ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di F. FERRARI, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 318-320; cfr. ID. et al., Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Per il Liceo classico. Con espansione online – vol.1. Ionia ed età arcaica, Bologna 2012, pp. 725-726.
Gli ultimi giorni alle Termopili. Illustrazione di P. Connolly.
Del celeberrimo carme, imitato anche dal giovane Leopardi nella Canzone all’Italia, tutto si discute: dall’autenticità all’occasione, dal genere poetico all’ideologia. Difficilmente esso sarà stato cantato sul luogo del glorioso evento: lo esclude lo stesso ἐν Θερμοπύλαις iniziale in luogo di un ἐνθάδε, «qui», o simili. Ma neppure trova serio appoggio nel testo la fortunata ipotesi di Wilamowitz (1913, 140 n. 3), che, facendo pausa dopo ἀνδρῶν ἀγαθῶν (v. 6), anziché dopo χρόνος in fine di v. 5 (così da connettere il genitivo ἀνδρῶν a ἐντάφιον del v. 4), interpretava il brano come parte di un lamento funebre (θρῆνος) dedicato ad altri morti, nel quale pertanto il valore dei caduti alle Termopili, e in particolare di Leonida, sarebbe stato introdotto come motivo consolatorio. Più coerente con l’articolazione sintattica del brano sembra piuttosto l’ipotesi di C.M. Bowra (CPh 28, 1933, 277-281), che lo riferiva ai morti delle Termopili, celebrati tuttavia presso un recinto sacro situato altrove, verisimilmente a Sparta, in occasione di pubbliche onoranze commemorative. Entro tale contesto di esecuzione ben si comprenderebbe l’accento posto sul ricordo (μνᾶστις) e sul carattere di «encomio» anziché di «cordoglio funebre» (γόος) assunto dalla celebrazione. E l’insistenza sulla sacralità dei caduti (la tomba assume funzione di altare; la gloria dell’Ellade attende al culto del loro recinto) sembra sottintendere un processo di eroizzazione, altrimenti ben attestato in relazione ai caduti delle guerre persiane.
Non poco ha sconcertato anche lo stile, in cui sono state ravvisate anticipazioni della retorica sofistica: non altro anzi che «una esercitazione retorica (lo stile “gorgiano” vi trionfa goffamente)» sarebbe il brano per B. Marzullo; ma pur se sconcertano varie singolarità, la studiata serie di antitesi ai vv. 2 s., piuttosto che presupporre le isocolie e i paradossi gorgiani, sembra rispecchiare la predilezione della poesia arcaica per cola nominali paratatticamente allineati. E quanto alla dimensione effettivamente stereotipa assunta dall’ἀρετή nell’elogio di Leonida, di per sé sorprendente in un poeta teso altrove alla conquista di un’etica relativistica basata proprio sulla ridefinizione del concetto di ἀρετή (cfr. frr. 522; 541; 542; 579 PMG), anche tale tratto andrà correlato alla specifica occasione e alle istanze dei committenti.
Con tutto ciò, sembra difficile negare che la fama del carme è largamente sproporzionata ai suoi pregi: il disegno nitido e fermo delle opposizioni iniziali si stempera nell’enfasi di maniera del susseguente elogio.
Oplita con elmo (forse Leonida I). Statua, marmo, V secolo a.C. ca. Museo Archeologico di Sparta.
vv. 1-3: Τῶν ἐν Θερμοπύλαις θανόντων… ἔπαινος: «Dei morti alle Termopili gloriosa (è) quella sorte (ἁ τύχα = ἡ τύχη), bello (καλός, sulla linea di Tirteo 10, 1) quel destino e altare quella tomba e piuttosto che lamenti (vi è) ricordo (μνᾶστις = μνῆστις) e il compianto (si è fatto) elogio». – Θερμοπύλαις: le Termopili, il passo tra il monte Callidromo e il golfo Maliaco, attraverso il quale si entrava nella Grecia centrale. – πότμος: il «destino di morte», come talora in Omero, cfr. ad es. Iliade XVI 857 = XXII 363, Odissea XIV 274. – βωμὸς δ’ ὁ τάφος: Leopardi, nella canzone All’Italia riprende l’espressione parafrasando: «la vostra tomba è un’ara». La tomba sarà venerata come un altare in seguito alla eroizzazione dei morti: cfr. Eschilo, Coefore 106 αἰδουμένη σοι βωμὸν ὣς τύμβον πατρός [sono parole del coro delle vergini portatrici di libagioni] «onorando come un altare la tomba di tuo padre». – πρὸ γόων: è correzione di Eichstädt [1797] per il tràdito προγόνων; in questo caso πρό indica preferenza. – ὁ δ᾽ οἶκτος ἔπαινος: «il compianto (è) un elogio»; il concetto diventerà un topos dei λόγοι ἐπιτάφιοι: cfr. Platone, Menesseno 246a-248d, Iperide, Epitafio 42 οὐ γὰρ θρήνων ἄξια πεπόνθασι, ἀλλ᾽ ἐπαίνων μεγάλων πεποιήκασι «infatti non hanno subito una sorte degna di lamenti, quanto piuttosto hanno compiuto imprese degne di grandi elogi».
