Frine, la bellezza sotto accusa

Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.

Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).

William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.

Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.

Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?

All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).

Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.

Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).

Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).

Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.

Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).

A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.

L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).

Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).

La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).

All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).

Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.

L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).

Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.

Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).

Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).

Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.

Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).

I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.

Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.

Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).

In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).

Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.

In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).

Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.

Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).

A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).

Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).

Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).

Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).

Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).

Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.

Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.

Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.

Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).

Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).

Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).

Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).

Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.

Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.  

Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):

Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre

di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,

avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.

Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,

ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]

e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,

a stento salvò la pelle con le lacrime.

Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).

Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.

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Ospitalità e rispetto (D. Chr. Eub. 1-9; 65-71)

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Caccia al cervo. Mosaico, III-IV sec. da Conimbriga.

 

L’incontro con il cacciatore

I passi presi in esame sono tratti dall’opera più originale di Dione, una lunga orazione intitolata Euboico o il cacciatore. Essa ha tutte le caratteristiche di un ampio racconto autobiografico, in cui, peraltro, è difficile distinguere la realtà oggettiva dal processo di idealizzazione al quale sono stati sottoposti molti particolari. L’autore, vittima di un naufragio, fu costretto ad approdare in una zona della costa meridionale dell’isola Eubea, particolarmente solitaria e impervia, nei pressi del promontorio Cafareo. Qui egli fu accolto cortesemente da un cacciatore incontrato per caso. La semplice e cordiale ospitalità dello sconosciuto permise così a Dione di venire per qualche tempo a contatto con uno stile di vita ormai lontano da quello, più lussuoso, ma certo meno tranquillo, delle grandi città.

 

[1] τόδε μὴν αὐτὸς ἰδών, οὐ παρ᾽ ἑτέρων ἀκούσας, διηγήσομαι. ἴσως γὰρ οὐ μόνον πρεσβυτικὸν πολυλογία καὶ τὸ μηδένα διωθεῖσθαι ῥᾳδίως τῶν ἐμπιπτόντων λόγων, πρὸς δὲ τῷ πρεσβυτικῷ τυχὸν ἂν εἴη καὶ ἀλητικόν. αἴτιον δέ, ὅτι πολλὰ τυχὸν ἀμφότεροι πεπόνθασιν, ὧν οὐκ ἀηδῶς μέμνηνται. ἐρῶ δ᾽ οὖν οἵοις ἀνδράσι καὶ ὅντινα βίον ζῶσι συνέβαλον ἐν μέσῃ σχεδόν τι τῇ Ἑλλάδι.

[2] ἐτύγχανον μὲν ἀπὸ Χίου περαιούμενος μετά τινων ἁλιέων ἔξω τῆς θερινῆς ὥρας ἐν μικρῷ παντελῶς ἀκατίῳ. χειμῶνος δὲ γενομένου χαλεπῶς καὶ μόλις διεσώθημεν πρὸς τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας· τὸ μὲν δὴ ἀκάτιον εἰς τραχύν τινα αἰγιαλὸν ὑπὸ τοῖς κρημνοῖς ἐκβαλόντες διέφθειραν, αὐτοὶ δὲ ἀπεχώρησαν πρός τινας πορφυρεῖσὑφορμοῦντας ἐπὶ τῇ πλησίον χηλῇ, κἀκείνοις συνεργάζεσθαι [3] διενοοῦντο αὐτοῦ μένοντες. καταλειφθεὶς δὴ μόνος, οὐκ ἔχων εἰς τίνα πόλιν σωθήσομαι, παρὰ τὴν θάλατταν ἄλλως ἐπλανώμην, εἴ πού τινας ἢ παραπλέοντας ἢ ὁρμοῦντας ἴδοιμι. προεληλυθὼς δὲ συχνὸν ἀνθρώπων μὲν οὐδένα ἑώρων· ἐπιτυγχάνω δὲ ἐλάφῳνεωστὶ κατὰ τοῦ κρημνοῦ πεπτωκότι παρ᾽ αὐτὴν τὴν ῥαχίαν, ὑπὸ τῶν κυμάτων παιομένῳ, φυσῶντι ἔτι. καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἔδοξα ὑλακῆς ἀκοῦσαι κυνῶν ἄνωθεν μόλις πως διὰ τὸν ἦχον τὸν ἀπὸ τῆς θαλάττης.

[4] προελθὼν δὲ καὶ προβὰς πάνυ χαλεπῶς πρός τι ὑψηλὸν τούς τε κύνας ὁρῶ ἠπορημένους καὶ διαθέοντας, ὑφ᾽ ὧνεἴκαζον ἀποβιασθὲν τὸ ζῷον ἁλέσθαι κατὰ τοῦ κρημνοῦ, καὶ μετ᾽ ὀλίγον ἄνδρα, κυνηγέτην ἀπὸ τῆς ὄψεως καὶ τῆς στολῆς, τὰ γένεια ὑγιῆ κομῶντα οὐ φαύλως οὐδὲ ἀγεννῶς ἐξόπισθεν, οἵους ἐπὶ Ἴλιον Ὅμηρός φησιν ἐλθεῖν Εὐβοέας, σκώπτων, ἐμοὶ δοκεῖν, καὶ καταγελῶν, ὅτι τῶν ἄλλων Ἀχαιῶν καλῶς ἐχόντων οἱ δὲ ἐξ ἡμίσους [5] ἐκόμων. καὶ ὃς ἀνηρώτα με, Ἀλλ᾽ ἦ, ὦ ξεῖνε, τῇδέ που φεύγοντα ἔλαφον κατενόησας; κἀγὼ πρὸς αὐτόν, Ἐκεῖνος, ἔφην, ἐν τῷ κλύδωνι ἤδη· καὶ ἀγαγὼν ἔδειξα. ἑλκύσας οὖν αὐτὸν ἐκ τῆς θαλάττης τό τε δέρμα ἐξέδειρε μαχαίρᾳ, κἀμοῦ ξυλλαμβάνοντος ὅσον οἷός τε ἦν, καὶ τῶν σκελῶν ἀποτεμὼν τὰ ὀπίσθια ἐκόμιζεν ἅμα τῷ δέρματι.παρεκάλει δὲ κἀμὲ συνακολουθεῖν καὶ συνεστιᾶσθαι τῶν κρεῶν· εἶναι δὲ οὐ μακρὰν τὴν οἴκησιν.

