La peste di Atene (Lucr. VI 1145-1196; 1230-1286)

Cfr. PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, 513-520; CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 586-589; BALESTRA A. et alii, In partes tres. 1. Dalle origini all’età di Cicerone, Bologna 2016, 316-319.

 

Nel VI libro del De rerum natura, alla luce della fisica epicurea, Lucrezio spiega svariati fenomeni naturali di fronte ai quali l’uomo si sente talmente impotente da provare una profonda angoscia: terremoti, fulmini, eruzioni vulcaniche ed epidemie. Da qui prende le mosse l’excursus finale contenente l’agghiacciante e macabra descrizione della peste di Atene (430 a.C.), mediata dal racconto di Tucidide, che ne fu diretto testimone e vittima.

Per il poeta latino la peste è certo un’orribile realtà, ma è anche un fenomeno prodotto da cause naturali (l’alterazione dell’aria dovuta a turbamenti dell’equilibrio atmosferico). Perciò, la descrizione dell’epidemia che colpì Atene rientra perfettamente nell’argomento del VI libro, che fornisce spiegazioni razionali di calamità, che altrimenti creerebbero terrore e religio nell’animo del lettore-discepolo.

Per spiegare perché il poema della ragione e della voluptas termini con immagini di morte e di desolazione si è supposta l’incompiutezza dell’opera, cui sarebbe mancata l’ultima revisione. E poiché Lucrezio, nel libro precedente, aveva annunciato la descrizione delle sedi beate degli dèi, senza però tener fede alla promessa, si è pensato che quella rappresentazione di suprema atarassia fosse la chiusa originariamente progettata.

Non sono mancati, fra i critici, coloro che, sempre preoccupati di accertare l’ortodossia epicurea del poeta, hanno cercato in questa pagina la conferma estrema di un presunto «pessimismo lucreziano», di una «tragica antinomia […] tra la dottrina e il carattere del poeta» (Giussani), applicando all’episodio le categorie rigide e forzatamente attualizzanti del “pessimista” (in senso leopardiano), dell’“antiepicureo”, dell’“esistenzialista”, talora invocando seducenti, ma poco pertinenti, ermeneutiche psicanalitiche[1].

C’è stato, poi, chi ha addotto ragioni d’ordine strutturale: negli antichi trattati di Fisica le malattie vengono all’ultimo posto nella rassegna dei fenomeni naturali. E c’è stato anche chi ha visto questo «trionfo della Morte» in un rapporto di contrapposizione isonomica con il «trionfo della Vita», rappresentato dall’Inno a Venere dell’ouverture. La contrapposizione di queste due parti, programmaticamente «forti», sarebbe l’esito strutturale più vistoso di una polarità che attraversa l’intero poema, opponendo ansia e ragione, ignoranza e sapienza, religione e filosofia, schiavitù e liberazione, ecc. «All’interno di tale sistema oppositivo […] in particolare il primo proemio e l’ultimo finale sembrano fissare definitivamente questo carico di tensione in un ideale e meraviglioso duello tra le forze della vita e quelle della morte» (Dionigi).

Secondo Commager, il quadro tucidideo di un popolo malato, arso dalla sete insaziabile e autodistruttiva, assurge nel finale lucreziano a simbolo dello stato di malattia mentale dei tempi di Cesare, e, in genere, dei mali cronici dello spirito umano[2].

C’è stato, infine, chi ha ravvisato nella chiusa espressionistica sulla peste l’ultima e più compiuta manifestazione del lepos, che è alla base della poetica del De rerum natura. Lucrezio – con la parafrasi erudita della scrittura tucididea, impreziosita da contaminazioni con altri autori e tesa all’effetto patetico conforme ai modi del vertere latino – intenderebbe fornire al suo pubblico colto l’estrema prova di consumata perizia tecnica. Così l’episodio avrebbe il valore di un preciso «segno culturale», nell’ambito di una concezione allusiva dell’arte fondata sull’aemulatio con il modello illustre, che nel caso specifico era un autore assai in voga a Roma (come dimostra l’opera di Sallustio)[3].

Pedro Atanasio Bocanegra, Alegoría de la Peste. Olio su tela, XVII sec.

 

Metro: esametri

 

1145 Principio caput incensum feruore gerebant

et duplices oculos suffusa luce rubentis.

Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae

sanguine et ulceribus uocis uia saepta coibat

atque animi interpres manabat lingua cruore

1150 debilitata malis, motu grauis, aspera tactu.

Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum

morbida uis in cor maestum confluxerat aegris,

omnia tum uero uitai claustra lababant.

Spiritus ore foras taetrum uoluebat odorem,

1155 rancida quo perolent proiecta cadauera ritu.

Atque animi prorsum uires totius ‹et› omne

languebat corpus leti iam limine in ipso.

Intolerabilibusque malis erat anxius angor

assidue comes et gemitu commixta querela.

1160 Singultusque frequens noctem per saepe diemque

corripere assidue neruos et membra coactans

dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.

Nec nimio cuiquam posses ardore tueri

corporis in summo summam feruescere partem,

1165 sed potius tepidum manibus proponere tactum

et simul ulceribus quasi inustis omne rubere

corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis.

Intima pars hominum uero flagrabat ad ossa,

flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus.

1170 Nil adeo posses cuiquam leue tenueque membris

uertere in utilitatem, at uentum et frigora semper.

In fluuios partim gelidos ardentia morbo

membra dabant nudum iacientes corpus in undas.

Multi praecipites lymphis putealibus alte

1175 inciderunt ipso uenientes ore patente:

insedabiliter sitis arida, corpora mersans,

aequabat multum paruis umoribus imbrem.

Nec requies erat ulla mali: defessa iacebant

corpora. Mussabat tacito medicina timore,

1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis

lumina uersarent oculorum expertia somno.

Multaque praeterea mortis tum signa dabantur,

perturbata animi mens in maerore metuque,

triste supercilium, furiosus uultus et acer,

1185 sollicitae porro plenaeque sonoribus aures,

creber spiritus aut ingens raroque coortus,

sudorisque madens per collum splendidus umor,

tenuia sputa minuta, croci contacta colore

salsaque, per fauces rauca uix edita tussi.

1190 In manibus uero nerui trahere et tremere artus

a pedibusque minutatim succedere frigus

non dubitabat. Item ad supremum denique tempus

compressae nares, nasi primoris acumen

tenue, cauati oculi, caua tempora, frigida pellis

1195 duraque, in ore truci rictum, frons tenta tumebat.

Nec nimio rigida post artus morte iacebant. […]

François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.

 

1145 Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infuocato,

gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.

E dentro le livide fauci sudavano sangue,

si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,

e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,

1150 fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.

Quando poi il violento contagio attraverso le fauci

invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,

tutte davvero le barriere della vita vacillavano.

L’alito effondeva dalla bocca un orribile olezzo

1155 come quello che emanano le marce carogne insepolte.

Le forze dell’animo intero e tutta la fibra

del corpo languivano sulle soglie stesse della morte.

Agli atroci dolori era assidua compagna un’ansiosa

angoscia, e un pianto mischiato a continui lamenti.

1160 E spesso un singulto incessante di giorno e di notte,

costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,

tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.

Né avresti potuto notare sulla superficie del corpo

la parte esteriore avvampare di ardore eccessivo,

1165 ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto

e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,

come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.

Ma l’intima parte dell’uomo ardeva fino al fondo delle ossa,

una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.

1170 Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra

inferme, ma vento e frescura sempre.

Alcuni, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo

ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.

Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,

1175 protesi verso di essi con bocca anelante:

un’arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,

uguagliava gran copia di liquido a povere stille.

Né vi era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.

In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,

1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo

dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.

Allora apparivano numerosi presagi di morte:

la mente sconvolta e in preda al terrore e all’affanno,

il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,

1185 e, inoltre, l’udito assillato da una folla di suoni,

il respiro affrettato, oppure lento e profondo,

il collo madido di sudore e lucente umore,

rari ed esili gli sputi, amari, d’un giallo rossastro,

espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.

1190 I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti

a tremare, e man mano a succedere un gelo alla pianta

dei piedi. E, infine, nell’ora suprema, le nari sottili,

la punta del naso affilata, gli occhi infossati,

le concave tempie, la gelida pelle indurita,

1195 sul volto un’immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.

Non molto più tardi le membra giacevano nella rigida morte. […]

[trad. Canali]

 

Scheletro coppiere. Mosaico, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

1230 Illud in his rebus miserandum magnopere unum

aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat

implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

deficiens animo maesto cum corde iacebat,

funera respectans animam amittebat ibidem.

1235 Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

ex aliis alios auidi contagia morbi,

lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.

Idque uel in primis cumulabat funere funus.

Nam quicumque suos fugitabat uisere ad aegros,

1240 uitai nimium cupidos mortisque timentis

poenibat paulo post turpi morte malaque,

desertos, opis expertis, incuria mactans.

Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

atque labore, pudor quem tum cogebat obire

1245 blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

***

Inque aliis alium, populum sepelire suorum

certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

1250 Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus

nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

et robustus item curui moderator aratri

languebat, penitusque casa contrusa iacebant

1255 corpora paupertate et morbo dedita morti.