vv. 4-5: ἐντάφιον δέ … χρόνος: «Infatti, (δέ, con funzione esplicativa) tale sudario (ἐντάφιον, agg. neutro sostantivato) né la muffa né il tempo che tutto doma (lo) oscureranno». – τοιοῦτον: cioè intessuto di gloria, ricordo, elogio. – εὐρώς: l’uso metaforico, come segno di disfacimento e usura, anche in Teognide 452 s. «né mai si attacca alla mia pelle scuro verderame né muffa (εὐρώς), ma serba inalterata la purezza del suo fiore». – πανδαμάτωρ: epiteto omerico del sonno, cfr. Iliade XXIV 5 e Odissea IX 373: qualifica il tempo anche in Bacchilide 13, 205 s. ὅ τε πανδαμάτωρ χρόνος.
vv. 6-9: ἀνδρῶν ἀγαθῶν … ἀέναόν τε κλέος: «Questo recinto sacro di uomini valorosi ha scelto come custode (οἰκέταν [= -την], propr. lo schiavo addetto alla cura della casa) la gloria dell’Ellade, e ne è testimone anche Leonida, re di Sparta, che ha lasciato grande fregio di virtù e fama perenne». – ὅδε σηκός: l’ὅδε deittico segnala la concreta presenza del σηκός nel momento dell’esecuzione: si deve trattare di un santuario edificato non alle Termopili, ma altrove; Pausania III 14, 1 ricorda un tempietto spartano dedicato a Leonida. – μαρτυρεῖ δὲ καὶ Λεωνίδας: «che cosa testimoni Leonida in particolare – osserva Marzullo – non sapremmo dire: il richiamo, con ogni sua articolazione, appare generico e convenzionale»: forse l’accento batte sul contrasto Ellade/Sparta, nel senso che il valore di Leonida si pone come vanto non solo di Sparta ma di tutta la Grecia.
Cassio Dione, Storia romana, XLIV 36-50, 2 (cit. passim), in Cassio Dione, Storia romana (libri XLIV-XLVII), volume terzo (trad. e note di G. Norcio), Milano 2000, pp. 56-81.
William Hilton, Marc Antony Reading the Will of Caesar. Olio su tela, 1834
36. «Se quest’uomo fosse morto da privato cittadino, e anch’io mi trovassi a essere un privato, non avrei bisogno, o Quiriti, di fare un lungo discorso e di enumerare tutte le imprese da lui compiute, ma dopo aver speso poche parole sulla sua ascendenza, sulla sua educazione, sulle sue abitudini e – se fosse stato il caso – anche su ciò che egli avrebbe fatto nell’interesse della Res Publica, avrei potuto terminare il mio discorso, per non annoiare coloro che non avessero avuto familiarità con lui. [2] Ma siccome egli è morto mentre deteneva il summum imperium su di voi, e siccome io ho ricevuto e detengo il secondo posto di comando, sono costretto a fare un duplice discorso, uno come erede designato, l’altro come console, e a non tralasciar nulla di ciò che è mio dovere di dire, ma a esporre ciò che tutto il popolo ad un’unica voce celebrerebbe – se potesse avere un’unica voce. [3] So bene che è difficile esprimere in modo adeguato ciò che voi provate, difficile essere all’altezza di tale compito. Quale discorso potrebbe eguagliare le sue grandi imprese? E voi che siete avidi di ascoltare appunto perché le conoscete, non sarete benevoli giudici del mio discorso. [4] Se io mi trovassi a parlare davanti a gente che non l’avesse conosciuto, mi sarebbe molto facile convincerla, sbalordendola con la grandezza delle imprese; ma siccome voi le avete conosciute, è inevitabile che il mio discorso risulti inferiore alla loro grandezza. [5] Persone straniere, anche se fossero diffidenti per invidia, accetterebbero, malgrado questa loro diffidenza, tutto ciò che direi; ma voi siete necessariamente insaziabili di ascoltare, appunto perché lo amavate! Voi avete ricavato il maggior vantaggio dalle virtù di Cesare e perciò esigete un elogio di tali virtù non con indifferenza, come cosa a voi estranea, ma con affetto, come cosa che vi appartiene. [6] Mi sforzerò dunque di soddisfare i vostri desideri il più a lungo possibile, convinto che voi non giudicherete la mia condotta sulla base della debolezza del mio discorso, ma compenserete con il mio zelo ciò che manca alle mie parole. 