[6] ἔπειτα ἕωθεν παρ᾽ ἡμῖν, ἔφη, κοιμηθεὶς ἥξεις ἐπὶ τὴν θάλατταν, ὡς τά γε νῦν οὐκ ἔστι πλόϊμα. καὶ μὴ τοῦτο, εἶπε, φοβηθῇς. βουλοίμην δ᾽ ἂν ἔγωγε καὶ μετὰ πέντε ἡμέρας λῆξαι τὸν ἄνεμον· ἀλλ᾽ οὐ ῥᾴδιον, εἶπεν,ὅταν οὕτως πιεσθῇ τὰ ἄκρα τῆς Εὐβοίας ὑπὸ τῶν νεφῶν ὥς γε νῦν κατειλημμένα ὁρᾷς. καὶ ἅμα ἠρώτα με ὁπόθεν δὴ καὶ ὅπως ἐκεῖ κατηνέχθην, καὶ εἰ μὴ διεφθάρη τὸ πλοῖον. μικρὸν ἦν παντελῶς, ἔφην, ἁλιέων τινῶν περαιουμένων, κἀγὼ μόνος ξυνέπλεον ὑπὸ σπουδῆς τινος. διεφθάρη δ᾽ ὅμως ἐπὶ τὴν γῆν ἐκπεσόν.

[7] οὔκουν ῥᾴδιον, ἔφη, ἄλλως· ὅρα γὰρ ὡς ἄγρια καὶ σκληρὰ τῆς νήσου τὰ πρὸς τὸ πέλαγος. ταῦτ᾽, εἶπεν, ἐστὶ τὰ κοῖλα τῆς Εὐβοίας λεγόμενα, ὅπου κατενεχθεῖσα ναῦς οὐκ ἂν ἔτι σωθείη· σπανίως δὲ σῴζονται καὶ τῶν ἀνθρώπων τινές, εἰ μὴ ἄρα, ὥσπερ ὑμεῖς, ἐλαφροὶ παντελῶς πλέοντες. ἀλλ᾽ ἴθι καὶ μηδὲν δείσῃς. νῦν μὲν ἐκ τῆς κακοπαθείας ἀνακτήσῃ σαυτόν· εἰς αὔριον δέ, ὅ τι ἂν ᾖ δυνατόν, ἐπιμελησόμεθα ὅπως σωθῇς, ἐπειδή σε ἔγνωμεν ἅπαξ.

[8] δοκεῖς δέ μοι τῶν ἀστικῶν εἶναί τις, οὐ ναύτης οὐδ᾽ ἐργάτης, ἀλλὰ πολλήν τινα ἀσθένειαν τοῦ σώματος ἀσθενεῖν ἔοικας ἀπὸ τῆς ἰσχνότητος. ἐγὼ δὲ ἄσμενος ἠκολούθουν· οὐ γὰρ ἐπιβουλευθῆναί ποτε ἔδεισα, οὐδὲν ἔχων ἢ φαῦλον ἱμάτιον.

[9] καὶ πολλάκις μὲν δὴ καὶ ἄλλοτε ἐπειράθην ἐν τοῖς τοιούτοις καιροῖς, ἅτε ἐν ἄλῃ συνεχεῖ, ἀτὰρ οὖν δὴ καὶ τότε ὡς ἔστι πενία χρῆμα τῷ ὄντι ἱερὸν καὶ ἄσυλον, καὶ οὐδεὶς ἀδικεῖ, πολύ γε ἧττον ἢ τοὺς τὰ κηρύκεια ἔχοντας· ὡς δὴ καὶ τότε θαρρῶν εἱπόμην.

 

[1] Vi racconterò tutto questo avendolo vissuto io stesso in prima persona, non avendolo udito raccontare da altri. Infatti, forse, l’aver da narrare molte cose e il non lasciarsi distogliere facilmente da nessuno dei discorsi che vengono in mente non è proprio solo della vecchiaia; oltre che caratteristico degli anziani potrebbe esserlo anche dei giramondo. Il motivo è che entrambi rievocano con piacere le molte avventure che si sono trovati a vivere. Vi racconterò dunque quali uomini incontrai quasi nel cuore della Grecia e che genere di vita conducevano.

[2] Per caso, dunque, verso la fine dell’estate, ero salpato da Chio insieme ad alcuni pescatori a bordo di un’imbarcazione molto piccola. Ma, scoppiata una tempesta, con difficoltà e fatica riuscimmo a scamparla presso le Grotte d’Eubea; gli uomini, dopo aver diretto la barca verso un aspro tratto di costa sotto alcuni scogli dirupati, la sfasciarono; essi, invece, si rifugiarono presso alcuni pescatori di porpora, ormeggiati in una baia vicina e pensarono, rimanendo lì, [3] di lavorare insieme a quelli. Lasciato da solo e non avendo una città in cui rifugiarmi, mi aggiravo senza meta lungo il litorale, se per caso riuscissi a vedere qualcuno che navigava o che fosse ormeggiato nei pressi. Ma dopo aver camminato a lungo, non incontrai anima viva; mi imbattei, però, in un cervo che era da poco precipitato giù dai dirupi proprio sulla spiaggia, bagnato dalle onde e che respirava ancora. E dopo un po’ mi parve di sentire, seppur con difficoltà, a causa del rumore della risacca, un latrato di cani, che proveniva dall’alto.

[4] Dopo essere andato avanti ed essermi arrampicato a fatica su un rialzo, vidi i cani che cercavano e correvano qua e là, e mi immaginai che l’animale fosse caduto giù dalla scogliera, spinto a forza da loro; e poco dopo, anche un uomo, un cacciatore, dall’aspetto e dall’abbigliamento, con le guance colorite e con i capelli non tirati indietro in modo trascurato – come Omero racconta che gli Euboici giunsero a Troia, prendendoli in giro, credo, e deridendoli, perché, mentre gli Achei erano ben acconciati, [5] essi avevano soltanto metà capigliatura[1]. Costui mi domandò: «Ehi, straniero, hai visto per caso un cervo che fuggiva per di qua?». Io, allora, gli risposi: «Quello ormai è giù nella risacca»; e, dopo averlo accompagnato, glielo mostrai. Tiratolo fuori dall’acqua, lo scuoiò con un coltello, mentre io lo aiutavo come potevo. Poi, dopo aver tagliato i quarti posteriori delle zampe, se li portava via insieme alla pelle. Invitò anche me ad accompagnarlo e a banchettare insieme a lui con quella carne; infatti, egli non abitava molto lontano.

[6] Poi aggiunse: «Domani all’alba, dopo aver dormito da noi, tornerai sul mare, perché ora non è il momento di imbarcarsi. Non ti preoccupare; vorrei anch’io che il vento cessasse, magari fra cinque giorni; ma non è facile, quando le cime dell’Eubea sono così oppresse dalle nubi, fittamente coperte come le vedi ora». Poi mi chiese anche da dove e in che modo mi fossi spinto fin là, e se la mia barca fosse andata in pezzi. Io risposi: «Era molto piccola, di alcuni pescatori che andavano per mare; e io solo navigavo insieme a loro, per affari miei. Appena ha toccato terra, si è sfasciata».

[7] «Non era facile che accadesse diversamente», rispose lui; «guarda com’è aspra e dirupata la costa dell’isola in direzione del mare aperto. Queste sono le cosiddette Grotte d’Eubea e una nave che sia stata spinta qua non potrebbe mai salvarsi; raramente si salvano alcuni degli uomini, a meno che, come voi, non navighino su un’imbarcazione molto leggera. Ma vieni, e non temere nulla; ora ti riprenderai da quella brutta avventura. Poi, domani, per quanto sarà possibile, ci preoccuperemo di come sistemarti, dopo che avremo fatto conoscenza.

