Il 𝐶ℎ𝑟𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜𝑛 di Marcellino Comes

Nel 519 a Costantinopoli, alla morte dell’imperatore Anastasio, un certo Marcellino completò la prima redazione della sua cronaca. L’opera si prefiggeva di continuare la narrazione dei fatti storici, riprendendo dal punto in cui si erano interrotti gli analoghi lavori di Eusebio di Cesarea e di Girolamo; il suo racconto, però, in questa prima versione, era condotto attraverso un’ottica pro-illirica, schierata a favore dell’ortodossia e fortemente polemica verso l’imperatore appena scomparso. Ma chi era Marcellino, noto come Marcellinus Comes o Μαρκελλίνος ό Κόμης? Ora, ben pochi sono stati gli studiosi a esercitarsi sulla figura e sull’opera di questo autore vissuto a cavallo tra V e VI secolo e altrettanto scarse sono le informazioni sulla sua biografia: i dati disponibili sono ricavabili dai riferimenti sparsi nel suo Chronicon (soprattutto nella prefazione) e dalla testimonianza delle Institutiones di Cassiodoro. Lo si dice Illyricianus: si è supposto che Marcellino fosse originario della regione compresa tra la Dacia ripensis e la Moesia superior, un’area corrispondente all’od. Macedonia. È probabile che abbia iniziato la sua carriera come militare verso la fine del V secolo, magari nelle campagne di Anastasio contro Unni e Bulgari. E, benché la sua scrittura tradisca l’influsso delle contemporanee scuole di retorica, non è chiaro se abbia ricevuto un’educazione classica e teologica. A ogni modo, dopo il 519 egli sarebbe entrato al servizio del patricius Giustiniano in qualità di segretario personale (cancellarius) fino al 527, quando quello divenne imperatore. A tal proposito, nel suo capitolo dedicato agli storici cristiani, Cassiodoro (Inst. I 17, 2) spiega: Chronica vero, quae sunt imagines historiarum brevissimaeque temporum commemorationes, scripsit Graece Eusebius, quem transtulit Hieronymus in Latinum, et usque ad tempora sua deduxit eximie. hunc subsecutus est suprascriptus Marcellinus Illyricianus, qui adhuc patricii Iustiniani fertur egisse cancellos, sed meliore conditione devotus a tempore Theodosii principis usque ad fores imperii triumphalis Augusti Iustiniani opus suum Domino iuvante perduxit, ut qui ante fuit in obsequio suscepto gratus, postea ipsius imperio copiose amantissimus appareret («Eusebio ha scritto in greco cronache che sono immagini di storia e brevissime memorie dei tempi; le ha tradotte in latino Girolamo, il quale le ha continuate fino ai suoi giorni in maniera eccellente. L’ha seguito il suddetto Marcellino l’Illirico, che si dice essere stato in precedenza segretario del patrizio Giustiniano: con l’aiuto del Signore, dopo il miglioramento civile del suo padrone, egli ha proseguito l’opera dal tempo dell’imperatore Teodosio fino all’inizio del governo dell’Augusto Giustiniano, affinché colui che era stato prima gradito nel servizio del suo padrone si mostrasse poi fervidissimo durante l’impero di questi»; tr. it. Donnini 2001). La cronografia di Marcellino, dunque, vanta il primato di essere la prima continuazione delle narrazioni di Eusebio e di Girolamo, compilata a Costantinopoli e scritta dal punto di vista dell’Oriente romano, e di registrare avvenimenti fondamentali ben oltre il V secolo: ciò, oltre alla prestigiosa raccomandazione cassiodorea (ibid. 1), spiega il discreto successo dell’opera. È noto poi che se ne ebbe una seconda redazione entro il 534, nella quale l’esposizione dei fatti si colloca in un orizzonte politico del tutto nuovo: vi è posta al centro la figura di Giustiniano, di cui si lodano le imprese e gli atti di governo; l’atteggiamento dello scrittore è di gratitudine e celebrazione panegiristica; il testo è in gran parte assorbito dalla propaganda imperiale e culmina nel trionfo per la riconquista dell’Africa.

Oxford, Bodleian Library. Codex Oxoniensis Bodleianus Lat. auct. T II 26 (c. VII secolo), Marcellini v.c. comitis Chronicon, tab. I [Mommsen 1894, ].

Uno dei passi meglio noti della cronaca riguarda l’anno 476 (Chron. Marcell. 11, 91): Odoacer rex Gothorum Romam optinuit. Orestem Odoacer ilico trucidavit. Augustulum filium Orestis Odoacer in Lucullano Campaniae castello eum poena damnavit. Hesperium Romanae gentis imperium, quod septmgentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, Qum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo vigesimo secundo, Gothorum debiue regibus Romam tenentibus («Odoacre, re dei Goti, si impadronì di Roma ed assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 della fondazione di Roma, perì con questo Augustolo cinquecentoventidue anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare, e da allora i re Goti furono padroni di Roma»; tr. it. Gasparri-Di Salvo-Simoni 1992 []). Marcellino è il primo autore conosciuto ad affermare che la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre sancì la fine dell’Impero romano d’Occidente: come si vede, l’esposizione è asciutta e si limita alla nuda sequenza dei fatti senza aggiungere alcun commento.

Flavio Romolo Augusto. Solidus, Roma 31 ottobre 475-4 settembre 476. AV 4,41 g. Recto: D(ominus) N(oster) Romulus Augustus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto affrontato, elmato, diademato di perle e corazzato dell’imperatore, con lancia e scudo.

Oltre all’aggiornamento del Chronicon, dopo il 527 non è chiaro che cosa Marcellino abbia fatto. Sono state avanzate delle ipotesi: è possibile che egli sia stato ammesso nel Senato di Costantinopoli, come confermerebbero i titoli di cui si fregia nella prefazione (ego vero vir clarissimus Marcellinus comes); oppure è probabile che, seguendo la parabole di molti funzionari del tempo, nei suoi ultimi anni egli abbia abbracciato la vita monastica. Della sua scomparsa non si hanno notizie precise, dato che se ne perdono le tracce dopo il 534.

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Il Partenio per Astimelusa (Alcman. F 3 Davies)

di F. FERRARI et al., Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Per il Liceo classico. Con espansione online – vol.1. Ionia ed età arcaica, Bologna 2012, 454-458.

Trasmesso da un papiro degli inizi del II secolo d.C. pubblicato da Edgar Lobel nel 1957, anche questo componimento, come il precedente Partenio del Louvre, è legato a una situazione cultuale: fa dunque parte di un’ “azione” di omaggio e di lode nei confronti di una divinità, e a sua volta quest’azione appare inserita nel panorama di una festa che prima e dopo il canto comprendeva altri momenti, altre stazioni di un percorso rituale che poteva durare più ore o più giorni. Da quanto ci resta, non possiamo accertare di quale festa precisamente si trattasse, ma è verosimile che il termine ἀγῶνα al v. 8 sia da interpretare nel senso di una competizione fra due o più gruppi corali. In tal caso il nome della divinità cui l’agone e la festa erano dedicati doveva trovarsi nella lacuna a principio del medesimo verso. Non è più che un’ipotesi che questo nome fosse Ἄνθεια, l’epiteto con cui sappiamo che Hera era venerata ad Argo (cfr. Paus. II 22, 1) e a Mileto, ma la presenza al v. 65 del termine πυλεών («corona») associa alla notizia del lessicografo Panfilo (in Athen. XV 678a), secondo il quale era così designata la corona con cui i Laconi erano soliti ornare la statua di Hera, e a un frammento di Alcmane in cui il coro invoca la divinità mentre le offre appunto un πυλεών (F 60 Davies, καὶ τὶν εὔχομαι φέροισα/τόνδ’ ἑλιχρύσω πυλεῶνα/κἠρατῶ κυπαίρω «E t’invoco recando questa corona di elicriso e d’incantevole cipero»), sembra corroborare l’ipotesi (W.S. Barrett, [review] The Oxyrhynchus Papyri XXIV, Gnomon 33 [1961], 683), secondo cui Astimelusa – la corega che dirige il coro delle fanciulle – si muove attraverso lo spazio di danza recando alla dea quest’offerta floreale.

Le coreute, come nel Partenio del Louvre, si confrontano con la loro maestra e guida, con la loro χοραγός, ma questo rapporto fra chi guida e chi segue, chi insegna gesti e movimenti e chi li replica nella linea o nel cerchio del gruppo viene trasposto nel linguaggio di una relazione d’amore: è subito un’emozione diretta al «diaframma» (cfr. φρένας v. 1), forse un ἵμερος («desiderio») ipotizzato nella lacuna a principio del v. 2, a dissipare dalle palpebre delle ragazze il dolce sonno e a spingerle a muovere alla gara (vv. 7-8); ed è uno struggimento che scioglie le membra, più irresistibile del sonno stesso e della morte, quello che emana dallo sguardo di Astimelusa. E la convenzione per cui il corego non era solito rivolgersi ai propri coreuti (sono piuttosto questi ultimi che usano indirizzarsi in vario modo al corego) viene prospettata come rifiuto, da parte di Astimelusa, a ricambiare lo slancio amoroso delle fanciulle del coro (οὐδὲν ἀμείβεται v. 64), mentre la circostanza che ella – non diversamente dalla corega Agesicora nei confronti di Agidò nel F 1 Davies – si colloca vicino a un’altra figura femminile estranea al coro, forse una sacerdotessa, è sentita dalle coreute come ragione del loro anelito frustrato, della loro inappagabile speranza che Astimelusa le prenda per mano. Infine, lo stesso contatto che collega, attraverso l’azione rituale, Astimelusa alla comunità cittadina, tanto che ella è vista immergersi nella folla (κατὰ στρατόν v. 73), si configura in un’analoga prospettiva erotica: la corega è, infatti, definita, con un’interpretazione etimologica del suo nome (v. 74), luminoso «oggetto di desiderio» per tutti i partecipanti alla festa.

Una permeabilità fra pubblico e privato, fra elemento rituale e microcosmico femminile che conferma tratti che erano apparsi sconcertanti nel Partenio del Louvre ma che, dopo la scoperta di questo nuovo documento, possono più facilmente essere decifrati se da un lato li riconduciamo alla funzione iniziatica e paideutica che non meno che dai tiasi di Lesbo veniva assolta dalle comunità femminili spartane (nel cui ambito l’ungersi di profumi, l’apprendere a danzare e a cantare, lo sperimentare le alterne vicende dello sguardo, della conquista e della separazione non costituivano passatempi individualistici ma momenti di una formazione destinata a preparare la παρθένος ad assumere il proprio ruolo di γυνή nella comunità cittadina) e dall’altro li consideriamo nel quadro delle potenzialità espressive del canto melico arcaico: un canto che non appiattisce il suo profilo nella funzione di scandire e accompagnare i dati programmatici della festa ma, senza mai svincolarsi completamente da essi, li rimodella e li reinterpreta trasformando situazioni concrete in immagini e metafore, costrizioni di regia in costellazioni di sentimenti. Tra la funzione pratica del far poesia a servizio del culto e la “letteratura” come fruizione libresca sta una vasta gamma di soluzioni e di risorse all’interno delle quali sperimenta i suoi molti sentieri la lirica greca arcaica.

Con la metamorfosi operata sulle articolazioni del rituale appare congruente l’aspetto stilistico della poesia di Alcmane. Il recupero di modelli del linguaggio amoroso (lo sguardo, il tenere per mano) o la loro esasperazione (la morte che si associa al sonno come termine di dolcezza struggente: cfr. la nota ai vv. 61-63), la finzione per cui lo schema tradizionale dell’invocazione alla Musa viene trasformato nel desiderio di ascoltarne il canto (un canto che si identifica con quello delle coreute già stanno cantando: cfr. anche per la ripresa pindarica della Nemea III, 1-9), la barocca interazione di immagini per cui un profumo di Cipro è definito «umido fascino leggiadramente chiomato di Cinira» (vv. 64-72), l’iridescente alternanza di dichiarazioni programmatiche, descrizioni, appelli accorati, l’amplificazione paratattica del paragone (tre elementi in rapida successione, ai vv. 66-68, per designare l’immagine di Astimelusa: stella, pianticella, piuma) attraverso richiami di analogica immediatezza, sono tratti che contribuiscono a costruire un coerente discorso poetico che, mentre assolve al compito di ripetere atti e tempi registrati sul calendario delle feste spartane – un ruolo esplicitamente ricordato a proposito di Alcmane da un anonimo grammatico in P. Oxy. 2506,  F1, col. II rr. 30-34 = T A2: «I Lacedemoni a quel tempo assegnarono ad Alcmane, benché fosse lidio, il ruolo di maestro [διδάσκαλον] dei cori tradizionali [πατρίοις χοροῖς] di fanciulle e di adolescenti» –, riesce nel contempo a comunicare l’impressione che ogni cosa avvenga per improvvisi trasalimenti e personalissime emozioni delle coreute.