Exanimis pueris super exanimata parentum

corpora nonnumquam posses retroque uidere

matribus et patribus natos super edere uitam.

Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem

1260 confluxit, languens quem contulit agricolarum

copia conueniens ex omni morbida parte.

Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu

confertos ita aceruatim mors accumulabat.

Multa siti prostrata uiam per proque uoluta

1265 corpora silanos ad aquarum strata iacebant

interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

multaque per populi passim loca prompta uiasque

languida semanimo cum corpore membra uideres

horrida paedore et pannis cooperta perire

1270 corporis inluuie, pelli super ossibus una,

ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Omnia denique sancta deum delubra replerat

corporibus mors exanimis onerataque passim

cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,

1275 hospitibus loca quae complerant aedituentes.

Nec iam religio diuum nec numina magni

pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

quo prius hic populus semper consuerat humari;

1280 perturbatus enim totus trepidabat, et unus

quisque suum pro re ‹compostum› maestus humabat.

Multaque ‹res› subita et paupertas horrida suasit.

Namque suos consanguineos aliena rogorum

insuper exstructa ingenti clamore locabant

1285 subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

rixantes potius quam corpora desererentur.

 

1230 Ma in tal frangente, questo era più miserabile

e doloroso, che, quando ciascuno vedeva se stesso

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con il cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

1235 Infatti, davvero non cessavano mai di raccogliere

gli uni dagli altri il contagio dell’avido morbo,

come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.

Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.

Quanti, infatti, rifuggivano dal visitare i parenti infermi,

1240 troppo cupidi della vita e timorosi della morte,

poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,

derelitti e privi d’aiuto, con una morte vergognosa e infame.

Chi, invece, era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio

e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,

1245 tra le fievoli voci dei malati, miste a lamenti.

Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.

***

gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei propri defunti,

e, infine, tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti;

e gran parte di loro cadeva affranta sui letti.

1250 Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente

non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.

Inoltre, già il pastore e il guardiano di armenti

e il robusto guidatore dell’aratro ricurvo

languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi

1255 i corpi dati alla morte dalla miseria e dal morbo.

Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi

dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,

e, al contrario, spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.

Il contagio in gran parte si diffuse dai campi

1260 nella grande città, portato da una folla sfinita

di bifolchi, affluita da tutte le zone già infette.

Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte

più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.

Molti, prostrati per la via dalla sete, giacevano

1265 riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,

il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,

e molti ne avresti veduti qua e là per la strada

e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,

e squallidi e lerci perire, coperti di cenci

1270 e lordure sul corpo; sulle ossa soltanto la pelle

quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.

La morte aveva colmato persino i santuari degli dèi

di corpi inerti, e tutti i tempi dei celesti

restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,

1275 luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.

Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino

e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.

Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti

che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;

1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,

e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.

La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.

Con alto clamore ponevano i loro congiunti

sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,

1285 appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro

in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri.

[trad. Canali]

Scheletro (γνῶθι σαυτόν). Mosaico pavimentale. Roma, Museo Nazionale Romano P.zzo Massimo alle Terme.

 

Una chiusa inadeguata? | Un poema che si apre con il trionfo della vita (l’inno a Venere, premio al I libro) e si chiude con quello della morte: l’accanita esposizione della peste che devastò Atene nel 430 a.C., nel finale del VI (e ultimo) libro ha sempre turbato lettori e critici. Si è pensato che il finale sia incompiuto, che il poema dovesse concludersi con la descrizione delle sede dei beati degli dèi.

Si è detto anche che la peste, con le sue scene di morte, è una manifestazione del pessimismo lucreziano: ma la morte, in tutte le sue forme, è per Lucrezio (e per Epicuro) l’altra faccia della vita, un aspetto, terribile ma necessario, della natura. E, in effetti, la dialettica tra vita e morte non resta isolata ai “margini” del poema, all’inizio e alla fine, ma prosegue al suo interno, ripetuta in mille contesti più limitati, fino a creare nel lettore l’impressione che tale alternativa sia una regola fondamentale dell’universo, in cui creazione e distruzione si susseguono senza pause. D’altra parte, questo grandioso affresco finale di morte sembra davvero contenere in sé l’ultima lezione moral del poema: giunto al termine del viaggio verso la sapientia, il lettore-discepolo deve saper guardare senza sgomento anche agli aspetti più scabrosi della natura; conquistare le vette dei sapientum templa serena (II 8), riscattato dall’asservimento ai mali fisici e morali che affliggono l’umanità, è ormai in grado di contemplare dall’alto, senza vertigini d’orrore, l’abisso delle profondità cosmiche.

I signa della peste | Nella sua opera storica Tucidide decise di descrivere l’epidemia di peste che colpì Atene a memoria dei posteri, affinché potesse essere riconosciuta fin da suoi prodromi, se si fosse ripresentata (II 48, 3), e la descrisse in modo affidabile, essendone rimasto contagiato anche lui, anche se in modo guaribile. Nei confronti del brano tucidideo Lucrezio esegue una vera e propria opera di riscrittura, operando scarti significativi che danno un senso nuovo all’evento.

I primi sintomi | Riguardo ai prodromi della malattia Tucidide scrisse: «Dapprima erano colti da forti calori alla testa e da arrossamenti e bruciori agli occhi: e gli organi interni, cioè la gola e la lingua, subito erano di colore sanguigno ed emanavano un alito strano e fetido» (II 49, 2). Lucrezio, significativamente, inserisce qui la descrizione della voce soffocata e della lingua inerte (vv. 1148-1150): in polemica con gli stoici, che consideravano la gola come via vocis per dimostrare il mirabile funzionamento del corpo umano, opera della divina provvidenza, Lucrezio la applica alla degenerazione patologica di quell’organismo, attaccato dal male, per mostrare l’assenza di ogni tipo di disegno divino.

L’avanzare della malattia | Nel descrivere la progressione della peste, Tucidide (II 49, 3) procede dalla testa alla gola, dalla gola al petto e dal petto allo stomaco, dove la malattia provoca dolorosi travasi di bile. Lucrezio (vv. 1151-1159) sostituisce allo stomaco il cuore, che per gli epicurei era la sede dell’intelletto, perché nella sua descrizione la degenerazione fisica è strettamente correlata alla degenerazione delle facoltà intellettuali (si noti anche l’aggettivo maestum, indicante un’emozione, v. 1152). Nel testo lucreziano, dunque, l’epidemia viene vista da vicino, nei suoi dettagli più brutali, e, per raggiungere un tono il più possibile macabro, il poeta fa ricorso al registro dell’orrido: volvebat, «riversava (l’odore)», v. 1154; cadavera e il raro composto perolent (v. 1155, marcato dall’allitterazione con proiecta).

La fase acuta | Nel descrivere gli effetti del calore interno (Thuc. II 49, 5: «Ma gli organi interni bruciavano a tal punto che non sopportavano di essere coperti né da vesti assolutamente leggere o da lini, né da altro che non fosse l’essere nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda»), Lucrezio dà rilievo al rovesciamento dell’ordine naturale nei bisogni sentiti dall’uomo e rimanda il lettore al proemio del II libro (vv. 34 ss.), in cui aveva già descritto l’inquietudine dei febbricitanti come esempio emblematico dell’angoscia esistenziale che opprima l’umanità stolta.

L’ultimo stadio | Il fitto dialogo con Tucidide si interrompe nel quarto stadio della malattia (i segni di morte imminente, vv. 1182-1196): l’argomento non era stato affrontato dallo storico greco e Lucrezio utilizza come fonte il corpus delle opere ippocratiche, in cui, tuttavia, la trattazione non aveva riferimento specifico alla peste. I materiali della scienza medica – un sapere fondato, al pari della fisiologia epicurea, sull’osservazione dei signa – permettono di seguire fino in fondo lo stravolgimento operato dalla peste nella psiche e nel corpo.

La morte in Epicuro e in Lucrezio | Negli scritti di Epicuro pervenuti, la morte è un argomento trattato con astrattezza intellettuale: essa è vista come la dispersione degli atomi che prima erano aggregati tra loro. Lucrezio, invece, nell’ambito della rievocazione della peste di Atene, si sofferma sugli aspetti più concreti e materiali del fenomeno, facendo appello a diverse percezioni sensoriali: l’olfatto (per il puzzo della decomposizione dei cadaveri), la vista (per il rossore delle pustole nelle quali il sangue si coagula), l’udito (per il lamento dei malati), il tatto (per le insopportabili sensazioni di caldo e di freddo connesse al decorso della malattia).