[8] Mi sembra che tu venga dalla città e non un marinaio o un contadino; e dalla magrezza mi pare anche che tu soffra di qualche malessere fisico». Io lo seguii volentieri; infatti, non temevo che mi tendesse qualche insidia, non avendo altro che una povera veste.

[9] Spesso, in altre occasioni, mi ero trovato in simili circostanze, poiché ero sempre in viaggio e avevo sperimentato, come in quel caso, che la miseria è sacra e inviolabile, e nessuno ti fa torto, molto meno che a quelli che portano le insegne di araldo; perciò, anche allora lo seguii fiducioso.

 

Cacciatore e cane (part.). Rilievo, marmo, inizi IV sec. d.C. Roma, Museo di S. Sebastiano.

 

L’orazione dalla quale proviene il passo preso in esame è considerata, in genere, l’opera più originale e interessante di Dione di Prusa: […] essa è probabilmente ispirata da una vicenda autobiografica, un’avventura di viaggio che costrinse l’autore a trascorre qualche giorno presso una piccola comunità di agricoltori e cacciatori d’Eubea, un’isola prossima alle coste della Beozia e dell’Attica, che i Romani avevano annesso alla provincia di Macedonia. La descrizione del naufragio denota, tra l’altro, una buona conoscenza della geografia dei luoghi; infatti, nella parte di costa ricordata da Dione l’approdo è difficilissimo e, a causa della conformazione accidentata di tutta la zona, non vi furono mai fondate città, ma solo piccoli villaggi litoranei. Inoltre, le scogliere del promontorio Cafareo, prossimo alle Grotte d’Eubea menzionate dall’autore, erano tristemente famose per l’alto numero di naufragi che vi si verificavano, il più celebre dei quali (a parte quello, mitico, dell’armata achea di ritorno da Troia) era avvenuto durante la Seconda guerra persiana, quando duecento navi, inviate da Serse a circumnavigare l’isola, erano perite in una volta sola, infrangendosi sulle rocce a causa di una violenta burrasca, e che i Greci avevano interpretato come un segno del favore di Poseidone nei loro confronti[2].

Tuttavia, se la topografia si distingue per la sua concreta precisione, il racconto del naufragio assume subito le tinte avventurose del romanzo, con la descrizione della sconsolata solitudine del protagonista, abbandonato dai suoi occasionali compagni, e poi inaspettatamente rassicurato dall’arrivo del buon cacciatore, vero e proprio deus ex machina giunto al momento opportuno per risolvere una situazione difficile. L’abilità retorica di Dione, letterato di raffinata cultura, si nota appunto nella sapiente gradualità con cui egli – narratore e protagonista – prepara l’incontro fra il naufrago e il suo salvatore: prima, la squallida solitudine della spiaggia rocciosa battuta dai marosi e l’ansioso scrutare alla ricerca di una presenza umana o di un’imbarcazione; poi, il cervo ferito, precipitato dall’alto della scogliera; subito dopo, il latrato dei cani, a mala pena udibile in mezzo allo scroscio delle onde; infine, l’arrivo del cacciatore, un uomo forte, dall’aspetto sano, la cui schietta cordialità rassicura subito il povero naufrago.

La scena dell’offerta e della pronta accettazione dell’ospitalità riconduce a uno dei concetti etici più antichi e più profondamente radicati nell’animo greco: quello della sacralità dell’ospite, oggetto, per sua stessa natura, di αἰδώς, di «rispetto» reverenziale. Tale condizione si fondava su motivi religiosi (lo sconosciuto in difficoltà poteva essere un dio sotto false sembianze, sceso in terra per saggiare l’animo degli uomini), ma anche sulla necessità di instaurare rapporti sociali stabili e duraturi anche al di fuori della propria patria, perché la πολιτεία («lo Stato») non garantiva in alcun modo la sicurezza di chi si allontanasse dalla protezione delle leggi cittadine. Ma, se in altri tempi il forestiero avrebbe seguito il suo ospite con piena fiducia nella sua lealtà, ora le certezze non sono più così solide; nel cuore del narratore non manca un’inquietante punta di diffidenza, che lo induce a dichiarare ai lettori di essere pronto a seguire lo sconosciuto non tanto perché creda alla sua sensibilità verso i tradizionali valori della ξενία («ospitalità»), quanto perché sa di avere un aspetto talmente miserando da scoraggiare qualunque tentazione.

***

 

Serenità campestre e miseria urbana

 

[…] Strada facendo, il cacciatore racconta all’ospite occasionale la storia della sua famiglia e di quella di un suo vicino di casa, entrambi di stirpe libera, discendenti da pastori salariati, trasformatisi, dopo la morte del loro signore, in cacciatori e coltivatori. Le due famiglie hanno dato origine a una minuscola comunità autosufficiente, soddisfatta di un genere di vita estremamente semplice, ma sereno e tranquillo; lo dimostra la familiare affabilità con cui è accolto il forestiero, invitato a banchettare con la carne di cervo.

 

[65] εἰσελθόντες οὖν εὐωχούμεθα τὸ λοιπὸν τῆς ἡμέρας, ἡμεῖς μὲν κατακλιθέντες ἐπὶ φύλλων τε καὶ δερμάτων ἐπὶ στιβάδος ὑψηλῆς, ἡ δὲ γυνὴ πλησίον παρὰ τὸν ἄνδρα καθημένη. θυγάτηρ δὲ ὡραία γάμου διηκονεῖτο, καὶ ἐνέχει πιεῖν μέλανα οἶνον ἡδύν. οἱ δὲ παῖδες τὰ κρέα παρεσκεύαζον, καὶ αὐτοὶ ἅμα ἐδείπνουν παρατιθέντες, ὥστε ἐμὲ εὐδαιμονίζειν τοὺς ἀνθρώπους ἐκείνους καὶ οἴεσθαι μακαρίως ζῆν πάντων μάλιστα ὧν ἠπιστάμην.

[66] καίτοι πλουσίων οἰκίας τε καὶ τραπέζας ἠπιστάμην, οὐ μόνον ἰδιωτῶν, ἀλλὰ καὶ σατραπῶν καὶ βασιλέων, οἳ μάλιστα ἐδόκουν μοι τότεἄθλιοι, καὶ πρότερον δοκοῦντες, ἔτι μᾶλλον, ὁρῶντι τὴν ἐκεῖ πενίαν τε καὶ ἐλευθερίαν, καὶ ὅτι οὐδὲν ἀπελείποντο οὐδὲ τῆς περὶ τὸ φαγεῖν τε καὶ πιεῖν ἡδονῆς, ἀλλὰ καὶ τούτοις ἐπλεονέκτουν σχεδόν τι.