37. Parlerò innanzitutto della sua stirpe: non voglio dirvi che essa è nobilissima – quantunque il fatto che essere virtuoso non per sol merito personale, ma anche per disposizione ereditaria, influisca non poco sulla natura della virtù. [2] Infatti, coloro che non discendono da nobile stirpe possono apparire virtuosi, ma i bassi natali possono talvolta mettere a nudo la loro cattiva natura; quanti invece possiedono un germe di virtù derivante da lontani antenati hanno necessariamente una virtù spontanea e duratura. [3] Tuttavia ciò che massimamente io esalto in Cesare non è il fatto che la sua più recente famiglia derivi da molti nobili antenati, e la più antica derivi da re e da dèi; esalto in primo luogo la sua stretta parentale con la nostra città (Cesare, infatti, discende da coloro che hanno fondato Roma!), [4] e poi il fatto che egli non solo ha confermato pienamente la fama che presenta i suoi antenati come uomini accolti tra gli dèi per la propria virtù, ma l’ha anche accresciuta. Perciò, se nel passato qualcuno poteva dubitare che Enea fosse figlio di Venere, adesso ci può credere! [5] In passato ci sono stati uomini ritenuti a torto figli di divinità; ma nessuno potrebbe negare che gli antenati di quest’uomo furono dèi! Lo stesso Enea e alcuni suoi discendenti furono re; ma Cesare fu di tanto superiore a loro, in quanto, mentre quelli regnavano su Lavinium e Alba Longa, egli non volle regnare su Roma, [6] e mentre quelli posero le fondamenta alla nostra città, egli l’ha innalzata tanto che è riuscito, tra l’altro, a fondare colonie più grandi delle città sulle quali quelli regnarono. 38. Così dunque stanno le cose riguardo alla sua stirpe. […] [2] È mai possibile che un uomo straordinariamente dotato da un fisico eccellente e di uno spirito adatto in massimo grado e allo stesso modo alle operazioni di pace e di guerra e non sia stato allevato nella maniera migliore? Eppure è raro che un uomo bellissimo sia anche particolarmente resistente alle fatiche, [3] è raro che un uomo robustissimo di corpo sia anche particolarmente assennato, ed è molto raro che la stessa persona sia eccellente tanto nel parlare quanto nell’agire. E costui lo fu davvero! Parlo davanti a persone che l’hanno conosciuto, così che io non potrei affatto mentire, perché verrei ad essere scoperto come bugiardo, né ingrandire i suoi meriti, perché otterrei proprio il contrario di ciò che mi prefiggo. [4] Se io facessi una cosa simile, sarei sospettato, e non a torto, di essere un millantatore, e tutti penserebbero che io avrei fatto apparire il suo valore inferiore al concetto che di esso voi avete. Qualunque discorso fatto su questo argomento, se contenesse anche solo una minima parte di menzogna, non sarebbe per Cesare un elogio, ma piuttosto un rimprovero! [5] Gli ascoltatori, avendolo conosciuto, non accetterebbero le menzogne e si rifugerebbero nella verità; così, trovando subito soddisfazione in essa, saprebbero nello stesso tempo quale tipo di uomo egli dovette essere e, confrontando tra loro le due immagini, noterebbero le mancanze. Basandomi dunque sulla verità, affermo che Cesare ebbe un corpo adatto a ogni fatica e uno spirito straordinariamente versatile, [6] che poté disporre di incredibili doti innate e che ricevette un’educazione completa e accurata. Per questo è del tutto naturale che comprendesse con il massimo acume ogni necessità e sapesse spiegarla nel modo più convincente; che potesse disporre e regolare le cose nella maniera più saggia; che non si facesse