺς πολέμους, ἀπ᾽ ἐκείνων δ᾽ ὀνομασθεῖσαν Τυρρηνήν, τό τε περὶ τοὺς ἡγουμένους στρατηγοὺς ἀξίωμα κατεσκεύασαν, περιθέντες τοῖς ἡγουμένοις ῥαβδούχους καὶ δίφρον ἐλεφάντινον καὶ περιπόρφυρον τήβενναν, ἔν τε ταῖς οἰκίαις τὰ περίστῳα πρὸς τὰς τῶν θεραπευόντων ὄχλων ταραχὰς ἐξεῦρον εὐχρηστίαν· ὧν τὰ πλεῖστα Ῥωμαῖοι μιμησάμενοι καὶ πρὸς τὸ κάλλιον αὐξήσαντες μετήνεγκαν ἐπὶ τὴν ἰδίαν πολιτείαν. [2] γράμματα δὲ καὶ φυσιολογίαν καὶ θεολογίαν ἐξεπόνησαν ἐπὶ πλέον, καὶ τὰ περὶ τὴν κεραυνοσκοπίαν μάλιστα πάντων ἀνθρώπων ἐξειργάσαντο· διὸ καὶ μέχρι τῶν νῦν χρόνων οἱ τῆς οἰκουμένης σχεδὸν ὅλης ἡγούμενοι θαυμάζουσί τε τοὺς ἄνδρας καὶ κατὰ τὰς ἐν τοῖς κεραυνοῖς διοσημείας τούτοις ἐξηγηταῖς χρῶνται. [3] χώραν δὲ νεμόμενοι πάμφορον, καὶ ταύτην ἐξεργαζόμενοι, καρπῶν ἀφθονίαν ἔχουσιν οὐ μόνον πρὸς τὴν ἀρκοῦσαν διατροφήν, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀπόλαυσιν δαψιλῆ καὶ τρυφὴν ἀνήκουσαν. παρατίθενται γὰρ δὶς τῆς ἡμέρας τραπέζας πολυτελεῖς καὶ τἄλλα τὰ πρὸς τὴν ὑπερβάλλουσαν τρυφὴν οἰκεῖα, στρωμνὰς μὲν ἀνθεινὰς κατασκευάζοντες, ἐκπωμάτων δ᾽ ἀργυρῶν παντοδαπῶν πλῆθος καὶ τῶν διακονούντων οἰκετῶν οὐκ ὀλίγον ἀριθμὸν ἡτοιμακότες· καὶ τούτων οἱ μὲν εὐπρεπείᾳ διαφέροντές εἰσιν, οἱ δ᾽ ἐσθῆσι πολυτελεστέραις ἢ κατὰ δουλικὴν ἀξίαν κεκόσμηνται. [4] οἰκήσεις τε παντοδαπὰς ἰδιαζούσας ἔχουσι παρ᾽ αὐτοῖς οὐ μόνον οἱ θεράποντες, ἀλλὰ καὶ τῶν ἐλευθέρων οἱ πλείους. καθόλου δὲ τὴν μὲν ἐκ παλαιῶν χρόνων παρ᾽ αὐτοῖς ζηλουμένην ἀλκὴν ἀποβεβλήκασιν, ἐν πότοις δὲ καὶ ῥᾳθυμίαις ἀνάνδροις βιοῦντες οὐκ ἀλόγως τὴν τῶν πατέρων δόξαν ἐν τοῖς πολέμοις ἀποβεβλήκασι. [5] συνεβάλετο δ᾽ αὐτοῖς πρὸς τὴν τρυφὴν οὐκ ἐλάχιστον καὶ ἡ τῆς χώρας ἀρετή· πάμφορον γὰρ καὶ παντελῶς εὔγειον νεμόμενοι παντὸς καρποῦ πλῆθος ἀποθησαυρίζουσιν. καθόλου γὰρ ἡ Τυρρηνία παντελῶς εὔγειος οὖσα πεδίοις ἀναπεπταμένοις ἐγκάθηται καὶ βουνοειδέσιν ἀναστήμασι τόπων διείληπται γεωργησίμοις· ὑγρὰ δὲ μετρίως ἐστὶν οὐ μόνον κατὰ τὴν χειμερινὴν ὥραν, ἀλλὰ καὶ κατὰ τὸν τοῦ θέρους καιρόν.

Giudice e indovino (dettaglio sulla parete destra), dalla Tomba degli Auguri, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia).

Ci rimane da parlare degli Etruschi. Costoro anticamente, distinguendosi per coraggio, conquistarono molte terre e fondarono molte e importanti città. Parimenti, possedendo una potente flotta ed esercitando il dominio sul mare per lungo tempo, ottennero che il mare che bagna l’Italia prendesse da loro il nome di Tirreno; perfezionarono l’armamento delle forze di terra e inventarono lo strumento che si chiama salpinx, utilissimo in guerra, che da loro prese il nome di “tromba tirrena”; crearono i simboli del potere per i condottieri insigniti del comando, assegnando loro littori, il seggio d’avorio e la toga orlata di porpora; nelle abitazioni inventarono il peristilio, una comodità contro gli schiamazzi delle turbe dei servi. I Romani adottarono la maggior parte di questi ritrovati e, dopo averli perfezionati, li introdussero nella loro società civile. [2] Gli Etruschi elaborarono ulteriormente le lettere, la scienza della natura e quella divina e, più di tutti gli altri uomini, praticarono l’osservazione del fulmine; perciò, anche ai nostri giorni, coloro che comando su quasi tutta la terra (= i Romani) ammirano questi uomini e se ne servono come interpreti dei segni forniti dai fulmini. [3] Gli Etruschi abitano una terra che produce tutto e la coltivano con cura: hanno, perciò, prodotti agricoli in abbondanza, non solo sufficienti per il sostentamento ma tanti da permettere un ricco godimento e una vita lussuosa. Imbandiscono infatti due volte al giorno mense sontuose e fornite di tutto quanto ben s’addica ad un lusso smodato; preparano letti ornati con coperte ricamate, tengono a loro disposizione coppe d’argento in grande quantità e di ogni tipo, nonché un numero non piccolo di schiavi addetti al servizio, dei quali gli uni spiccano per bellezza, gli altri sono adorni di vesti troppo preziose per essere adatte a chi sia di condizione servile. [4] Presso gli Etruschi non solo gli therapontes ma anche la maggior parte dei liberi possiede abitazioni private di ogni tipo. Per dirla in breve: gli Etruschi hanno rinunciato all’ardimento che era oggetto di emulazione presso di loro sin dai tempi antichi e, vivendo dediti al bere e ad un’oziosità indegna di uomini, hanno con giusta ragione perduto la fama che gli avi si erano acquistati in guerra. Soprattutto la fertilità della terra è responsabile della loro vita lussuosa: abitando una regione che produce tutto ed è fertilissima, essi accumulano grandi quantità di ciascun prodotto. In conclusione, l’Etruria, che è fertilissima, si estende su aperte pianure ed è disseminata di alture collinari coltivabili; è poi moderatamente umida non solo nella stagione invernale ma anche nel periodo estivo.

Antefissa in terracotta policroma raffigurante un sileno e una menade danzanti. Antefissa etrusca. Inizi del V secolo a.C. Jean Paul Getty Museum.