[67] ἤδη δ᾽ ἱκανῶς ἡμῶν ἐχόντων ἦλθε κἀκεῖνος ὁ ἕτερος. συνηκολούθειδὲ υἱός αὐτῷ, μειράκιον οὐκ ἀγεννές, λαγὼν φέρων. εἰσελθὼν δὲ οὗτος ἠρυθρίασεν· ἐν ὅσῳ δὲ ὁ πατὴρ αὐτοῦ ἠσπάζετο ἡμᾶς, αὐτὸς ἐφίλησε τὴν κόρην καὶ τὸν λαγὼν ἐκείνῃ ἔδωκεν. ἡ μὲν οὖν παῖς ἐπαύσατο διακονουμένη καὶ παρὰ τὴν μητέρα ἐκαθέζετο, [68] τὸ δὲ μειράκιον ἀντ᾽ ἐκείνης διηκονεῖτο. κἀγὼ τὸν ξένονἠρώτησα, Αὕτη, ἔφην, ἐστίν, ἧς τὸν χιτῶνα ἀποδύσας τῷ ναυαγῷ ἔδωκας; καὶ ὃς γελάσας, Οὐκ, ἔφη, ἀλλ᾽ ἐκείνη, εἶπε, πάλαι πρὸς ἄνδρα ἐδόθη, καὶ τέκνα ἔχει μεγάλα ἤδη, πρὸς ἄνδρα πλούσιον εἰς κώμην. οὐκοῦν, ἔφην, ἐπαρκοῦσιν ὑμῖν ὅ, τι ἂν δέησθε; οὐδέν, [69] εἶπεν ἡ γυνή, δεόμεθα ἡμεῖς. ἐκεῖνοι δὲ λαμβάνουσι καὶ ὁπηνίκ᾽ ἄντι θηραθῇ καὶ ὀπώραν καὶ λάχανα· οὐ γὰρ ἔστι κῆπος παρ᾽ αὐτοῖς. πέρυσι δὲ παρ᾽ αὐτῶν πυροὺς ἐλάβομεν, σπέρμα ψιλόν, καὶ ἀπεδώκαμεν αὐτοῖς εὐθὺς τῆς θερείας. τί οὖν; ἔφην, καὶ ταύτην διανοεῖσθε διδόναι πλουσίῳ, ἵνα ὑμῖν καὶ αὐτὴ πυροὺς δανείσῃ; ἐνταῦθα μέντοι ἄμφω ἠρυθριασάτην, ἡ κόρη καὶ τὸ μειράκιον.

[70] ὁ δὲ πατὴρ αὐτῆς ἔφη, Πένητα ἄνδρα λήψεται, ὅμοιον ἡμῖν κυνηγέτην· καὶ μειδιάσας ἔβλεψεν εἰς τὸν νεανίσκον. κἀγώ, τί οὖν οὐκ ἤδη δίδοτε; ἢ δεῖ ποθεν αὐτὸν ἐκ κώμης ἀφικέσθαι; δοκῶ μέν, εἶπεν, οὐ μακράν ἐστίν· ἀλλ᾽ ἔνδον ἐνθάδε. καὶ ποιήσομέν γε τοὺς γάμους ἡμέραν ἀγαθὴν ἐπιλεξάμενοι. κἀγώ, Πῶς, ἔφην,κρίνετε τὴν ἀγαθὴν ἡμέραν; καὶ ὅς, Ὅταν μὴ μικρὸν ᾖ τὸ σελήνιον· [71] δεῖ δὲ καὶ τὸν ἀέρα εἶναι καθαρόν, αἰθρίαν λαμπράν. κἀγώ, Τί δέ; τῷ ὄντι κυνηγέτης ἀγαθός ἐστιν; ἔφην. ἔγωγε, εἶπεν ὁ νεανίσκος, καὶ ἔλαφον καταπονῶ καὶ σῦν ὑφίσταμαι. ὄψει δὲ αὔριον, ἂν θέλῃς, ὦ ξένε. καὶ τὸν λαγὼν τοῦτον σύ, ἔφην, ἔλαβες; ἐγώ, ἔφη γελάσας, τῷ λιναρίῳ τῆς νυκτός· ἦν γὰρ αἰθρία πάνυ καλὴ καὶ ἡ σελήνη τηλικαύτη τὸ μέγεθος ἡλίκη οὐδεπώποτε ἐγένετο.

 

[65] Dopo essere entrati, banchettammo per il resto della giornata, noi distesi su un alto giaciglio fatto di frasche e coperto di pelli, la moglie seduta presso il marito. Una figlia in età da sposarsi serviva a tavola e versava da bere vino nero dolce. I figli cucinavano la carne ed essi stessi, imbandendola, partecipavano al pranzo, così che io consideravo fortunate quelle persone e ritenevo che conducessero una vita felice più di tutte quelle che avevo conosciuto.

[66] Eppure, conoscevo le case e le mense dei ricchi, non solo di cittadini privati, ma anche di satrapi e di sovrani, e allora, come già altre volte, mi sembravano ancora più miseri, vedendo qui povertà e generosità, e constatando che non mancava loro niente del piacere del mangiare e del bere, ma che anzi, in un certo senso, ne abbondavano veramente.

[67] Quando ne avevamo già avuto a sazietà, giunse anche l’altro cacciatore. Lo accompagnava il figlio, un bel ragazzo che portava una lepre. Appena entrò, subito arrossì; e mentre suo padre ci salutava, egli diede un bacio alla fanciulla e le diede la lepre. Allora la ragazza smise di servire a tavola e si sedette accanto alla madre, [68] mentre il giovane serviva in sua vece. E io, allora, chiesi al mio ospite: «È lei la figlia alla quale togliesti la tunica per darla al naufrago?[3]». Ed egli: «No», mi rispose ridendo; «quella è andata a marito da tempo, a un uomo ricco del villaggio e ha già dei figli grandi». «Allora», feci io, «vi aiutano, quando ne avete bisogno?». «Ma noi», [69] intervenne la moglie, «non abbiamo bisogno di nulla; loro, piuttosto, ricevono da noi cacciagione, quando ce n’è, frutta di stagione e ortaggi; essi, infatti, non dispongono di un orto. L’anno scorso abbiamo comprato del frumento, proprio per seme, ma subito, al raccolto, lo abbiamo restituito». «E allora?», dissi, «pensate di dare in moglie a un ricco anche costei, perché lei vi presti il frumento?». A questo punto tutti e due, la fanciulla e il ragazzo, arrossirono.

