Ipparchia di Maronea

Ipparchia (Ἱππαρχία) fu una donna di nobili origini, discendente di un’importante famiglia di Maronea in Tracia, che 𝑓𝑙𝑜𝑟𝑢𝑖𝑡 nel corso della CXI Olimpiade (336-333 a.C.). Per entusiastica infatuazione verso il movimento cinico convinse ad abbracciarne la dottrina persino suo fratello Metrocle, già alunno del Peripato, e insieme si misero alla sequela di Cratete di Tebe. Sul conto della donna, Diogene Laerzio riporta quanto segue (VI 96-98):

Ἐθηράθη δὲ τοῖς λόγοις καὶ ἡ ἀδελφὴ τοῦ Μητροκλέους Ἱππαρχία. Μαρωνεῖται δ’ ἦσαν ἀμφότεροι. Καὶ ἤρα τοῦ Κράτητος καὶ τῶν λόγων καὶ τοῦ βίου, οὐδενὸς τῶν μνηστευομένων ἐπιστρεφομένη, οὐ πλούτου, οὐκ εὐγενείας, οὐ κάλλους· ἀλλὰ πάντ’ ἦν Κράτης αὐτῇ. καὶ δὴ καὶ ἠπείλει τοῖς γονεῦσιν ἀναιρήσειν αὑτήν, εἰ μὴ τούτῳ δοθείη. Κράτης μὲν οὖν παρακαλούμενος ὑπὸ τῶν γονέων αὐτῆς ἀποτρέψαι τὴν παῖδα, πάντ’ ἐποίει, καὶ τέλος μὴ πείθων, ἀναστὰς καὶ ἀποθέμενος τὴν ἑαυτοῦ σκευὴν ἀντικρὺ αὐτῆς ἔφη, “ὁ μὲν νυμφίος οὗτος, ἡ δὲ κτῆσις αὕτη, πρὸς ταῦτα βουλεύου· οὐδὲ γὰρ ἔσεσθαι κοινωνός, εἰ μὴ καὶ τῶν αὐτῶν ἐπιτηδευμάτων γενηθείης.” Εἵλετο ἡ παῖς καὶ ταὐτὸν ἀναλαβοῦσα σχῆμα συμπεριῄει τἀνδρὶ καὶ ἐν τῷ φανερῷ συνεγίνετο καὶ ἐπὶ τὰ δεῖπνα ἀπῄει. ὅτε καὶ πρὸς Λυσίμαχον εἰς τὸ συμπόσιον ἦλθεν, ἔνθα Θεόδωρον τὸν ἐπίκλην Ἄθεον ἐπήλεγξε, σόφισμα προτείνασα τοιοῦτον· ὃ ποιῶν Θεόδωρος οὐκ ἂν ἀδικεῖν λέγοιτο, οὐδ’ Ἱππαρχία ποιοῦσα τοῦτο ἀδικεῖν λέγοιτ’ ἄν· Θεόδωρος δὲ τύπτων ἑαυτὸν οὐκ ἀδικεῖ, οὐδ’ ἄρα Ἱππαρχία Θεόδωρον τύπτουσα ἀδικεῖ. ὁ δὲ πρὸς μὲν τὸ λεχθὲν οὐδὲν ἀπήντησεν, ἀνέσυρε δ’ αὐτῆς θοἰμάτιον· ἀλλ’ οὔτε κατεπλάγη Ἱππαρχία οὔτε διεταράχθη ὡς γυνή. ἀλλὰ καὶ εἰπόντος αὐτῇ, “αὕτη ἐστὶν ἡ τὰς παρ’ ἱστοῖς ἐκλιποῦσα κερκίδας;”, “ἐγώ,” φησίν, “εἰμί, Θεόδωρε· ἀλλὰ μὴ κακῶς σοι δοκῶ βεβουλεῦσθαι περὶ αὑτῆς, εἰ, τὸν χρόνον ὃν ἔμελλον ἱστοῖς προσαναλώσειν, τοῦτον εἰς παιδείαν κατεχρησάμην;” καὶ ταῦτα μὲν καὶ ἄλλα μυρία τῆς φιλοσόφου.

Dalla dottrina dei Cinici fu attratta anche la sorella di Metrocle, Ipparchia. Entrambi erano di Maronea. Amava sia i discorsi sia lo stile di vita di Cratete, senza mostrare interesse né per la ricchezza né per la nobiltà né per la bellezza di nessuno dei propri pretendenti: Cratete era tutto per lei! Minacciò perfino ai suoi genitori che si sarebbe suicidata, se non fosse stata data in sposa a lui. Cratete, allora, fu pregato dai genitori di lei di dissuadere la ragazza da simili propositi; egli fece di tutto e, alla fine, non riuscendo proprio a convincerla, alzatosi e spogliatosi di tutti i vestiti, di fronte a lei, disse: “Lo sposo è questo, questi i suoi averi e in base a ciò prendi una decisione. Costui, infatti, non potrà essere tuo sposo, se tu non acquisirai il suo stesso stile di vita”. La ragazza fece la sua scelta e, assunto il medesimo abbigliamento, andava così in giro con il proprio compagno, stava con lui in pubblico e andava a banchetto insieme a lui. E fu in occasione di un simposio alla corte di re Lisimaco che Ipparchia confutò Teodoro l’Ateo, svolgendo il seguente sofisma: se ciò che fa Teodoro non è ritenuto essere ingiustizia, anche se lo fa Ipparchia si deve ritenere che non sia ingiusto. Teodoro, colpendo se stesso, non commette ingiustizia; dunque, neppure Ipparchia, colpendo Teodoro, commette ingiustizia. E quello al ragionamento svolto da lei non fece alcuna obiezione, ma cercò di sollevarle la veste. Ipparchia, però, non ne fu colpita né sconvolta, come una donna. Anzi, quando egli le disse: “Chi è costei che ha abbandonato presso i telai le spole?”, lei ribatté: “Sono io, Teodoro; ma ti sembra forse che io abbia preso una cattiva decisione riguardo a me stessa, se ho investito nella mia educazione il tempo che avrei sprecato presso i telai?”. Questi e moltissimi altri sono i detti della nostra filosofa.

