Il fisco a Roma: dalle origini al II secolo d.C.

I cittadini romani non furono sottoposti a un regolare sistema di tassazione sul patrimonio e sulla rendita personale, ma al pagamento di alcune imposte indirette che gravavano sulle merci in vendita e su quelle che transitavano nel circondario dell’Urbe. A partire dall’età regia, sulle derrate in entrata o in uscita dalla res publica fu stabilita una tassa per il transito (portorium) che variava a seconda del tipo di merce; alcuni prodotti di lusso provenienti dall’Oriente, come i tessuti ricamati in oro e le perle, erano gravati da imposte di gran lunga superiori ad altre merci. L’unico reale tributo che lo Stato romano impose in ogni epoca ai suoi cittadini, sulla base del census personale, fu la tassa per sostenere le spese belliche, «a causa della scarsità delle finanze e della frequenza delle guerre» (propter aerarii tenuitatem assiduitatemque bellorum, Cic. off. II 74). Lo storico Livio (I 42-43) informa che tale imposta sarebbe stata istituita già al tempo di re Servio Tullio, «il fondatore di ogni distinzione di classe fra i cittadini» (conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque), quando i Romani furono censiti e suddivisi in cinque classi, «non per testa, come in passato, ma a seconda della condizione finanziaria di ciascuno» (non viritim, ut ante, sed pro habitu pecuniarum), con l’intento di distribuire gli oneri della pace e della guerra tra la popolazione in maniera adeguata all’entità del «reddito» (census) di ognuno. Per esempio, i cittadini appartenenti alla seconda classe dovevano versare una somma di 100.000 assi, mentre quelli della terza 25.000; il censo minimo richiesto era comunque di 11.000 assi. Talvolta, nel caso di un’operazione bellica portata a termine con successo, i Romani potevano recuperare il loro denaro spartendosi fra loro il bottino di guerra e liquidando la propria parte tramite la vendita. Si racconta che tutti i proventi ricavati dalla conquista di Veio (396 a.C.), dopo un lungo e annoso conflitto, finirono nelle mani della popolazione romana accorsa in massa sul campo di battaglia, mentre all’aerarium entrò soltanto il ricavato dalla vendita all’asta dei prigionieri (Liv. IV 59, 11-60, 8). Il tributo bellico continuò a gravare pesantemente sui cittadini romani, divenendo talvolta perfino opprimente (Pol. I 58, 9), e, in seguito, con le costanti guerre di conquista, il conseguente ampliarsi dell’estensione dello Stato, e la necessità di aumentare l’apparato difensivo, in determinate occasioni si fece ricorso all’imposizione di tasse straordinarie.

Tesoretto di Bredon Hill. Radiati, argento, 244-282 d.C. ca. da Bredon Hill (Worcestershire). Worcester City Art Gallery & Museum.

Nel quinto anno della seconda guerra punica (214 a.C.), «poiché mancavano i marinai, i consoli, in seguito a una delibera del Senato, disposero che colui la cui propria sostanza o quella di suo padre fosse dai censori Lucio Emilio e Gaio Flaminio valutata da 50.000 a 100.000 assi, o che in seguito si fosse procurato tale patrimonio fino a 50.000 assi, stipendiasse per sei mesi un marinaio; chi poi avesse un’entrata superiore a 100.000 assi fino a 300.000, ingaggiasse tre marinai con lo stipendio di un anno; chi superava la somma di 300.000 assi fino a 1.000.000, cinque marinai; chi superava il milione, sette marinai; i senatori poi dovevano fornire otto marinai stipendiati per un anno. In virtù di questo decreto furono procurati gli equipaggi armati e riforniti dai loro padroni; essi si imbarcarono con una scorta di vettovaglie per trenta giorni. Allora per la prima volta una flotta fu equipaggiata con marinai pagati e mantenuti con il denaro di privati cittadini» (Liv. XXIV 11, 7-9).

D’altra parte, è pur vero che talvolta si verificarono dei rimborsi sulle imposte esatte, grazie ai ricavati dei bottini di guerra: fu questo il caso di Gneo Manlio Vulsone, che, trionfatore sui Galati nel 187 a.C., riportò dall’Asia ricchezze tali da porre fine all’era dei tributi di guerra (Liv. XXXIX 7, 4-5). D’altra parte, da un accurato esame della documentazione, è stato stimato che la liquidazione dei bottini e le indennità di guerra, dalla guerra annibalica alla terza macedonica, fornirono alla res publica entrate davvero considerevoli, nell’ordine di 250.000.000 di denarii. In particolare, a rendere del tutto superflua l’imposizione del tributum ai cittadini adsidui fu la grandiosità del bottino che Lucio Emilio Paolo conferì al tesoro pubblico a seguito dell’impresa macedonica (Plut. Aem. 38, 1; Plin. NH. XXXIII 56).

Carle Vernet, Trionfo di Emilio Paolo. Olio su tela, 1789. New York, Metropolitan Museum of Art.

Prima delle conquiste di Pompeo Magno in Oriente, le tasse (tributa o vectigalia) corrisposte dalla popolazioni provinciali ammontavano complessivamente a circa 200.000.000 di sesterzi (Plut. Pomp. 45); Cesare stabilì che le tasse per la Gallia fossero pari a 40.000.000 di sesterzi (Suet. Iul. 25, 1). Il documento più importante riguardante l’esazione fiscale nelle province è la terza orazione (de frumento) dell’Actio secunda in Verrem (Cic. Verr. II 3), dove l’avvocato dell’accusa giustifica l’imposizione fiscale come victoriae praemium ac poena belli («prezzo della vittoria e punizione di guerra»). In Sicilia, il compito della riscossione della decuma dei prodotti del suolo, corrisposta dalle città dell’isola, sia foederatae sia immunes, spettava ai cosiddetti decumani. Ogni anno veniva messo all’asta l’appalto delle decumae, dinanzi al pretore, secondo la lex Hieronica, e quindi assegnato agli esattori (Cic. Verr. II 3, 12-15). I decumani, descritti da Cicerone (Cic. Verr. II 3, 76), erano persone modeste, appartenenti al livello più basso dell’ordine dei publicani.