[70] Allora il padre di lei disse: «Prenderà un uomo povero, un cacciatore come noi»; e sorridendo guardò verso il giovane. Allora io: «Perché dunque non gliela date? O bisogno che lo sposo arrivi dal villaggio?». «Io credo», rispose quello, «che non sia lontano; anzi, è già qui dentro. Celebreremo le nozze dopo aver scelto un giorno propizio». E io: «In che modo scegliete un giorno di buon auspicio?». E lui: «Quando la luna non è all’ultimo quarto; [71]  è opportuno che l’aria sia pura, e il sereno limpidissimo». E io, di nuovo: «Allora? È davvero un bravo cacciatore?». «Io sì!», rispose il ragazzo, «sono capace di stancare un cervo e di affrontare un cinghiale. Lo vedrai domani, se vorrai, o straniero». E io: «Hai preso tu anche questa lepre?». «Certo», mi rispose ridendo, «stanotte, con la rete; era, infatti, un sereno splendido e la luna tanto grande come non era mai stata».

Caccia alla lepre. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem. Tunis, Musée du Bardo.

L’Euboico era composto da due parti, diverse per contenuto e per finalità; la prima, descrittiva, si concludeva con il passo qui riportato, l’annuncio delle nozze imminenti tra la figlia del cacciatore e il cugino; la seconda, di tono riflessivo, affrontava il grave problema della povertà nei grandi centri urbani dell’Impero, che nessun intervento filantropico o autoritario era mai stato in grado davvero di risolvere. Bisogna osservare che, nella prima sezione, Dione capovolgeva il tradizionale atteggiamento che, secoli prima, Omero e i tragici (soprattutto Euripide) avevano mostrato nei confronti dell’ospitalità, della ricchezza e della povertà. Essi, infatti, erano apparsi convinti che il povero, anche se lo desiderava, non fosse in grado di ospitare decorosamente un forestiero, perché gliene mancavano i mezzi: basterebbero, a questo proposito, le parole con cui Eumeo, accogliendo Odisseo nella propria capanna, si scusa di non potergli offrire una mensa più ricca e di essere costretto a dargli il mantello soltanto in prestito, perché non ne possiede un altro per sé[4].

Al contrario, chi era ricco poteva donare con larghezza e, se non l’avesse fatto, oltre ad attirarsi biasimo e critiche, si esponeva alla collera delle divinità. Nell’Euboico, invece, l’esperienza personale dell’autore conduce a conclusioni diametralmente opposte: non solo i poveri offrono generosamente tutto ciò che possono donare agli ospiti occasionali, ma appaiono pure soddisfatti del proprio stile di vita e non mostrano di desiderare alcun cambiamento nella propria tranquilla esistenza – assai simile a quella descritta negli Idilli di Teocrito o, più ancora, in alcune scene aristofanesche (Acarnesi, Pace), in cui si ricorda con nostalgia il quieto vivere dei contadini dell’Attica, reso impossibile dalla Guerra del Peloponneso.

La descrizione di Dione presenta molte caratteristiche che contribuiscono a farla considerare un quadro idealizzato e lontano dalla realtà; ma, nell’intenzione dell’autore, l’utopistica serenità del cacciatore e dei suoi parenti, isolati dal resto del mondo nella loro isola aspra ma non avara per chi sa scoprirne le agresti ricchezze, doveva servire a evidenziare, per contrasto, la miseria materiale e morale delle plebi cittadine – oggetto di riflessione nella seconda parte dell’orazione. L’autore, infatti, conosceva bene la situazione delle grandi metropoli imperiali, in cui il fasto di pochi appariva in stridente contrasto con la miseria di una massa innumerevole che, strumentalizzata da demagoghi privi di scrupoli, poteva divenire in qualunque circostanza un elemento capace di mettere drammaticamente in crisi l’equilibrio politico.

Per questo, Dione suggeriva di favorire con ogni mezzo possibile l’allontanamento dalla città di chi non disponesse di sufficienti mezzi di sussistenza, offrendo terre da coltivare, anche gratis, in modo da diminuire, se non da cancellare del tutto, le due massime cause di instabilità sociale e di degrado morale: l’ozio e la miseria, che già intorno al 360 a.C. erano stati additati come due gravi problemi di ordine economico ed etico, oltre che politico, da Isocrate nell’Areopagitico. Questi motivi giustificavano, almeno in parte, il nostalgico quadro di un’esistenza immersa nella pace agreste, fondata sulla semplicità, la schiettezza e la solidarietà, che però traeva origine da una precisa ottica programmatica, non dall’osservazione della vita reale. Tuttavia, in esso traspariva anche quel desiderio di quiete e di serenità dello spirito che, fino alla prima età ellenistica, era apparso come il sogno e il rimpianto dell’uomo di città, consapevole di aver sacrificato al benessere materiale la parte migliore di sé. Da questo punto di vista, il motivo del contrasto fra la lieta povertà della vita campestre e le ricchezze della città, ingiustamente distribuite e fonte di ansie e di intrighi, capaci di corrompere ogni più nobile sentimento, sarebbe divenuto topico nella letteratura posteriore, latina e italiana; per non citarne che un solo, illustre esempio, basterà ricordare l’episodio di Erminia fra i pastori nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VII, ott. 1-22, vv. 1-176).

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Note

[1] In Il. II 541-544 Omero descrive gli Abanti, antichi abitatori dell’Eubea, che si rasavano la parte anteriore del capo per impedire che gli avversari li afferrassero per i capelli, combattendo corpo a corpo. Essi, infatti, sono detti ὄπιθεν κομόωντες («con le chiome fluenti all’indietro»).

[2] Hdt. VIII 7; 13.

[3] Nella parte omessa del racconto, il cacciatore ha raccontato al suo ospite di aver accolto in casa un altro naufrago; e, non avendo di che vestirlo, aveva tolto la veste alla figlia, per darla a lui.

[4] Od. XIV 80-82; 507-514.

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Nascita e consolidamento del movimento

L’insegnamento della retorica, insieme a quello della filosofia, costituiva la base della formazione culturale dei giovani che intendevano dedicarsi alla carriera politica. Tuttavia, non tutti quelli che seguivano questi studi divenivano magistrati o funzionari pubblici; molti di loro, e spesso i più brillanti, dopo aver raggiunto un alto livello di preparazione, facevano dell’eloquenza una fonte di celebrità e di guadagno, spostandosi in varie città per esibirsi in declamazioni pubbliche nelle piazze, nei teatri, alle terme (soprattutto a Roma) o in auditoria, affittai per l’occasione e frequentati da un pubblico eterogeneo, in cui, peraltro, non mancava una componente di buon livello culturale, capace di giudizi solidamente fondati. Gli oratori pronunciavano di solito discorsi preparati in precedenza, ma improvvisavano anche su argomenti proposti dal pubblico. I temi erano, in genere, quelli tradizionali dell’oratoria epidittica e occasionale (encomi, λόγοι ἐπιτάφιοι, genetliaci di personaggi illustri); ma a essi si affiancavano anche argomenti meno consueti, talora addirittura insoliti o stravaganti (παίγνια, «scherzi»), adatti a far risaltare la bravura del retore e a suscitare la meraviglia del pubblico, con esempi di consumata tecnica oratoria, sostenuta da finezze stilistiche e “concettismi” da fare invidia a qualunque autore barocco.