Pittore dei Niobidi, Coro di fanciulle (dettaglio). Pittura vascolare da un calyx-krater attico a figure rosse, c. 460-450 a.C., da Altamura, Puglia. London, British Museum

col. I

Μώσαι Ὀλ]υμπιάδες, περί με φρένας

ἱμέρωι νέα]ς ἀοιδᾶς

πίμπλατ᾿· ἰθύ]ω δ᾿ ἀκούσαι

παρσενηΐ]ας ὀπός

πρὸς αἰ]θ̣έ̣ρα καλὸν ὑμνιοισᾶν μέλος

             ].οι

ὕπνον ἀ]πὸ γλεφάρων σκεδ[α]σεῖ γλυκύν

              ]ς δέ μ᾿ ἄγ̣ει πεδ᾿ ἀγων̣᾿ ἴμεν

ἇχι τά]χ̣ιστα κόμ[αν ξ]ανθὰν τινάξω[1].

              ]. σχ[ ἁπ]αλοὶ πόδες

………………………………………[2]

col. II

λυσιμελεῖ τε πόσῳ, τακερώτερα

δ᾿ ὕπνω καὶ σανάτω ποτιδέρκεται·

οὐδέ τι μαψιδίως γλυκ[ῆα κ]ήνα·

Ἀ[σ]τυμέλοισα δέ μ᾿ οὐδὲν ἀμείβεται,

ἀλλὰ τὸ]ν πυλεῶν᾿ ἔχοισα

[ὥ] τις αἰγλά[ε]ντος ἀστήρ

ὠρανῶ διαιπετής

ἢ χρύσιον ἔρνος ἢ ἁπαλὸ[ν ψίλ]ον

                       . ̑.]ν

                          ]. διέβα ταναοῖς πο[σί·

καλλίκ]ομος νοτία Κινύρα χ[άρ]ις

ἐπὶ π]αρσενικᾶς χαίταισιν ἵσδει·

ἦ μὰν Ἀ]στυμέλοισα κατὰ στρατόν

ἔρχεται ] μέλημα δάμῳ

               ]μ̣αν ἑλοῖσα

               ]λέγω·

               ]εναβαλ᾿ α[ἰ] γὰρ ἄργυριν

           ] . [.]ία

           ]α ἴδοιμ᾿ αἴ πως με̣… ο̣ν φιλοῖ

ἆσ] σ̣ον̣[ἰο] ῖ̣σ᾿ ἁπαλᾶς χηρὸς λάβοι,

αἶψά κ᾿[ἐγὼν ἰ]κ̣έτις κήνας γενοίμαν·

νῦν δ᾿ [          ]δα παίδα βα[θ]ύφρονα

παιδι.[           ]μ᾿ ἔχοισαν

[].·ε̣[            ]. ν ἁ παίς                   ]χάριν[3].

Pittore di Londra D12. Coro di ragazze. Pittura vascolare da una phiale attica con fondale bianco, V sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

[1] vv. 1-9 Il componimento si apre con un’invocazione alle Muse: qui le coreute vorrebbero ascoltare la voce (ὀπός) delle dee pronte a intonare un bel canto, e questo canto dissiperà il dolce sonno dalle loro palpebre e le spingerà a radunarsi nello spazio della danza per dare inizio all’esecuzione, agitando la bionda chioma. Il modulo per cui in principio di componimento la Musa (o le Muse) viene invocata di partecipare alla festa trova paralleli nella produzione pindarica (Olym. XI 16 ss.; Pyth. IV 1 ss.; Nem. IX 1 ss.), ma, in particolare, l’idea che i coreuti sono in attesa di udire il canto della Musa (elaborata sceneggiatura che sottintende in realtà un riferimento al canto che i coreuti già stanno eseguendo) compare in Nem. III 4-5, dove è detto che i giovani cantori egineti sono in attesa presso l’acqua asopia (una fontana eginetica) «agognando la voce» (ὄπα μαιόμενοι) della Musa (cfr. RFIC 118 [1990], 5 ss.). «‹O Muse› dell’Olimpo (per le Muse legate all’Olimpo, cfr. Il. II, 491; H. Herm. 450; Hes. Th. 25; 52; è probabile l’integrazione di A. Giannini e di D. Page Μώσαι = Mοῦσαι a principio del v. 1), me nel cuore ‹riempite› (D. Page ha pensato come verbo reggente a πίμπλατε «colmate» a principio del v. 3, connesso in tmesi con περί «attraverso», «da parte a parte») di un canto ‹…› (intendendo ἀοιδας al v. 2 come genitivo, anche se non si può escludere un accusativo plurale) e io ‹desidero› (nella prima parte del v. 3 doveva comunque essere incluso un verbo indicante desiderio, da parte delle coreute, di ascoltare il canto delle Muse) ascoltare la voce ‹verginale› (W. S. Barrett propone l’integrazione in forma laconica παρσηνΐας) ‹di voi› che intonate (ὑμνιοισᾶν = ὑμνουσῶν, trisillabo per consonantizzazione del primo iota di /ιοι/) un bel canto… dissiperà il dolce sonno dalle palpebre (γλεφάρων = βλεφάρων) e mi spinge ad andare (ἴμεν = ἰέναι) all’agone (ἀγῶν (α), nel senso di «gara» o di «luogo della gara», anche se non si può escludere il valore omerico [cfr. Il. XXIII 258; Od. VIII 200] di «raduno»; notevole in ogni caso l’affinità di prospettiva e di espressione, con Pind. Paean. VI 58-61: «La mia lingua brama di [versare] il dolce fiore del miele, ora che sono giunto all’agone in onore del Lossia nella festa dove gli dèi sono ospiti»: un confronto che, fra l’altro, suggerisce di integrare il genitivo del nome di una divinità in principio del v.8, ad esempio Ἀνθεία]ς «della Floreale», cioè un epiteto con cui sappiamo che Hera veniva onorata ad Argo, nel senso di un «agone in onore di…», cfr. anche Pind. Nem. II 23 Διὸς ἀγῶνι; Pyth. VIII 79 Ἥρας τ’ ἀγῶν’) dove (ἇχι = ἧχι, integrazione di Page: da ἧ, «dove», e suffisso avverbiale –χι) ‹al più presto› (con τά]λ ιστα di Barrett) agiterò la bionda chioma».

[2] vv. 10-61 Poiché la struttura strofica ci permette di ricostruire l’altezza delle colonne del papiro (trenta righe ciascuna), possiamo accertare che fra il v. 10, ultimo verso superstite del F 1 [vv. 1-10], e il primo rigo del F 3, col I. [vv. 31-37], intercorrevano venti versi. Di questa colonna I del F 3 sopravvivono solo tracce insignificanti del margine destro fino al r. 7, mentre nulla rimane dei restanti ventitré versi. Il testo riprende a correre integro, o quasi, a partire dal primo rigo della col. II (vv. 61-85). Di tutta la parte fra il v. 10 e il v. 61 restano così solo la fine del v. 10, ἁπ]αλοὶ πόδες («teneri piedi») – un nesso formulare epico (Il. XIX 92; H. Dem. 287; H. Herm. 273) che smembrato e dislocato, appare riferito a giovani coreute anche in fr. lesb. incerti auctoris 16 – e al v. 34 sulla base dello scolio sul margine (κρυερά· ψυχρά), la presenza dell’aggettivo κρυερά «gelida», o «gelidi» se neutro plurale.

[3] vv. 61-85 «… e col desiderio (πόσῳ = πόθῳ) che scioglie le membra (λυσιμελεῖ <* λύω «io sciolgo» e μέλη «membra»; cfr. Hes. Th. 120-121; Archil. F 196 W2; Sapph. F 130, 1 V; Carm. pop. 873, 3-4; nell’Od. XX 57 e XXIII 343, l’aggettivo appare riferito al sonno e interpretato come λύων τὰ μελεδήματα, «che dissolve le ansie»), e guarda verso di me (ποτιδέρκεται = προσδέρκεται) in modo più struggente (τακερός è legato etimologicamente con il verbo τήκειν, «liquefare»: cfr. Anacr. PMG 459) del sonno (ὕπνω = ὕπνου) e della morte (σανάτω = θανάτου: poiché il sonno viene spesso sentito come simbolo di dolcezza, e poiché sonno e morte sono spesso associati o identificati – il «sonno della morte» compare in Esiodo F 278, 13 M.-W. e, implicitamente, in Il. XI 241 – anche la morte viene attratta, per analogia, nella sfera erotica) e per nulla falsamente (οὐδέ τι μαψιδίως intensifica la dichiarazione assicurandone la veridicità secondo un modulo che si ritrova nell’ἀδόλως, «senza inganno», di Sapph. F 94, 1 V) quella (κήνα = ἐκείνη; secondo C. Calame, «il dimostrativo κήνα sarà stato utilizzato qui a preferenza di αὕτα perché Astimelusa è in qualche modo estranea al gruppo delle coreute. Il verso seguente lo mostra: ella non dà loro risposta») ‹è› dolce (γκυκῆα = γλυκεῖα). Ma Astimelusa (Ἀστυμέλοισα = Ἀστυμέλουσα) non mi risponde nulla (la lode del coro è come una dichiarazione amorosa, ma la corega prosegue imperturbata le sue evoluzioni di danza, assorta nell’eleganza dei propri gesti; il suo silenzio nei confronti delle compagne suscita in esse un senso di frustrazione accorata: si ha così, credo, da parte del poeta anche una traduzione in termini psicologici del dato convenzionale per cui nel canto corale non avviene che il corego si rivolga ai coreuti, ma solo l’inverso) ma tenendo (ἔχοισα = ἔχουσα) quella (τὸν dimostrativo) corona come (ὥ, forma dorica per ὡς) una stella che vola attraverso (διαιπετής, aggettivo di formazione discussa e altrove non attestato, anche se in Eurip. F 971 N2 troviamo διοπετής proprio in nesso con ἀστήρ, e anche se Omero conosce come epiteto di fiumi l’aggettivo διιπετής – ma in H. Aphr. 4 è riferito agli uccelli – già dagli antichi interpretato come formato su Διί, dativo di Ζεύς, e radice a grado debole di πίπτω, «io cado», e quindi nel senso di «caduto dal cielo») il cielo (ὠρανῶ = οὐρανοῦ) scintillante o un aureo (χρύσιον = χρύσεον, in quanto «eccellente», con una sorta di paragone di secondo grado, una metafora all’interno della similitudine) virgulto o una morbida piuma (in Alcmane il termine ψίλον – secondo Adler – ha una risonanza particolare in quanto, secondo la testimonianza della Suda s.v. ψιλεύς il poeta chiamava φιλόψιλος «colei che ama fare la piuma», la ragazza che amava essere collocata alla testa del coro) ha attraversato con gli agili piedi… l’umida grazia di Cinira (Κινύρα genitivo di Κινύρας = Kινύρου: ricercata perifrasi per denotare un «profumo cipriota»; Cinira era, infatti, un leggendario principe di Cipro noto per la sua ricchezza e per aver goduto dei favori di Afrodite, e l’isola era celebre per le sue essenze) si posa (ἵσδει = ἵζει) sulle chiome delle vergini (παρσενικᾶν = παρθένων) Astimelusa… (il verbo principale, che doveva descrivere l’azione della corega, era forse in principio del v.74: ἔρχεται «va», proposto da D. Page) in mezzo alla folla (στρατόν, con un valore del termine attestato in Eschilo e in Pindaro)… cura (μέλημα, oggetto di desiderio, come in Ibyc. F 288; Pind. Pyth. X 59; F 95, 4-5) del popolo (come dice il suo nome, che significa «colei che sta a cuore alla città»: l’intenzionale gioco di parole viene rincalzato dalla prossimità del nome proprio), avendo preso (ἑλοῖσα = ἑλοῦσα)… dico… oh se davvero (<* ἆ interiettivo + βάλε «oh, se!», lat. utinam)… la coppa d’argento (a proposito di coppe messe in palio per i vincitori di un agone cfr. Pind. Olym. IX 90)… vedessi (ϝίδοιμι: Calame, 416 preferisce leggere ϝίδοι μ’ “«mi vedesse»): se mai (αἴ πως = εἴ πως; protasi del periodo ipotetico della possibilità, la cui apodosi è incentrata su κ’…γενοίμαν, v. 81), o dèi diletti (με σιοὶ φίλοι, che Page e Davies leggono anche μεσιον φιλοῖ), avvicinandosi mi prendesse (con accusativo della persona e genitivo della parte del corpo) per la mano delicata, subito (αἶψα) io diventerei supplice (la ricostruzione ἱ]κ έτις di Lobel è stata criticata da Calame, ma resta molto probabile) di lei». I resti di questa strofe suggeriscono che le coreute passassero alla descrizione della fanciulla preferita da Astimelusa così come nel F 1 Davies esse passano a più riprese dalla lode della corega a quella di Agidò. νῦν δ᾿ («Ma ora») doveva marcare il contrasto fra il vagheggiamento delle coreute di essere prese per mano da Astimelusa e la realtà della situazione, in cui la corega resta lontana e irraggiungibile (παίδα βα[θ]ύφρονα è epiteto forse riferito a costei).