***

Note

[1] Perelli L., Lucrezio, in La Penna A. (ed.), Cultura latina, 3, Firenze 1986, 222: «Il confronto [con Thuc. II 47-53] è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte, Lucrezio sostituisce all’esattezza scientifica e positivistica di Tucidide una visione surrealistica e magica, e le variazioni al testo tucidideo si svolgono lungo tre linee direttrici: l’esasperazione dei particolari orripilanti e ripugnanti, la sottolineatura delle ripercussioni del male fisico sugli animi e dell’angoscia di fronte alla morte, e l’ingigantire delle proporzioni e della violenza del morbo, che condanna gli uomini ad universale e inarrestabile rovina. Inoltre, Tucidide non lascia trasparire alcuna emozione, mentre Lucrezio qui più che altrove partecipa alle sofferenze dell’umanità e cede alla voce della pietà e della compassione. Il sentimento di pietà per la sofferenza umana, che nel corso del poema affiora solo episodicamente, dominato, o almeno mascherato, dall’opposto atteggiamento di sdegno e di condanna, investe diffusamente la pagina della peste. Di fronte all’estrema miseria dell’uomo oppresso dalla natura crudele il poeta svela una commozione dolente e pietosa per la sorte dell’umanità, in una tacita e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana della Ginestra. […] Nella descrizione della peste si assommano gli aspetti, per così dire, antiepicurei della poesia lucreziana: il senso attonito del mistero, l’orrore della vita come sofferenza, tormento e degradazione, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele. La scienza si rivela inutile e incapace a strappare alla natura il suo segreto, a lenire la sofferenza dell’uomo; la natura ostile non distingue nella sua furia devastatrice il malvagio dall’onesto, l’ignorante dal saggio, e anche gli animali sono coinvolti nell’universale rovina.

[2] Commager H.S., Lucretius’ Interpretation of the Plague, HSCPh 62 (1957), 115-118 [trad. it. Perelli] [Jstor]: «Per Tucidide, due sono le cose più terribili (II 51, 4): da un lato l’apatia, dall’altro il pericolo di contagio. Lucrezio vede solo una cosa come miserandum magnopere (VI 1230). Egli attribuisce massima importanza all’apatia (deficiens animo, 1233), mentre il diffondersi del contagio acquista una posizione subordinata (quippe etenim, 1235). La disposizione mentale o psicologica, che deriva dalla mancanza di ogni certa ratio, appare a Lucrezio come l’aspetto principale. L’aspetto fisico è relegato in una posizione dipendente, con un notevole disordine sintattico. Implicitum morbo (v. 1232) sembra indicare la via in cui si muove il pensiero di Lucrezio. Il termine compare solo una volta altrove. L’uomo può sfuggire dalle reti d’amore, implicitus, a meno che egli da sé non si ostacoli nel suo cammino (nisi tute tibi obuius obstes, IV 1150). Le forze esterne non sono più di pari importanza, come erano per Tucidide. La disperazione dell’uomo davanti al suo stato incurabile è assai significativa: egli si ostacola nel suo stesso cammino. […] Io avanzo solo l’ipotesi che il quadro tucidideo di un popolo malato, ardente di una sete insaziabile e autodistruttiva, spossato e incerto, può oscuramente aver richiamato a Lucrezio la sua personale immagine dell’umanità. Per questo motivo egli fa proprio il racconto di Tucidide. Esso diventa non la mera climax fisica dei fenomeni fisici del VI libro, ma il culmine morale dell’intero poema. Mentre Tucidide menziona la peste come un esempio utile per le future generazioni (II 48, 3), Lucrezio la assume come un simbolo del presente stato di malattia mentale».

[3] Salemme C., Strutture semiologiche nel De rerum natura di Lucrezio, Napoli 1980, 86-87: «A motivare l’episodio della peste di Atene e nell’espressione poetica e nella struttura generale del libro e del poema è stato proprio quel lepos, col quale è così apparentemente in contrasto. Nel brano finale Lucrezio ha dato un quadro poetico di finissima fattura: lo spunto gli veniva direttamente dall’argomento trattato prima, i morbi, prodotti dalla vis, in relazione con la summa rerum; ma i “modi” della resa del brano dovevano conferire all’episodio un tono particolarmente sostenuto e dotto, un tono attraverso il quale il lepos e la consumata perizia poetica dello scrittore dovevano celebrare la loro ultima, più scaltrita manifestazione. E, in realtà, il brano non è altro che una serie di dotte, allusive parafrasi del testo tucidideo, di accurate inserzioni, di contaminazioni da altri autori, di precise intensificazioni patetiche sulla scia della vetusta tradizione del vertere latino. Il pubblico colto, al quale il poema era in particolare destinato, non poteva non affermare la consumata perizia poetica dell’autore: in tal senso, l’intero episodio della peste d’Atene s’atteggia a preciso segno culturale e, proprio per il carattere composito e inconfondibile della sua “scrittura”, mostra le interrelazioni tra autore e destinatario dell’opera».

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West D., Virgil, Georgics 3.478–566 and Lucretius 6.1090–1286, in West D. – Woodman T. (eds.), Creative Imitation and Latin Literature, Cambridge 1979, 71-88 [cambridge.org].

T. Lucrezio Caro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 135-151 = Id., E. Pianezzola, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 518-531.

1. Il poeta dell’Epicureismo

Tito Lucrezio Caro è, insieme a Catullo, il più grande poeta dell’età di Cesare – un periodo in cui predomina la prosa – e l’unico la cui opera ci sia giunta per intero. Il suo lungo poema in sei libri, De rerum natura [Sulla natura delle cose], espone la filosofia di Epicuro con rigore, ma anche con coraggio, perché le teorie dell’Epicureismo erano sempre state guardate con sospetto a Roma.

Ma il poema di Lucrezio non è un arido manuale di filosofia. È soprattutto una grande opera di poesia, dall’ispirazione possente e dallo stile personalissimo, che trasuda l’entusiasmo dell’autore per la sua missione di divulgazione. Un’opera tanto più interessante perché, come accade per Catullo, ignora deliberatamente i terribili sconvolgimenti e le violenze che segnarono la politica romana del I secolo a.C. per concentrarsi sulla contemplazione intellettuale e sulla poesia.

2. Una biografia con molte incertezze

La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di san Girolamo (circa 347-420), che è una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio, con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di Svetonio:

Nasce il poeta Tito Lucrezio. Costui in seguito, indotto alla pazzia da un filtro d’amore, dopo avere scritto alcuni libri negli intervalli di lucidità che gli lasciava la follia, libri che furono poi riveduti da Cicerone, si uccise di propria mano a 43 anni di età[1].

Alcuni manoscritti di Girolamo collocano questa notizia della nascita nel 96, altri nel 94 a.C.; la data di morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51 a.C.

Ma questa non è l’unica difficoltà. Il grammatico Elio Donato (IV secolo) così scrive nella sua Vita Vergilii:

A Cremona Virgilio trascorse i primi anni fino alla toga virile, che assunse al compimento del diciassettesimo anno, sotto quei medesimi consoli sotto i quali era pure nato: avvenne che in quello stesso giorno morisse il poeta Lucrezio[2].

Ora, Virgilio compì diciassette anni nel 53 a.C.; invece, i consoli sotto i quali nacque (70 a.C.), Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno, furono eletti per la seconda volta non nel 53, ma nel 55 a.C. Per accordare le due indicazioni, si è supposto che nei manoscritti si sia corrotta l’indicazione d’età di Virgilio (che avrebbe avuto quindici anni e non diciassette), e si ricava così la data del 15 ottobre 55 a.C.

Ma come accordare questa data con il 53/1 di Girolamo? È necessario ammettere che quest’ultimo abbia confuso il nome dei consoli del 94 e del 98 a.C. e collocare la nascita in quest’ultima data. Oggi 98 e 55 sono ritenute le date più verosimili, anche se permangono notevoli incertezze; si può affermare con una certa sicurezza, tuttavia, solo che il poeta nacque negli anni ‘90, e morì verso la metà degli anni ‘50 del I secolo a.C.

Nulla di concreto si può affermare sulla sua provenienza: si è pensato che fosse campano, poiché a Napoli era fiorente una scuola epicurea e perché il De rerum natura si apre con inno a Venere molto simile alla Venus fisica venerata a Pompei. Ma tanto questa ipotesi quanto quella di chi vuole il poeta nato a Roma, per via di alcuni, pochi riferimenti a luoghi precisi dell’Urbs, sono prive di basi convincenti.

Sarebbe interessante determinare la classe sociale di provenienza di Lucrezio, ma dal tono delle parole che rivolge all’aristocratico Memmio, dedicatario del poema, nel corso dell’opera, non è possibile capire se egli si collocasse sullo stesso livello o non fosse, piuttosto, un liberto; in ogni caso, è fuori discussione l’ampiezza della cultura ricevuta. Qualche notizia più approfondita su questi temi è, in verità, presente nella cosiddetta Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894, in cui si sostiene che il poeta visse «in stretta intimità» con Cicerone (da cui avrebbe accolto suggerimenti stilistici), Attico, Bruto, Cassio, cioè con le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C. Ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la Vita sia un falso, composto dall’umanista Gerolamo Borgia all’inizio del Cinquecento.

Va, con ogni probabilità, respinta la notizia di san Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio come frutto della follia del poeta. Prima di san Girolamo, questa notizia della follia non si trova neppure nel cristiano Lattanzio (circa 240-320), che pure accusa metaforicamente di «delirare», e che certamente non avrebbe mancato di accennare a un elemento così importante, se solo lo avesse conosciuto.