Poiché Roma possedeva solo un ristretto numero di funzionari amministrativi, le varie funzioni pubbliche, come la logistica militare, i grandi progetti edilizi e, infine, la riscossione dei tributi in Asia e in altre province, furono assegnate a singoli cittadini. Nel caso del prelievo fiscale, i publicani, oltre a garantire alla res publica l’ammontare delle imposte determinato da un’asta tenuta davanti ai censori, spesso si permettevano di riscuotere importi supplementari per coprire i propri oneri. Con il tempo, siccome, a causa delle ingenti somme coinvolte, le franchigie non potevano più essere accollate a singoli cittadini, furono create delle societates publicanorum.

A proposito della classificazione tributaria, è noto che, fino all’epoca di Diocleziano (284-305), le imposte dirette (tributa o vectigalia) erano riscosse soltanto nelle province: l’ordinamento fiscale prevedeva l’imposizione di un tributum capitis, un’imposta sugli individui in età lavorativa dai 14 ai 60-65 anni, e la decuma, cioè la corresponsione del 10% delle rendite agricole. Le città che godevano dello ius Italicum o dell’immunitas e i singoli abitanti cui erano stati concessi privilegi personali erano esentati da tali imposte (Dig. 50, 15).

Banco dell’argentarius. Bassorilievo, marmo, c. I-II sec. d.C.

La riscossione delle imposte era motivata dalla dottrina del dominium populi Romani in solo provinciali (cfr. Gai. 2, 7) e si basava sulla dichiarazione del cittadino della propria condizione familiare e dell’ammontare del proprio patrimonio in occasione del censimento, operazione pubblica svoltasi per l’ultima volta sotto Vespasiano (69-79). In seguito, queste mansioni furono demandate ai funzionari imperiali e alle rilevazioni statistiche delle singole province e città. In epoca imperiale, il tributum era abitualmente riscosso dalle comunità locali, che disponevano di mappe catastali (come quella rinvenuta ad Arausio, l’od. Orange) per svolgere tale incombenza. Un’esenzione temporanea dall’imposta poteva essere concessa come aiuto in caso di calamità o come segno di gratitudine per i servizi resi (Tac. Ann. II 47). Quando si prevedeva che il gettito fiscale non fosse sufficiente a colmare le spese pubbliche, le autorità imperiali esigevano delle indictiones, consistenti nell’acquisto obbligatorio da parte dei cittadini di derrate alimentari o altri rifornimenti per gli eserciti e per l’apparato amministrativo: probabilmente questo accadde con una certa frequenza dal II secolo in poi.

Quanto invece alle imposte indirette, le più importanti erano quelle relative alla manomissione (vicesima libertatis, con un’incidenza del 5%), alla vendita dei servi (4%), ai lasciti testamentari (vicesima hereditatum, 5%) e ai ricavati delle aste (centesima rerum venalium, 1%; cfr. Tac. Ann. II 42, 4). Oltre a queste, esistevano anche centinaia di tasse secondarie, alcune di carattere locale, altre a livello provinciale, ma tutte a beneficio della res publica: sul possesso di asini e sulle opere di irrigazione, sulla cera d’api e sull’uso degli archivi, sui servizi di banco e sulle prestazioni delle prostitute. In realtà, le fonti letterarie non ne menzionano quasi nessuna e la maggior parte di esse è attestata solo per l’Egitto (cfr. Suet. Calig. 40). La celebre tassa (centesima venalium), rimproverata da Tito al padre Vespasiano, sull’urina, raccolta nelle latrine pubbliche per essere impiegata dai conciatori e dai tintori (fullones) per i loro processi di lavorazione, è ricordata solo grazie all’aneddoto di Svetonio (Suet. Vesp. 23, 3; cfr. DCass. LXV 14, 5).

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II sec. d.C. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Nei primi secoli del periodo repubblicano il tesoro della città di Roma, che era custodito nel tempio di Saturno (aerarium Saturni), era dunque formato dai proventi derivati dalle praedae belliche, dalle imposte versate dai cittadini per le spese di guerra e dagli introiti delle imposte indirette che gravavano sulle derrate in transito. A ciò si aggiungevano anche le rendite derivate dai beni demaniali, che consistevano essenzialmente in terreni agricoli (ager publicus) o da pascolo, concessi in affitto ai privati dietro corresponsione di un canone (vectigal); alla riscossione delle imposte provvedevano direttamente i funzionari cittadini.

Durante il principato di Augusto, all’antico erario repubblicano fu aggiunta una cassa, detta fiscus, a uso esclusivo del princeps, che poteva esercitare una notevole influenza sulla politica attingendo a queste risorse. In questo deposito erano raccolti i proventi della riscossione tributaria in Aegyptus e tutti gli altri redditi che in precedenza spettavano all’erario. L’erede di Cesare se ne servì per sostenere la distribuzione di terre e il vettovagliamento dei suoi soldati (RGDA 16 ss.). Il fiscus ricevette il suo ordinamento definitivo sotto Claudio. L’imperatore amministrava direttamente i fondi depositati nel fiscus e si occupava di registrare su libri contabili le somme incassate e le spese sostenute; qui, tra l’altro, confluivano anche le sostanze di coloro che erano deceduti senza lasciare eredi (bona vacantia), gli averi dei condannati (bona damnatorum) e i proventi delle multe (Tac. Ann. II 48). Spettava, inoltre, al fiscus anche la metà di quei beni che erano stati rinvenuti casualmente e non appartenevano a nessuno (bona caduca). Intorno al 6 d.C., Augusto istituì un fondo speciale, detto aerarium militare, mediante il quale provvide a corrispondere i compensi ai veterani (RGDA 17; Suet. Aug. 49, 2). La dotazione iniziale dell’erario militare fu prelevata dal patrimonio personale del principe e in seguito fu alimentata dalle imposte indirette, come la vicesima e la centesima rerum venalium.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, III sec. d.C. Luxembourg, Musée Luxembourgeois.