Una “citarodia” per Zeus (Terpand. F 3 Gostoli = PMG 698)

da C. NERI (ed.), Lirici greci. Età arcaica e classica, Roma 2011, 91-93; 265-266.

Antichissima, stando al testimone, Clemente Alessandrino (Clem. Alex. Strom. VI 88, 2), è l’armonia del «salterio» barbaro del re Davide, che esprime la solennità del canto e offre il destro a Terpandro, alla cui poesia già gli antichi riconoscevano una nobile e semplice solennità (T 34-35; 50 Gostoli), per un ispirato inno a Zeus in armonia dorica, di cui Clemente cita – verosimilmente l’incipit di un inno («inni», v. 2 sarebbe un plurale poetico) o di un proemio che introduceva varie citarodie – due pentametri spondiaci “citarodici” (– –). Del tutto ipotetico che, dato il ritmo spondiaco, questi versi accompagnassero una libagione (σπονδαί) in onore del dio.

Gruppo dei pittori “delle tre linee”. Dettaglio con Zeus. Pittura vascolare dal lato A di un’anfora attica a figure nere, fine VI sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Ζεῦ, πάντων ἀρχά, πάντων ἁγήτωρ,

Ζεῦ, σοὶ πέμπω ταύταν ὕμνων ἀρχάν.

Zeus, inizio di tutto, duce di tutto,

Zeus, a te mando questo inizio innodico.

La doppia anafora incipitaria del nome del dio enfatizza l’invocazione rituale (ἐπίκλησις), che si apre tuttavia con l’irrituale epiteto «inizio di tutto» (v. 1 πάντων ἀρχά: cfr. H. Orph. 4, 2, dove «inizio di tutto» è Urano παγγενέτωρ): nell’épos omerico, a partire da Il. I 503, Zeus è tutt’al più «padre» (e così in Esiodo, negli Inni omerici e negli altri lirici), ma qui è palese l’intenzionale pendant con l’«inizio d’inni» (v. 2 ὕμνων ἀρχάν) che il cantore, a quell’«inizio di tutto», «manda» (v. 2 πέμπω; per l’«invio» di un canto, cfr. IG VII 1797, monte Elicone, II sec. a.C.), questa volta con topica movenza, se proprio al padre degli dèi spettano le primizie di ogni poesia, da Alcmane (PMGF 29) a Teocrito (XVII 1), da Arato (I) alle Bucoliche virgiliane (III 60 ab Iove principium Musae: Iovis omnia plena). All’ambito laconico riconduce invece la seconda definizione «duce di tutto» (v. 1 πάντων ἁγήτωρ), dove «duce» (voce aulica per «condottiero», «guida»: cfr. p. es. Il. II 79) è sì termine già innodico per designare Mercurio «duce di sogni» (H. Hom. Merc. 14), ma soprattutto è militaresco epiteto di Zeus a Sparta (cfr. Xen. Lac. resp. 13, 2; Nic. Dam. FGrHist. 90 F 103z, 14), sempre che tale notizia non derivi autoschediasticamente proprio da Terpandro.

***

Bibliografia:

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J.C. Franklin, Diatonic Music in Greece: A Reassessment of its Antiquity, Mnemosyne 55 (2002), 669-702.

L. Gamberini, Musica e società, AALig 48 (1991), 375-394.

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Id., I frr. 1 e 2 di Terpandro (SLG 6 e PMG 697 Page), AION 12 (1990), 143-149.

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Id., Les fragments de Terpandre et l’hymne dans la Sparte archaïque, in Y. Lehmann (éd.), L’hymne antique et son public, Turnhout 2007, 65-80.

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T. Yamamoto, On the Ethos in Harmoniai, JCS 51 (2003), 20-30.

Lastenea o Assiotea? La testimonianza di P.Oxy. 52 3656

Traduzione personale di C. Mᴇᴄᴄᴀʀɪᴇʟʟᴏ, 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠, 𝑂𝑛 𝑎 𝐹𝑒𝑚𝑎𝑙𝑒 𝑃𝑢𝑝𝑖𝑙 𝑜𝑓 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠, 𝑎𝑛𝑑 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠 (𝑃.𝑂𝑥𝑦. 𝐿𝐼𝐼 3656) (1136), in J. Bʀᴜsᴜᴇʟᴀs, D. Oʙʙɪɴᴋ, S. Sᴄʜᴏʀɴ (eds.), 𝐷𝑖𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑘𝑒𝑟 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒𝑑, Part IV: 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒. IV A. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. Fasc. 8. 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑃𝑎𝑝𝑦𝑟𝑖, Leiden-Boston in print. Consulted online on 06 July 2021 [link].

First published online: 2017.

Il 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656, pubblicato per la prima volta da P.J. Parsons nel 1984, preserva un frammento di testo in prosa che parla di un’allieva dell’Accademia platonica, ma il suo nome non si è conservato nei lacerti superstiti. Diverse fonti antiche (Dɪᴏɢ. III 46; IV 2; Aᴛʜᴇɴ. 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛. XII 546d; Aᴘᴜʟ. 𝑃𝑙𝑎𝑡. 1,4; Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 2; Tʜᴇᴍ. 𝑂𝑟. 23, 295c; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4) riferiscono della presenza di donne all’Accademia, ma fanno espressamente i nomi di due allieve di Platone e di Speusippo, Lastenea di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Il papiro in questione menziona probabilmente una di queste due, ma l’identità esatta rimane incerta.

Le due allieve sono spesso citate in coppia e indicate come le uniche due accademiche[1]. Lastenea e Assiotea sono menzionate come discepole di Platone nelle 𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖 di Diogene Laerzio, in Clemente di Alessandria, e negli anonimi 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑎 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑎𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎𝑒 (nei quali, però, la seconda è chiamata Dessitea)[2]. Il Laerzio le elenca anche tra gli allievi di Speusippo[3].

Benché le fonti antiche le riportino insieme, pare che si trattasse di due persone molto diverse. Innanzitutto, certa tradizione presenta Lastenea come amante e compagna di Speusippo: Ateneo (VII 279e; XII 546d) racconta che allieva e maestro avessero una relazione erotica, citando una presunta lettera che Dionisio II di Siracusa avrebbe inviato al filosofo, definisce la donna un’ἑταίρα e descrive Speusippo come un uomo dissoluto e incontinente, dedito unicamente al piacere[4]. Si tratta certamente di una notizia proveniente da una fonte ostile al nipote di Platone, che trova riscontro anche in un altro passo laerziano (IV 2) e in un testo epistolografico spurio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36 Hercher τῷ μὲν ἥδεϲθαι ᾧ Λαϲθένεια καὶ Ϲπεύϲιπποϲ χρῆται)[5].

Quanto ad Assiotea, invece, costei è ricordata dalla tradizione per l’abitudine di indossare indumenti maschili, come racconta già Dicearco[6]. Temistio, riprendendo il medesimo particolare, aggiunge che fu la lettura della 𝑅𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎 di Platone a indurla a dedicarsi alla filosofia[7]. L’abbigliamento maschile è menzionato 𝑒𝑛 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑛𝑡 anche da Olimpiodoro e da Filodemo: secondo il primo, tra i seguaci di Platone c’erano sia uomini sia γυναῖκαϲ ἀνδρείωι ϲχήματι, mentre il secondo attribuisce questa abitudine a due non meglio note discepole di Speusippo[8]. Benché Temistio dica espressamente che Assiotea nascondeva il suo sesso (𝑂𝑟. 23, 295c: λανθάνουϲα ἄχρι πόρρω ὅτι γυνὴ εἴη), la tradizione da cui ha attinto non ha motivo di insinuare che la donna frequentasse l’Accademia solo sotto mentite spoglie, poiché non sarebbe stata accolta come donna in un contesto esclusivamente maschile. Questo preconcetto potrebbe essere stato utilizzato dalla tradizione antiplatonica per evidenziare una contraddizione tra le opinioni scritte di Platone sull’uguaglianza dei sessi e le reali (presunte) dinamiche interne alla sua scuola[9]; tuttavia, una studentessa avrebbe potuto sfoggiare il τρίβων maschile solo per mettere in mostra con orgoglio il proprio 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 di filosofa, come fece anche la cinica Ipparchia, che era solita indossare un τρίβων e accompagnarsi a Cratete di Tebe[10].

Indizi per l’identificazione della scolara del 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656 sono forniti dal titolo di due opere ivi citate, il Περὶ ϲυνοχῆϲ di Ieronimo di Rodi e il Περὶ ἀλυπίαϲ di Aristofane il Peripatetico, che, tra l’altro, accenna alla singolare bellezza della donna (col. ii, ll. 16-18 ὡραίαν χαρίτων τε ἀνεπιτηδεύτων πλήρη οὖϲαν). Secondo Gigante (1985, 69; 1986, 60), che si avvale della testimonianza di Ateneo, la candidata migliore sarebbe Lastenea; invece, per Dorandi (1989, 58), che si concentra sull’aneddoto tradito da Temistio, la più probabile sarebbe Assiotea. Secondo questo studioso, infatti, un racconto nel quale una giovane donna ϲυνοχή (se questo termine indica davvero lo stato morale di essere «prigioniera delle passioni») si redime grazie a una conversione alla filosofia si adatterebbe perfettamente a un’opera dal titolo Περὶ ϲυνοχῆϲ (ciononostante, tale aneddoto non è attestato dalla tradizione precedente!). Sembra più probabile, comunque, che il riferimento all’allieva di Speusippo nel Περὶ ϲυνοχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎, sempre che il titolo e la sua interpretazione siano corretti) riguardi il maestro piuttosto che l’alunna stessa, dato che le fonti concordano nel descrivere Speusippo in preda alle passioni. Allo stesso modo, l’altro scritto, il Περὶ ἀλυπίαϲ, potrebbe indicare che il riferimento alla filosofa sia stato fatto in relazione alla proverbiale φιληδονία di Speusippo, forse per rimarcare una contraddizione tra il pensiero e lo stile di vita di costui, nell’ambito di un dibattito circa la concezione del piacere come male[11]. Non a caso, il riferimento alla bellezza della giovane filosofa sarebbe particolarmente adatto a un simile contesto: insomma, Lastenea appare la più probabile fra le due[12].

La datazione e la paternità del brano trasmesso dal papiro restano ignote. Le opere citate sembrano oscillare nella cronologia tra la fine del III secolo e gli inizi del II secolo a.C. Ora, se è plausibile collocare il documento a questa altezza cronologica, virtualmente, a titolo d’ipotesi, si potrebbe identificarne l’autore (ma non si esclude che possa trattarsi di un compilatore più tardo che ha citato testi di età ellenistica!) con uno dei seguenti biografi di filosofi:

1) Diocle di Magnesia, che scrisse sia una Ἐπιδρομὴ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑜𝑚𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (Dɪᴏɢ. VII 48; X 11) sia delle Βίοι τῶν φιλοϲόφων [𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (𝑖𝑏𝑖𝑑. II 54; 82)[13]. Un argomento, anche se un po’ debole, a favore di Diocle potrebbe essere l’uso nel papiro dell’epiteto Ἐρετρικόϲ anziché Ἐρετριεύϲ riferito a Menedemo alla col. ii, l. 7.