Ipparchia (dettaglio). Affresco, I sec. a.C.-I sec. d.C. Corridoio A. Casa della Farnesina, Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

Il lessico 𝑆𝑢𝑑𝑎 v. 2341 tramanda che Cratete definì la relazione con Ipparchia una κυνογαμία, cioè «accoppiamento fra cani» (cfr. anche Aᴜɢᴜsᴛ. 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 𝑠𝑒𝑐𝑢𝑛𝑑. 𝐼𝑢𝑙𝑖𝑎𝑛. 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑠. 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑐𝑡. 𝑜𝑝𝑢𝑠 IV 43); a questo proposito, Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. 𝑃. 153) e Apuleio (Aᴘᴜʟ. 𝐹𝑙. 14) narrano che la coppia fosse solita fare sesso in pubblico, per dimostrare la propria ἀδιαφορία («indifferenza») e ἀναιδεία («impudenza»). La 𝑆𝑢𝑑𝑎 v. 517 riporta forse i titoli delle opere che Ipparchia compose e che indirizzò proprio a Teodoro: le Φιλοσόφων ὑποθέσεις (𝑆𝑒𝑛𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖), gli Ἐπιχειρήματα (𝐿𝑖𝑛𝑒𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑟𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑎) e le Προτάσεις (𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑖). In un epigramma di Antipatro di Sidone (𝐴𝑃. VII 413) a parlare in prima persona è proprio Ipparchia, che dichiara di aver rinunciato alle attività e alla moda femminili per scegliere il corredo dei Cinici:

Οὐχὶ βαθυστόλμων Ἱππαρχία ἔργα γυναικῶν,

τῶν δὲ Κυνῶν ἑλόμαν ῥωμαλέον βίοτον·

οὐδέ μοι ἀμπεχόναι περονήτιδες, οὐ βαθύπελμος

εὔμαρις, οὐ λιπόων εὔαδε κεκρύφαλος,

οὐλὰς δὲ σκίπωνι συνέμπορος ἅ τε συνῳδὸς

δίπλαξ καὶ κοίτας βλῆμα χαμαιλεχέος.

ἀμὶ δὲ Μαιναλίας κάρρων εἴμειν Ἀταλάντας

τόσσον, ὅσον σοφία κρέσσον ὀρειδρομίας.

Io, Ipparchia, non scelsi le opere delle donne

dall’ampia veste, ma la dura vita dei Cinici.

Non mi piacquero le tuniche affibbiate, né le calzatura

dall’alta suola e nemmeno la cuffia lucente,

ma la bisaccia compagna di viaggio del bastone, il doppio mantello,

che a essi s’accorda, e la coperta del letto stesa a terra.

Dico di essere superiore alla menalia Atalanta,

tanto quanto la sapienza supera le corse montane.

L’incontro tra Ipparchia e Teodoro, data la sua unicità nel mondo antico, ha suscitato certo interesse da parte degli studiosi. L’aneddoto, tramandato dalla fonte laerziana, si sviluppa, come si è letto, in più fasi che, sul piano semiotico, si declinano attraverso linguaggi differenti: innanzitutto, la filosofa confuta le affermazioni di Teodoro per mezzo di un sofisma (σόφισμα); al che l’uomo non ribatte verbalmente, ma ἀνέσυρε δ’ αὐτῆς θοἰμάτιον (espressione che Marcello Gigante, nell’edizione del 1976 aveva reso con «cercò di denudarla della sua veste»), mentre Ipparchia non mostra alcuna reazione sul piano verbale né su quello non verbale; infine, Teodoro glossa il proprio gesto con una battuta ambigua, anzi enigmatica (cita un verso delle 𝐵𝑎𝑐𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖 euripidee: Eᴜʀ. 𝐵𝑎𝑐. 1236), e la donna gli ribatte in maniera retoricamente intonata.

L’interpretazione comune dell’aneddoto, dunque, è che Teodoro avesse cercato di spogliare la giovane e di saltarle addosso, con chiare finalità erotiche. Walter Lapini (2003) ha invece fatto chiarezza sul reale significato del gesto che Teodoro avrebbe commesso ai danni della filosofa. Nella maggior parte delle traduzioni del Laerzio, infatti, il senso della reazione dell’uomo suonerebbe, come parafrasa efficacemente Lapini: “Mi hai umiliato intellettualmente? E io ti violento, ti mostro che le donne sono buone solo per quella cosa”. Una reazione, quella di Teodoro, che aveva sempre suscitato una certa perplessità, tanto che molti degli interpreti, come lo stesso Gigante (1976), avevano preferito inserire una sfumatura conativa.

Teodoro, invece, afferma Lapini, non ha spogliato né tentato di denudare Ipparchia: la sua intenzione era quella di sollevarle la veste per controllarne i genitali e sincerarsi di avere davvero di fronte una donna. La premessa inespressa del suo gesto, insomma, è chiara: le donne con la filosofia avevano ben poco a che fare, secondo la 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑢𝑛𝑖𝑠 𝑜𝑝𝑖𝑛𝑖𝑜. Nessuna implicazione erotica, dunque; la traduzione corretta è perciò «le sollevò la veste», in accordo con il significato registrato da tutti i dizionari per il verbo ἀνασύρω. In quel suo gesto, di chiara ascendenza comica, Teodoro l’Ateo ha tentato di mettere in ridicolo davanti a tutti, in un ambiente tipicamente maschile come il simposio, quella donna che aveva osato metterlo con le spalle al muro. Del resto, ciò che colpisce e colpiva della figura di Ipparchia è proprio il fatto che ella si fosse scelta da sé il proprio compagno, contro il parere della famiglia, si vestisse come lui e partecipasse ai banchetti pur non essendo un’etera.