Proprio quest’ultima imposta colpiva soprattutto il popolo, che ne richiese l’abolizione a Tiberio. Tacito (Tac. Ann. I 78) riferisce che l’imperatore rispose di non essere in grado di soddisfare una simile richiesta, perché l’erario militare era rimpinguato esclusivamente grazie a quell’entrata; il pagamento dell’imposta era quindi necessario per mantenere le forze armate a ferma ventennale.

Fu Caligola, particolarmente vicino alla plebe, ad abrogare nel 38 la centesima rerum venalium almeno in Italia (DCass. LIX 9). Al contrario, la vicesima sulle successioni e sulle donazioni, che colpiva soprattutto le classi più abbienti, fu mantenuta e Plinio il Giovane, nel suo Panegyricus dictus Traiano imperatori, la considerò la tassa più gravosa per i cittadini romani (Plin. Pan. 37-41).

Al periodo flavio risale l’istituzione di una tassa particolare, il fiscus Iudaicus, con cui si volevano colpire gli Ebrei sconfitti da Tito, obbligandoli a corrispondere ogni anno due dracme ciascuno (Jos. BJ VII 6, 6). In seguito, considerata parecchio infamante e vergognosa, l’imperatore Nerva decise di abolirla, come dimostrano alcuni sesterzi coniati nel 96/7 (RIC II 58; 82, fisci Iudaici calumnia sublata), sulla base di un preciso programma volto ad alleggerire la pressione fiscale sugli abitanti dell’Impero.

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Severo Alessandro: la fine di una dinastia

Elagabalo, che, divenuto imperatore nel 218, si era autoproclamato figlio naturale di Caracalla, di cui aveva assunto i nomi, si era rivelato un vero fallimento: il giovane imperatore scandalizzava Roma e gli ambienti più conservatori del Senato comportandosi da bardassa anche in pubblico; avevano suscitato maggiore ripulsa e sdegno le grottesche cerimonie religiose che Elagabalo voleva imporre a tutto l’Impero, approfittando della sua posizione al vertice dello Stato per estendere a tutti i popoli l’unico culto del dio Sole di Emesa. Sua nonna, Giulia Mesa, aveva cercato invano di intercedere per lui presso il Senato e il popolo di Roma, ma il giovane, eludendo la linea seguita dall’augusta parente, si era perfino macchiato di blasfemia, prendendo in sposa una vestale (DCass. LXXIX 5, 1 ss.; Herodian. V 6, 1). Alla fine, l’anziana matrona convinse Elagabalo ad adottare come legittimo erede e a nominarlo Caesar l’altro nipote, figlio della figlia Giulia Mamea e del procuratore Gessio Marciano, Gessio Giulio Bassiano Alessiano (Herodian. V 7, 1-3; 8, 3-4; DCass. LXXIX 19, 1-4): la scusa era che una spartizione del fardello imperiale avrebbe consentito a Elagabalo di avere più tempo per dedicarsi al culto solare (SHA Alex. Sev. 1, 2; DCass. LXXVIII 30, 3).

M. Aurelio Antonino Augusto Elagabalo. Busto, marmo, inizi III sec. d.C. ca. Roma, Musei Capitolini.

Alessiano era nato ad Arca Caesarea in Phoenicia (CIL I 255; 274; Herodian. V 7, 4; Aur. Vict. Caes. 24, 1; SHA Alex. Sev. 1, 2) e a Emesa, come suo cugino, aveva esercitato la dignità di sacerdote del dio Sole (El-Gabal). L’adozione e la sua associazione al trono imperiale avvenne nel giugno del 211: Alessiano assunse il nome di Marco Aurelio Alessandro Severo (DCass. LXXIX 17-18). Elagabalo comprese in ritardo il raggiro della nonna e stava per ordinare l’esecuzione del cugino, quando Giulia Mesa e Giulia Mamea pagarono lautamente ai pretoriani l’assassinio di lui e della madre Soemia, il 13 marzo 222 (DCass. LXXIX 19-21; SHA Heliogab. 16, 5-17, 2; SHA Alex. Sev. 1, 1-3).

Giulia Mamea. Dupondio, Roma 228. Æ 10,04 g. Recto: Iulia Mamaea Augusta, busto diademato e drappeggiato dell’imperatrice, voltato a destra.

L’indomani dell’uccisione di Elagabalo, Alessiano ricevette dal Senato i titoli di Augustus, pater patriae e pontifex maximus e assunse ufficialmente il nome di Severo Alessandro, figlio del Divus Magnus Antoninus. Siccome, però, aveva solo tredici anni e un’indole insicura, egli divenne docile strumento di mamma e nonna, la cui politica congiunta consentì loro di tenere insieme Senato ed esercito e a consolidare il potere della dinastia severiana. Per assistere l’augusto figlio negli affari di Stato fu istituito un consilium, di cui si ignora l’effettiva composizione quanto al numero dei membri e alla loro estrazione sociale, ma il potere fu effettivamente esercitato dalle due donne (Herodian. VI 1, 2).

Ad Alessandro è attribuito un gran numero di riforme di tipo istituzionale, amministrativo, economico e tributario. La fonte principale di queste informazioni è la biografia dell’imperatore contenuta nell’Historia Augusta, ma è scarsamente attendibile: se non inventa, l’autore Elio Lampridio distorce e travisa le questioni in modo da rendere davvero difficile comprendere la natura o la portata di tali provvedimenti.