2) Sozione di Alessandria, autore delle Διαδοχαὶ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖], attivo probabilmente durante il primo quarto del II secolo a.C. e, secondo Wehrli, si servì di Ippoboto come fonte, qui menzionato nella col. ii, l. 5[14].

3) Eraclide Lembo, che epitomò le Διαδοχαί di Sozione[15]: il papiro potrebbe quindi conservare questa versione riassunta. La frequenza dei nomi delle fonti rende il frammento in esame molto diverso per carattere dall’epitome che Eraclide trasse dai 𝐿𝑒𝑔𝑖𝑠𝑙𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 di Ermippo di Smirne, conservata nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XI 1367 (= 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 3), nel quale in poco meno di una sessantina di linee (col. i, ll. 36 e 47; col. ii, l. 8) sono nominati solo tre autori. Ciononostante, una differenza nell’estensione e nella profondità dei dettagli tra l’epitome di Ermippo e quella di Sozione non è assolutamente improbabile[16]. A giudicare dai frammenti superstiti, Eraclide sembra mostrare una certa inclinazione per i pettegolezzi, le abitudini sessuali e gli aneddoti sui personaggi di cui parla, ma anche qualche imprecisione come epitomatore[17]. Questi aspetti potrebbero trovare paralleli nel papiro in esame. Eraclide ha certamente scritto di Menedemo di Eretria (si vd. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 15a e 15b = Dɪᴏɢ. II 138, 143) e di Platone (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 16 = Dɪᴏɢ. III 26). In particolare, von Fritz suggerisce che l’erroneo incontro di Platone e Menedemo di Eretria, di cui parla il Laerzio, potrebbe derivare proprio da Eraclide[18].

Comunque sia, è troppo poco ciò che è rimasto di questi storici da consentire un qualche collegamento sicuro con il frammento in questione, ed espositori meno noti di διαδοχαί, o addirittura del tutto sconosciuti, sono ipotesi altrettanto plausibili. Infine, bisogna tenere in conto che l’apparente carattere biografico e dossografico del documento papiraceo può essere solo una conseguenza della sua natura frammentaria: insomma, non è detto che l’opera a cui appartiene sia necessariamente una biografia.

Come si vede, il papiro contiene i resti di tre colonne, ma solo la col. ii presenta un testo significativo. È visibile un margine superiore di 3 cm, oltre a due 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑐𝑜𝑙𝑢𝑚𝑛𝑖𝑎 di circa 2 cm ciascuno. Le linee, contenente ciascuna circa 15 lettere, sono tracciate lungo le fibre in una grafia formale inclinata nel cosiddetto “stile severo”, che può essere tranquillamente attribuita alla fine del II o agli inizi del III secolo d.C.[19]

Lo scriba principale usa la παράγραφος in combinazione con lo spazio vuoto per contrassegnare una forte interpunzione (col. ii, ll. 7 e 11). Altri due tipi di segni marginali, χ e διπλῆ, sono stati aggiunti con un inchiostro diverso: si tratta forse di annotazioni dei lettori. La χ è apposta prima della col. ii, l. 2, 4, 6, 9 e 12, dove ricorrono i nomi propri (di filosofi o autori), ma è usato in modo incoerente, dato che il nome di Ippoboto alla l. 5 non è contrassegnato. La διπλῆ nella col. ii, l. 16 sembra evidenziare una citazione più specifica, quella di Aristofane il Peripatetico; altre quattro διπλαῖ sono state utilizzate nella colonna iii, ma mancano le linee da esse contrassegnate (ll. 11, 14, 17, 19). Una παράγραφος è visibile anche nella col. iii sotto la perduta l. 15.

P. Oxy. 52 3656 (II-III sec. d.C.). Anonimo, A proposito di una discepola di Platone, Speusippo e Menedemo = FGrHist. 1136 F 1 [papyri.info].

 [20]col. icol. iicol. iii





5




10  



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20
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…    
διήκουϲε δὲ με-
τὰ τὴν Πλάτωνοϲ
τελευτὴν καὶ Ϲπευ-         
ϲίππου καθὰ λέγει
ὁ Ἱππόβοτοϲ (F 6a Gigante), αὖθιϲ δὲ       
καὶ Μενεδήμου τοῦ
Ἐρετρικοῦ. ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ
περὶ αὐτῆϲ καὶ Ἱερώ-      
νυμοϲ[21] ὁ Ῥόδιοϲ ἐν
τῷ Περὶ ϲυνοχῆϲ[22]
ϲυνγράμματι (F 55 White). ἱϲτο-
ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ[23]
ὁ περιπατητικὸϲ
ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ
ἀλυπίαϲ τὴν μείρα-
κα[24] ὡραίαν χαρίτων
τε ἀνεπιτηδεύτων
πλήρη οὖϲαν νεα
̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν[25]
[𝑐𝑎.9     ] ̣[26]οϲκαι
. . . .
 






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φηναμ̣[
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Traduzione (col. ii):

Dopo la morte di Platone, ella, secondo Ippoboto, divenne discepola di Speusippo e, infine, di Menedemo di Eretria. Ieronimo di Rodi parla di lei in un suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎 (?). Parimenti, anche Aristofane il Peripatetico nella sua opera 𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒 racconta che questa ragazza era nel fiore della giovinezza e piena di grazia non ricercata… intorno a lei (?).

Commento (col. ii):

1-4 διήκουϲε δὲ με|τὰ τὴν Πλάτωνοϲ | τελευτὴν καὶ Ϲπευ|ϲίππου. La parte superstite del documento non afferma esplicitamente che l’anonima filosofa fosse stata allieva di Platone, ma il fraseggio di queste linee e in particolare il καὶ alla l. 3 – che allude al fatto che Speusippo sia stato maestro dopo qualcun altro – fanno fortemente supporre che Platone sia stato sua guida prima di Speusippo.

4 καθὰ λέγει: è un’espressione tipicamente dossografica; cfr. l’uso frequente di καθά φηϲιν nel Laerzio per introdurre la fonte impiegata. (𝑒.𝑔. I 1; VI 102; IX 25).

5 ὁ Ἱππόβοτοϲ. F 6a Gigante (cfr. Gɪɢᴀɴᴛᴇ [1985]). Ippoboto visse probabilmente tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.[27] La sua 𝑎𝑐𝑚𝑒́ è collocata da Gigante nella prima metà del II secolo a.C.[28] Glucker sostiene in modo meno convincente una datazione fino al I secolo a.C.[29] Il Laerzio conserva i titoli di due opere, una Περὶ αἱρέϲεων (I 19; II 88) e una Τῶν φιλοϲόφων ἀναγραφή (I 42), e alcuni frammenti, tra cui un aneddoto su Menedemo il Cinico (VI 102), che è diverso dal Menedemo menzionato in 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656.

6-7 Μενεδήμου τοῦ | Ἐρετρικοῦ. 𝑆𝑆𝑅 III F 25; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,68, T 1. Lastenea e Assiotea non sono altrimenti associate a Menedemo. Menedemo di Eretria, discepolo del socratico Fedone e poi fondatore della scuola di Eretria, visse probabilmente dal 350/45 al 266/1 a.C.[30] Se la filosofa in questione fu allieva di Platone, morto nel 348/7, allora si dovrebbero ipotizzare per lei almeno due decenni di attività filosofica. Ciò non è impossibile, se iniziò a seguire Platone da giovanissima (cfr ll. 15-16 μείρακα)[31]. Tuttavia, come sostiene in maniera convincente Knoepfler, è probabile che il Menedemo menzionato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 sia erroneamente chiamato Ἐρετρικόϲ, mentre in realtà si intende proprio Menedemo di Pirra[32]: quest’ultimo, un Accademico battuto da Senocrate nella successione a Speusippo, fondò una sua propria scuola, e venne parodiato insieme a Platone e Speusippo in un frammento di Epicrate, autore della Commedia di Mezzo[33]. Secondo Knoepfler, l’autore del testo conservato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 deve aver trovato il nome di Menedemo senza ulteriori specificazioni nella sua fonte, e gli ha erroneamente attribuito l’epiteto di Ἐρετρικόϲ; ciò sarebbe indicato anche dall’uso impreciso dello ctetico Ἐρετρικόϲ al posto dell’etnico Ἐρετριεύϲ, che Knoepfler considera un tratto più tardo. Si può notare che il Laerzio chiama sempre Menedemo Ἐρετριεύϲ, mentre usa regolarmente Ἐρετρικόϲ per indicare la sua scuola e i suoi discepoli; soltanto in un caso riferisce questo nome allo stesso Menedemo (Dɪᴏɢ. VI 91; nessun riscontro è attestato a parte 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656). Vale la pena notare che la fonte citata di questo passo è Diocle di Magnesia, che è un possibile candidato per l’attribuzione del papiro. Nessuna fonte è allegata alla menzione di Menedemo nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, a differenza di quello di Speusippo, e non si può escludere che Menedemo sia stato aggiunto proprio come un altro membro dell’Accademia (con l’epiteto sbagliato!), riflettendo il raggruppamento trovato in Epicrate, ma non aveva alcun rapporto con Lastenea o Assiotea.

7 ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ. Lo scriba principale ha corretto un errore αὖθιϲ δὲ, chiaramente indotto dalle due righe sopra, che si trova nella stessa posizione sulla riga. La correzione è stata apportata modificando la forma di υ in quella di φ, eliminando θιϲ con un solo tratto orizzontale e aggiungendo ηγηϲατο nello spazio interlineare superiore.

8-9 Ἱερώ|νυμοϲ ὁ Ῥόδιοϲ. F 55 White; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,61, T 1. Il peripatetico Ieronimo di Rodi visse nel III secolo a.C. (ca. 290-230 a.C.)[34]. Il Laerzio (II 105) gli attribuisce un Περὶ ἐποχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜) e un’opera in almeno due libri dal titolo Ϲποράδην ὑπομνήματα (𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑠𝑒), da cui trae informazioni – per lo più aneddotiche – su Talete e Anassagora (I 26; II 14).

10 Περὶ ϲυνοχῆϲ. Come si è appena accennato, Dɪᴏɢ. II 105 attribuisce a Ieronimo un Περὶ ἐποχῆϲ (Hɪᴇʀᴏɴ.¹ F 24 Wehrli = 54b White). Per questo motivo, sottolineando l’ambiguità semantica di ϲυνοχή (che tra l’altro significa «detenzione, prigionia, oppressione», ma anche «coesione, compattezza»), poco ideale in un titolo, Gottschalk ha emendato la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 tradita dal papiro ϲυνοχῆϲ in ἐποχῆϲ («fermata, sospensione di giudizio»)[35]. Non è da escludere che si tratti di due opere diverse, ma, come ha notato da Gigante, la tradizione manoscritta di Diogene mostra diversi esempi di scambio di preverbi e preposizioni[36]. Gigante difende la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 del papiro e interpreta ϲυνοχή come uno stato di «coercizione» fisica o psicologica. In effetti, ciò sarebbe confermato dalla rappresentazione canzonatoria di Fedone di Elide – maestro di Speusippo – come δοῦλοϲ («servo»), che il Laerzio attribuisce al Περὶ ἐποχῆϲ di Ieronimo: probabilmente non si tratta di una mera invenzione, ed è plausibile che Fedone abbia sperimentato quella triste condizione dopo l’espugnazione della sua città nel 401 a.C. Ora, se le cose stanno così, allora la vicenda della giovane allieva potrebbe essere la storia della liberazione di una donna da qualsiasi tipo di servitù – secondo Gigante e Dorandi, si tratterebbe di una «schiavitù delle passioni»[37]. L’editore del papiro, Parsons, ha valutato i diversi significati filosofici della parola ϲυνοχή, quali «inibizione del movimento nel sonno» ([Aʀɪsᴛᴏᴛ.] 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑡. 1,2 p. 816b39), «coesione dell’universo» (Cʜʀʏsɪᴘ. 𝑆𝑉𝐹 II F 550), «continuità nel luogo o nella forma» (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ.⁴ 𝑆𝑉𝐹 III F 260), e «mantenimento della felicità» (Eᴘɪᴄᴜʀ. F 361 Usener), pur notando che «il significato di “afflizione” o “prigionia” non sembra essere attestato prima del I secolo a.C.»[38]: i primi paralleli, considerati da Gigante, si trovano appunto in due papiri documentali dell’epoca, nei quali ϲυνοχή è inteso letteralmente come «prigione» (𝑃. 𝐿𝑜𝑛𝑑. II 354, l. 24 e 𝐵𝐺𝑈 VIII 1821, l. 21; cfr. 𝐿𝑆𝐽 II 5). White, invece, propende per Περὶ ἐποχῆϲ come unico titolo corretto: ἐποχή si riferirebbe tecnicamente alla «”sospensione del giudizio” associata ad Arcesilao di Pitane e alla sua ‘Nuova Accademia”», che fu obiettivo polemico o quantomeno un conoscente di Ieronimo di Rodi[39]. In effetti, nel contesto di una discussione sullo Scetticismo accademico, un riferimento all’«eredità di Socrate, compreso Platone e altri socratici» non sarebbe del tutto fuori luogo[40]. Tuttavia, sebbene questo possa spiegare la rilevanza della trattazione di Ieronimo su Fedone, è più difficile immaginare un contesto adatto per una menzione di Lastenea o Assiotea: ma si può ipotizzare, per esempio, che un aneddoto ostile sia stato inserito in una discussione polemica sull’epistemologia o sulla teoria etica di Speusippo.