Il tentativo di Teodoro di sbertucciare la donna, però, non riesce: ella infatti si dimostra del tutto impassibile (ἀλλ’ οὔτε κατεπλάγη Ἱππαρχία οὔτε διεταράχθη ὡς γυνή, « Ipparchia, però, non ne fu colpita né sconvolta, come una donna»). Ipparchia è una donna che ha sostituito le occupazioni femminili (ἱστοί) con quelle maschili (lo studio e la filosofia) e affronta un uomo in un campo prettamente maschile (il simposio). La reazione dell’uomo potrebbe essere stata ispirata anche dal contenuto stesso del sofisma e la glossa delle 𝐵𝑎𝑐𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖 serve ad ammonire l’interlocutrice, ricordandole l’esito nefasto delle imprese della protagonista Agave: insomma, darle della “baccante” può avere a che fare non solo con il suo essere donna che sceglie il mestiere maschile del filosofo, ma anche con il tipo di dottrina che ha scelto, cioè quella cinica. In ogni caso, l’ultima parola tocca proprio a Ipparchia: ella non solo dimostra a Teodoro di non voler stare al suo gioco, lasciandosi prendere in giro, ma anche che lui stesso è in errore nel ritenere che una donna sia inadatta e incapace di filosofare tanto quanto un maschio. Così, Ipparchia lo mette al tappeto una seconda volta!

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Diogene «il cane» e gli sviluppi del cinismo

di REALE G., Il pensiero antico, Milano 2001, 259-265, con bibl.

1. Diogene e la radicalizzazione del cinismo. – Il fondatore del cinismo fu Antistene, ma toccò a Diogene di Sinope la ventura di diventare il rappresentante più tipico e quasi il simbolo di questo movimento spirituale[1]. Infatti, Diogene non solo portò le istanze sollevate da Antistene alle estreme conseguenze, ma le seppe far diventare sostanza di vita con un rigore e una coerenza così radicali che per interi secoli furono considerati veramente straordinari. Diogene infranse l’immagine classica dell’uomo greco e quella nuova che egli propose fu tosto considerata come un paradigma: infatti, l’età ellenistica (e in parte la stessa età imperiale) riconobbe in essa l’espressione delle proprie esigenze di fondo o, almeno, di una parte essenziale di queste. La celebre frase «cerco l’uomo» (V B, fr. 272 G.), che Diogene pronunciava camminando con la lanterna accesa in pieno giorno, con evidente provocatoria ironia, voleva significare questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica essenza, cerco l’uomo che, al di là di tutte le proprie esteriorità, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice.

Diogene di Sinope. Mosaico, II-III sec. d.C. Köln, Römisch-Germanisches Museum.

Il compito che Diogene si arrogava fu appunto quello di riportare bene in vista quei facili mezzi di vita e di dimostrare che l’uomo ha sempre a sua disposizione ciò che occorre per essere felice, purché sappia rendersi conto delle effettive esigenze della propria natura.

Per Socrate, la natura dell’uomo era la sua stessa «anima», intesa come intelligenza e coscienza; già in Antistene questa prospettiva, pur essendo chiaramente ribadita, tuttavia vacillava; in Diogene le istanze naturalistiche (e si potrebbe dire anche materialistiche) prendono un deciso sopravvento. Per la verità, l’eco della dottrina socratica dell’anima si sente ancora: Diogene addita nell’«armonia dell’anima» lo scopo della vita mortale e nella «salute dell’anima» lo scopo stesso dell’«esercizio fisico»; tuttavia, egli svuota di contenuto tali affermazioni, da un lato, nella misura in cui toglie ogni consistenza a quello che per Socrate era stato il nutrimento dell’anima, ossia alla scienza e alla cultura, e, dall’altro lato, nella misura in cui gli elementari bisogni dell’essere animale finiscono, ai suoi occhi, per diventare i fondamenti da cui egli desume le regole del vivere (cfr. V B, frr. 319; 374; 391; 397 G.).

Per quanto concerne il primo punto, è da rilevare quanto segue. Le matematiche, la fisica, l’astronomia e la musica sono per lui «inutili e non necessarie». Assurde sono anche le costruzioni metafisiche: le Idee platoniche non esistono, perché non sono attestate dai sensi e dall’esperienza. Il cinismo con Diogene e dopo di lui diventa la più “anti-culturale” delle filosofie che la Grecia e l’Occidente abbiano conosciuto.

Il parametro di vita del Cinico è il comportamento dell’animale interpretato dalla ragione umana: e il comportamento dell’animale, se ben inteso dalla ragione, dice appunto che quasi tutte le cose che l’uomo ricerca e fa sono determinate dalle convenzioni sociali e, dunque, non naturali e, pertanto, superflue. È appena il caso di rilevare come questa posizione risulti fortemente aporetica o, quantomeno, assai ambigua: infatti, non è la vita dell’animale in quanto tale, ma piuttosto la ragione che la interpreta il vero parametro. Inoltre, fra il comportamento dell’animale e quello dell’uomo c’è un vero abisso – quello della libertà e della scelta, che rende il primo incommensurabile rispetto al secondo. Ma Diogene ne è in certa misura colpevole, tant’è vero che pone proprio nella libertà il principio e il fine del suo sistema di vita. Tuttavia, la natura e la libertà, per lui, lungi dall’essere in antitesi, sembrerebbero paradossalmente coincidere. Del resto, i concetti cardinali del suo pensiero esprimono non altro che i modi in cui questa libertà prende corpo, oppure i mezzi per raggiungerla o fortificarla (cfr. V B, fr. 291 G.).

John William Waterhouse, Diogene. Olio su tela, 1882.

2. La παρρησία e l’ἀναιδεία. – In primo luogo, Diogene proclamò la «libertà di parola» (παρρησία). Il Cinico dice ciò che pensa a tutti e anche nel modo più caustico, senza alcuna discriminazione, sia che si tratti di un semplice uomo comune sia che si tratti di un famoso filosofo o un potente sovrano: notissime, nell’antichità, furono le sue mordaci risposte a Platone, a Filippo e al grande Alessandro. Insieme alla «libertà di parola» Diogene proclamò la «libertà delle azioni» (ἀναιδεία), una libertà spinta, sfacciata, talora oltre il limite dell’impudenza e, addirittura, della licenza (cfr. V B, fr. 473 G.). Con questa libertà di azione egli intese dimostrare la mera convenzionalità e, quindi, la non-naturalità di certi usi e costumi ellenici, ma, più di una volta, insieme a essi, violò anche le più elementari norme di decenza.