Giulia Mamea. Busto, marmo, III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

In ogni caso, di sicuro resta che il primissimo periodo di governo di Severo Alessandro è dominato dalla figura del grande giurista Domizio Ulpiano, al quale erano stati delegati diversi incarichi pubblici in precedenza. Stimatissimo dal giovane imperatore, a questo giureconsulto spetta l’indubbio merito di aver compilato, divulgato e pubblicato opere di insigni predecessori; di lui, in particolare, restano due imponenti compilazioni: gli oltre ottanta libri sugli editti pretori e i cinquanta libri di commentarii ad Sabinum. Divenuto praefectus praetorio nel 222 per volontà di Giulia Mesa (Cod. Iust. IV 65, 4, 1), Ulpiano non ebbe però il sostegno dei militari, che lo assassinarono l’anno successivo (DCass. LXXX 1, 1-2,2; P. Oxy. 2565). In seguito, nel 226, sarebbe venuta a mancare anche Giulia Mesa, la figura più importante per la stabilità dinastica: la figlia Giulia Mamea, madre dell’imperatore, ne ereditò in parte la funzione, non certo le capacità (cfr. Herodian. V 8, 10; VI 1, 1-10; SHA Alex. Sev. 14, 7; 26, 9; 60, 2).

Nel frattempo, problemi esterni di ordine geopolitico contribuivano ad accelerare la crisi in cui da tempo allignava l’Impero romano: in Oriente, nel cuore del Regno dei Parti, negli stessi anni (224-228), la casata degli Arsacidi veniva rovesciata dalla ribellione di un feudatario iranico, Ardašīr. Costui si proclamò “Re dei Re” e, assunto il potere, diede inizio alla dinastia dei Sassanidi. Il nuovo sovrano impresse al dominio persiano un’impronta fortemente accentratrice ed espansionistica.

Ardaxšīr I. Dracma, Hamadan 224-238. AR 4,23 g. Recto: busto del sovrano voltato a destra, diademato e indossante il korymbos.

Si trattò di un cambiamento epocale: la frantumata compagine orientale si andava consolidando sotto un potere centrale forte e aggressivo. Forse, in un periodo meno caotico e convulso, il mondo romano avrebbe potuto comprendere il pericolo e correre ai ripari. Nel 230, consolidato il suo potere, Ardašīr mosse alla testa dei suoi eserciti e attaccò prima il Regno d’Armenia, quindi invase le province romane di Mesopotamia e Syria, superando la frontiera sull’Eufrate. Le autorità imperiali furono colte del tutto impreparate: ci volle quasi un anno intero per organizzare una controffensiva e recuperare i territori occupati dai Persiani.

Severo Alessandro e sua madre mossero contro il nemico nel 231 (Herodian. VI 4): una battaglia sull’Eufrate agli inizi dell’anno seguente consentì ai Romani di ricacciare i Sassanidi entro i loro confini (Herodian. VI 5-7). L’esito della spedizione orientale fu, però, piuttosto modesto: l’imperatore, in realtà, aveva trascorso gran parte della campagna nel quartiere generale di Antiochia; come generale, del resto, non fu granché apprezzato dai quadri dell’esercito, perché si era rivelato troppo giovane e indeciso, troppo debole. Ciononostante, l’intervento militare aveva riportato le province occupate sotto il controllo romano e il giovane imperatore si era potuto fregiare del titolo di Persicus Maximus.

Legionario degli eserciti di epoca severiana. Illustrazione in Mattesini (2006).

Mentre era impegnato in Oriente, Severo Alessandro fu raggiunto da notizie ancora più inquietanti dall’altro confine vulnerabile dell’Impero: gli Alamanni, i Marcomanni e i Franchi stavano rinnovando la loro pressione sulla frontiera renano-danubiana. Ancora una volta Alessandro diede prova di tentennamenti e scarsa iniziativa, ancora una volta i tempi per organizzare una spedizione furono lenti e macchinosi. La propaganda ufficiale trasmette notizie di ingenti preparativi militari, ma è possibile che i ritardi fossero in realtà volti a cercare una via d’uscita diplomatica. Tra le legioni, comunque, serpeggiava il malumore: la politica filo-senatoria perseguita anche da Giulia Mamea aveva destato non poche inquietudini presso i militari, mentre lo stesso Alessandro aveva bruciato in poco tempo l’immenso patrimonio di consenso e fiducia dell’esercito, legato a una dinastia che aveva fondato il suo potere proprio sulla fedeltà e la dedizione dei soldati. Nella crisi generale le forze armate romane si strinsero attorno a un “uomo forte”, Giulio Vero Massimino, un ufficiale di origine tracia.

Il 19 marzo 235 un ammutinamento delle legioni sul Regno, a Mogontiacum (od. Mainz), depose Severo Alessandro e innalzò alla porpora Massimino Trace. Il giovane imperatore e sua madre poco dopo furono eliminati (Herodian. VI 9, 7; SHA Alex. Sev. 59, 6).

M. Aurelio Antonino Augusto Severo Alessandro. Busto, bronzo, 222-235 d.C. Dion, Αρχαιολογικό Μουσείο.

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Tabula Claudiana

Senatus consultum Claudianum de iure honorum Gallis dando, a. 48 (oratio Claudii)

CIL XIII 1668 = ILS 212 = FIRA I², 43 = Freis 34 = CAG 69, 02 (p. 304) = AE 1955, 115 = AE 1975, 612 = AE 1983, 693 = AE 2003, +41.