La definizione di “neosofistica” è dovuta al retore Filostrato, nato fra il 160 e il 170, autore di un opuscolo intitolato Vite dei sofisti, che aveva suddiviso l’eloquenza greca in tre periodi: l’antica Sofistica ateniese, i dieci oratori attici del canone alessandrino, la neosofistica. Egli considerò antesignano del movimento il retore Niceta di Smirne, vissuto al tempo di Nerone, che, con il suo discepolo Scopeliano di Clazomene, aveva rinnovato nei suoi discorsi il fasto formale dell’eloquenza di Gorgia. Va detto, infatti, che questo genere di oratoria, che fiorì soprattutto sotto Adriano (117-138), si propose, in teoria, di riprendere sia gli accorgimenti tecnici e stilistici sia l’impostazione didattica dell’antica Sofistica; ma, in pratica, non operò nessuna innovazione o rivoluzione concettuale, limitandosi a coltivare l’aspetto più esteriore dell’eloquenza. Da questo punto di vista, tuttavia, la neosofistica ebbe una sua utilità, in quanto, da un lato, sviluppò e perfezionò gli aspetti tecnici dell’ars dicendi, anche se spesso a fine di esibizione o di lucro; dall’altro, rivolgendosi a un pubblico socialmente e culturalmente assai vario, ebbe il merito di abbandonare l’ambiente della scuola, affrontando esperienze più concrete e colmando almeno in parte il vuoto lasciato dalla scomparsa del teatro. Inoltre, i personaggi più in vista del movimento ebbero frequentemente una certa importanza nella politica del tempo, poiché la notorietà aprì loro le porte della corte imperiale.

A causa del suo esasperato formalismo, la neosofistica non poté rimanere estranea alla polemica fra asiani e atticisti, alla quale, però, non apportò alcun contributo significativo; infatti, mentre la sua stessa natura e i suoi fini la portarono a orientarsi piuttosto verso le tendenze stilistiche dell’Asianesimo, al tempo stesso, il desiderio di emulare i grandi oratori ateniesi del IV secolo a.C. fecero sì che anche l’Atticismo assumesse una notevole importanza all’interno del movimento.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

I principali esponenti della neosofistica

Seguace e discepolo di Scopeliano fu Polemone di Laodicea, il primo neosofista di cui sia pervenuto qualcosa. Vissuto fra l’88 e il 145, restano di lui due declamazioni in stile asiano, in cui i padri di due caduti a Maratona si disputano l’onore di tenere il discorso celebrativo per gli eroi caduti.

Antonio Polemone di Laodicea. Busto, marmo pentelico, 140 d.C. ca. dall’Olympeion di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il vero iniziatore della neosofistica deve però essere considerato il retore Dione, divulgatore della filosofia cinica e stoica. Nato a Prusa, in Bitinia, nel 40 da una ricca famiglia, costui si dedicò fin da giovane agli studi retorici e filosofici, sotto la guida di C. Musonio Rufo, maestro stoico assai rinomato sotto il principato di Nerone, e poi esiliato dallo stesso Cesare con l’accusa di aver preso parte a una congiura. Sotto i Flavii Dione raggiunse una certa notorietà per le sue declamazioni, ma all’inizio del regime di Domiziano fu coinvolto in un processo politico (forse a causa della sua amicizia con Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l’imperatore), e mandato in esilio. Iniziò così per Dione un periodo di vita raminga e disagiata, che lo portò dai Balcani all’Asia Minore e fino alle lande a nord del Ponto Eusino. Tuttavia, la convinta adesione alla dottrina cinica lo aiutò a sopportare questo difficile momento della sua esistenza, nella quale non gli venne mai meno l’interesse per la cultura – tanto che approfittò dell’esilio per raccogliere materiale geografico ed etnografico per comporre una monografia sul popolo dei Geti (purtroppo andata perduta). Quando M. Cocceio Nerva ascese al trono imperiale, Dione poté far rientro a Roma; e, grazie alla simpatia del princeps, gli fu conferita la civitas Romana e il diritto di fregiarsi del cognomen di Cocceiano. Il favore imperiale lo accompagnò anche sotto Traiano, al quale Dione dedico alcune delle sue più famose orazioni. A un certo momento, però – non se ne conoscono i motivi –, Dione decise di tornare nella sua Prusa per aprirvi un scuola di retorica. A quanto pare, ciò gli suscitò le invidie di alcuni concittadini, che nel 111-112 lo accusarono di fronte al legato imperiale C. Plinio Cecilio Secondo (Plinio il Giovane). Da quel momento in poi non si hanno più tracce di Dione; probabilmente morì poco dopo, fra il 115 e il 120.

A testimonianza della duplice attività filosofica e retorica di Dione di Prusa rimane un corpus di ottanta orazioni (due sono certamente del suo allievo Favorino di Arelate): si tratta in gran parte di declamazioni fittizie, di παίγνια (come l’elogio del pappagallo o quello della mosca), di diatribe, di esercitazioni letterarie o filosofiche in forma dialogica; una stretta minoranza sono discorsi epidittici, pronunciati in diverse occasioni. Di particolare interesse per la critica moderna, l’orazione In Atene sull’esilio, di carattere fortemente autobiografico; tuttavia, le notizie in essa contenute vanno prese con una certa cautela, perché occorre tenere presente che il tema dell’esilio costituiva un tópos della filosofia stoica e si prestava benissimo a rielaborazioni letterarie e a spunti consolatori (come accadde già in Seneca), spesso assai lontani dalla realtà dei fatti.

Dione Crisostomo, Orazione ΠΕΡῚ ΒΑΣΙΛΕΙΑΣ Α (p. 43), edizione critica di Johann Jacob Reiske (1784).

Lo stile dioneo dimostra una valida conoscenza della migliore prosa attica (Platone, Senofonte, Demostene), che si traduce nella capacità di delineare con vivacità scene e caratteri, soprattutto quando si tratta delle popolazioni barbariche da lui visitate nel suo esilio o nell’osservazione della natura e degli animali. La lingua utilizzata è quella della koiné, caratterizzata però da una singolare limpidezza, dovuta allo sforzo di accostarsi ai modelli attici.

Di origine celtiche, nato ad Arelate in Gallia Narbonensis (od. Arles) nell’85, Favorino è un rappresentante di quella classe di intellettuali che, pur essendo estranei per nascita al mondo greco, ne appresero ben presto la lingua e ne ammirarono la cultura. Amico dello storico Plutarco, da ragazzo Favorino si trasferì a Roma, dove seguì le lezioni di Dione. Divenuto un abile e brillante oratore, si diede alla carriera di conferenziere itinerante, conquistandosi grande fama e ricchezza. Tuttavia, al tempo dell’imperatore Adriano, per motivi rimasti ignoti, fu esiliato nell’isola di Chio, dove rimase fino a quando Antonino Pio non gli revocò la condanna e gli permise di rientrare nell’Urbe, nel 136.