sorprendere da alcuna casualità piombatagli addosso tra capo e collo; che non ignorasse nessun piano segreto riguardante il futuro. [7] Egli conosceva ogni cosa prima che venisse compiuta ed era preparato ad ogni imprevisto che potesse capitare; sapeva perfettamente trovar ciò che veniva accuratamente nascosto e nascondere abilmente ciò che era manifesto, fingere di sapere ciò che non sapeva e nascondere ciò che non conosceva, [8] far accordare tra di loro gli avvenimenti e trarre da essi le necessarie conclusioni, e infine portare a compimento ogni cosa, una per una. 39. La prova sta nel fatto che nell’impiego del suo patrimonio è stato nello stesso tempo molto economo e generoso, attento nel conservare con cura i propri beni, prodigo nello spendere con larghezza il denaro acquistato, molto affezionato ai parenti, eccettuati quelli del tutto indegni. [2] Non ha trascurato chi si trovava in difficoltà, né ha invidiato l’uomo fortunato, ma ha aiutato questo ad accrescere la sua fortuna e ha fornito a quello ciò che gli mancava, dando a chi denaro, a chi terre, a chi magistrature, a chi cariche sacerdotali. [3] Con gli amici e con i consociati si è comportato in modo ammirevole: non ha disprezzato e non ha offeso nessuno; egualmente cordiale con tutti, ha ricambiato i favori ricevuti con doni molte volte maggiori. Si è guadagnato la simpatia degli altri con benefici; non ha umiliato il potente e non ha abbattuto chi s’innalzava, [4] ma era lieto che molti lo eguagliassero, come se attraverso tutti costoro egli stesso acquistasse splendore, potenza e onore. In tal modo dunque egli si è comportato con gli amici e i conoscenti. [5] Con i nemici non è stato né spietato né implacabile: ha lasciato impuniti molti di coloro che lo avevano combattuto in guerra, e ad alcuni di essi ha offerto anche cariche e magistrature. Aveva un’innata e profonda tendenza alla virtù; non solo non aveva cattiveria, ma credeva che neppure gli altri potessero averne.
William Holmes Sullivan, Julius Caesar, Act III, scene 2, The Antony’s Speech.
40. Giunto ormai a questo punto del mio discorso, comincerò a parlare degli uffici pubblici da lui ricoperti. Se egli fosse vissuto appartato, forse non avrebbe potuto rivelare le sue alte qualità; ma essendosi sollevato a grandissima altezza ed essendo divenuto il più potente non solo tra i suoi contemporanei, ma anche tra tutti gli uomini che abbiano mai esercitato il potere pubblico, ha potuto rivelarle nel modo più chiaro. [2] Quasi tutti gli uomini hanno mostrato, nella potenza, la loro debolezza; Cesare invece si è rivelato ancor più forte. Infatti, intraprendendo imprese corrispondenti alle sue capacità, si è mostrato degno di esse, ed è stato il solo uomo che, avendo ottenuto con il suo valore un così grande successo, non l’ha né screditato né sciupato capricciosamente. [3] Tralascio le sue splendide vittorie militari e i magnifici spettacoli da lui offerti dei Ludi che gli spettavano di volta in volta, quantunque siano stati tali che basterebbero a dare grande lustro a qualsiasi cittadino. Però, in confronto alle eccezionali imprese da lui compiute in seguito, mi sembrerebbe di occuparmi di inezie se m’intrattenessi su di esse. Dirò soltanto ciò che ha fatto come magistrato. [4] E neppure in quest’ambito riferirò tutte le cose da lui compiute, perché la mia esposizione non potrebbe essere completa e perché riuscirei molto noioso a voi che le conoscete. 