La generosità con la quale Claudio concesse la civitas Romana ad alcune comunità provinciali non dev’essere confusa con un’eccessiva benevolenza né con il desiderio di applicare tale provvedimento in maniera indiscriminata. Al contrario, le fonti (Suet. Claud. 25, 3; DCass. LX 17, 5) riportano chiaramente che il principe fece giustiziare quanti avessero usurpato tale beneficio. Invece, quando Seneca (Apocol. 3) accusa l’imperatore di volere Greci, Ispanici e Britanni tutti in vesti romane, è probabile che dietro gli strali sarcastici dell’autore si celino i malumori dell’ordine senatorio, che mal tollerava l’accesso dei provinciali alla vita pubblica dello Stato. Claudio, in realtà, era disposto a fare delle aperture verso le classi dirigenti dei popoli già romanizzati da tempo. A tal proposito verte proprio il documento epigrafico forse più noto e significativo del principato di Claudio: si tratta dell’orazione pronunciata dall’imperatore in persona nel 48 di fronte all’alto consesso (ILS 212), la cosiddetta Tabula Claudiana o Lugdunensis, venuta alla luce a Lione nel 1528 fra i resti dell’altare dedicato al culto imperiale. Del contenuto inciso sul bronzo anche Tacito conserva un ampio estratto (Tac. Ann. XI 23-24). Il discorso di Claudio riguarda lo scottante problema dell’ammissione alla carriera senatoria dei maggiorenti della Gallia Comata, argomento intorno al quale si ebbe un aspro confronto nella Curia. Di fronte all’opposizione di buona parte dei patres conscripti, che manifestava un netto rifiuto, il principe invocò le ragioni della storia patria e della dialettica che fino ad allora l’aveva guidata: richiamando tutta una serie di precedenti, risalendo fino alle origini dell’Urbe, Claudio intese dimostrare che caratteristica peculiare del popolo romano era stata l’accoglienza di elementi esterni e che il contributo del novum avesse sempre portato la città a imporre la propria egemonia sul mondo. Claudio, armatosi di tutta la sua dottrina e della sua proverbiale pedanteria, sfidò la pazienza degli astanti. Alla fine, soltanto agli Aedui, popolazione che da lungo tempo era stata legata a Roma, fu concesso di essere i primi tra i Galli a sedere in Senato.

Tiberio Claudio Germanico Augusto in trono. Statua, marmo, I sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

col. I

…[sum]|mae rerum no[straru]m sit u[tile]… | Equidem primam omnium illam cogitationem hominum, quam | maxime primam occursuram mihi prouideo, deprecor, ne | quasi nouam istam rem introduci exhorrescatis, sed illa | potius cogitetis, quam multa in hac ciuitate nouata sint, et | quidem statim ab origine urbis nostrae, in quod formas | statusque res p(ublica) nostra diducta sit. | Quondam reges hanc tenuere urbem, nec tamen domesticis succes|soribus eam tradere contigit. Superuenere alieni et quidam exter|ni, ut Numa Romulo successerit ex Sabinis ueniens, uicinus qui|dem, sed tunc externus; ut Anco Marcio Priscus Tarquinius. [Is] | propter temeratum sanguinem, quod patre Demaratho C[o]|rinthio natus erat et Tarquiniensi matre generosa, sed inopi, | ut quae tali marito necesse habuerit succumbere, cum domi re|pelleretur a gerendis honoribus, postquam Romam migrauit, | regnum adeptus est. Huic quoque et filio nepotiue eius, nam et | hoc inter auctores discrepat, insertus Seruius Tullius, si nostros | sequimur, captiua natus Ocresia; si Tuscos, Caeli quondam Vi|uennae sodalis fidelissimus omnisque eius casus comes, post|quam uaria fortuna exactus cum omnibus reliquis Caeliani | exercitus Etruria excessit, montem Caelium occupauit et a duce suo | Caelio ita appellitatus, mutatoque nomine, nam Tusce Mastarna | ei nomen erat, ita appellatus est, ut dixi, et regnum summa cum rei | p(ublicae) utilitate optinuit. Deinde, postquam Tarquini Superbi mores in|uisi ciuitati nostrae esse coeperunt, qua ipsius qua filiorum ei[us], | nempe pertaesum est mentes regni, et ad consules, annuos magis|tratus, administratio rei p(ublicae) translata est. | Quid nunc commemorem dictaturae hoc ipso consulari impe|rium ualentius, repertum apud maiores nostros, quo in a[s]|perioribus bellis aut in ciuili motu difficiliore uterentu[r]? | Aut in auxilium plebis creatos tribunos plebei? Quid a consu|libus ad decemuiros translatum imperium, solutoque postea | decemuirali regno ad consules rusus reditum? Quid in [pl]u|ris distributum consulare imperium tribunosque mil[itu]m | consulari imperio appellatos, qui seni et saepe octoni crearen|tur? Quid communicatos postremo cum plebe honores non imperi(i) | solum sed sacerdotiorum quoque? Iam si narrem bella, a quibus | coeperint maiores nostri, et quo processerimus, uereor, ne nimio | insolentior esse uidear et quaesisse iactationem gloriae pro|lati imperi ultra Oceanum. Sed illoc potius reuertar. Ciuitatem | […

col. II

…p]otest sane | nouo m[ore] et diuus Aug[ustus au]onc[ulus] meus et patruus Ti(berius) | Caesar omnem florem ubique coloniarum ac municipiorum bo|norum scilicet uirorum et locupletium, in hac curia esse uoluit. | Quid ergo? Non Italicus senator prouinciali potior est? Iam | uobis cum hanc partem censurae meae adprobare coepero, quid | de ea re sentiam, rebus ostendam. Sed ne prouinciales quidem, | si modo ornare curiam poterint, reiciendos puto. | Ornatissima ecce colonia ualentissimaque Viennensium quam | longo iam tempore senatores huic curiae confert! Ex qua colo|nia inter paucos equestris ordinis ornamentum, L(ucium) Vestinum, fa|miliarissime diligo et hodieque in rebus meis detineo; cuius libe|ri fruantur, quaeso, primo sacerdotiorum gradu, postmodo cum | annis promoturi dignitatis suae incrementa. Ut dirum nomen la|tronis taceam, et odi illud palaestricum prodigium, quod ante in do|mum consulatum intulit, quam colonia sua solidum ciuitatis Roma|nae benificium consecuta est. Idem de fratre eius possum dicere, | miserabili quidem indignissimoque hoc casu, ut uobis utilis | senator esse non possit. | Tempus est iam, Ti(beri) Caesar Germanice, detegere te patribus conscriptis, | quo tendat oratio tua: iam enim ad extremos fines Galliae Nar|bonensis uenisti. | Tot ecce insignes iuuenes, quot intueor, non magis sunt paenitendi | senatores, quam paenitet Persicum, nobilissimum uirum, ami|cum meum, inter imagines maiorum suorum Allobrogici no|men legere. Quod si haec ita esse consentitis, quid ultra desidera|tis, quam ut uobis digito demonstrem solum ipsum ultra fines | prouinciae Narbonensis iam uobis senatores mittere, quando | ex Luguduno habere nos nostri ordinis uiros non paenitet? | Timide quidem, p(atres) c(onscripti), egressus adsuetos familiaresque uobis pro|uinciarum terminos sum; sed destricte iam Comatae Galliae | causa agenda est. In qua si quis hoc intuetur, quod bello per de|cem annos exercuerunt Diuom Iulium, idem opponat centum | annorum immobilem fidem obsequiumque multis trepidis re|bus nostris plus quam expertum. Illi patri meo Druso Germaniam | subigenti tutam quiete sua securamque a tergo pacem praes|titerunt, et quidem cum ad census nouo tum opere et inadsue|to Gallis ad bellum auocatus esset. Quod opus quam ar|duum sit nobis, nunc cum maxime, quamuis nihil ultra, quam | ut publice notae sint facultates nostrae, exquiratur, nimis | magno experimento cognoscimus.

