Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.