41. Quest’uomo, innanzi tutto, quando fu pretore in Hispania, non permise che quel popolo sedizioso, sotto l’apparenza della pace, si comportasse da nemico. Anziché passare nell’ozio tutto il tempo del suo mandato, ha voluto compiere imprese utili alla nostra patria, e poiché non volevano di propria volontà cambiare condotta di vita, li fece rinsavire loro malgrado. [2] Egli ha tanto superato tutti i condottieri che nel passato si sono coperti di gloria nelle guerre contro gli Ispanici, quanto il mantenere una posizione è più difficile che il conquistarla, e il far in modo che il nemico non insorga di nuovo, quando le sue forze sono ancora intatte, è più utile che il sottometterlo la prima volta. [3] Per questo voi gli decretaste il trionfo e lo eleggeste subito console. E apparve in modo assai chiaro che egli non avesse intrapreso la guerra per puro desiderio di combattere, né per gloria personale, ma in considerazione degli eventi futuri. […] 42. Sarebbe troppo lungo elencare tutto ciò che egli ha fatto in città durante il consolato; guardate poi quante e quali cose ha compiuto da quando lasciò Roma e intraprese la guerra gallica! [2] Non solo non è stato di peso agli alleati, ma li ha anche aiutati, poiché non nutriva sospetti su di loro, e inoltre vedeva che avevano subito dei danni. Sottomise i nemici, non solo quelli che confinavano con gli alleati, ma tutte le popolazioni che abitano la Gallia, conquistando molti territori e innumerevoli città, delle quali noi in passato non conoscevamo neppure i nomi. [3] […] Portò a termine l’impresa così rapidamente, che voi foste informati della sua vittoria prima ancora di sapere che aveva iniziato la guerra: una vittoria così completa da rendere la Gallia un’ottima base di partenza per la conquista della Celtica[1] e della Britannia. [4] E ora la Gallia è sottomessa, quella Gallia che mandò contro di noi gli Ambroni e i Cimbri […]. [5] Con la sua intraprendenza e il suo ardire ha conquistato per noi luoghi che non sapevamo che esistessero e di cui non conoscevamo neppure i nomi; ha reso accessibili località prima sconosciute, e navigabili regioni prima inesplorate. 43. Se alcuni uomini, invidiosi della sua fortuna, anzi della vostra, non avessero provocato disordini e non lo avessero costretto a tornare a Roma prima del termine stabilito, egli avrebbe certamente soggiogato tutta la Britannia insieme alle isole che la circondano e tutta la Celtica fino al mare settentrionale, cosicché noi avremmo avuto in avvenire come frontiera non più terre e popoli, ma il cielo e il mare lontano. [2] Per questo voi, vedendo la grandezza dei suoi piani, le sue imprese e la sua fortuna, gli assegnaste un imperium perpetuum, voglio dire un imperium di otto anni consecutivi: cosa che non aveva mai ottenuto nessuno, da quando esiste la Res Publica. Tanto eravate convinti che egli aveva realmente conquistato tutte quelle terre per voi, e non sospettavate minimamente che egli potesse usare la sua potenza contro di voi. [3] Voi volevate che egli si fermasse ancora a lungo in quei luoghi; ma quelli che consideravano la Res Publica come loro proprietà privata e non come cosa di tutti, non gli permisero di conquistare le restanti regioni e vi impedirono di diventarne padroni, ma sfruttando il fatto che Cesare fosse troppo occupato, osarono ordire molte ed empie trame, in modo da costringervi a invocare il suo aiuto. 44. Per questo motivo, rinunciando ai suoi piani, egli corse subito in vostra difesa e liberò tutta l’Italia dai pericoli che la minacciavano: […] allora fu costretto a intraprendere la guerra civile. [4] E che bisogno ho di dire con quanto coraggio salpò contro Pompeo, benché fosse inverno, con quale ardire lo attaccò, benché fosse padrone di tutti quei luoghi, e con quale valore lo vinse, benché quello avesse un esercito molto più numeroso? Se uno volesse enumerare uno per uno tutti i suoi atti, dimostrerebbe che quel famoso Pompeo si comportò come un bambino: tanto inferiore si rivelò nell’arte della guerra in tutta quella campagna! 