Tabula Claudiana (SC Claudianum de iure honorum Gallis dando). Iscrizione su tabula, bronzo, 48 d.C. (ILS 212), da Lyon, Croix-Rousse. Lyon, Musée Gallo-Romain.

(traduzione)

…Sia utile alla totalità dei nostri interessi… Quanto a me, prevedo che quella considerazione degli uomini che soprattutto per prima mi verrà obiettata, vi prego di non inorridire che questa riforma, per così dire inusuale, venga introdotta, ma che piuttosto pensiate a quante cose siano state innovate in questa cittadinanza e in quanti modi ideali e in quante forme di governo si sia dispiegata la nostra res publica fin dalle origini della città. Un tempo i re ressero questa città, e tuttavia non capitò mai che la trasmettessero ad un successore appartenente alla stessa casata. Sopraggiunsero estranei ed alcuni perfino stranieri. Di modo che a Romolo successe Numa che veniva dalla Sabina, un vicino, mi direte: certamente, ma all’epoca uno straniero; e così ad Anco Marcio successe Tarquinio Prisco. Costui era ostacolato dal suo sangue misto, poiché era nato da padre corinzio, Demarato, e da madre tarquiniese, sì, e anche di nobili natali, ma ridotta in povertà al punto da avere la necessità di soggiacere a siffatto sposo: essendo perciò escluso in patria dal concorso alle cariche pubbliche, quando poi si trasferì a Roma, ne ottenne il regno. Anche fra lui e il figlio, o il nipote – infatti su questo punto non c’è accordo fra gli storici – si inserì Servio Tullio. Costui, se ci attendiamo alle nostre fonti, sarebbe nato da una prigioniera di guerra, Ocresia, mentre, se seguiamo quella etrusche, sarebbe stato un tempo il più fedele amico di Celio Vivenna, e compagno d’ogni sua avventura. Egli, dopo aver vissuto alterne vicende ed essere uscito dall’Etruria coi resti dell’armata di Celio, occupò il monte Celio, che chiamò così in onore del suo comandante, e mutato il proprio nome – infatti in etrusco il suo nome era Mastarna – ottenne il regno con enorme profitto per la res publica. In seguito, dunque, l’atteggiamento di Tarquinio Superbo iniziò ad essere inviso alla nostra comunità, tanto il suo quanto quello dei suoi figli, di conseguenza l’idea di un regno fu aborrita, e l’amministrazione della res publica venne affidata ai consoli, magistrati annuali. Dovrei ricordare ora l’imperium della dittatura, più efficace di questo proprio dei consoli, che fu escogitato dai nostri antenati per essere impiegato nei conflitti più dolorosi o nelle agitazioni politiche più gravi? Oppure i tribuni della plebe, istituiti a favore della plebe? Che imperium è stato trasferito dai consoli ai decemviri e, una volta abolito il dispotismo decemvirale, ritornò di nuovo in mano ai consoli? Che imperium consolare distribuito a più individui e i tribuni militari nominati consulari imperio, che sono stati eletti sei, e spesso otto, alla volta? Che onori infine estesi alla plebe, non solo di imperium ma anche dei sacerdozi? Se io già narrassi le guerre, dalle quali avrebbero iniziato i nostri antenati e fino a che punto siamo arrivati, temo di sembrare un po’ troppo orgoglioso e di dimostrare di vantare la gloria di un imperium esteso oltre l’Oceano. Ma piuttosto tornerò al mio argomento…