Favorino, dunque, aprì una propria scuola, che fu frequentata anche da personaggi destinati a diventare celebri, come Aulo Gellio ed Erode Attico. Scomparve verso la metà del II secolo, in una data che non si è in grado di precisare.

La vasta mole delle opere di Favorino è andata quasi completamente perduta: il poco che resta, comunque, rivela una cultura multiforme e varia, che spazia dalla filosofia alla retorica, dalla storia alla pura erudizione. Fra gli scritti filosofici si possono annoverare i Memorabili, cinque libri dedicati alle biografie dei filosofi più illustri, che denotano uno spiccato gusto per l’aneddotica, e i Discorsi pirroniani, in dieci libri. Carattere paradossale e spiccatamente sofistico avevano le declamazioni Sulla febbre quartana e In difesa di Tersite. Anche Favorino, come il suo maestro, del resto, ha lasciato scritto un discorso Sull’esilio, di impostazione cinico-stoica, che è però poco più che un elenco di luoghi comuni sull’argomento.

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

Il più brillante esponente della neosofistica nel II secolo fu Tiberio Claudio Attico Erode, discepolo di Favorino. Nato a Maratona nel 101, si trasferì ad Atene, dove ricoprì importanti incarichi politici. Inoltre, le sue notevoli disponibilità finanziarie gli permisero di distinguersi per generosità nei confronti di varie città greche che abbellì di monumenti ed edifici pubblici, come l’Odeon che fece costruire ad Atene. Giunto a Roma, vi ebbe una fortunata carriera politica che culminò nell’elezione al consolato nel 143, e che fu accompagnata da una grandissima fama come maestro di retorica. La sua scuola fu frequentata da Marco Aurelio e da Lucio Vero, che gli furono affidati dell’imperatore Antonino Pio. Della vasta opera di Erode Attico, scomparso ad Atene nel 177, è pervenuta una sola orazione, Sullo Stato, un vero esempio della perfezione stilistica a cui egli era giunto nell’imitazione dei modelli classici. Erode, infatti, aveva composto quel discorso rifacendosi allo stile del sofista Trasimaco di Calcedone, attivo intorno al 430-400 a.C., raggiungendo risultati tali da indurre alcuni studiosi ad attribuirne la paternità proprio a Trasimaco.

Contemporaneo di Erode Attico fu Elio Aristide, nato ad Hadriani ad Olympum, in Bitinia negli anni fra il 117 e il 129. Dopo aver acquisito una solida formazione retorica, nella quale egli rivolse la propria preferenza soprattutto verso Isocrate, Elio Aristide intraprese una fortunata carriera di conferenziere, nel corso della quale viaggiò molto, in varie parti dell’Oriente romano. Nel 156 egli giunse anche nell’Urbe, dove, tuttavia, mostrò i primi sintomi di una malattia nervosa che lo avrebbe poi accompagnato per il resto della vita e sulla quale ebbe modo di soffermarsi a lungo nella sua autobiografia. Poiché le cure mediche del tempo non furono in grado di arrecargli alcun giovamento, Elio Aristide decise di affidarsi alla potenza taumaturgica di Asclepio e, perciò, si trattenne per diverso tempo a Pergamo, presso il santuario del dio: suo malgrado, però, non riuscì a ottenere la guarigione sperata. Il retore soggiornò a lungo anche a Smirne; anzi, poiché durante gli studi presso la scuola di Erode Attico aveva avuto per compagno lo stesso Marco Aurelio, con il quale aveva instaurato un profondo legame di amicizia e di stima, gli fu possibile perorare presso il princeps la ricostruzione della città, distrutta da un terremoto nel 178. Elio Aristide morì una decina di anni dopo, sotto Commodo, nel 188.

Elio Aristide. Statua, marmo, 200 d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Della sua produzione rimangono cinquantacinque orazioni di vario argomento: alcune sono declamazioni fittizie, encomi, elogi di divinità; altre vertono su temi filosofici. Fra queste, in particolare, la più cospicua è intitolata Sulla retorica, nella quale l’autore abbraccia la tesi di Isocrate contro quella di Platone, sostenendo il primato dell’eloquenza rispetto alla filosofia e classificandola come τέχνη. Di carattere encomiastico è invece l’orazione In difesa dei quattro, in cui l’autore prende le parti di Milziade, Temistocle, Cimone e Pericle contro il giudizio negativo di Platone. In omaggio all’antica gloria di Atene, vincitrice sui Persiani, fu scritto il Pantatenaico, che rivela nel titolo una certa simpatia dell’autore verso Isocrate. Il ruolo di Roma come città pacificatrice del mondo e patria comune di tutte le genti cha abitano l’Impero è l’argomento dell’Elogio di Roma, che evidenzia anche il rapporto fra gli intellettuali e i Caesares. Più interessanti a livello autobiografico sono i Discorsi sacri, di argomento religioso, che Elio Aristide compose nella maturità, forse anche sotto l’effetto della malattia che lo aveva colpito. In questi testi egli descrive con incisiva precisione l’ambiente del tempio di Asclepio, popolato, oltre cha da ammalati, da gente di ogni risma, da curiosi, da turisti, da imbroglioni; l’autore mette a nudo anche la propria anima, sostenuta da una fede fanatica, che si affida con cieca credulità a sogni, a presagi, a tutte le manifestazioni sacre o ritenute tali. Di conseguenza, appare estremamente difficile per il lettore moderno discernere la religiosità dalla superstizione, visto il clima di esaltazione misticheggiante dell’opera, alla quale non è alieno, però, un certo compiaciuto sfoggio di bravura compositiva: infatti, da un punto di vista formale, per l’ampiezza dell’erudizione e per la ricchezza e la frequenza delle citazioni letterarie, Elio Aristide può essere considerato uno degli esponenti più validi della neosofistica, anche se non è sostenuto da pari originalità di pensiero.

I neosofisti minori

Sotto l’impero di Commodo soggiornò a Roma Massimo di Tiro, un retore itinerante vissuto nella metà del II secolo, del quale restano quarantuno diatribe composte per la scuola, su argomenti di filosofia popolare. I temi proposti (Se si debba preferire la vita del Cinico, Se Socrate abbia fatto bene a non difendersi) permettono all’autore di far valere i propri mezzi dialettici, sostenuti da un pensiero filosofico non molto profondo, di impronta eclettica, in cui Platone occupa un posto di rilievo, mentre Epicuro ne è escluso del tutto. Ciò è dovuto prevalentemente al fatto che l’autore possiede una visione trascendente della divinità e crede che essa sia circondata da un’infinità di entità soprannaturali, che agiscono da intermediarie con il mondo degli uomini – teoria, questa, assolutamente inconciliabile con la concezione epicurea del cosmo.