Alcuni critici contemporanei interpretano questa follia come una depressione patologica del poeta, per spiegare – ma in modo poco convincente – il “pessimismo” lucreziano così contrario all’“ottimismo” di Epicuro, il filosofo di cui illustra le dottrine.

Busto di Lucrezio
Busto di Lucrezio

3. L’opera: il poema che traduce Epicuro

Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri (ogni libro va da un minimo di quasi 1100 versi a un massimo di quasi 1500, per un totale di 7415 esametri), forse non finito o comunque mancante dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Περί φύσεως in trentasette libri.

Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verisimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e patronus di Catullo e di Cinna. La data di composizione del poema non è sicura. Nel I libro l’autore afferma che Memmio non può sottrarsi alla cura del bene comune «in un momento difficile per la patria» (v. 41 s.); tutta la prima metà del secolo, infatti, è funestata da eventi bellici, ma si tende a pensare che il riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59 a.C., anche perché Memmio fu pretore nel 58 a.C.: non è però impossibile pensare a date anteriori.

Girolamo, nello stesso passo del Chronicon in cui riferisce le notizie biografiche su Lucrezio, asserisce che il De rerum natura, dopo la morte del poeta, fu rivisto e pubblicato a opera di Cicerone. Certo è che in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54 (Ad Quintum fratrem II 9, 3), Cicerone mostra di aver già letto e apprezzato il poema: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis [«Nei poemi di Lucrezio, come tu mi scrivi, ci sono davvero i bagliori del talento, ma anche i segni di una grande arte letteraria»].

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

4. L’Epicureismo a Roma

Il poema lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’Epicureismo a Roma era stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente, che nella scelta dell’atteggiamento da tenere verso il pensiero greco era molto attenta a eliminare gli elementi potenzialmente pericolosi per la res publica o per il mos maiorum. Certo, non tutti mostravano la chiusa intolleranza di Catone verso la cultura ellenica; ma anche un autore come Cicerone, amante della filosofia, eresse un argine insormontabile proprio nei confronti dell’Epicureismo. Questa dottrina era considerata pericolosa, perché, da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità, distoglieva i cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dèi negli affari umani, corrodeva quella religione ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.

Ma se nel II secolo a.C. si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti dei filosofi Alceo e Filisco, che volevano divulgare l’Epicureismo a Roma, nel I secolo a.C. questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli strati elevati della società romana. Un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, era protettore di filosofi epicurei e nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli, dove, sotto la guida di Sirone, studiavano giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali futuri poeti come Virgilio e, probabilmente, Orazio. Sappiamo anche delle propensioni epicuree di Tito Pomponio Attico, di Cesare e del cesaricida Cassio.

Meno sappiamo sulla penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori; ma è interessante un passo di Cicerone, il quale, nelle Tuscolanae disputationes (4, 7), ci informa del fatto che le divulgazioni dell’Epicureismo in cattiva prosa latina, dovute ad Amafinio (età incerta; forse fine del II-inizi del I secolo a.C.) e Cazio (I secolo a.C.), circolavano presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi disseminati. In effetti, lo stesso Epicuro raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione, coerentemente con l’universalismo del suo messaggio.

L. Calpurnio Pisone Cesonino. Busto, bronzo, fine I sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

5. Il contenuto del poema

Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi), che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici (V-VI).

Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore, come dimostrano alcune ripetizioni di versi e qualche incongruenza. Problemi particolari ha destato il finale del poema: poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dèi, ma non mantiene fede alla promessa, si è pensato che proprio questi descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Se si dovesse accogliere questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena – che avrebbe fatto da pendant al gioioso inno a Venere con il quale si apre – e non con il terrificante quadro della peste di Atene. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che la fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Vat. lat. 1569 (1483), Frontespizio del De rerum natura di Lucrezio, f. 1r.

6. Il genere letterario

Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella, prosastica, seguita da Amafinio e Cazio, perché optò per la forma del poema epico-didascalico. Questa scelta dovette destare sorpresa, perché Epicuro aveva condannato la poesia (soprattutto quella omerica, base dell’educazione greca) per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva pericolosamente i lettori, allontanandoli da una comprensione razionale della realtà. Gli altri epicurei si erano attenuti scrupolosamente alle direttive del maestro, coltivando tutt’al più, come Filodemo, la poesia scherzosa o di puro intrattenimento.

Nella sua scelta, Lucrezio fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. In due luoghi distinti del poema (I 136-145; IV 1-25) Lucrezio giustifica questa sua scelta, ricorrendo nel secondo caso a una celebre similitudine: come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a guarirli, così egli vuole «cospargere con il miele delle Muse» una dottrina apparentemente amara.

Michael Burghers, Lucrezio. Dal frontespizio del T. Lucretius Carus, Of the Nature of Things di Thomas Creech, riprodotto nell’edizione di John Digby, London 1714.

La novità di Lucrezio | Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma ebbe modelli importanti in tutta la tradizione epico-didascalica. In particolare, Lucrezio guarda con dichiarata simpatia al Περί φύσεως di Empedocle, il poeta-filosofo del V secolo a.C., che proprio nell’età di Lucrezio stava conoscendo a Roma un periodo di rinnovato interesse. Certo, Lucrezio ne respingeva l’ispirazione misticheggiante e le posizioni filosofiche, ma ne ammirava diversi elementi: l’argomento trattato, l’ardore di apostolo, l’atteggiamento profetico di rivelatori della verità, l’organizzatore del materiale e alcuni caratteri formali come l’uso dell’esametro. Questo spiega il fervido omaggio che Lucrezio gli rivolge verso la fine del I libro (vv. 716-733).

Ancora più grande è la differenza tra Lucrezio e gli altri poeti didascalici latini, sia precedenti sia successivi a lui. Infatti, questi si ricollegavano più direttamente alla tradizione ellenistica, che ricercava l’ispirazione in argomenti tecnici in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche e si limitava per lo più a descrivere fenomeni. Lucrezio, invece, ambisce non solo a descrivere, ma anche a indagare le cause e a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre, egli vuole convincere il lettore della validità della dottrina epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità una ratio sulla quale è obbligato a esprimere un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.

L’ethos (cioè l’intenzione) del genere didattico ellenistico era eminentemente encomiastico: il testo rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, Lucrezio articola spesso le proprie argomentazioni con le formule non mirandum e nec mirum: «non c’è da meravigliarsi» davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e chi abbia capito i principi delle cose e i loro concatenamenti non può rimanerne stupito. Alla “retorica del mirabile” («ammira e stupisciti, tu che ascolti») Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”, che è, di fatto, il contrario del miracoloso; e così necesse est è un’altra delle formule più frequenti nell’argomentare lucreziano.

Rembrandt van Rijn, Lo studioso al leggio. Olio su tela, 1641. Warsaw, Castello Reale.

Lucrezio e il lettore-discepolo | La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che l’autore gli propone. Così, per esempio, nel I libro: «Perciò, benché tu indugi adducendo molte obiezioni, / è inevitabile che tu ammetta l’esistenza del vuoto tra i corpi» (v. 398 s.); o nel II: «Perciò, smettila, spaventato dalla stessa novità, / di espellere dall’animo il vero, ma con più attento / giudizio valuta e, se ti appaiono verità, / cedi, o, se invece è falso, combatti» (v. 1040 ss.).

Il destinatario del messaggio – fatto direttamente responsabile – deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del “sublime” lucreziano, quegli spettacoli alti e grandiosi che ricorrono nel poema: la furia dei venti, gli universi infiniti, l’eternità del tempio passato e futuro sono spettacoli sublimi che coinvolgono il lettore spettatore e lo spronano. Il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in “eroe”, a emozionarsi a trovare in sé la forza di accettare la dottrina, anche qualora le verità proclamata dal poeta siano terribili e perfino paurose[3].

Da questo approccio discendono alcune caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Tra i procedimenti dimostrativi Lucrezio non trascura il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica, ma anche la dimostrazione per assurdo della falsità di tesi o possibili obiezioni. Uno spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto ciò che è troppo lontano o piccolo per essere osservato direttamente, come per esempio i fenomeni astronomici (libro VI) o l’esistenza degli atomi e del vuoto in cui essi si muovono (libri I e II).

Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La sua struttura complessiva è semplice. Prima c’è un’introduzione (vv. 1-93), che si apre con un inno a Epicuro. Poi, viene la trattazione vera e propria (vv. 94-829), a sua volta suddivisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, cioè composta di atomi estremamente sottili e di vuoto (vv. 94-416), poi che l’anima, in quanto materiale, è anche mortale, soggetta al ciclo di nascita e morte proprio di tutti i corpi (vv. 417-829). In quest’ultima parte Lucrezio propone ben ventinove diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, la scelta degli esempi e delle immagini creano un insieme di innegabile forza persuasiva, anche se Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Infine, nell’ultima parte (vv. 830-1094) Lucrezio dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo (vv. 933 ss.): se la vita trascorsa è stata colma di gioie ci si può ritirare come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono a ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può attendere, perché eadem sunt omnia semper (III 945).