col. II

Senza dubbio fu per un’innovazione che il mio prozio materno, il Divo Augusto, e il mio zio materno, Tiberio Cesare, vollero che in questa curia ci fosse il fior fiore da ogni colonia e municipio, purché si trattasse di gentiluomini e di ricchi. E che dunque? Non è migliore un senatore di origine italica di uno provinciale? Quando inizierò a dar prova di questa parte della mia attività di censore, allora vi mostrerò con i fatti quale sia la mia opinione a proposito. Ma ritengo che non si debbano certo rifiutare i provinciali, purché possano far onore alla curia. Ecco l’onorevolissima e potentissima colonia dei Viennenses, che da molto tempo ormai apporta senatori a questa curia! Tra i pochi di questa colonia sono particolarmente legato a Lucio Vestino, onore dell’ordine equestre, e ancor oggi lo tengo occupato a sbrigare i miei affari; prego che i figli di costui godano del primo grado delle cariche sacerdotali, affinché in seguito, con gli anni, implementino la promozione della propria posizione sociale. Per quanto io taccia il nome funesto del brigante, odio quel mostro palestrato, poiché introdusse nella sua casa il consolato prima che la sua colonia ottenesse il beneficio duraturo della cittadinanza romana. Lo stesso posso dire di suo fratello, miserabile e assolutamente indegno di questa sorte, da non poter essere per voi un utile senatore. È ormai tempo, Tiberio Cesare Germanico, che tu chiarisca ai senatori dove vada a parare il tuo discorso; infatti, ormai sei arrivato ai confini estremi della Gallia Narbonensis! Tutti questi illustri giovanotti che vedo qui dinanzi a me, non dobbiamo essere scontenti che siano senatori quanto il mio amico Persico, uomo di altissimo lignaggio, si dispiaccia di leggere il soprannome Allobrogico fra i ritratti dei suoi antenati. E se convenite che queste cose stanno così, che cosa desiderate di più se non che io vi indichi che proprio il territorio al di là dei confini della provincia Narbonensis vi invia ormai senatori, dal momento che non è vergognoso che noi disponiamo di uomini del nostro ordine provenienti da Lugdunum? Non senza cautele, o padri coscritti, mi sono avventurato al di là dei confini provinciali a voi consueti e familiari; ma ormai devo apertamente perorare la causa della Gallia Comata. A proposito della quale, se qualcuno considera attentamente il fatto che (i Galli) per dieci anni tennero occupato con la guerra il Divo Giulio, parimenti deve considerare i cento anni di incrollabile fedeltà e l’obbedienza più che sperimentate in tante nostre crisi di governo. Essi offrirono a mio padre Druso, mentre sottometteva la Germania, con la loro tranquillità, una pace salda e sicura alle spalle di mio padre Druso, e questo benché egli fosse stato richiamato alla guerra mentre stava organizzando il censo, operazione nuova e inconsueta per i Galli. Quanto sia difficile questa operazione, ora soprattutto, benché a null’altro sia diretta se non a far conoscere pubblicamente le nostre risorse finanziarie, l’abbiamo appreso fin troppo bene con grande impegno.

Tiberio Claudio Germanico Augusto in nudità eroica. Dettaglio della testa. Statua, marmo, c. 40. Paris, Musée du Louvre.

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I processi nell’antica Roma

I processi, allora come oggi, potevano essere di natura civile o penale. Nel primo caso si trattava di controversie che coinvolgevano cittadini privati, perciò rientravano nella categoria degli iudicia privata, e la riparazione per un torto inflitto (delictum) consisteva in una sanzione pecuniaria (multa). Nei processi penali, invece, erano presi in esame reati (crimina) che colpivano l’interesse pubblico – afferivano, quindi, agli iudicia publica – e le pene previste potevano essere anche molto severe.

Le istruttorie si svolgevano in genere nel Foro (in caso di maltempo, all’interno delle aule delle basilicae). La giustizia a Roma era amministrata dai praetores: il praetor urbanus presiedeva le cause riguardanti i cittadini romani, mentre il praetor peregrinus le contese tra Romani e forestieri. Nelle province l’amministrazione dei processi penali era affidata agli stessi promagistrati, coadiuvati da un consilium formato da cittadini romani; nella cause civili, il governatore, non gestiva direttamente le udienze, ma aveva facoltà di nominare di volta in volta, a suo arbitrio, i giudici della controversia.

A Roma per il processo penale furono istituiti, probabilmente a partire dal II secolo a.C., dei tribunali permanenti (detti quaestiones perpetuae), presieduti da senatori (o da esponenti dell’ordine equestre), istruttorie che avevano ciascuna un diverso ambito di pertinenza. Tra i principali capi d’accusa, o almeno tra i più frequenti, si possono citare: crimen maiestatis (lesa maestà nei confronti del popolo romano); crimen perduellionis (alto tradimento); ambitus (brogli elettorali); peculatus (sottrazione indebita di denaro pubblico); crimen de falso (frode o falsificazione); parricidium (uccisione del padre, di un parente, di un pari); pecuniae repetundae (lett. “denaro che dev’essere reclamato” da alleati e sudditi di Roma, dopo che è stato sottratto abusivamente e con estorsione dal promagistrato di una provincia); sacrilegium (furto sacrilego a danno di un tempio o di un culto); crimen de sicariis et veneficis (omicidio e avvelenamento); crimen de vi publica et privata (violenza pubblica o privata); crimen iniuriarum (reato di diffamazione); crimen de civitate (appropriazione illecita del diritto di cittadinanza).

M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

Nel sistema giuridico repubblicano non esistevano magistrati professionisti, né giudici o avvocati, né pubblici ministeri; non esisteva neppure il procedimento d’ufficio, con cui oggi l’autorità giudiziaria è in alcuni casi tenuta a perseguire il colpevole per il semplice fatto di aver ricevuto notizia del crimine. La presidenza delle quaestiones perpetuae era, appunto, affidata a un praetor, vale a dire un uomo politico, eletto dal popolo nei comitia e investito della iurisdictio necessaria ad amministrare la giustizia. Parimenti, le giurie erano formate solo da “giudici popolari”.

Le fasi preliminari di un processo (iniure) iniziavano con una querela di parte e lo stesso querelante (actor), che nei processi penali rappresentava l’interesse pubblico, sosteneva direttamente l’accusa. Per procedere contro un cittadino l’accusatore presentava un’istanza (postulatio) al magistrato; questi effettuava tutti gli accertamenti del caso, verificando l’onorabilità del postulante, ascoltava le due parti in causa e decideva di respingere la denuncia oppure di procedere. In quest’ultimo caso, aveva luogo la formale presentazione dell’accusa, solitamente sottoscritta anche da amici e collaboratori dell’accusatore: da quel momento, egli assumeva la funzione di “pubblico ministero”, con poteri d’indagine ai fini del giudizio.