45. Ma non voglio tralasciare quest’argomento: infatti neppure Cesare menò vanto della sua vittoria, maledicendo la dura necessità! Ma dopo che il destino ebbe deciso nel modo più giusto le sorti della battaglia, chi tra i nemici catturati per la prima volta uccise, chi non onorò? E non solo dei senatori e dei cavalieri e in generale dei cittadini romani, ma anche degli alleati e dei popoli sottomessi. [2] Di costoro nessuno fu ucciso, nessuno fu punito, fosse un privato o un principe; non fu punito nessun popolo, nessuna città. Alcuni si schierarono dalla sua parte, altri ottennero perdono e onori, tanto che allora tutti compiansero i morti. [3] Ebbe tale eccesso di umanità, che lodò coloro che aveva collaborato con Pompeo, ai quali mantenne tutti i privilegi che avevano ricevuto da lui, e condannò invece il comportamento di Farnace e di Orode perché, pur dichiarandosi amici, non l’avevano aiutato. [4] Proprio per questo fece subito una guerra contro l’uno e si accingeva a farla contro l’altro. E avrebbe certamente risparmiato anche Pompeo, se l’avesse preso vivo. La prova l’abbiamo nel fatto che non lo inseguì subito, ma permise che fuggisse con suo comodo, [5] e apprese con dolore la sua morte, e poco dopo uccise gli autori della strage, anziché elogiarli, e detronizzò Tolemeo perché, sebbene fosse ancora un ragazzo, aveva permesso che Pompeo venisse ucciso. 46. Non c’è bisogno che io dica come, dopo quei fatti, egli sistemò gli affari d’Egitto e quante ricchezze portò da lì a Roma. Avendo fatto una spedizione contro Farnace, signore di gran parte del Ponto e dell’Armenia, arrivò contemporaneamente nello stesso giorno la notizia che aveva marciato contro di lui, che era giunto presso di lui, che lo aveva attaccato e che lo aveva vinto. [2] […] Come avrebbe infatti potuto vincere così facilmente quella guerra, se non avesse avuto un intelletto sano e un fisico vigoroso? [3] E dopo che anche Farnace si era dato alla fuga, egli si apprestava a marciare subito contro i Parti; ma, avendo alcuni facinorosi provocato a Roma dei disordini, fu costretto a tornare in mezzo a noi. Qui sistemò le cose in modo tale da togliere ogni timore che vi sarebbero stati altri tumulti. [4] Però nessuno fu ucciso, nessuno fu esiliato, nessuno fu oltraggiato per ciò che era successo, non perché ci fossero giusti motivi per punire molti cittadini, ma perché Cesare pensava che i nemici vanno uccisi senza pietà, mentre i propri concittadini vanno perdonati, anche se alcuni di essi non lo meritano. [5] Per questo egli si batté valorosamente contro gli eserciti stranieri, ma fu generoso verso i cittadini turbolenti, anche se fossero indegni della sua generosità per quello che avevano fatto. Si comportò poi allo stesso modo anche in Africa e in Hispania, rimandando liberi tutti quegli avversari sconfitti che non erano già stati da lui una prima volta catturati e perdonati. [6] Considerava infatti non generosità ma pazzia perdonare uomini che lo avevano varie volte insidiato: era convinto che è dovere di un uomo degno di questo nome perdonare chi ha commesso un primo errore, senza serbare un rancore inconciliabile e concedendo anche onori, e sbarazzarsi di color che permangono ostinati negli stessi errori. [7] Ma perché sto parlando di queste cose? Egli salvò perfino molti di costoro, dando a ciascuno dei suoi sostenitori e a coloro che lo avevano aiutato per vincere la battaglia la facoltà di salvare uno degli uomini catturati.
George Edward Robertson, Mark Antony’s Oration. Olio su tela.