In questo libro è particolarmente chiaro un ultimo carattere dell’opera, il suo contatto con la letteratura diatribica. La diàtriba (letteralmente «discussione») si era sviluppata in Grecia in età ellenistica, e il rappresentante più noto ne era stato Bione di Boristene (ca. 325-255 a.C.), un filosofo viaggiatore che esponeva alla gente per strada argomenti di carattere filosofico-morale. Anche se il suo orientamento filosofico era prevalentemente cinico, Bione aveva contribuito a sviluppare una presentazione semi-drammatica del contenuto, con frequenti spunti satirici assai vivaci e con la partecipazione di più personaggi fittizi.

Filosofo di Antikythera. Testa, bronzo, III-I sec. a.C. ca. dal Relitto di Antikythera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

8. I temi del De rerum natura

La religione | Subito dopo il proemio con l’invocazione a Venere e una sommaria esposizione del piano dell’opera, Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare. Ben più empia e crudele è la religio, ovvero la religione tradizionale basata sulla paura degli dèi e quasi una «superstizione», che aveva imposto ad Agamennone il sacrificio della figlia Ifigenia per assicurare la partenza della flotta greca per Troia. All’assassinio della fanciulla è dedicata una scena tra le più elaborate del poema (I 80-101), impostata su un tono volutamente molto patetico. La religio è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla e diventassero quindi insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è quindi necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa.

Si vede come già dai primi versi Lucrezio descrive con chiarezza il nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica. Il suo messaggio fu di fatto ignorato non solo per intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché capace di mettere in discussione i fondamenti culturali, sociali e politici dello Stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione.

Se l’insistenza sui «terribili detti» (I 103) dei vates costituisce probabilmente una accentuazione polemica ispirata dal clima culturale del suo tempo, Lucrezio resta peraltro fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco è descritto fin da subito come un nuovo Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli dèi per aiutare gli uomini), come un guerriero omerico impegnato in un duello eroico: fu il primo uomo che «osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo» (I 66)[4]. Per questo egli può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali: tranne il II e il IV, tutti i libri dell’opera si aprono con un’appassionata celebrazione dei meriti del filosofo.

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Epicuro credeva che gli dèi fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia (la zona tra terra e cielo in cui abitavano), incuranti delle vicende della Terra e dell’uomo: a loro poteva andare la pietas dei terrestri e potevano costituire un punto di riferimento ideale. Era invece radicalmente esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dèi in un rapporto di dipendenza e che da essi egli potesse attendersi benefici o punizioni come da un padrone. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e «contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi» (V 1203).

Nell’ambito del V libro una sezione della storia dell’umanità (vv. 1161-1240) è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi scientifiche. La loro conoscenza, invece, permette di capire, per esempio, che il fulmine o le tempeste non sono i segni di una punizione divina, anche perché colpiscono indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Alcuni hanno visto a torto in questi versi quasi un cedimento di Lucrezio nei confronti di quelle paure che lui stesso tenta di combattere: sua intenzione è, invece, quella di delineare l’origine storica di un fenomeno del quale non è difficile ricostruire le cause e che, quindi, va affrontato ed eliminato.

Il corso della storia | Oltre a temi fisici (come la natura della materia e la formazione dei corpi) ed etico-morali (la religione, la paura della morte, l’amicizia, l’amore), Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione (II 1024-1174).

Tu tutta la seconda metà del libro V (vv. 772-1457) tratta invece dell’origine della vita sulla Terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né gli esseri umani sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. Notevole attenzione è riservata alla confutazione delle tradizioni su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della Terra. A tali fantasticherie Lucrezio oppone la saldezza delle leggi naturali della fisica epicurea, che dimostrano l’impossibilità che due esseri di natura diversa, come l’uomo e il cavallo, per esempio, si congiungono e generino un centauro: è questo uno degli insegnamenti basilari di Epicuro. È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta alcuni “sbagli” dando vita a uomini mancanti di parti vitali del corpo (V 837 ss.).

I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui avevano davvero bisogno; non per questo la loro vita era priva di pericoli, perché molti venivano sbranati dalle fiere. In seguito (vv. 1011-1457) Lucrezio tratta delle tappe del progresso umano, positive (la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura) e negative (l’origine e lo sviluppo della guerra, il sorgere del timore religioso). Spesso è stata la natura a mostrare casualmente gli uomini come agire: del metallo surriscaldato un incendio fortuito virgola e raccolto sin una buca del terreno, per esempio, può avere indicato la tecnica della fusione. La necessità di comunicare, invece, ha spinto l’uomo a creare le prime forme di linguaggio: caso i bisogni materiale sono stati fattori di avanzamento della civiltà.

Prometeo, Gaia, Aion, le stagioni e i venti. Mosaico, IV secolo, da Damasco (Siria).

È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Ovviamente, Lucrezio non poteva credere in una mitica «età dell’oro», in cui l’umanità viveva come in un paradiso terrestre dal quale il degenerare delle razze l’avrebbe irrimediabilmente allontanata, come invece sosteneva Esiodo nelle Opere e i giorni.

Lucrezio critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni naturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, ma la sua non è una visione sconsolata e pessimistica: a questi problemi l’Epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che «di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo» (II 20), cioè a evitare i desideri non naturali e non necessari, badando a soddisfare solo quelli naturali e necessari[5]. Come si vede, l’Epicureismo non era affatto quella forma di edonismo sfrenato che i suoi avversari dipingevano.

Perciò, il saggio deve allontanarsi dalle inutili ricchezze e dalle tensioni della vita, secondo il consiglio di Epicuro, λάθε βιώσας («vivi nascosto»). L’unica vera ricchezza è lo studio della natura con gli amici più fidati (come diceva Epicuro: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per a completa felicità della vita il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», Massime capitali, trad. it. G. Arrighetti). Celebre è la similitudine che apre il libro II: il saggio che vive secondo i precetti di Epicuro è come colui che, al sicuro sulla terraferma, osserva distaccato l’altrui pericolo nel mare in tempesta.

8. L’interpretazione dell’opera

Nell’interpretazione dell’opera di Lucrezio, di certo, ha avuto un peso determinante la notizia di san Girolamo sulla follia del poeta, notizia che, come abbiamo visto, è dovuta al desiderio da parte del dotto cristiano di screditare un poeta materialista. Perciò, non possono essere accettate le tesi di coloro che, confondendo l’autore con il narratore, hanno affannosamente ricercato nel De rerum natura tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, o come crisi maniaco-depressive o come generica angoscia esistenziale[6]. Anche la tesi più recente (1868) del francese Patin è dovuta all’avversione per il credo materialista del poeta: secondo Patin, infatti, per tutto il poema Lucrezio si affanna a persuadere un “anti-Lucrezio” scettico, ovvero lotta con se stesso in una specie di sdoppiamento della personalità.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, I secolo d.C. da Pompei.

Al contrario, il De rerum natura è pervaso da una tensione che può ben essere definita «illuministica», volta a convincere razionalmente il lettore e a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui l’autore crede profondamente. E se nel poema hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche e violentemente drammatiche, questo non è dovuto al fatto che Lucrezio non riesca a convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, ma a precisi motivi di contesto. Per esempio, per confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale, Lucrezio sottolinea la totale indifferenza della natura verso l’uomo con immagini forti: la “colpa” della natura è evidente nelle asperità del terreno, nelle difficoltà di lavorarlo, nella durezza del clima, nel gran numero di animali nocivi all’uomo che la Terra nutre, nelle malattie e nella morte prematura. E, quando nel finale del IV libro Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione tanto irrazionale[7]. Più in generale, alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema e radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace.

Bisogna ammettere però che a tratti in forte pessimismo sembra separare Lucrezio dalla serenità del suo maestro Epicuro. Questo problema ha un ruolo centrale in buona parte della critica, e non è facile giungere a una valutazione equilibrata che tenga conto di tutte le sfumature, dei toni qualora diversi tra una parte e l’altra del poema. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente; ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti.

Albert Bierstadt, L’incombere della tempesta nella valle. Olio su tela, 1891. Nordsee Museum Husum.

Nel III libro, per esempio, l’autore insiste sul fatto che la morte «per noi non è nulla» (nihil est ad nos neque pertinet hilum, v. 830), perché con essa la nostra sensibilità si perde del tutto. Tutto questo, però, non basta a eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba avere un termine: se la vita trascorsa è stata piacevole e nella di diverso può essere esperito in futuro, perché «tutto è sempre uguale» (v. 945), conviene allontanarsi come un convitato sazio, serenamente (aequo animo, v. 939, un’espressione tipicamente epicurea che ritroveremo in Orazio); in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Ma è proprio questa rigidità razionalistica a contrastare vivamente con la vivida descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre.

In realtà, proprio queste, che sono state considerate come contraddizioni da critici desiderosi di screditare Lucrezio, non fanno che aggiungere fascino alla sua personalità poetica: la sua insoddisfazione amara è il segno oggettivo di un interiorità tormentata, e forse i luoghi più eloquenti dell’opera sono proprio quelli in cui le contraddizioni non risolte lasciano il segno sul corpo della dottrina.

9. Lingua e stile

Il giudizio di Cicerone nella lettera al fratello Quinto, riportato sopra, testimonia che l’Arpinate ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha a lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle due affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva.