11-15 ἱϲτο|ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ | ὁ περιπατητικὸϲ | ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ | ἀλυπίαϲ. 𝐶𝑃𝐹 I 1, 1, 23, T 1. Si menziona un filosofo peripatetico di nome Aristofane, non altrimenti attestato. Sull’identità di costui, si possono considerare tre diverse opzioni: 1) si ha a che fare con un autore sconosciuto; 2) la fonte è, in realtà, Aristofane di Bisanzio, che qui è insolitamente presentato come un Peripatetico; 3) si è verificato un problema testuale, forse una corruttela. Tralasciando la prima, se si assume la seconda opzione, forse occorre considerare un’accezione “liquida” di περιπατητικὸϲ, nome che sarebbe stato qui impiegato per indicare genericamente uno «studioso», oppure – e sembra un poco più plausibile – designerebbe una qualche connessione con il Peripato, se si pensa, per esempio, alle analisi filologiche di Aristofane di Bisanzio sugli studi di zoologia di Aristotele[41]. Ora, un altro problema è che non è attestato da nessuna parte che Aristofane di Bisanzio abbia redatto un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma questo titolo si trova elencato nella 𝑆𝑢𝑑𝑎 fra i testi del suo presunto maestro, Eratostene (𝑆𝑢𝑑𝑎 ε 2898); come quest’ultimo, in effetti, Aristofane potrebbe aver nutrito sia interessi linguistico-grammaticali sia di natura filosofica[42]. Se, dunque, questo Aristofane “il Peripatetico” fosse il filologo alessandrino, si avrebbe una maggiore certezza circa la datazione dell’opera conservata dal 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, dato che il Bizantino visse circa tra il 265/57 e il 190/80 a.C.[43]

Quanto alla possibile corruttela, Gigante ha proposto di emendare Ἀριϲτοφάνηϲ con Ἀριϲτόξενοϲ, sebbene un Περὶ ἀλυπίαϲ non sia tra le opere conosciute di quest’ultimo[44]. In alternativa, si potrebbe pensare ad Aristone il Peripatetico (originario di Ceo, da non confondere con l’omonimo stoico di Chio). Nemmeno per lui, in realtà, è attestato un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma sembra plausibile per l’autore di una lettera su 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑛𝑧𝑎, citata nel 𝑆𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑧𝑖 di Filodemo[45].

Montanari, con certa riserva, ha ipotizzato che il Περὶ ἀλυπίαϲ attribuito ad Aristofane possa essere, in realtà, il titolo di uno scritto di Ieronimo, dato che quest’ultimo era ben noto per la sua teoria, secondo la quale l’assenza di dolore sia il bene più grande[46]. Può essere interessante osservare anche che “Peripatetico” era un attributo attestato proprio per Ieronimo: cfr., per es., Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟. II 21, 127; Aᴛʜᴇɴ. XIII 602a; e si vd. la questione al riguardo in Cɪᴄ. 𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑛. 5, 14 = F 11 White. L’espunzione di Ἀριϲτοφάνηϲ, che lascerebbe soltanto ὁ περιπατητικόϲ riferito a Ierononimo, sarebbe forse una soluzione, ma è difficile spiegare come quel nome possa essere entrato nel testo.

Infine, si potrebbe ancora ipotizzare che Aristofane di Bisanzio abbia parlato di Lastenea nel suo 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, citata da Ateneo (cfr. n. 42 𝑠𝑢𝑝𝑟𝑎), mentre un Peripatetico (Aristone o il suddetto Ieronimo?) ha fatto riferimento alla sua avvenenza in un Περὶ ἀλυπίαϲ, contestualizzando la relazione fra la donna e Speusippo. Un goffo epitomatore, se di epitome si tratta il testo nel papiro, attingendo a una fonte in cui sono menzionati entrambi gli autori, potrebbe aver confuso il nome del primo con l’epiteto e il titolo dell’opera del secondo. Oppure, parimenti, uno scriba può aver accidentalmente omesso alcune parole o linee, saltando da ciò che seguiva il nome Ἀριϲτοφάνηϲ (𝑒.𝑔. ὁ γραμματικόϲ) a ὁ περιπατητικόϲ: un equivoco errore di copiatura (forse), ma di tipo diverso, occorre anche alla l. 7.

14 ὁμοίωϲ. Questo avverbio si trova di consueto nei resoconti dossografici per indicare l’accordo fra le fonti citate (si vd., per es., Dɪᴏɢ. III 47; VII 87; 148; VIII 51). Mentre in questo passo sembra esserci un’asimmetria fra le due frasi che ὁμοίωϲ dovrebbe equiparare: da un lato, si ha solo un riferimento generico all’aspetto della giovane allieva nel trattato di Ieronimo; dall’altro, c’è una specifica informazione attribuita ad Aristofane (?). Questo potrebbe essere un indizio della natura suntiva del testo papiraceo (compatibile, per esempio, con l’epitomatore Eraclide Lembo): si potrebbe immaginare che la fonte dell’autore del documento abbia attribuito a Ieronimo una specifica informazione, in linea con il riferimento alla bellezza fisica della fanciulla contenuta nel catalogo aristofaneo; mentre lo scriba l’avrebbe omessa, inserendo nel proprio testo soltanto il nome della fonte e il titolo dell’opera. Si noti che la presenza di ὁμοίωϲ potrebbe essere spiegata anche se il Περὶ ἀλυπίαϲ fosse opera di Ieronimo e il nome di Aristofane un’interpolazione; in questo senso, si potrebbe tradurre: «Ieronimo ha parlato della ragazza nel suo Περὶ ϲυνοχῆϲ; così, nel suo Περὶ ἀλυπίαϲ il Peripatetico riferisce…».

15-18 τὴν μείρα|κα ὡραίαν χαρίτων | τε ἀνεπιτηδεύτων | πλήρη οὖϲαν. È probabile che ἱϲτορεῖ (ll. 11-12) regga un’infinitiva (𝑒.𝑔. Dɪᴏᴅ. I 15, 2; III 44, 3; ecc.), con οὖϲαν, che è un participio circostanziale, ma non si può escludere l’uso di un participio predicativo (Iᴏs. 𝐴𝐽 1, 108); quindi, non si può dire se questa frase termini prima o dopo νεα.

18-20? νεα | [ ̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν | [ 𝑐𝑎. 9 ] ̣οϲκαι. περὶ αὐτῆϲ (l. 8) è complemento d’argomento, mentre è probabile – ma non sicuro – che qui π̣ερὶ αὐτήν (o soltanto αὑτήν) abbia un valore diverso, forse un complemento di luogo: si potrebbe colmare la lacuna con νεα|[νε]ί̣[α]ϲ̣ (l. νεανίαϲ) π̣ερὶ αὑτὴν | [ἀεὶ ἔχειν], cioè «aveva sempre attorno a sé dei giovanotti» (cfr. Lᴜᴄ. 𝑉𝐻 1, 15 ὁ αϲιλεὺϲ τοὺϲ ἀρίϲτουϲ περὶ αὑτὸν ἔχων, e Dɪᴏɴ. XI 2, 1 τοῖϲ θραϲυτάτοιϲ τῶν νέων, οὓϲ εἶχον ἕκαϲτοι περὶ αὑτούϲ). Si osservi che le due tracce visibili alla l. 19 sono indicate da Parsons rispettivamente come «top of upright» e «short horizontal or arc just below the letter-tops».

20 ] ̣. τ. potrebbe trattarsi della traccia di un αὐτὸϲ o un οὗτοϲ (?). Un’espressione, come οὗτοϲ (𝑠𝑐𝑖𝑙. Aristofane) καὶ (un’altra fonte) λέγουϲι(ν)/φαϲι(ν)/ἱϲτοροῦϲι(ν), continuerebbe il racconto dossografico.

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Note:

[1] Le testimonianze sul loro conto sono state raccolte e discusse da Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989). Per una panoramica sulle due donne, si vd. anche Gᴏᴜʟᴇᴛ (1989) e Gᴏᴜʟᴇᴛ, Dᴏʀᴀɴᴅɪ (2005).

[2] Dɪᴏɢ. III 46, Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 19; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4, 25-26. Nella versione araba della vita di Platone, inclusa nella 𝑇𝑎ʾ𝑟𝑖̄𝑘ℎ 𝑎𝑙-ℎ̣𝑢𝑘𝑎𝑚𝑎̄ʾ [𝐿𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖] di Ibn al-Qifti (1172-1248), si racconta che Assiotea e Lastenea fossero le mogli del filosofo e non sue allieve (24, 2-8 Lippert); cfr. la traduzione latina in Roeper (1866, 12-13) con commento 𝑎𝑑 𝑙𝑜𝑐.

[3] Dɪᴏɢ. IV 2. La testimonianza isolata di Giamblico (𝑉𝑃 267) include una Λαϲθένεια Ἀρκάδιϲϲα tra le più illustri intellettuali pitagoriche (Πυθαγορίδεϲ γυναῖκεϲ αἱ ἐπιφανέϲται). Considerando la ben attestata presenza femminile tra i Pitagorici, Wᴇʜʀʟɪ (1967, 55) ipotizza che Assiotea e Lastenea fossero in realtà membri della scuola pitagorica e fossero state erroneamente collegate all’Accademia di Platone da una tradizione successiva; Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 184 n. 13) sostiene il contrario. Tuttavia, mentre appare improbabile che ci fossero due Lastenea omonime nelle due scuole (con buona pace di Oɢɪʟᴠɪᴇ [1986, 119]), non c’è motivo di escludere che Lastenea di Mantinea possa aver frequentato entrambe le scuole. Su questa linea, e nonostante la mancanza di prove su una connessione tra Assiotea e i Pitagorici, Gᴀɪsᴇʀ (1988, 363) ipotizza che la filosofa sia stata prima pitagorica a Fliunte, sede del pitagorismo, e poi sia divenuta un’accademica ad Atene.

[4] Dɪᴏɢ. IV 1 dice infatti che il filosofo era un uomo «collerico e incapace di dominare i piaceri» (ὀργίλος καὶ ἡδονῶν ἥττων); mentre in IV 4, riprendendo Timoteo di Atene (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1079 F 2), il dossografo descrive le conseguenze fisiche della dissolutezza di Speusippo (τὸ σῶμα διακεχυμένος, «fisicamente infiacchito») e riporta un aneddoto secondo cui il filosofo, incontrando un uomo ricco innamorato di una donna sgraziata, si sarebbe offerto di trovargliene una più bella per dieci talenti. La notizia è in qualche modo estremizzata da Tᴇʀᴛᴜʟ. 𝘈𝘱𝘰𝘭. 46, 10, che racconta che Speusippo morì «commettendo adulterio» (𝑎𝑢𝑑𝑖𝑜 𝑒𝑡 𝑞𝑢𝑒𝑛𝑑𝑎𝑚 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑠𝑠𝑒).