47. La prova più convincente che egli ha compiuto tutte queste cose per un’innata bontà e non per ostentazione o in vista di un qualche tornaconto – com’è il caso di molti che fanno il bene proprio per questo – si ha nel fatto che dovunque e in tutte le circostanze si è dimostrato sempre lo stesso: né l’ira l’ha inasprito, né il successo guastato, né la vittoria cambiato, né la potenza modificato. [2] Eppure è assai raro che un uomo messo alla prova in così numerose e importanti imprese, che si sono susseguite una dopo l’altra – imprese che egli ha già felicemente condotto a termine, o che non ha ancora condotto a termine, o che sa che dovrà affrontare –, si comporti sempre bene e allo stesso modo, senza commettere un’azione violenta o dannosa, se non per vendicarsi di passati torti, allo scopo di premunirsi contro torti futuri. [3] Anche questo è sufficiente per dimostrare la sua bontà. E che Cesare fosse un discendente di dèi lo mostra il fatto che egli salvava coloro che meritavano di essere salvati, non cercava di far punire da altri quelli che lo avevano combattuto, e sapeva guadagnarsi il favore di chi in passato aveva sbagliato. [..] 48. Fu per questi motivi e per tutta la sua opera legislativa e di ricostruzione, importante per se stessa, ma di scarsa rilevanza rispetto a tutte le altre cose che fece in seguito (che io non ho bisogno di esporre dettagliatamente), che voi lo amaste come un padre, lo aveste caro come un benefattore, lo colmaste di onori mai concessi a nessun altro, [2] e voleste averlo dictator perpetuus della vostra città e di tutto l’Impero. Foste pienamente d’accordo sui numerosi titoli onorifici da conferirgli, che giudicavate inferiori ai suoi meriti, affinché, se ciascuno di essi, considerato singolarmente e alla luce delle usanze, non fosse sufficiente ai fini della completezza dell’onore e della potenza, potesse essere completato dagli altri. [3] Così lo eleggeste pontifex maximus per gli dèi, console per voi, summus imperator per i soldati, dictator per i nemici. E perché enumerare tutti questi titoli, quando voi, per tralasciare tutti gli altri, lo chiamaste con un solo nome pater patriae? 49. Ma questo padre, questo sommo pontefice, l’inviolabile, l’eroe, il dio… ahimè, è morto! È morto non vinto dalla malattia, né disfatto dalla vecchiaia, né ferito lontano dalla sua città in qualche guerra, né rapito all’improvviso da qualche sciagura! Qui, dentro le mura, è stato insidiato l’uomo che aveva felicemente condotto una spedizione in Britannia [2] ed è stato tratto in agguato l’uomo che aveva ampliato il pomerium della città; nella sede del Senato è stato sgozzato l’uomo che aveva costruito a sue spese un’altra sede. È morto inerme il valoroso guerriero, nudo l’autore della pace, nel tribunale il giudice, nella sede del comando il magistrato; è stato ucciso dai cittadini l’uomo che nessun nemico aveva potuto uccidere, neppure quando cadde nel mare; è stato ucciso dai suoi compagni l’uomo che tante volte aveva loro perdonato. [3] Dove sono finite, o Cesare, la tua bontà e la tua inviolabilità, e le leggi? Sei stato assassinato spietatamente dagli amici, tu, che facesti tante leggi perché nessuno fosse ucciso dai tuoi avversari! Giaci scannato in quel Foro per il quale tante volte passasti incoronato; sei caduto trafitto dalle ferite su quella tribuna dalla quale tante volte parlasti al popolo! [4] Ahimè, canizie insanguinata, toga lacerata, che tu – a quanto sembra – solo per questo indossasti, perché fossi in essa ucciso!»[2].
Antony’s Oration over Caesar’s Body.
50. Per questo discorso di Antonio il popolo dapprima si commosse, poi si adirò, e infine s’infiammò talmente che corse a cercare gli uccisori di Cesare e condannò i senatori, perché avevano permesso che fosse ucciso l’uomo per cui avevano decretato che s’innalzassero ogni anno preghiere agli dei e sulla salute e fortuna del quale avevano giurato, e che avevano dichiarato inviolabile come i tribuni. [2] Dopo di ciò afferrarono la salma di Cesare: gli uni volevano portarla nella Curia dov’era stato ucciso, gli altri in Campidoglio per essere lì cremato. Ma i soldati si opposero per il timore che prendessero fuoco anche il teatro e i templi; allora lo collocarono sulla pira lì nel Foro, dove si trovavano.
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Note:
[1] Indica la Germania, o meglio la parte occidentale di essa, conquistata a seguito della vittoria sugli Elvezi e su Ariovisto.
[2] Chi legge questo discorso non può fare a meno di confrontarlo con quello pronunciato da Antonio nella notissima tragedia di Shakespeare. Il tema è lo stesso: ma quanta differenza tra i due discorsi! Qui Antonio fa una rassegna lunga e dettagliata di tutte, o meglio di molte imprese di Cesare; il discorso, pur contenendo alcuni luoghi non privi di valore artistico (spicca tra tutti il passo finale), risulta nel suo complesso un po’ monotono e prolisso. Quello che leggiamo nella tragedia di Shakespeare è, nella sua brevità, un capolavoro di efficacia espositiva e di finezza artistica. Shakespeare sceglie pochi avvenimenti della vita di quell’uomo straordinario, e ce li presenta per mezzo di immagini vivacissime e ricche di colore. Ma non dobbiamo stupirci per questa differenza: Cassio Dione è un compilatore, sia pure di alto livello; Shakespeare è un grandissimo poeta, che convince e commuove il lettore.
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