Certamente, il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione, che deriva quasi obbligatoriamente dalla mancanza nella lingua latina di un vocabolario astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a tale mancanza, deve ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi. E così un discorso di per sé intellettuale guadagna in emotività ed efficacia poetica attraverso la descrizione, ora stupita ora curiosa, di cose immense e piccolissime, distanti e vicine, statiche e dinamiche.

A queste antitesi corrisponde stilisticamente il contrasto efficace tra le movenze di una lingua colloquiale e la scelta di uno stile sublime, tra l’energia del parlato e la preziosità della dizione epico-tragica, tra la durezza e l’eleganza, tra la meraviglia e la commozione, tra il ragionamento pacato e l’invettiva profetica. Questa varietà si fonde nel registro dell’enthusiasmós poetico, posto al servizio di una missione didattica vissuta con un ardore eccezionale.

Lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, si piega al fine di persuadere il lettore. Le ripetizioni, nelle quali si è a lungo visto un segno di “immaturità” stilistica di Lucrezio, sono frequenti, ma Epicuro stesso raccomandava di riassumere alcuni concetti in brevi formule facilmente ricordabili. Così, per esempio, il principio essenziale per cui l’incessante divenire degli aggregati è possibile solo grazie al loro continuo disfacimento è ripetuto quattro volte (I 670; 792; II 753; III 519).

Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (per esempio, le formule di transizione tra argomenti diversi: adde quod, quod superest, praeterea, denique), dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non certo facile.

Non va neppure trascurato il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò quindi costretto a ricorrere a perifrasi nuove (quali semina o primordia rerum, e corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talora a calchi diretti dal greco (come homoeomerìa): è appunto in questa circostanza che egli lamenta la «povertà del vocabolario avito» (I 832: patrii sermonis egestas).

Al di fuori del lessico strettamente tecnico, Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica (soprattutto Ennio) gli fornisce specie nel campo degli aggettivi composti (per esempio, suaviloquens, altivolans, navigerum, frugiferens), e molti ne crea egli stesso, rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter) e perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus, sul modello omerico). Da Ennio trae le più caratteristiche forme dell’espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici. In campo grammaticale i due fenomeni sicuramente più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in -ier (più arcaico di -i), e il prevalere della desinenza bisillabica -ai nel genitivo singolare della 1^ declinazione (anziché -ae), che contribuiscono all’elevazione del tono del discorso.

L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Il moderato ricorso all’enjambement (peraltro diffuso nelle sezioni in cui si intende accentuare il pathos) annulla soprattutto nelle parti tecniche argomentative la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.

Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide; tutta la descrizione della peste di Atene nel finale dell’opera è naturalmente basata sul racconto di Tucidide. Non mancano allusioni ai poeti ellenistici: nel proemio del IV libro Lucrezio si presenta come il poeta che raggiunge per primo «gli impervi terreni delle Muse Pieridi» per attingere a una nuova fonte di poesia, riproducendo così il gesto di consapevolezza che Callimaco aveva canonizzato a inizio degli Aitia.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

10. La fortuna di Lucrezio

Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: è sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’ Epicureismo ha larga parte. Si è pensato (ma le ipotesi sono molteplici) che Cicerone abbia voluto, in tale sede, appositamente ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore. Tutto sommato, scarsa è la presenza di Lucrezio anche in altri autori di I secolo a.C., anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non mancano di riprendere alcuni aspetti e di tributargli alte lodi.

La lettura del poema continua anche nei secoli successivi, come testimoniano Seneca, Quintiliano, Stazio (cui si deve la bella definizione docti furor arduus Lucreti, in Silv. II 7, 76) e Plinio il Vecchio.

Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni, ma a partire dai secoli successivi incominciano a perdersi le tracce dell’opera. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna. Alla prima edizione a stampa (Brescia 1473) e al fiorire delle attività filologica sull’opera (studiata tra gli altri da Marullo, Avancio e soprattutto Lambino) si affianca la ripresa di interesse, da parte dei dotti dell’epoca, anche di tendenze filosofiche diverse: è il caso di Pontano e Poliziano (anche da alcune Stanze per la Giostra di quest’ultimo, ispirate alla Venere di Lucrezio Botticelli trasse spunto per la sua Primavera).

Nel Cinquecento appaiono le prime «confutazioni di Lucrezio». Si tratta di opere in versi che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare tesi sovente opposte a quelle materialiste del De rerum natura. Un celebre esempio di questa produzione è, senz’altro, l’Anti-Lucretius, sive de Deo et Natura del Cardinale di Polignac (1747).

Il filosofo francese Gassendi (1592-1655), con il suo Empirismo, riporta in auge, in pieno XVII secolo, la dottrina di Epicuro (e, naturalmente, di Lucrezio) conciliandola con la presenza di un Dio creatore. Molière ne traduce nel Misantropo il celebre passo del IV libro sui difetti delle donne; l’Illuminismo, poi, confesserà la sua ammirazione per l’arte e (non sempre) per la filosofia del poeta latino.

La prima traduzione italiana dell’opera è del dotto fiorentino Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto impostogli in patria.

Non si può affermare con certezza una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, anche se alcune tracce nei suoi testi indicano, comunque, un certo grado di conoscenza diretta (per esempio, i vv. 111-114 de La ginestra: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra al comun fato», riprendono forse I 65-66: Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra).

Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori guida che li accomunano o li separano.

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Note

[1] Suet. Poet. 16, 1 Rostagni = Hier. Euseb. 171, 1-3: Titus Lucretius poeta nascitur. Qui postea amatorio poculo in furorem uersus, cum aliquot libros per interualla insaniae, conscripsisset, quos postea Cicero emendauit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

[2] Don. Vit. Verg. 6: Initia aetatis Cremonae egit usque ad uirilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, euenitque ut eodem ipso die Lucretius poeta decederet.

[3] Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia per l’autore, che costruisce il suo discorso, e una forma di percezione delle cose per il lettore, che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue leggi. Il sublime, coinvolgendo colui che è lettore del testo e, perciò spettatore della grande di emozionante descrizione lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Ecco che allora il sublime, per il destinatario, funziona anche come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un esortazione al lettore: che scelga per sé, anche lui, un modello di vita alto e forte. E tutto il De rerum natura si configura allora come un protreptikós lógos, come insegnamento che contiene insieme un drammatico consiglio: tu stesso, lettore, devi divenire quasi lo specchio di questa sublimità universale, maestosa e terribile, che io cerco di rappresentare adeguatamente in questo mio stile sublime; tu stesso devi trasformarti in un «lettore sublime», emozionarti e trovare dentro di te la forza dell’accettazione e dell’adeguamento.

[4] A parte certi diffusi accenti genericamente “prometeici” che suggeriscono nella figura di Epicuro il campione della liberazione umana, fin dall’inizio del poema (I 62-79) l’immagine del filosofo (armato di vivida vis animi e forte della ratio naturae) si modella apertamente sui tratti del guerriero omerico impegnato in un duello eroico: il rituale delle “scene di sfida”, codificate nell’Iliade, con le varie movenze che preludono allo scontro fra guerrieri (guardare il nemico negli occhi, disporsi di fronte a lui saldamente, ecc.) costituisce il modello implicito della descrizione che Lucrezio fa del suo campione impegnato contro quell’avversario temibile che è il mostro gigantesco della superstizione (mortales tollere contra / est oculos ausus, primusque obsistere contra). Segno, questo, dell’intonazione epico-eroica che Lucrezio voleva aggiungere all’ardore didascalico della sua poesia di genere sublime.

[5] Epic. 6, 33: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle [in futuro], anche con Zeus può gareggiare in felicità» (trad. Arrighetti).

[6] La confusione fra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore”, che prende la parola all’interno del poema, continua a nuocere alla lettura critica dell’opera. Le due figure non vanno sovrapposte meccanicamente: nessuno, infatti, penserebbe di far coincidere sic et simpliciter il Dante-personaggio della Commedia con l’uomo Alighieri.

[7] In questo particolare caso, avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi (Catullo) e l’orientamento della morale tradizionalista a condannare con severità gli amanti che sconsideratamente dissipavano le loro sostanze in doni e lussi (IV 1123-1124: «e intanto il patrimonio si dissolve, si trasforma in tappeti babilonesi; i doveri sono trascurati, la reputazione vacilla e soffre»).

Epicuro e la fondazione del «Giardino»

di REALE G., Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 293-312 [testo rielaborato]; cfr. ID. – ANTISERI D., Il pensiero occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, pp. 251-264.

 

Epicuro. Busto, marmo, copia romana di II sec. d.C. da originale ellenistico. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

I. La genesi e le caratteristiche del «Giardino».

 

1. La polemica di Epicuro contro Platone e Aristotele. – La prima, in ordine cronologico, delle grandi Scuole ellenistiche sorse ad Atene verso la fine del IV secolo a.C. (307/6 a.C.) per opera di Epicuro[1]. Per l’esattezza, questa Scuola era già stata costituita, almeno nel suo embrione, qualche anno addietro, giacché Epicuro aveva insegnato a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco; e a Mitilene, e soprattutto a Lampsaco, egli aveva raccolto i suoi primi seguaci. In ogni caso, fu il trasferimento della Scuola ad Atene (la quale restava ancora la capitale della cultura ellenica) che segnò l’ingresso effettivo di essa nella vita spirituale della grecità. Questo avvenimento, infatti, costituiva, nei confronti delle grandi istituzioni di Platone e di Aristotele, un vero e proprio atto di sfida e, addirittura, l’inizio di una spirituale rivoluzione, come si vedrà.