Se più persone muovevano la medesima accusa contro il medesimo imputato, si ricorreva alla divinatio: il magistrato doveva “indovinare”, ascoltando le argomentazioni dei potenziali accusatori, chi avesse i requisiti (affidabilità, onestà, competenza) per svolgere al meglio il delicato ruolo di actor. Con l’accettazione dell’accusa da parte del magistrato, si iscriveva il nome dell’accusato nel ruolo dei giudicabili, precisando il procedimento (actio) da effettuare.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Si stabiliva la data del dibattimento (il vero e proprio iudicium), garantendo a chi sosteneva l’accusa un periodo utile per svolgere le necessarie indagini. Nella causa contro Gaio Verre, nel 70 a.C., per esempio, Cicerone chiese e ottenne 110 giorni per recarsi in Sicilia per le sue indagini. La legge forniva all’actor l’autorità per imporre a chiunque l’esibizione di documenti, effettuare perquisizioni domiciliari, assicurarsi la comparsa dei testimoni. D’altra parte, l’accusatore era tenuto a svolgere con serietà il suo incarico: un’accusa falsa o infondata era considerata un’offesa all’amministrazione giudiziaria; la pena era l’impressione a fuoco di una C (= calumniator) sulla fronte. Inoltre, lo scarso zelo dell’accusatore nell’esplicazione delle proprie incombenze era punibile con la perdita della civica onorabilità (infamia).

Quanto all’imputato, rendeva manifesta la propria condizione di reus portando fino alla fine dell’istruttoria un abito dimesso (se non vestendo addirittura a lutto); inoltre, subiva alcune limitazioni ai diritti civili: non poteva candidarsi per alcuna carica politica né poteva in alcun processo assumere il ruolo di accusatore. Prima dello svolgimento del processo, alla presenza delle parti in causa, si procedeva alla costituzione della giuria mediante sorteggio, dando facoltà all’accusa e alla difesa di respingere le persone che non fossero di loro gradimento.

Nel giorno fissato per lo svolgimento del processo, accusatore e accusato erano chiamati (citati) a intervenire nella sede del giudizio. Aveva quindi inizio il dibattimento, con l’actor che pronunciava un discorso d’accusa che non doveva essere interrotto (oratio perpetua), cui potevano seguire le orazioni di altri cittadini che si erano uniti all’actor al momento della formalizzazione dell’accusa, in qualità di subscriptores. Veniva poi la replica del reus o, più spesso, dei suoi difensori. Queste figure erano distinte in tre categorie: i patroni, cioè quanti supportavano l’imputato con le arringhe in suo favore, contando sul proprio prestigio personale, sulla competenza giuridica e sull’abilità oratoria; gli advocati, personaggi particolarmente influenti, che, pur senza prendere direttamente la parola, comparivano in tribunale a fianco dell’accusato allo scopo di condizionare i giudici con la propria autorevole e tacita presenza; i laudatores, cioè coloro ai quali spettavano brevi discorsi in elogio dell’imputato, a prescindere dall’argomento del processo. Ciò era ammesso, perché nel mondo romano non si giudicava un reus solo sulla scorta dei capi d’accusa, ma si formulava nei suoi confronti un giudizio complessivo; di conseguenza, il fatto di aver precedentemente agito per il bene dello Stato, di godere di buona fama e di poter esibire amicizie importanti (gli advocati) poteva esercitare una notevole influenza sulla giuria e, naturalmente, sul verdetto stesso (anche in presenza di crimini manifesti!).

Un oratore che parla in un’aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec. d.C. dal tempio di Ercole. Ostia, Museo Archeologico.

I discorsi di accusa e di difesa potevano protrarsi per diverse ore, entro un tempo fissato in precedenza dal presidente del tribunale. Eccezionalmente, per abbreviare i tempi, l’actor aveva facoltà di rinunciare all’oratio perpetua, per passare direttamente all’interrogatorio (excussio) dei testimoni, costringendo in questo modo anche l’avversario a passare direttamente alla fase successiva.

Dopo le orationes dell’accusa e della difesa iniziava l’altercatio, un dibattito con brevi domande e risposte per chiarire singoli punti. Si passava, quindi, all’esame delle prove (probatio). Accusa e difesa sostenevano i rispettivi assunti, affidandosi soprattutto alle presunzioni logiche (argumenta), che emergevano da fatti accertati e acclarati, e alle dichiarazioni dei testes, i quali, vincolati da giuramento, erano interrogati dalle due parti.

Erano considerati meno probanti, ma comunque utili, anche i documenti scritti, che talvolta però potevano essere sospettati di alterazioni, e le dichiarazioni che non si riferivano direttamente all’oggetto del processo, ma che riguardavano comunque la moralità dell’accusato. Ovviamente, era fondamentale l’autorevolezza comprovata di chi si spendeva a favore dell’imputato e l’attendibilità dei testimoni era strettamente legata alla loro condizione sociale: spettava ai giudici valutare caso per caso il peso da attribuire alle testimonianze di stranieri, donne e impuberi. Concluso il dibattimento, la corte passava a emettere la sentenza (sententia): ciascun giurato inseriva in un’urna una tabula cerata recante la lettera A (= absolvo) o la lettera C (= condemno) 𝐶, oppure ancora la sigla NL (= non liquet), «non risulta chiaro» (per cui si indicava la necessità di un supplemento d’indagine). Alla fine, il presidente del tribunale, ordinato lo spoglio dei voti, dichiarava l’esito dello scrutinio: la sententia si limitava all’affermazione della colpevolezza o dell’innocenza dell’accusato, mentre la poena era determinata in misura fissa dalla legge e non poteva essere modificata dai giudici in relazione alla gravità del reato commesso. Per certi illeciti (come il peculato o la concussione), alla causa principale seguiva un giudizio accessorio per fissare l’entità del risarcimento dovuto dal condannato.

Il diritto di famiglia in età repubblicana: la 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢𝘴 e l’istituto dell’adozione

In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.

 Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.

Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).

L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.

Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).

Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre

Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).

Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).

Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.

Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.

Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).

Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.

Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.

Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.

Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.

L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.

L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.

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Bibliografia:

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G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.

P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.