Mattia Preti, Platone e Diogene. Olio su tela, 1688 c. Roma, Musei Capitolini.

3. La pratica dell’esercizio (ἄσκησις) e della fatica (πόνος). – Il metodo che può condurre alla libertà e alla virtù e, quindi, alla felicità si riassumeva, per Diogene, nei due concetti essenziali di «esercizio» e «fatica», che consistevano in una pratica di vita atta a temprare il fisico e lo spirito alle fatiche imposte dalla natura e, insieme, volta ad abituare l’individuo al dominio dei piaceri, se non al loro più totale «disprezzo». Ora, proprio questo «disprezzo del piacere», che era già stato predicato da Antistene, era fondamentale nella vita del Cinico, giacché il piacere non solo rammollisce il fisico e lo spirito, ma mette in pericolo e distrugge anche la libertà, rendendo l’uomo in vario modo schiavo delle cose e degli altri e, quindi, ostacolando la realizzazione di quell’αὐτάρκεια e quell’ἀπάθεια, che costituiscono la massima aspirazione del saggio. E non meno del distacco dal piacere, per Diogene, era fondamentale l’affrancamento dalle passioni: «Gli stolti sono schiavi delle passioni, come i servi del padrone» (V B, fr. 318 G.).

Paride Pascucci, Alessandro e Diogene. Olio su tela, 1891.

4. L’αὐτάρκεια e l’ἀπάθεια. – Da quanto fin qui si è detto, risulta evidente come, per Diogene, l’ideale supremo fosse il “bastare a se stessi”, il “non aver bisogno di nulla”, quell’αὐτάρκεια già predicata dal maestro, nonché l’ἀπάθεια, l’«indifferenza», di fronte a tutte le cose. Meglio di ogni altro, esprime il significato dell’αὐτάρκεια diogeniana il seguente episodio davvero stupendo e davvero emblematico: «Mentre una volta Diogene prendeva il sole nel Craneo, Alessandro sopraggiunto gli fece: “Chiedimi quel che vuoi”. E quello di rimando: “Lasciami il mio sole» (V B, fr. 33 G.). Della grande potenza del Macedone Diogene non sapeva che farsene; gli bastava il sole per essere contento ed è la cosa più naturale, a disposizione di chiunque: o meglio, gli bastava la profonda convinzione dell’inutilità di quella potenza, giacché la felicità viene dal di dentro e non dall’esterno dell’uomo.

All’esasperato desiderio d’indipendenza autarchica si ricollega indubbiamente anche la contestazione dell’istituzione del matrimonio e la sostituzione di esso con la convivenza libera di uomo e donna. Naturalmente, il saggio cinico non ha bisogno neppure di una città: in effetti, Diogene, pur riconoscendo un’utilità a quell’ordinata comunità che era la πόλις, asseriva che l’unica costituzione retta è quella che regge l’universo e, quindi, si proclamava «cittadino del mondo» (κοσμοπολίτης, V B, fr. 355 G.). Infine, egli sosteneva che il saggio non ha bisogno neppure di aiuti divini né di premi ultraterreni, pur credendo che la divinità esiste e che «tutto è pieno della sua presenza».

È chiaro come, sulla base di queste convinzioni, Diogene per vivere dovesse chiedere agli altri ciò che gli occorreva e addirittura mendicare, ma egli non chiedeva già con l’umiltà di chi ha bisogno, bensì con la fierezza e anzi con l’alterigia di chi ritiene che tutto gli sia dovuto.

Diogene, forse per primo, adottò per autodefinirsi il termine «cane», vantandosi di questo epiteto che i nemici gli rivolgevano con disprezzo e spiegando che si chiamava così per questi motivi: «Scodinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente, mordo i ribaldi» (V B, fr. 143 G.).

Jean-Léon Gérôme, Diogene. Olio su tela, 1860. Baltimore, Walters Art Museum.

5. Cratete e altri seguaci di Diogene. – Il più famoso dei discepoli di Diogene e, a un tempo, uno dei massimi esponenti del movimento cinico fu Cratete[2]. Questi ribadì il concetto che le ricchezze e la fama (o, se si preferisce, il loro desiderio), lungi dall’essere beni e valori, per il saggio sono mali e disvalori e sono invece beni e valori i loro contrari, vale a dire la povertà e l’oscurità, perché solo chi vive povero e oscuro può realizzare l’autarchia, cioè il non aver bisogno di nulla.

Oltre che povero e oscuro, il Cinico anche per Cratete come per Diogene doveva essere “apolide”: la πόλις non è che un bene effimero e caduco, giacché essa può essere in ogni momento espugnata e non può offrire al saggio quel sicuro rifugio di cui egli necessita per essere felice. Cratete dovette insistere in modo particolare nel denunciare la vanità dei beni mondani e nello squarciare l’illusorietà che li ammanta. Le parole precise del filosofo restano ignote, ma da ciò che riferiscono le fonti neostoiche – per quanto amplificato – si ricava il senso assai forte della denuncia che Cratete muoveva alla «vanità delle cose». Perciò, risulta chiarissima anche la risposta veramente provocatoria che egli diede alla domanda circa il vantaggio che aveva tratto dalla filosofia: «Un quarto di lupini e il non curarsi di nulla» (V B, fr. 83 G.). «Un quarto di lupini» significa lo stretto indispensabile per vivere e «il non curarsi di nulla» intende il preoccuparsi e il restar pago dello stretto indispensabile e il ritener vano e inutile tutto il resto.

Pare, inoltre, che Cratete abbia espressamente polemizzato contro l’edonismo, sostenendo che nessuna vita potrebbe essere felice, se la felicità dovesse essere fatta coincidere con il piacere: egli argomentava che, difatti, in nessuna stagione dell’esistenza umana il piacere sopravanza il dolore e il bilancio totale di ogni vita registra sempre più dolori che non piaceri. In particolare, poi, egli, come i suoi predecessori, proclamò la necessità di tenersi molto lontani dai piaceri di Eros, che, più di altri, turbano l’impassibilità del saggio e, con inaudito sarcasmo, scrisse in un suo distico: «La fame placa l’amore, se no, il tempo; se nulla puoi ottenere da questi due rimedi, un laccio» (V B, fr. 79 G.).