Ma Epicuro aveva capito di avere qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che aveva per sé il futuro, mentre le Scuole di Platone e di Aristotele avevano per loro stesse, ormai, solo il passato: un passato che, per quanto fosse prossimo cronologicamente, dai nuovi eventi era stato reso d’improvviso remoto spiritualmente.

L’avversione nutrita dal filosofo per entrambi i grandi maestri fu radicale e non conobbe mezze misure: l’antipatia per il Platonismo era nata in lui, probabilmente, già al tempo della sua prima venuta ad Atene, in occasione dell’efebato, e forse addirittura da ben prima, allorché, nell’isola natia, aveva udito le lezioni di Panfilo. Epicuro, insomma, non poteva accordarsi con Platone in nessuna delle dimensioni secondo cui questi si era mosso: non in quella metafisico-gnoseologica, che faceva perno sull’immateriale; non in quella mistico-religiosa, tutta incentrata sul soprasensibile e sul trascendente; neppure in quella politica, la quale idealizzava la vecchia πόλις (pólis) e i suoi valori, che la storia stava distruggendo inesorabilmente, conflitto dopo conflitto. La stessa marcata ostilità Epicuro concepì anche nei confronti di Aristotele, dunque, che egli considerava sostanzialmente platonico, soprattutto per quanto concerneva le opere pubblicate – quantomeno quelle lette da lui.

2. Il ripudio della “seconda navigazione”. – Epicuro cercò di respingere, in modo drastico, il fondamento stesso su cui poggiavano gli imponenti edifici speculativi dei due antichi maestri, vale a dire la “seconda navigazione” con tutti gli esiti a essa connessi. Epicuro non solo negava che la sensazione velasse le cose e confondesse l’anima, ma riteneva che essa costituisse il più solido criterio di verità, che fosse sempre e solo verace, e che dunque sapesse «cogliere l’essere». I ragionamenti e le dimostrazioni portavano nel vuoto, perché procedevano all’infinito e, pertanto, rischiavano di allontanare sempre più l’uomo dalle cose, velandole e mai rivelandole. La platonica inferenza metempirica e la dialettica, che generava tale inferenza, erano dunque decettive: per Epicuro, dunque, bisogna fermarsi alle cose e alle loro «voci» (ad Herod. 37 ss.); e non solo la dialettica, per lui, ma anche le scienze prescritte da Platone come tappe obbligate della «lunga via» dell’essere sono decettive: ecco allora che la geometria gli appariva «tutta contraria alla verità», perché erano «infondati i suoi principi»; l’astronomia era «vana»; la musica era «inutile» e addirittura «dannosa».

Respingendo, dunque, la “seconda navigazione” ed eliminando il soprasensibile, non restava ad Epicuro se non la presocratica physis, la quale veniva però ad assumere un nuovo significato: i Presocratici, infatti, non avevano determinato la physis in base alle categorie sensibile-soprasensibile, materiale-immateriale, corporeo-incorporeo, appunto perché queste sarebbero nate solo con la “seconda navigazione”. Ma, dopo Platone e Aristotele, la determinazione della realtà in queste categorie diventò necessaria, anche per chi non condividesse le soluzioni dei due filosofi. Sicché la visione della physis, della realtà, proposta da Epicuro divenne un vero e proprio «materialismo».

Epicuro. Busto, marmo. Berlin, Pergamonmuseum.

 

3. La ripresa dell’Atomismo e delle categorie eleatiche di fondo ad esso connesse. – Epicuro, per la verità, non seppe creare una nuova ontologia: per esprimere la propria visione materialistica del mondo in maniera positiva (ossia non negando semplicemente la tesi platonico-aristotelica), egli si rifece ai concetti e alle figure teoretiche già elaborate, appunto, nell’ambito della filosofia presocratica. E fra tutte le prospettive possibili era pressoché inevitabile che egli adottasse quella degli Atomisti, proprio perché essa, dopo la platonica “seconda navigazione”, risultava senz’altro la più materialistica di tutte.

Le fonti antiche informano che Epicuro apprese le dottrine dell’atomo da Nausifane, del quale seguì le lezioni a Teo, vicino a Colofone, per almeno quattro anni. Tuttavia, superbamente convinto com’era delle novità etiche che veniva elaborando e insegnando ai Greci, Epicuro negò al maestro ogni debito di riconoscenza, così come sconfessò tutti gli altri filosofi con cui ebbe rapporti diretti o indiretti. Ma l’Atomismo era una precisa risposta alle aporie sollevate dall’Eleatismo, un tentativo di mediare le opposte istanze del lógos eleatico da un lato e dell’esperienza dall’altro. Nella logica atomista passò gran parte di quella eleatica (Leucippo, il primo atomista, fu discepolo di Melisso e, in generale, l’Atomismo fu, fra le proposte pluralistiche, la più rigorosamente eleatica). Di conseguenza, era inevitabile che questa passasse anche in Epicuro.

 

4. I rapporti fra Epicuro, Socrate e i Socratici minori. – Come si è detto sopra, una delle caratteristiche della filosofia di età ellenistica era il ritorno a Socrate e al Socratismo. Già in Epicuro questo fu evidente non solo nella decisa preminenza data ai problemi etici in generale, ma anche nella specifica concezione della filosofia come quella che doveva provvedere alla «salute dell’anima» (πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον)[2]. Si vedrà, inoltre, come lo stesso «intellettualismo socratico» sarebbe ritornato a giocare un ruolo molto importante e come sarebbero stati ribaditi perfino i «paradossi» di questo intellettualismo. Naturalmente, il messaggio di Socrate agì attraverso il filtro del materialismo: infatti, Epicuro non poté più attribuire alla physis quella valenza e quella preminenza che le dava Socrate, giacché il suo materialismo imponeva di concepire l’anima e il corpo come omogenei per natura (in quanto atomi materiali e l’una e l’altro).

Fra i Socratici minori, indubbiamente, agirono sulla formazione della filosofia epicurea, in primo luogo, i Cirenaici con la loro dottrina del piacere, che, come si vedrà, con logica eleatica sarebbe stata ripensata a fondo e radicalmente riformata. In secondo luogo, esercitarono un preciso influsso anche i Cinici: l’eliminazione dei bisogni superflui e indotti dalla società nonché la riduzione dei bisogni elementari a quelli il cui soddisfacimento sarebbe stato indispensabile alla sopravvivenza, il rifiuto della partecipazione alla vita politica e l’autarchia erano infatti precisi temi cinici, che, sia pure con una nuova coloritura, giocarono un ruolo essenziale nel sistema filosofico epicureo.

 

5. Il ruolo predominante dell’etica. – Per un’esatta collocazione storica e teoretica del pensiero di Epicuro resta ancora un punto essenziale da rilevare. I Presocratici avevano conosciuto la filosofia solamente come cosmologia e come ontologia, ignorando l’etica; Socrate e suoi seguaci avevano respinto, invece, la cosmologia e l’ontologia, riducendo la filosofia a pura etica, alla dottrina della saggezza; con Platone e con Aristotele, invece, l’ontologia (facendosi metafisica) era tornata a essere momento essenziale della speculazione filosofica e su di essa era stata fondata l’etica: la superiorità della metafisica (cioè della dottrina che spiegava le cause di tutta la realtà) sull’etica, infatti, era ben evidente in Platone ed era stata addirittura affermata a livello tematico in Aristotele. Ebbene, Epicuro, mentre riaffermava la necessità dell’ontologia come fondamento dell’etica, capovolse la gerarchia platonico-aristotelica e dichiarò l’etica superiore alla fisica (all’ontologia). Alla saggezza e alla conoscenza, la σοφία (sophia), era così sovraordinata la φρόνησις (phrónesis), l’assennatezza[3]. Il problema della vita con Epicuro diventò il problema per eccellenza: tutto il resto era finalizzato alla soluzione di esso. Inoltre, a Epicuro non interessava solo la soluzione teoretica di quel dilemma, ma anche la messa in pratica dell’etica stessa: in certi testi, anzi, il filosofo sembrerebbe soprattutto preoccupato di questa messa in atto, specialmente nei luoghi in cui si rivolge ai propri discepoli.

Pieter Paul Rubens, Giardino d’amore. Olio su tela, 1632-33 c. Madrid, Museo del Prado.