[5] Su queste lettere, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 223), che ritiene spurie sia l’epistola (o le epistole) citate da Ateneo e Diogene Laerzio, sia 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36, in linea con il generale accordo degli studiosi per cui le 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡𝑢𝑙𝑎𝑒 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎𝑒 sarebbero un falso di età imperiale fondato, comunque, sulla storicità dell’ostilità tra i due corrispondenti (eccetto 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 30, che Speusippo avrebbe inviato a Filippo II, su cui si vd. da ultimo Nᴀᴛᴏʟɪ [2004]). Si noti che il Laerzio ha incluso le «Lettere a Dione, Dionisio e Filippo» nel catalogo della produzione speusippea (IV 4). Sulla tradizione riguardante il rapporto tra Dionisio II e Speusippo, si vd. anche Mᴜᴄᴄɪᴏʟɪ (1999, 275), che ritiene che la loro corrispondenza riflettesse una realtà storica, mentre Mᴇʀʟᴀɴ (1959, 207-209) con sicurezza la considera un autentico scambio epistolare.

[6] Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. F 44 Wehrli = 50 Mirhady = 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 F 62 (L’informazione che quest’ultimo tramanda è comunemente riferita al suo Περὶ βίων [𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑒]), citato in Dɪᴏɢ. III 46.

[7] 𝑂𝑟. 23, 295c-d. Temistio chiama Assiotea «l’Arcade», confondendola probabilmente con Lastenea, ma si tratterebbe di uno scambio intenzionale: in questo modo il racconto della sua conversione alla filosofia, ambientato in una regione tradizionalmente considerata primitiva e remota, appare certamente più avvincente (cfr. Sᴋɪɴɴᴇʀ 2012, 108-109). Ora, benché questo aneddoto si adatti alla forza protrettica dei dialoghi platonici, menzionati anche in Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 = F 63b = Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 1, 11‑45, è molto probabilmente fittizio. Del resto, la conversione alla filosofia è un 𝑡𝑜́𝑝𝑜𝑠 biografico e, difatti, sempre Temistio tramanda una storia simile, tratta da Aristotele (F 64 Rose³ = F 658 Gigon), circa un agricoltore corinzio, il quale, dopo aver letto il 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑎, avrebbe abbandonato i suoi campi per dedicarsi totalmente alla filosofia.

[8] Oʟʏᴍᴘ. 𝐼𝑛 𝐴𝑙𝑐. 2, 147-150 Westerink; Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 6, 25-27 Dorandi. È possibile, ma tutt’altro che certo, che un altro passo dell’𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 di Filodemo di Gadara menzioni la sola Assiotea (col. Y 37 – 2, 1), riferendo che ella fosse solita indossare abiti maschili: cfr. Gᴇɪsᴇʀ (1983, 60 e 1988, 154) e Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 54-55), ma si noti che il passo è pesantemente interpolato sulla base di diverse 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 incerte, come ha recentemente dimostrato Vᴇʀʜᴀssᴇʟᴛ (2013).

[9] Così Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 183-184).

[10] Cfr. Dɪᴏɢ. VI 93, che cita un frammento delle Δίδυμαι [𝐺𝑒𝑚𝑒𝑙𝑙𝑒] di Menandro (F 114 K.-A.), e VI 97; cfr. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ (2007, 239 con n. 39). Questa pratica è in linea con le istruzioni di Zenone di Cizio circa l’abbigliamento comune fra uomini e donne: si vd. Dɪᴏɢ. VII 33 (= 𝑆𝑉𝐹 I F 257) e Pʜʟᴅ. 𝑆𝑡𝑜𝑖𝑐. col. 19, 12-14 Dorandi.

[11] Cfr. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 177-180) e i frammenti di etica dello stesso Speusippo (F 73-89 Isnardi-Parente).

[12] Wᴇʜʀʟɪ (1978, 15). Sul rapporto tra Speusippo e la bellezza femminile, cfr. ancora l’aneddoto riportato da Dɪᴏɢ. IV 4. A questo proposito, una tradizione ostile al filosofo potrebbe anche aver fatto leva sulla dedica da parte sua di alcune statue alle Cariti nel sacrario alle Muse, fatto erigere da Platone nell’Accademia: 𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 1, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 5).

[13] Si vd. Rᴜɴɪᴀ 2004.

[14] Sulla sua cronologia, si vd. Rᴜɴɪᴀ (2008).

[15] Si vd. Dɪᴏɢ. V 79; VIII 7; IX 1 (Hᴇʀᴀᴄʟ.³ 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 8-10). Sulla cronologia del Lembo, si vd. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (2000).

[16] Si vd. in part. Sᴄʜᴇᴘᴇɴs, Sᴄʜᴏʀɴ (2010, 422-428), ma già Gᴀʟʟᴏ (1975, 28-31).

[17] Dɪʟᴛs (1971, 9); Bʟᴏᴄʜ (1940, 36-37). Si vd. anche 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 T 5 con il commento di Bollansée.

[18] Vᴏɴ Fʀɪᴛᴢ (1931).

[19] Come paralleli paleografici, si possono citare 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. I 26 (= 𝑃. 𝐿𝑖𝑡. 𝐿𝑜𝑛𝑑. 129) e 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XXXIV 2703, entrambi effettivamente datati alla seconda metà del II secolo: cfr. Rᴏʙᴇʀᴛs (1955, 19) e Dᴇʟ Cᴏʀsᴏ (2006, 95).

[20] 𝐸𝑑. Pᴀʀsᴏɴs (1984); 𝑝𝑎𝑝𝑦𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑝𝑠𝑎 𝑖𝑛𝑠𝑝𝑒𝑥𝑖.

[21] 9 ϊερω- 𝑝𝑎𝑝.

[22] 10 ϲυνοχῆϲ : ἐποχῆϲ Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ

[23] 12 Ἀριϲτοφάνηϲ : Ἀριϲτόξενοϲ 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑡𝑎𝑣𝑖𝑡 Gɪɢᴀɴᴛᴇ, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 Ἀρίϲτων

[24] 15 μιρα- 𝑝𝑎𝑝.

[25] 19 αὐτήν Pᴀʀsᴏɴs, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 αὑτήν.

[26] 20 ] ̣τ 𝑣𝑒𝑙 γ Pᴀʀsᴏɴs

[27] Rᴜɴɪᴀ (2005).

[28] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1983).

[29] Gʟᴜᴄᴋᴇʀ (1978, 176-179).

[30] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (1991, 16-18; 203 n. 92).

[31] Diogene Laerzio riferisce che Menedemo di Eretria visitò l’Accademia di Atene e incontrò Platone (II 125: ἀνῆλθεν εἰϲ Ἀκαδημείαν πρὸϲ Πλάτωνα, καὶ θηραθεὶϲ κατέλιπε τὴν ϲτρατείαν). Piuttosto che indicare che la ricostruzione accettata della cronologia di Menedemo è sbagliata, questo passo deriva probabilmente da una confusione tra questo Menedemo e Menedemo di Pirra, che fu uno studente dell’Accademia fino alla morte di Speusippo, o da una fonte in cui è menzionata soltanto l’Accademia, e non Platone.

[32] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (2010, 78-80).

[33] Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. col. 6,41-7,10 Dorandi; Eᴘɪᴄʀ. F 10 K.-A.

[34] Si vd. Mᴀᴛᴇʟʟɪ (2004).

[35] Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376-377).

[36] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 60-61).

[37] Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 58).

[38] Pᴀʀsᴏɴs (1984, 50).

[39] Wʜɪᴛᴇ (2004, 213). Sui rapporti tra Ieronimo e Arcesilao, si vd. Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376).

[40] Wʜɪᴛᴇ (2004, 211).

[41] Fin dai saggi di Lᴇᴏ (1901, 118), molti studiosi contemporanei hanno ipotizzato che un legame con la scuola alessandrina e la compilazione di biografie, un genere solitamente associato al Peripato, costituissero un elemento sufficiente perché uno studioso antico fosse designato “peripatetico”. Si vd. 𝑒.𝑔. i casi di Ermippo e Satiro (Pꜰᴇɪꜰꜰᴇʀ [1968, 129-130], e 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Wᴇsᴛ [1974, 280-281]), Agatarchide di Cnido e il grammatico Tolomeo, citato da Sᴇxᴛ. 𝑆. 1, 60 (Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ [1989, 249]). Sᴄʜᴏʀɴ (2003), invece, ha mostrato che l’uso dell’epiteto περιπατητικὸϲ è di solito meglio giustificato e designa un’effettiva formazione filosofica aristotelica. Nel caso in questione, comunque, il titolo dello scritto attribuito ad Aristofane non lascia intendere un’opera di tipo biografico e, perciò, l’argomento della connessione al Peripato tramite questo genere letterario si rivelerebbe piuttosto debole. In ogni caso, data la frammentarietà delle informazioni pervenute sulla vita e sulle opere di Aristofane, non è possibile escludere completamente un qualche legame più concreto con la scuola peripatetica.

[42] Va ricordato che ad Aristofane di Bisanzio è inoltre attribuito un 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, un catalogo di 135 ἑταῖραι con il quale Ateneo di Naucrati sembra avere avuto una certa dimestichezza (si vd. in part. Aᴛʜᴇɴ. XIII 567a e 583d-e; cfr. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 347 T 2). In effetti, un’opera del genere sembrerebbe pertinente alla bellezza fisica dell’allieva accademica, soprattutto considerando che Lastenea compare nei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 come ἑταίρα di Speusippo. Ciononostante, una relazione tra il catalogo delle cortigiane e il titolo περὶ ἀλυπίαϲ sembra poco convincente e meramente congetturale.

[43] Sulla vita di Aristofane di Bisanzio, si vd. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (2002).

[44] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 62).

[45] Pʜɪʟᴏᴅ. 𝐴𝑑𝑢𝑙. col. 10, 10-16, 38 Jensen. La lettera è attribuita a un certo Aristone, ma senza ulteriori specificazioni, e gli studiosi moderni l’hanno variamente attribuita o ad Aristone di Ceo o quello di Chio; si vd. però Vᴏɢᴛ (2006) per un’attribuzione convincente al primo e per ulteriore bibliografia sulla questione. Sugli argomenti piuttosto deboli addotti a favore dello Stoico nell’ultima edizione di Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ (2007), cfr. Iɴᴅᴇʟʟɪ (2010). In ogni caso, non meraviglierebbe se un’opera di Aristone di Chio fosse stata erroneamente attribuita al filosofo di Ceo in antico: la confusione tra i due omonimi, e quasi contemporanei, iniziò già nel II secolo a.C. (cfr. Dɪᴏɢ. VII 163).

[46] Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (1989, 249-250). Sulla teoria di Ieronimo, si vd. in part. F 20A e 20B White.

Il grande Partenio del Louvre (Alcman. F 1 Davies)

«[…] Polluce; [non sarò i]o a includere Liceso tra i battuti […] Enar]sforo e il piè veloce Sebro […] e il violento […] il corazzato ed Eutiche e il sire Areio […] e […] che tra i semidei risalta; […] il cacciatore […] grande ed Eurito […] tumulto […] e […] i migliori […] ometteremo […]. Destino [(e Via)] di tutti […] i più anziani  [… sc]alzo vigore. Non vi sia uomo che voli nel cielo né che si provi a sposare Afrodite […] sig[n]ora o qualcuna […] o una figlia di Porco […]. Le Grazie, poi, la c[a]sa di Zeus, […] loro che hanno lo sguardo che accende il desiderio; […]issimi […] divinità […] ai cari […] doni […] (?) la giovinezza […]; l’uno per una freccia […] con macina marmorea […] Ade […]; pena insopportabile patirono per aver tramato il male.

Esiste una vendetta degli dèi; beato chi sereno [i]ntesse il proprio giorno senza pianto.