I Cinici, come si è accennato, contestavano l’istituto del matrimonio, o meglio del matrimonio tradizionalmente concepito. Cratete, invece, si sposò con una donna di nome Ipparchia, che aveva abbracciato le idee e lo stile di vita cinici, e riuscì, di conseguenza, a vivere un vero e proprio «matrimonio cinico», una relazione, cioè, che rovesciava tutti i valori che la società del tempo attribuiva all’istituto. Ma questo «matrimonio cinico» non fu che una conferma della dottrina della Scuola e la totale svalutazione delle nozze da parte di Cratete fu confermata in due episodi, in cui l’ἀναίδεια toccò i massimi estremi: non appena suo figlio Pasicle ebbe terminato l’efebia, «lo accompagnò in un postribolo e gli disse che queste erano state le nozze di suo padre»; e diede sua figlia «in matrimonio in prova per trenta giorni» (V B, fr. 26 G.). A ogni modo, con Cratete il cinismo assunse un tono di calda umanità e di filantropia, del tutto assente in Antistene e Diogene. Egli era sempre pronto a dare buoni consigli a chi ne avesse bisogno, anzi spesso non attendeva che gli altri venissero da lui a chiederglieli, ma di sua iniziativa si recava da chi aveva bisogno. E la saggezza dei suoi consigli e il modo affabile con cui li pronunciava erano tali che, per lui, nessuna porta restava chiusa, tanto che fu soprannominato l’«Aproporta» (Θυρεπανοίκτης).

Fra i seguaci di Diogene, tutti assai inferiori a Cratete, sono da ricordare, in primo luogo, Filisco, al quale, secondo un’antica testimonianza, pare debbano essere attribuite le tragedie che andarono sotto il nome del maestro, nelle quali, parodiando i classici temi della tragedia attica, egli presentava le dottrine ciniche. Celebre fu anche Onesicrito, che ammirò gli insegnamenti diogeniani, ma non li praticò; egli partecipò alla spedizione di Alessandro in Oriente e ritenne di ritrovare certi tratti dei Cinici nei Gimnosofisti orientali. Discepolo di Diogene e di Cratete fu Monimo, che conquistò certa popolarità tanto che il comico Menandro lo menzionò, attribuendogli questa massima: «È vano ogni umano pensiero» (V G, fr. 1 G.). Compose degli Scherzi poetici, come Cratete, in cui mescolava serio e faceto (caratteristica, questa, che sarebbe rimasta nella letteratura cinica a venire). Infine, si ricorda Metrocle, che fu fratello di Ipparchia e, perciò, cognato di Cratete, con il quale il cinismo assunse un tono decisamente pessimistico, in netto contrasto con la serenità dei maestri. Viene riferito, tra l’altro, che Metrocle bruciò i propri stessi scritti, esclamando: «Questi sono fantasmi di sogni dell’aldilà» (V L, fr. 1 G.). Viene altresì riportato che morì suicida, essendosi strangolato.

Cratete Cinico e Ipparchia. Affresco, I sec. a.C.-I sec. d.C. Corridoio A. Casa della Farnesina, Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

6. Il cinismo fino alla fine dell’età pagana. – Sia dal punto di vista della dottrina sia da quello della pratica di vita, con Diogene e Cratete il cinismo raggiunse i limiti estremi, al di là dei quali non c’era spazio alcuno per ulteriori sviluppi. Ai cinici posteriori a Cratete, di conseguenza, non restavano altre possibilità che queste: o tener ferme le posizioni dei maestri, oppure tornare indietro. E poiché le posizioni di Diogene e di Cratete erano già estreme e, in quanto tali, difficilissime da mantenere, si spiega così come la seconda alternativa fosse pressoché inevitabile.

Per il III secolo a.C. si hanno notizie di un certo numero di pensatori che professarono dottrine ciniche: Bione di Boristene[3], Menippo di Gadara[4], Cercida di Megalopoli[5], Telete[6] e Menedemo[7]. In tutti costoro è chiaramente riscontrabile la tendenza ad ammorbidire sia la dottrina sia la prassi di vita, proprio nei tratti più tipici. In questo periodo acquistò caratteristiche definitive la produzione letteraria dei cinici, la cui cifra consisteva nella mescolanza di serio e faceto: la parodia era usata non per ottenere effetti comici fine a se stessi, ma per contestare più efficacemente quelle convenzioni e quelle regole della società che gli stessi cinici ritenevano decettive. A Bione, inoltre, pare debba essere fatta risalire, in particolare, la codificazione del genere diatribico, che in seguito ebbe grande fortuna. La diatriba (διατριβή) è un breve dialogo, di carattere popolare e di contenuto etico: si tratta, in sostanza, del dialogo socratico cinicizzato. Le composizioni di Menippo in questo stile sarebbero diventate dei veri e propri modelli letterari. Negli ultimi due secoli dell’era pagana il cinismo languì. Un solo nome di autore è noto in questo periodo: Meleagro di Gadara (la cui attività si colloca agli inizi del I secolo a.C.), peraltro di scarsa importa