Completamente estraneo all’attività di retore vagante fu invece Claudio Eliano, che non lasciò mai la città di Praeneste, in cui era nato intorno al 175, se non per recarsi a Roma, dove sarebbe morto nel 235 circa. Anche lui, come già Favorino, apprese la lingua e la cultura greche a scuola, dove ebbe come maestro il sofista Pausania. Concentrò di preferenza la propria attenzione all’osservazione della natura e del mondo animale, sul quale compose un’opera di diciassette libri. Tuttavia, Eliano non fu sostenuto da intenti scientifici né da personali osservazioni autoptiche, ma piuttosto da curiosità per quanto altri naturalisti avevano scritto prima di lui; così l’opera si presenta come una specie di antologia di altri testi (di Aristotele, di Teofrasto, di Nicandro e altri), letti e compilati con uno spiccato gusto per l’esotico e l’inconsueto. La stessa tendenza alla compilazione diligente, ma con scarsi apporti personali, si nota in un’altra opera, di cui sono pervenuti ampi frammenti, la Storia varia, suddivisa in quattordici libri: in essa l’autore raccolse una vasta serie di aneddoti su personaggi famosi, usando come fonti gli scritti di Ctesia, Teofrasto, Teopompo e Timeo.

Tib. Claudio Erode Attico. Busto, marmo, 161 d.C. ca. da Probalinthos (Attica). Paris, Musée du Louvre.

L’interesse per il mondo naturale, assai vivo nella cultura del II secolo, è ben documentato anche da un’altra antologia, redatta ad Alessandria e pervenuta anonima in varie redazioni e traduzioni medievali (greche, etiopiche, siriache, armene e numerose latine), con il titolo di Physiologus (lo «studioso della natura»): questo testo attraverso gli esempi tratti dal regno animale illustra e divulga in forma allegorica le dottrine dogmatiche e morali del Cristianesimo; il suo autore, inoltre, si mostra più esperto di testi sacri che di scienza naturale. Per lungo tempo il libro fu utilizzato dalla patristica (Epifanio, Basilio, Crisostomo, ecc.), e nel VI secolo fu perfino attribuito ad Ambrogio. L’opera costituì l’antecedente dei tanti bestiarii prodotti nei secoli medievali.

Fra i neosofisti minori si può anche annoverare il già menzionato Filostrato, detto “il Maggiore”, per distinguerlo da altri tre scrittori omonimi menzionati nel lessico Suda e che, rispettivamente, furono suo padre – delle cui opere non è rimasto nulla – e suo nipote. Filostrato nacque fra il 160 e il 170, studiò con i retori Damiano di Efeso e Antipatro di Hierapolis e si trasferì a Roma al tempo di Settimio Severo, assumendo il nome di Flavio Filostrato. Molto apprezzato nella cerchia della famiglia imperiale e soprattutto dall’Augusta Giulia Domna, egli fu costretto a lasciare l’Urbe dopo la tragica fine dell’imperatrice e di suo figlio Caracalla, che era stato suo amico e protettore. Filostrato si recò allora ad Atene, dove morì probabilmente intorno al 249, sotto il principato di Filippo l’Arabo, comandante del pretorio salito al trono dopo l’assassinio di Gordiano.

Ingegno vario e versatile, Filostrato applicò la sua cultura di retore soprattutto alla composizione di opere narrative di contenuto storico, nelle quali, però, non esitò a mescolare ad avvenimenti e a personaggi ben documentabili anche elementi favolosi. Ciò si nota con chiarezza nella sua opera già menzionata, le Vite dei sofisti, che comprende le biografie dei sofisti greci da Gorgia ai propri contemporanei. La raccolta, in due libri, composta fra il 229 e il 238, fu dedicata al proconsole Antonio Gordiano. Oltre a interessanti notizie biografiche, essa presenta anche una serie di citazioni letterarie di numerosi passi delle opere degli autori menzionati, offrendo una piacevole e varia lettura. Per desiderio dell’imperatrice Giulia Domna, Filostrato compose anche la Vita di Apollonio di Tyana, in otto libri, biografia del filosofo pitagorico vissuto nel I secolo e divenuto celebre per la sua fama di mago, profeta e taumaturgo. Nonostante la discutibile attendibilità dell’opera, che può essere considerata più che altro un romanzo biografico, essa propone una gradevole lettura per la ricca serie di notizie sulle civiltà orientali e per la scioltezza e la vivacità del racconto.

Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago (dettaglio), Roma. Paris, Musée du Louvre.

Quasi nello stesso periodo, Filostrato redasse L’eroico, un lungo dialogo di impronta platonica, i cui protagonisti sono un vignaiolo greco e un marinaio fenicio, che, per caso, si incontrano su una spiaggia nel Chersoneso tracico: il Greco di ritorno da una visita al tempio dell’eroe Protesilao, il Fenicio in attesa di venti più favorevoli alla navigazione. Il Fenicio, curioso delle usanze elleniche, rivolge numerose domande al suo occasionale interlocutore, il quale risponde con piacere, affabilità e competenza, illustrando i miti di Protesilao, Palamede, Ettore, Achille e altri eroi, attingendo le sue informazioni ai poemi omerici e ciclici, ma modificandole secondo la cultura religiosa del tempo. Questo aspetto costituisce, in effetti, l’elemento di maggiore interesse dell’opera, perché consente di conoscere quali cambiamenti avevano subito nel tempo le leggende eroiche (una è quella degli Eneadi) e come erano state adattate agli usi e alle cerimonie locali.

Interessante è anche il Ginnastico, che fornisce notizie sulle competizioni e sulle specialità sportive del II-III secolo. Di argomento più erudito e vario sono i due libri delle Immagini, una raccolta in prosa che contiene le descrizioni di sessantacinque quadri conservati in una pinacoteca di Napoli. Questo genere letterario, detto “ecfrastico” (da ἔκφρασις, «descrizione»), ha i suoi precedenti nella poesia di Callimaco, di Teocrito, di Eroda e degli epigrammatisti; inoltre, alcuni decenni prima di Filostrato, i retore Nicostrato il Macedone aveva composto, usando per la prima volta la prosa, una raccolta di brevi descrizioni di opere d’arte. Gli studiosi sono stati a lungo incerti sulla reale esistenza dell’antologia di Filostrato, perché nelle scuole di retorica la descrizione fittizia di capolavori dell’arte era un esercizio piuttosto comune; tuttavia, sembra probabile che qui lo scrittore faccia riferimento a quadri realmente esistiti e veduti da lui stesso.

Di Filostrato “il Minore”, figlio di Nerviano e di una figlia del “Maggiore”, si può ricordare una raccolta di diciassette Immagini, assai analoga a quella del nonno, ma molto più ridotta nell’estensione delle singole descrizioni e meno brillante nell’esposizione. Dell’opera di un altro Filostrato, nato intorno al 190, non è rimasto nulla.

Tib. Claudio Erode Attico (forse). Testa, marmo pario, 177-180 d.C. ca.

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