Ma io canto la luce d’Agidò: la vedo come il Sole, che Agidò per noi invoca a testimone, perché risplenda. Ma a me, no, non permette – quest’inclita corega – di elogiare costei né di biasimarla, in alcun modo: perché è lei che appare essere preminente, così come se si ponesse dentro alla mandria un cavallo solido, vincitore di gare, piè-sonante, di sogni d’oltreroccia. Come, non vedi? Il corsiero è enetico; e la chioma di questa mia cugina, Agesicora, è in fiore [c]ome oro ancora intatto; e il suo viso d’argento…, che cosa ancora dirti apertamente? Agesicora è questa. Dietro, Agidò, seconda per bellezza, correrà quale cavallo colassio con l’ibeno. Perché contro di noi, che un manto portiamo alla Mattutina nella notte d’ambrosia, nel far levare l’astro di Sirio, le Colombe combattono. Non c’è, infatti, di porpora quantità sufficiente per compensarci né il variegato serpente tutto d’oro o la mitra lidia delle giovani dallo sgua[r]do di viola adornamento, né i capelli di Nannò né, invero, Areta simile alle dee, né Silacide insieme a Cleesisera, né, giunta da Enesimbr[o]ta, potrai dire: “Astafide sia mia e mi adocchi Fililla e Demar[e]ta e l’amabile Iantemide”. È Agesicora, invece, che mi logora.

Infatti, lei, che ha le caviglie b[e]lle, Agesic[o]r[a], non è qui presente, rimane [accanto] ad Agidò [e] fa l’elogio del nostro banche[tto]. Ma delle […] dèi, ricevete: ché degli [d]èi è la fine e il fine. Capo[co]ro, vorrei dire, [i]o sono solo una fanciulla, invano emetto grida, civetta dalla trave. I[o], tuttavia, soprattutto ad Aotide desidero piacere: dei nostri affanni, infatti, è sempre guaritrice; ma in virtù [di] Agesicora le giovani mettono piede sulla pace amabile. Ché [a]l cavallo di volata [co]sì e […] occorre [a]l timoniere, anche su una nave […]; e lei delle Siren[i]di più canora […], perché sono dee, ma come undici fanciulle, […]; risuona, infatti, [… sull]e (?) correnti dello Xanto un cigno; lei, con la desiderabile, piccola chioma bionda […]».

P. Oxy. 24 2387 (I sec. a.C.-I sec. d.C. c.). Alcmane, Partheneion con marginalia.

Nel 1855, accanto alla seconda piramide di Saqqara (località egiziana non lontana dall’antica Menfi), lo studioso francese A. Mariette scoprì il frammento di un rotolo papiraceo del I-II secolo, oggi conservato al Louvre (𝑃. 𝐿𝑜𝑢𝑣𝑟𝑒 E 3320) e pubblicato nel 1863, le cui quattro colonne di scrittura – mutile la prima e soprattutto l’ultima, ben conservate quelle centrali – contengono un centinaio di versi, corredati da brevi commenti marginali (𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑖𝑎), di un partenio di Alcmane. Il componimento, indirizzato a una misteriosa dea dell’aurora (v. 62 Ὀρθρίαι, v. 87 Ἀώτι: forse Elena, che Pᴀᴜs. III 14-15 dice venerata nel bosco del Πλατανιστᾶς, oppure Afrodite) e ad altre divinità (vv. 82-83), e composto di almeno otto strofe (sempre sintatticamente collegate) di quattordici versi ciascuna, era destinato a un coro di ragazze, in occasione di una festa notturna estiva (παννυχίς, vv. 63-64), forse per un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità. È verosimile che la sezione mitica, di cui la prima colonna del papiro conserva la parte finale (vv. 1-35), fosse preceduta da un proemio alle Muse (come in 𝑃𝑀𝐺𝐹 3), verosimilmente contenuto, con l’inizio del racconto mitico, nell’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 perduto (almeno sette versi, più facilmente 14+7). Incentrata sull’arroganza punita di Ippocoonte (il fratello illegittimo di Tindaro e Icario, che aveva scacciato i fratellastri da Sparta: cfr. Sᴛʀᴀʙ. X 2, 24, Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. III 123-125) e dei suoi figli (dodici secondo lo Pseudo-Apollodoro, venti secondo Dɪᴏᴅ. IV 33, 6), uccisi da Eracle e dai Tindaridi Castore e Polluce per aver negato loro ospitalità[1] (i sacrari funebri di sei di loro, secondo Pᴀᴜs. III 15, 1, sorgevano a nord-est della città, forse non lontano dal luogo della cerimonia), la saga era seguita da uno snodo sentenzioso (vv. 36-39) e quindi dalla celebrazione dei gesti rituali e della bellezza delle undici coreute (i cui nomi sono menzionati, con quello dell’“esterna” Enesimbrota, ai vv. 70-76), tra cui spiccano la splendida corega (v. 44 χοραγός), dal nome parlante di Agesicora (“Colei che guida il coro”), che canta con voce di cigno (v. 100), e Agidò, la più bella ed elegante del gruppo, fonte e oggetto di gelosia e desiderio, vero polo di attrazione di tutta la parte di “attualità” dell’inno. Sotto la loro 𝑙𝑒𝑎𝑑𝑒𝑟𝑠ℎ𝑖𝑝, probabilmente, il coro eseguiva un’offerta votiva (vv. 60-64) per la dea, e proprio Agidò, forse, affrontava il rito di passaggio previsto nella festa. Il carme è strutturato in tre momenti, ovvero il mito, la 𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒 e l’attualità (μῦθος, γνώμη, καιρός), codificati come gli elementi cardine della poesia corale successiva; a essi si aggiungono, in questo componimento, anche l’afflato religioso e l’(auto)celebrazione del canto (tutti elementi strutturali degli epinici di Pindaro e di Bacchilide). Il carme è una celebrazione per una dea, cui è dedicata la festa, e per un gruppo di ragazze, in una fase cruciale della loro crescita (il che spiega perché già gli antichi ritenessero i parteni componimenti per gli dèi e per gli uomini). Un segno sul margine della quarta colonna, di cui non resta altro, indica quasi certamente che l’inno si concludeva quattro righe dopo la fine della terza colonna (e, dunque, quattro versi dopo l’attuale v. 101).

La prima colonna del papiro parigino conserva, assai frammentaria, la conclusione della sezione mitica: vi è nominato Polluce (v. 1), il figlio di Tindaro, che nella peculiare versione del mito adottata da Alcmane (cfr. Eᴜᴘʜᴏʀ. fr. 29 Pow., Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 36, 2) partecipò, a quanto pare, con Eracle e il fratello Castore all’uccisione degli usurpatori Ippocoontidi e alla consegna dello scettro spartano al padre Tindaro (figlio di Ebalo come Ippocoonte), come racconta Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. II 7, 3. Dopo la menzione-preterizione di Liceso, un figlio di Derite e imparentato alla lontana con gli Ippocoontidi (Derite ed Ebalo erano entrambi nipoti di Amicle) e qui non incluso tra di loro, «i battuti» (v. 2), seguiva l’elenco dei dodici figli dell’usurpatore, di cui il papiro ha conservato cinque nomi, Enarsforo e Sebro (v. 3), Eutiche e Areio (v. 6) ed Eurito (v. 9), là dove la notazione sui «migliori» (v. 11 τὼς ἀρίστως), seguita da un altro verbo di preterizione (v. 12 παρήσομες), suggerisce che Alcmane non si soffermasse troppo neppure sui vincitori. Al vano tentativo di combattere contro Eracle fa probabilmente riferimento «lo scalzo vigore» (v. 15 ἀπ]έδιλος ἀλκὰ) e al tragico destino degli Ippocoontidi la menzione di Αἶσα (v. 13), cui – garantisce lo scolio – era associata quella di Πόρος (la «Via», intesa anche come «Espediente»), entrambi forse qualificati dall’epiteto γεραιτάτοι, «i più anziani» (v. 14) «di tutti» (v. 13: presumibilmente «gli dèi»). Ai vv. 16-25, con una tecnica che diverrà fissa nella poesia corale, la narrazione si interrompeva (i verbi ai vv. 16-17 rendono improbabile che il soggetto fosse ancora ἀλκὰ, da cui dipenderebbe il genitivo ἀνθ]ρώπων) per far posto a una riflessione morale (𝑔𝑛𝑜́𝑚𝑒), già topica all’altezza di Alcmane (cfr. per es. 𝑂𝑑. XV 329, XVII 565): non si deve presumere di volare sino al cielo né tentare di sposare Afrodite o un’altra dea o donna di conclamata beltà (vv. 16-21); tra le altre, erano nominate le Cariti «dallo sguardo che accende il desiderio» (ἐρογλεφάροι) e forse una figlia di Porco/Nereo, probabilmente l’oceanina Teti (vv. 19-21). L’ultima parte della prima colonna, alquanto danneggiata, conteneva forse una rassegna di morti più o meno eroiche (vv. 22-33), suggellata da una nuova γνώμη: il fatto che chi ha progettato il male (v. 35 κακὰ μησαμένοι) abbia ricevuto una pena a un tempo «insopportabile» e «indimenticabile» (vv. 34-35 ἄλαστα δὲ / ϝέργα πάσον; cfr. 𝐼𝑙. XXIV 105, 𝑂𝑑. IV 108, Hᴇs. 𝑇ℎ. 467) è garanzia che «esiste una vendetta degli dèi» (v. 36: nel concetto di τίσις è qui implicito anche quello di «giustizia» e la massima è sottolineata dalla struttura paromofonica e allitterante del verso), e che chi nel sereno e pio equilibrio della mente e del cuore (v. 37 εὔφρων) «intesse il proprio giorno» (v. 38 ἁμέραν [δ]ιαπλέκει) «senza lacrime» (v. 39 ἄκλαυτος; cfr. per es. 𝑂𝑑. IV 494) può dirsi a buon diritto «beato» (v. 37 ὄλβιος).

Tale gnomica teodicea inaugura la seconda e la quarta tra le strofe conservate, dove ha luogo il passaggio, proprio attraverso la γνώμη, dalla narrazione mitica alla celebrazione dell’attualità: «ma io» – si dice con movenza tipicamente lirica (cfr. per es. Sᴀᴘᴘʜ. fr. 168b, 4 V.) – «canto la luce d’Agidò» (vv. 39-40). La più bella tra le coreute, forse la persona per la cui maturità il rito era celebrato, è paragonata al Sole (𝑂𝑑. XIX 234; anche Telemaco emana luce in 𝑂𝑑. XVII 41), di cui anzi ella stessa attesta e invoca per le compagne lo splendore (vv. 40-42). Ma la comparazione si tronca subito, perché l’«inclita corega» (v. 44 ἁ κλεννὰ χοραγὸς) non permette che si faccia elogio né biasimo (vv. 43-44 ἐπαινὲν /… μωμέσθαι: per l’espressione, che nella sua polarità designa globalmente il «parlare», si vd. Sᴇᴍ. fr. 7, 112-113 W.²) di Agidò, piuttosto che della propria «preminente» (v. 46 ἐκπρεπὴς) bellezza;  un nuovo paragone con un cavallo Enetico (verosimilmente della Paflagonia, tra la Bitinia e il Mar Nero, regione famosa per i suoi muli selvatici: cfr. 𝐼𝑙. II 852-853), robusto vincitore dal piede risuonante (v. 48), suscitatore di sogni che, come quelli transoceanici dell’𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 (XXIV 11-14), vivono dietro le rocce (v. 48 ὑποπετριδίων ὀνείρων), e la correlata menzione di una «chioma» (v. 51 χαίτα: capigliatura umana, come per es. in 𝐼𝑙. XXIII 141, e criniera equina, come per es. in 𝐼𝑙. VI 509; le χαῖται sono spesso citate nei riti di passaggio femminili) in fiore come «oro puro» (v. 54 χρυσὸς… ἀκήρατος: la similitudine è riusata per l’Astimeloisa di 𝑃𝑀𝐺𝐹  3, 68; cfr. anche Aʀᴄʜɪʟ. fr. 93a, 6 W.²) introducono, ritardandolo, l’ominoso (come del resto gli altri, che definiscono ruoli prima che persone) nome della corega, Agesicora (vv. 53 e 57), che la strutturale solidarietà del gruppo femminile arriva a definire affettuosamente «cugina» (ἀνεψιᾶ, v. 52) e il cui «argenteo viso» (v. 55 ἀργύριον πρόσωπον) non ha bisogno di esplicite celebrazioni (l’ennesima preterizione, διαφάδαν τί τοι λέγω; «che cosa ancora dirti apertamente?», ha luogo al v. 56).