[1] Diogene nacque a Sinope. Il padre, Icesio, fu un banchiere e, secondo alcune fonti, fu responsabile di aver alterato la moneta corrente e fu cacciato in esilio con la famiglia (cfr. Dɪᴏɢ. VI 20 = Giannantoni V B, 2). Secondo altre fonti, fu Diogene stesso a battere moneta falsa (egli stesso lo avrebbe ammesso) e, di conseguenza, fu condannato all’esilio o, prima ancora di essere condannato, fuggì (ibid.). Soggiornò a lungo ad Atene, ma anche a Corinto, dove morì. La cronologia della sua vita è piuttosto controversa, ma le date più attendibili restano quelle indicate da Diogene Laerzio, il quale informa che il filosofo «era vecchio nella CXIII Olimpiade [ossia negli anni 328-325 a.C.]» (VI 79 = Giannantoni V B, 92), che morì «all’età di novant’anni circa» (VI 76 = Giannantoni V B, 90) e che addirittura si spense a Corinto nello stesso giorno in cui Alessandro il Grande moriva a Babilonia (VI 79 = Giannantoni V B, 92). Per alcuni studiosi moderni, la notizia secondo cui Diogene sarebbe stato asservito e venduto (cfr. Dɪᴏɢ. VI 29 ss. = Giannantoni V B, 70) è un’invenzione del cinico Menippo. Che Diogene sia stato discepolo di Antistene le fonti antiche lo dicono chiaramente (cfr. Giannantoni V B, 17-24). Diogene Laerzio narra addirittura come sarebbe avvenuto l’incontro dei due filosofi: «Giunto ad Atene, s’imbatté in Antistene. Poiché costui, che non voleva accogliere nessuno come alunno, lo respingeva, egli, assiduamente perseverando, riuscì a spuntarla. E, una volta che Antistene allungò il bastone contro di lui, Diogene porse la testa, aggiungendo: “Colpisci pure, ché non troverai un legno così duro che possa farmi desistere dall’ottenere che tu mi dica qualcosa, come a me pare che tu debba”. Da allora divenne suo uditore, ed esule qual era, si dedicò a un moderato tenore di vita» (VI 21 = Giannantoni V B, 19). Antistene è fondatore del cinismo teorico e Diogene di quello pratico, ma il nucleo essenziale del pensiero diogeniano era già in Antistene. A Diogene sono attribuiti numerosi scritti, dei quali nessuno è pervenuto (cfr. Giannantoni V B 117-118). Nelle citazioni si indicheranno i frammenti tratti dalla raccolta Giannantoni con l’abbreviazione G.

[2] Cratete nacque a Tebe. Stando alla cronologia riferita da Diogene Laerzio (VI 87 = V H, fr. 2 G.), egli «fiorì durante la CXIII Olimpiade» [328-325 a.C.]. Poiché le fonti parlano di rapporti tra Cratete e Stilpone (Dɪᴏɢ. II 117-118 = II O, fr. 6 G.) e Menedemo di Eretria (Dɪᴏɢ. II 131, VI 91 = III F, fr. 11 G.), è probabile che il filosofo sia vissuto agli inizi del III secolo a.C. Compose Scherzi poetici, Tragedie, Elegie ed Epistole, che ebbero larga diffusione. Oltre a testimonianze indirette sono pervenuti anche alcuni frammenti diretti, che danno un’idea abbastanza viva del pensiero e dell’arte di Cratete (questi frammenti e trentasei Epistole a lui attribuiti sono raccolti sempre in Giannantoni, V H, frr. 67-86; 88-123).

[3] Diogene Laerzio elenca Bione fra gli Accademici, in quanto all’inizio fu discepolo dell’accademico Cratete. Ma lo stesso biografo informa che «successivamente [Bione] si volse alla dottrina cinica e indossò il mantello e la bisaccia», anche se subito rileva che «solo con questo mutamento esteriore aderì al principio fondamentale dell’insensibilità (ἀπάθεια)» (IV 51-52 = Kinstrand T 19). Seguì anche Teodoro, filosofo cirenaico; fu abilissimo nel ridicolizzare ogni cosa, servendosi anche di espressioni volgari. Figlio di un servo e di una meretrice, Bione non esitò a far conoscere a tutti questa circostanza, mostrando di ritenerla, secondo lo spirito della cinica ἀναίδεια, del tutto indifferente, se non addirittura positiva. Diogene Laerzio (IV 46-47 = Kinstrand F 1 A) riporta: «Bione fu Boristenita di nascita; quali siano stati i suoi genitori e per quali circostanze si sia accostato alla filosofia rivela egli stesso ad Antigono. Chiedendogli infatti il re chi fosse fra gli uomini e da dove venisse, quale fosse la sua città e chi fossero i suoi genitori, e sapendo Bione che egli era già stato calunniato presso di lui, questa fu la sua replica: “Mio padre era liberto, si puliva il naso con il braccio – voleva dire che era un salsamentario –. Boristenita di stirpe, non aveva una faccia da mostrare, ma una scrittura sulla faccia, segno della severità del padrone. Mia madre fu tale quale un uomo siffatto poteva sposare: veniva da un bordello. Poi, mio padre non so quale dazio non pagò e fu venduto con tutta la famiglia, insieme con noi. Io giovinetto e non privo di grazia fui comperato da un retore, che alla sua morte mi lasciò i suoi beni. E io bruciai i suoi libri, raggranellai ogni cosa e venni ad Atene, ove mi dedicai alla filosofia. Questa è la stirpe, questo è il sangue a cui mi vanto di appartenere. Tale è la mia storia sicché Perseo e Filonide smettano una buona volta di raccontarla. Giudicami da me stesso”».

[4] Menippo, riferisce Diogene Laerzio (VI 99), «proveniva dalla Fenicia ed era servo, come dice Acaico nell’Etica. Diocle riporta che il suo padrone era Pontico e si chiamava Batone». Fra le sue opere, in cui predominava lo spirito derisorio e burlesco, dovettero avere particolare importanza una Nekyia (o Mondo sotterraneo, in cui probabilmente, parodiando Omero, evocava gli spiriti degli avversari e si burlava di loro) e la Vendita di Diogene. Che Menippo, di origini servili, abbia inventato la leggenda della cessione del maestro per dimostrare che l’essere servi fosse cosa assolutamente indifferente per il saggio, è tesi sostenuta da alcuni studiosi moderni, di per sé non impossibile, ma difficilmente dimostrabile.

[5] Cercida visse nella seconda metà del III secolo a.C. Ebbe un ruolo notevole, come politico, nella sua città natale. Scrisse dei Giambi e dei Meliambi dei quali sono pervenuti solo pochissimi frammenti.

[6] Telete trattò la tematica cinica con scarsa originalità. I frammenti a lui attribuiti, conservati da Stobeo, sono piuttosto consistenti e sono utili soprattutto per ricostruire il pensiero degli altri filosofi del movimento, ai quali Telete si rifaceva espressamente.

[7] Menedemo visse nella seconda metà del III secolo a.C. Di lui si conosce ben poco: Diogene Laerzio (VI 102 = V N, fr. 1 G.) riporta che fu discepolo di Colote di Lampsaco, un epicureo, che contro di lui, in seguito, polemizzò.