Kleitias. Scena di danza (dettaglio). Pittura vascolare a figure nere dal «Cratere François», 570-565 a.C., da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

La debita esecuzione dell’elogio di Agesicora permette di tornare ad Agidò, motore del canto e delle omoerotiche passioni delle ragazze: la sua bellezza (v. 58 ϝεῖδος), seconda solo a quella della corega, la segue tuttavia da vicino (vv. 58-59 πεδ’… / δραμείται), come un cavallo colassio quello ibeno (sui rapporti qualitativi tra queste due razze, rispettivamente scita e lidia, informa lo scolio B 1). L’immagine dei cavalli e l’accenno alla corsa (in cui il tempo futuro, δραμείται, «correrà», può non essere una mera 𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑡𝑖𝑜 del presente) veicolano un’idea di velocità, funzionale forse a sottolineare che il rito offertoriale deve ormai essere concluso: è infatti, l’alba, perché le Colombe, cioè le Pleiadi (v. 60 Πελειάδες: le sette figlie di Atlante e di Pleione, tramutate prima in colombe e poi in stelle da Zeus per salvarle da Orione, cfr. 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Hᴇs. 𝑂𝑝. 382, 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙. Aʀᴀᴛ. 254-255), «nel far levare l’astro di Sirio» (vv. 62-63 ἅτε Σίριον / ἄστρον ἀϝειρομέναι: Sirio era il cane di Orione, lanciato all’inseguimento delle Pleiadi, come in Hᴇs. 𝑂𝑝. 619-620 e nel prologo dell’euripidea 𝐼𝑓𝑖𝑔𝑒𝑛𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝐴𝑢𝑙𝑖𝑑𝑒, vv. 6-8), “affrettano” il sorgere del Sole e, dunque, «combattono contro di noi» (vv. 60-63 ἇμιν… / …μάχονται), impegnate, «nella notte di ambrosia» (v. 62 νύκτα δι’ ἀμβροσίαν: si tratta di una formula epica, cfr. 𝐼𝑙. X 41, 142, XXIV 363, 𝑂𝑑. IX 404, XV 8), a offrire il rituale «manto» (φᾶρος), oppure un «aratro» (φάρος, forse più appropriato a un rituale con valenza agricola che calzerebbe a pennello nel periodo più caldo dell’anno, quando le Pleiadi sorgono prima del Sole, che si leva contemporaneamente a Sirio), alla dea «Mattutina» (v. 61 Ὀρθρίαι). Questa “sfida contro le stelle”, d’altra parte, finisce per suggellare in un’implicita, ma topica, similitudine astrale (cfr. per es. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 67, ancora per Astimeloisa, Sᴀᴘᴘʜ. fr. 34 V., Sɪᴍᴏɴ. 𝑃𝑀𝐺 555; quanto a Sirio, in 𝐼𝑙. XI 62-66 designa lo splendore di Ettore) i due elogi, quello della corega e quello della coreuta principale, e dunque la loro eroica aristia femminile, al termine di una faticosa nottata di riti e al culmine della celebrazione, di cui Agesicora, che sembra mantenere una funzione di guida, e Agidò sono indiscusse protagoniste. Questo, malgrado la problematicità dei versi e le divergenti interpretazioni degli studiosi, pare essere il significato della quinta strofe.

La sesta strofe – che, come le altre, è dotata di autonomia semantica ma resta sintatticamente collegata alla precedente dal solito γάρ, che compare nel verso iniziale di tutte le ultime tre strofe – introduce, in una sorta di falsa 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 con struttura anaforica e scandita da incipitarie negazioni, tutti gli elementi che celebrano e magnificano la bellezza delle coreute e che sono tuttavia insufficienti (κόρος, al v. 65, indica la «sazietà» sin da 𝐼𝑙. XIII 636) a «compensarle» (v. 65 ἀμύναι, secondo un’interpretazione che risale, a quanto pare, ad Ar. Byz. fr. 33 Slater) e quindi a «distoglierle» dal 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠 (emotivo, erotico e cultuale) del loro rito. Né la «porpora» (πορφύρα, v. 64) delle vesti né un «variegato» monile serpentiforme tutto d’oro massiccio (vv. 66-67 ποικίλος δράκων / παγχρύσιος; l’espressione ritorna anche in Pɪɴᴅ. 𝑃. 8, 46), né una mitra lidia (come quella che Saffo avrebbe voluto per la figlia Cleide nel fr. 98 V.), di cui si adornano le giovani «dallo sguardo di viola» (v. 69 ἰανογ[λ]εφάρων: si tratta di un termine presente solo qui), né le differenti doti delle altre otto fanciulle, i cui nomi sono sigillati ai vv. 70-76: Nannò dai bei capelli (v. 70), Areta «simile alle dee» (v. 71), Silacide e Cleesisera (v. 72), Astafide (v. 74), che ispira la passione erotica dell’io parlante (μοι γένοιτο; cfr. Aʀᴄʜɪʟ. fr. 118 W.², Hɪᴘᴘᴏɴ. fr. 120 Dg.²), Fililla (v. 75), da cui ella vorrebbe essere adocchiata (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 62), Damareta e l’«amabile» Iantemide (v. 76); misteriosa resta invece la menzione di Enesimbrota (v. 73), forse una confidente di almeno alcune tra le coreute, ma difficilmente parte del gruppo se occorre andare sino a casa sua per parlarle e se il coro, come pare (cfr. v. 99), era composto da dieci membri, corega compresa. È infatti Agesicora il 𝑓𝑜𝑐𝑢𝑠, è Agesicora che «logora» (v. 77 τείρει; per l’accezione erotica, cfr. Hᴇs. fr. 298 M.-W. = 235a Most e Tᴇʟᴇsᴛ. 𝑃𝑀𝐺 805, 5), e nel suo nome si conclude la strofe.

Quel sentimento, sempre più incontrollabile, di passione e di gelosia, che si accresce nel cuore dell’io parlante magnificando con la sua stessa presenza le due protagoniste della festa, raggiunge l’apice al culmine della cerimonia, quando Agesicora «dalle belle caviglie» (v. 78 κα̣λλίσφυρος: l’epiteto occorre 5 volte nei poemi omerici, 4 negli 𝐼𝑛𝑛𝑖, 11 in Esiodo, e poi 4 in Simonide, dove è sempre riferito alla madre di Eracle, Alcmena) e Agidò sono ormai distanziate dal coro (vv. 78-80). L’elogio-approvazione del sacro banchetto (v. 81 θωστήρι̣ά̣), sanzionato dalla corega (ἐπαινεῖ), e l’offerta finale agli dèi (vv. 82-83, con il formulare δέξασθε: cfr. per es. 𝐼𝑙. II 420 e poi Pɪɴᴅ. fr. 52e, 45 M.), cui appartengono la «fine» (v. 83 ἄνα, cioè ἄνυσις, «compimento»: cfr. per es. Aᴇsᴄʜ. 𝑇ℎ. 713) e il «fine» (v. 84 τέλος, con rilevato 𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑏𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡, a sottolineare la continuità e l’effettività del supremo potere divino, per cui a ogni esito segue uno scopo: cfr. Hᴇs. 𝑂𝑝. 669, Sᴇᴍ. fr. 1, 1-2 W.²) di ogni cosa, concludono infine il rito: l’allocuzione diretta alla corega (v. 84 [χο]ρο̣στάτις: ma la lettura è incerta) – con il riconoscimento della propria fanciullesca (v. 86 παρσένος) e vana (μάταν) loquacità (λέλακα), degna di una civetta (v. 87 γλαύξ) appollaiata, e con l’accorta professione di fede in Aotide, la stessa dea dell’aurora (cfr. v. 61), cui «soprattutto» (μάλιστα) occorre voler piacere (v. 88) e dalla quale è possibile avere infine cura (essa è ἰάτωρ, «medico») contro gli «affanni» (πόνοι, v. 88), fisici e psicologici, della lunga nottata – propizia infine il desiderato approdo (v. 91 ἐπέβαν, ma il verbo, usato metaforicamente in questo senso anche da Pɪɴᴅ. 𝑁. 3, 20, può indicare altresì la salita su un carro [cfr. per es. 𝐼𝑙. V 221, VIII 44], su una nave [cfr. per es. 𝐼𝑙. VIII 512], e soprattutto su un talamo nuziale [cfr. per es. 𝐼𝑙. XIX 176]) delle «giovani» (v. 90 νεάνιδες), guidate da Agesicora, alla «pace amabile» (v. 91 ἰρ]ή̣νας ἐρατᾶ̣ς), ἄνη e τέλος del loro rito notturno.

Agesicora «cavallo di volata» (σειραφόρος, v. 92) di un carro e «timoniere» (κυβερνήτης, v. 94) di una nave, quasi a recuperare le implicazioni metaforiche dell’ἐπέβαν del v. 91, apre l’ultima strofe: è lei che occorre «ascoltare» (se al v. 95 si può leggere ἀκούην, con un’accezione di obbediente discepolato già attestata, per es., in 𝐼𝑙. XIX 256, 𝑂𝑑. VII 11), sebbene non sia «più canora» (v. 97 ἀοιδοτέρα) delle Sirenidi (forse le Muse, equiparate alle Sirene anche in 𝑃𝑀𝐺𝐹 30), perché sono dee (v. 98 σιαὶ γάρ). Che cosa venisse detto nel seguito di questo verso e in quello successivo è soltanto desumibile dalle incerte indicazioni dello scolio A 21: la corega canterebbe (se al v. 99 si deve leggere ἀ̣ε̣ί̣δ̣ει o ἀ̣ε̣ί̣σ̣ει) come dieci fanciulle in luogo di undici, ovvero farebbe sì che la decade corale di cui è corega canti per undici (un modo come un altro per dire che la sua voce vale per due, cioè che parrebbe più probabile), o ancora (se si ipotizza un errore dello scriba o dello scoliasta, che avrebbe scritto «undici» in luogo di «nove») la sua decade canterebbe al pari delle «nove fanciulle», cioè delle Muse stesse. Ciò che è certo è che Agesicora veniva paragonata ancora a un «cigno» (v. 101 κύκνος) – l’uccello sacro al dio della poesia, Apollo (cfr. per es. Aʟᴄ. fr. 307c V., Sᴀᴘᴘʜ. fr. 208 V.) – che emette i propri gorgheggi (v. 100 φθέγγεται) sulle «correnti» dello Xanto (v. 100, cfr. 𝐼𝑙. VI 4), il fiume «biondo», come «bionda» (v. 101 ξανθᾶι; per le chiome bionde, cfr. pure 𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 9, 5, 2 c. 1 18, 59b, 3) è la «piccola chioma» (κομίσκα: il diminutivo ha valore affettivo) «che ispira desiderio» (ἐπ̣ιμέρος, v. 101) della corega. L’immagine del cigno, 𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑦𝑚𝑏𝑜𝑙 di canto supremo, ricorda quella della civetta, vanamente garrula, del v. 86 e completa così un implicito confronto ornitologico tra uccelli diversamente canori: uno “schema” che avrà lunga fortuna nelle tenzoni poetiche della tradizione greca, da Pindaro (𝑁. 3, 80-82) a Teocrito (7, 47-48) sino ad Antipatro di Sidone (𝐴𝑃 VII 713, 7-8). A un cigno sarà, infine, paragonato lo stesso Alcmane, nell’elogio tributatogli dall’epigrammista ellenistico Leonida di Taranto (𝐴𝑃 VII 19, 1-2).

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse su calyx-krater, c. 460 a.C. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

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[1] Pᴀᴜs. III 15, 3-5: «Si dice che l’ostilità tra Eracle e la casa di Ippocoonte trasse origine dal rifiuto degli Ippocoontidi di purificarlo, quando egli giunse a Sparta per espiare l’uccisione di Ifito. Ma anche quest’altro incidente contribuì all’inizio del conflitto: Eono, un giovinetto, cugino di Eracle, venne a Sparta insieme a lui; mentre girava per vedere la città, quando giunse alla casa di Ippocoonte, un cane da guardia gli si avventò contro. Eono lanciò una pietra e abbatté la belva; allora corsero fuori i figli di Ippocoonte e uccisero Eono a colpi di bastone. Questo fece inferocire Eracle contro Ippocoonte e i suoi figli, e, irato com’era, corse subito ad affrontarli. Allora egli fu ferito e, nascostosi, batté in ritirata; ma in seguito, fatta una spedizione contro Sparta, gli riuscì di vendicarsi di Ippocoonte e di punirne anche i figli per l’assassinio di Eono».