Nicandro di Colofone

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 42.

I dati biografici e, soprattutto, cronologici relativi a Nicandro, nato a Claros presso Colofone, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio, appaiono piuttosto confusi già nelle fonti antiche. Alcuni lo considerarono infatti contemporaneo di Teocrito, altri lo assegnarono alla generazione successiva e altri ancora lo vollero coetaneo di Attalo III Filometore, che regnò su Pergamo dal 138 al 133 a.C. Tale incertezza sembra essere stata causata dall’esistenza di un altro Nicandro, storico e antiquario, forse antenato di questo autore, contemporaneo e amico di Teocrito, vissuto al tempo di Attalo I (241-197 a.C.) e ricordato come poeta epico in un’iscrizione delfica (Syll.³ 452). Al più giovane Nicandro, figlio di Dameo (quello più antico è figlio di Anassagora), sono attribuiti due poemi didascalici, uno intitolato Θηριακά (Rimedi contro i veleni animali) e l’altro Ἀλεξιφάρμακα (Antidoti, o Contravveleni)[1]. Il primo (958 versi), dedicato a un certo Ermesianatte, amico del poeta, si apre con alcune notizie generali sull’origine dei veleni, che sarebbero nati dal sangue dei Titani; poi, si descrive ogni specie animale letale, spiegando gli effetti dei loro sieri; quindi, si prendono in considerazione i rimedi più comuni contro i veleni animali, mescolando in modo abbastanza generico nozioni scientifiche e credenze popolari. Successivamente, il poeta dedica un’ampia trattazione al veleno dei serpenti, indicando i periodi dell’anno in cui essi sono più pericolosi e ritenendo le femmine più micidiali dei maschi. Segue un’ultima parte, dedicata ai rimedi contro le punture dei ragni e degli scorpioni. L’Ἀλεξιφάρμακα (630 versi), invece, descrive i vari tipi di pozione velenifera, i miasmi tossici e gli eventuali antidoti. Secondo le fonti antiche, il materiale di questi trattati proverrebbe dalle opere di due autori didascalici: Numenio, discepolo del medico Dieucle di Eraclea, vissuto verso la metà del III secolo a.C., e un tale Apollodoro, la cui attività risale agli inizi dello stesso secolo.

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου Ἀλεξιφάρμακα, f. 48r. Un pastore nel bosco.

 

In ogni caso, la fortuna dei Θηριακά e degli Ἀλεξιφάρμακα nel mondo antico fu notevole: il successo dei due poemetti si dové alla loro utilità per il vasto pubblico, alla perfezione dei versi (Nicandro era uno dei più fedeli assertori della perfezione armonica dell’esametro callimacheo), e a un’abile e innovativa manipolazione del linguaggio. Nicandro, infatti, aveva abilmente inserito nel verso dell’epica i termini zoologici e tossicologici più oscuri: di conseguenza, gli hapax legomena di queste opere divennero il terreno di caccia ideale per i grammatici antichi e tardi. Leggere questi testi è tuttavia esteticamente frustrante per i moderni: Nicandro ha accolto con indifferenza l’uniformità compilativa dei suoi modelli, intensificandola nei suoi trattati in versi: negli Ἀλεξιφάρμακα, dunque, si passano in rassegna le caratteristiche di ciascun veleno, la sintomatologia dei loro effetti, i possibili antidoti; nei Θηριακά si forniscono accurate descrizioni dei segni identificativi dei serpenti e dei sintomi del loro morso. Le digressioni perdono il loro effetto di animare la trattazione e mantengono una funzione eminentemente tecnica (per esempio, quella di segnare il passaggio da un capitolo all’altro).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου θηριακά, f. 6r. Una vipera maschio; una vipera femmina che attacca un uomo.

 

Altri poemi didascalici a cui è associato il nome di Nicandro, alcuni dei quali sono noti solo da frammenti o dal loro titolo, mostrano chiaramente l’ambizione di creare un’enciclopedia in versi: i due libri di Γεωργικά sulla coltivazione dei campi e sul giardinaggio[2]; i Μελισσουργικά, sull’apicultura; gli Ὀφιακά, una monografia sui serpenti e una raccolta di figure mitiche morse da questi rettili. A queste opere si aggiungono altri due titoli: Περὶ χρηστηρίων πάντων (Sulle medicine utili) e Ἰάσεων συναγωγή (Una raccolta di terapie). Ci sono alcuni indizi di due ulteriori testi che dovevano trattare rispettivamente di cinegetica e di mineralogia. Un’altra opera perduta dello stesso Nicandro, i Προγνωστικά, sarebbe, secondo la Suda, una parafrasi in esametri dell’omonimo trattato pseudo-ippocratico.

 

Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne. Olio su tavola, 1470. London, National Gallery.

 

Fra le opere non pervenute di Nicandro, però, non si può non ricordare il poema mitologico, intitolato Ἑτεροιούμενα (Metamorfosi), dedicato, secondo una consuetudine iniziata dagli Aἴτια callimachei, a leggende di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. I pochissimi versi sopravvissuti di quelli che dovevano essere quattro o cinque libri di poesia non potrebbero bastare a darci un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti, contenuti in un’opera di Partenio e nel compendio realizzato da Antonino Liberale, forse liberto di Antonino Pio. Non è certo che quest’opera abbia influenzato le Metamorfosi ovidiane.

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Per un aggiornamento bibliografico, si vd. il sito A Hellenistic Bibliography [sites.google.com].

 

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Note:

[1] Ciononostante, Cameron (1995) attribuisce entrambi i poemi didascalici al Nicandro più vecchio e segue, perciò (se si dà credito alle vitae Arati), l’antica opinione che il poeta di Soli e questo autore fossero contemporanei.

[2] Il retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo, ci ha conservato circa cento versi di questo poema didascalico sull’agricoltura, che, secondo Quintiliano (Inst. X 1, 56), avrebbe fornito numerosi spunti all’omonima opera di Virgilio; ma si tratta di un’affermazione tutta da dimostrare, dato che non sembra che nessuno dei frammenti superstiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore, sia mai stato utilizzato da Virgilio.

Arato di Soli

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.

Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.

Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.

 

Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.

 

Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).

 

L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).

 

London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.

 

Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).

 

«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.

 

Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».

 

Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.

 

Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.

 

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Gli epigoni della poesia bucolica: Mosco e Bione

di Bɪᴏɴᴅɪ I., Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 365-366.

I principali prosecutori della poesia bucolica furono Mosco di Siracusa (metà del II secolo a.C.) e Bione di Smirne (fine II secolo a.C.), entrambi ricordati nel lessico bizantino Suda; le loro opere ci sono giunte nello stesso corpus che comprendeva anche quelle di Teocrito.

London, British Library. Add MS 11885 (XV sec.), f. 35v. Mosco di Siracusa, Europa.

Mosco fu considerato dal Suda «secondo a Teocrito». Egli unì, come molti autori del suo tempo, l’attività filologica a quella poetica. Probabilmente allievo del grande Aristarco, della sua opera di grammatico ci è rimasto solo un titolo, Sulle parole rodie, forse un lessico o una raccolta di termini rari. Giovanni Stobeo ci ha conservato tre frammenti di poesia bucolica, in dialetto dorico, in cui il motivo pastorale si intreccia a quello amoroso. Il primo svolge un tema caro alla poesia ellenistica: il confronto fra la piacevole vita del contadino e quella, ben più dura e travagliata, del pescatore. Di maggior ampiezza è un epillio intitolato Europa, contenuto nel corpus teocriteo: questo componimento, in esametri, narra il mito di Europa, rapita da Zeus in forma di toro, tema assai frequente anche nelle arti figurative. Il poemetto, di carattere prevalentemente descrittivo, è ambientato in una cornice di paesaggio che richiama il ratto di Persefone a opera di Ade, trattato nell’inno omerico A Demetra. Esso contiene però anche numerose concessioni al gusto ellenistico: il racconto di un sogno, l’ἔκφρασις del cesto d’oro in cui la principessa tiria depone i fiori appena raccolti, opera di Efesto, che vi ha raffigurato il mito di Io, e, infine, un episodio di carattere romanzesco, il rapimento della fanciulla sotto gli occhi delle compagne. La tradizione antica attribuisce a Mosco anche un carme in esametri, Eros fuggitivo, in cui la stessa Afrodite fornisce i connotati del terribile figlioletto, promettendo in compenso un bacio «e anche di più», a chiunque lo ritroverà. La graziosa descrizione insiste sul contrasto fra il delicato aspetto infantile di Eros, fanciullo «dalla voce di miele», e la sua crudele potenza, capace di far soffrire chiunque. Opera di livello inferiore e di dubbia autenticità è il poemetto Megara, in esametri, in cui la sposa di Eracle e sua madre Alcmena si confidano a vicenda le sofferenze sopportate a causa dell’eroe. Molto discutibile l’attribuzione a Mosco di un altro componimento della raccolta teocritea, il XXVII, Colloquio d’amore, in cui si descrive la seduzione di una fanciulla, per la verità non troppo restia, a opera di un pastore. Compositore colto e raffinato, Mosco esercitò una certa influenza su autori posteriori, come Nonno di Panopoli, che si ispirò a lui nelle Dionisiache, e Orazio, che ne imitò l’Europa in Odi III 27.

Pierre-Maximilien Delafontaine, Venere e Cupido. Olio su tela, 1860.

Poche e incerte sono anche le notizie circa Bione di Flossa, presso Smirne; da un elogio funebre in versi, opera di un suo sconosciuto discepolo (alcuni lo hanno attribuito, con poco fondamento, a Mosco), sappiamo che il poeta soggiornò a lungo in Sicilia e che morì avvelenato; ma la notizia è tutt’altro che certa. Giovanni Stobeo ci ha trasmesso sedici componimenti in dialetto dorico (alcuni sono forse epigrammi, altri parti di opere più ampie); il suo carme più esteso, l’Epitafio di Adone, che gli fu attribuito nel Rinascimento dall’umanista Camerario, proviene da altre raccolte. Il modello è l’idillio teocriteo sulla morte di Dafni; ciò risulta evidente anche dall’uso dell’ἐφύμνιον, il «ritornello», che Teocrito riprese forse dai lamenti funebri (θρῆνοι o γόοι) e che ha la funzione di scandire le varie fasi della lamentazione rituale. Il componimento di Bione è caratterizzato dall’insistita evidenza dei particolari, macabri ed erotici insieme: Afrodite, folle d’amore, supplica il giovane morente di non perdere coscienza, almeno fino al momento in cui ella raccoglierà dalle sue labbra, con un ultimo bacio, l’estremo respiro. Intanto, il sangue che sgorga dalla mortale ferita macchia il grembo e il seno della dea, le cui tenere carni sono state crudelmente lacerate dai rovi in mezzo ai quali ha vagato in cerca dell’amante. Sofferenza e sensualità, Eros e Thanatos, si fondono in questa descrizione, che ispirò al giovane Foscolo l’inizio dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Pieter Paul Rubens, La morte di Adone. Olio su tela, 1614 c. Jerusalem, Israel Museum.

In età umanistica venne attribuito a Bione anche il frammento di una composizione intitolata l’Epitalamio di Achille e Deidamia, in cui si narravano, in una cornice bucolica, gli amori dell’eroe con la figlia di Licomede, re di Sciro, presso il quale egli era stato nascosto sotto mentite spoglie. Anche un frammento papiraceo, pubblicato nel 1932, e contenente un dialogo fra Pan e Sileno, è stato attribuito, per motivi stilistici, a Bione.

 

Achille sull’isola di Sciro. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zeugma. Gaziantep, Mosaic Museum.

Il genere bucolico ebbe in seguito riconoscimento ufficiale con l’opera del grammatico Artemidoro, vissuto nel I secolo a.C., in età augustea, il quale raccolse in un’edizione miscellanea «le Muse bucoliche, prima disperse», come affermò egli stesso in un epigramma dell’Anthologia Palatina (IX 205); e fu probabilmente attraverso la sua silloge che Virgilio venne a conoscenza di questo genere letterario e dei suoi maggiori esponenti.

 

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