 

6. Le finalità del «Giardino» e le loro novità. – Pur con le numerose differenze che le contraddistinguevano, le filosofie morali di Socrate, di Platone e di Aristotele avevano come sfondo comune la pólis e l’ἔθος (éthos), che la caratterizzava. Tutte le voci di dissenso che si erano levate contro quell’universo, da quelle dei Sofisti a quelle dei Socratici minori, per quanto radicali e audaci avessero potuto essere o apparire, supponevano, in ogni caso, un assetto ideologico e sociale ancora saldamente sorretto dalla vitalità della pólis medesima. Le affermazioni di cosmopolitismo dei Socratici minori, poi, avevano avuto un significato particolare, in quanto – come è noto – si trattava di uomini di origine non greca o semi-greca, ai quali era, quindi, in tutto o in parte, estraneo quell’éthos. Epicuro visse e pensò in un’epoca in cui la pólis e i suoi valori erano stati ormai posti in crisi dalla rivoluzione di Alessandro; inoltre, essendo di sangue greco, anzi di origine ateniese, Epicuro comprese perfettamente il senso tragico di quel vuoto spirituale che si era formato e si prefisse di colmarlo, proponendo appunto un nuovo éthos che rompesse con il passato, ormai morto e non più resuscitabile a nuova vita.

Questo éthos inusitato, contrariamente a quello tradizionale radicato nella realtà poleica, si fondava ora sul singolo uomo, sull’uomo privato: era l’éthos dell’individuo. Socrate, Platone e Aristotele avevano insegnato la «virtù politica», vale a dire la virtù che perfezionava l’uomo come cittadino, presupponendo che l’uomo, in quanto tale, coincidesse con il cittadino. La nuova virtù che Epicuro andava insegnando, invece, era quella dell’uomo privato, una virtù che avrebbe dovuto perfezionare l’uomo in quanto individuo, di per sé considerato, al di fuori della sua convivenza in uno Stato. Epicuro, insomma, contestò definitivamente l’identificazione dell’uomo con il cittadino, condannando, anzi, la politica come «inutile affanno» e proclamando la validità e l’eccellenza del «vivere nascosto», appartato e lontano dal tumulto della politica.

Anche la scelta del luogo in cui sorse la sua Scuola fu espressione di questa rivoluzionaria novità. Socrate aveva insegnato nelle piazze e nei ginnasi cittadini, dove gli uomini liberi si incontravano; in ginnasi Platone e Aristotele avevano fondato le rispettive Scuole. Epicuro, dal canto suo, scelse invece un luogo del tutto abnorme: un edificio con un giardino, anzi con un orto, nei sobborghi di Atene. Il «Giardino», infatti, era lontano dal chiasso della «politica», immerso nel silenzio della campagna; da lì si poteva gustare la pace della natura, ammirando quel paesaggio fatto di campi e di alberi, che a Socrate e a Platone non avrebbe detto nulla, ma che per la nuova sensibilità ellenistica era invece di grandissima importanza. Di qui il nome «Giardino» passò a indicare l’istituto e l’espressione «quelli del Giardino» fu usata per designare gli Epicurei.

Il verbo che veniva da lì può essere riassunto in poche proposizioni generali:

  • la realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall’intelligenza umana;
  • nelle dimensioni del reale c’è spazio anche per la felicità dell’uomo;
  • la felicità consiste nella mancanza di dolore e di turbamento: è la pace dello spirito;
  • per raggiungere questa felicità e questa pace, l’uomo necessita solo di se stesso;
  • all’uomo non servono, perciò, la città, le istituzioni, la nobiltà di nascita, le ricchezze, le cose tutte e nemmeno gli dèi: l’uomo è perfettamente autosufficiente.

È chiaro che, allora, nei confronti di questo messaggio, tutti gli uomini diventavano uguali: infatti, tutti aspirano alla pace dello spirito, tutti ne hanno diritto e tutti possono persino guadagnarsela, se vogliono. Per conseguenza, il «Giardino» aprì le proprie porte a tutti, nobili e non nobili, liberi e schiavi, uomini e donne (e, perfino, a prostitute in cerca di redenzione).

Epicuro aveva visto molto lontano: se i contemporanei accolsero con sospetto le sue idee, il tempo gli diede invece ragione e la sua filosofia sarebbe sopravvissuta addirittura a tutte le altre scuole di pensiero fondate nella sua epoca.

 

 

 

II. La canonica epicurea

 

1. La «canonica» come determinazione dei criteri di verità. – Si è visto quale sia stato il significato della logica aristotelica: essa aveva costituito il primo grandioso tentativo nella storia spirituale dell’Occidente di determinare le forme che strutturalmente sorreggono e determinano il pensiero umano, il primo tentativo di spiegare in generale come ragiona la mente dell’uomo. Così lo Stagirita aveva saputo stabilire quali siano gli elementi primi del pensare e del ragionare (le categorie), quale sia la più elementare connessione di questi elementi (il giudizio, la proposizione), che cosa sia il ragionare in quanto tale (il sillogismo), quali tipi di ragionamenti siano possibili, quali validi e quali non validi, quali siano i sillogismi dialettici e quali siano i paralogismi sofistici, che cosa siano i procedimenti deduttivi e quelli induttivi, quali siano la loro portata, il loro limite e le loro condizioni.

Ora, il «Giardino» di Epicuro non solo perse pressoché per intero i risultati e le acquisizioni di questo grandioso disegno, ma smarrì perfino il senso stesso della problematica logica aristotelica. In effetti, Epicuro si occupò di logica solamente al fine di stabilire quali fossero i criteri e i canoni basilari che avrebbero permesso all’uomo di raggiungere la verità e la certezza. Restrinse la logica a una sorta di critica della conoscenza e ridusse questa ad alcuni principi elementarissimi, che, dopo Aristotele, suonavano come semplicistici e, in parte, perfino come grossolani. Del resto, il termine «canonica», con cui Epicuro designò la sua logica, esprime assai efficacemente il significato che egli le attribuiva. Pertanto, ben si spiega come Epicuro e i suoi discepoli non riconoscessero alla logica alcun valore autonomo e la congiungessero alla fisica, considerandola addirittura quasi un’introduzione a essa[4].

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

2. La sensazione e la sua validità assoluta. – Epicuro, nel suo Canone, affermava che i criteri della verità erano tre: le sensazioni, le prenozioni e i sentimenti.

Come primo e fondamentale criterio, dunque, egli poneva le sensazioni: contro tutte le tendenze (da quelle dei Sofisti a quelle dell’incipiente Scetticismo), che avevano affermato o andavano allora predicando il carattere soggettivo e relativizzante della sensazione, e quindi la sua aleatorietà dal punto di vista della certezza e della validità, Epicuro rivendicava con strenua energia la certezza e la validità della sensazione, che egli proclamava essere addirittura assolute. Per Epicuro, infatti, le sensazioni erano sempre e tutte vere, senza alcuna eccezione: se uno solo dei sensi, anche una sola volta, ingannasse l’uomo, allora egli non potrebbe più prestar fede ad alcuno di essi e crollerebbe la validità della sensazione medesima[5].

In primo luogo, l’αἴσθησις (aisthesis), la sensazione, in quanto è un’affezione e, quindi, passiva, non si produce in sé, ma deve generarsi da qualcosa di cui essa è come l’effetto; e quindi deve essere altresì corrispondente a esso. In secondo luogo (questo costituisce l’argomento principale), la sensazione è oggettiva e vera, perché, in ultima analisi, è prodotta e quindi garantita dalla stessa struttura atomica della realtà. Infatti, da tutte le cose emanano dei complessi di atomi, che costituiscono immagini o simulacri delle medesime e le sensazioni sono prodotte dalla penetrazione di tali simulacri negli uomini. Per questo motivo, l’oggettività delle sensazioni è assoluta, perché esse possono sorgere solamente se, quando e come i simulacri entrano nelle persone. L’errore può essere solo dell’opinione, la quale può intervenire e giudicare scorrettamente intorno alla sensazione[6].

In terzo luogo, la sensazione – diceva Epicuro – è a-razionale e anche priva di memoria, non si autoproduce, ma è prodotta da altro; così essendo, essa non è in grado di togliere da sé, né di aggiungere a sé alcunché, ma, proprio perché tale, la sensazione è oggettiva (non è in alcun modo manipolata dall’attività del soggetto). La sensazione è quindi irrefutabile[7].

 

3. Le «proléssi» (o «anticipazioni») e il linguaggio. – Come secondo criterio della verità Epicuro poneva le cosiddette προλήψεις (prolépseis), cioè le anticipazioni (o, ancora, prenozioni), le quali non erano altro che rappresentazioni mentali delle cose e – si potrebbe dire – il corrispettivo sensistico del concetto o, meglio ancora, ciò a cui il sensismo epicureo riduceva l’universale concettuale. Le proléssi non erano altro che le immagini delle cose che scaturivano dalle percezioni, formantesi attraverso il ripetersi delle medesime percezioni e la loro conservazione nella memoria. Esse erano dette proléssi (cioè anticipazioni o prenozioni), appunto, per i seguenti motivi: una volta che, infatti, tramite le sensazioni, si siano formate nella persona le immagini delle cose nel modo sopra descritto, esse possono essere richiamate alla mente, perché rimangono in essa come «impronta» delle passate sensazioni; in questo modo, dunque, esse consentono di conoscere in anticipo quelle forme e quei caratteri che sono propri delle cose, senza che ci sia bisogno di averle di fronte e di percepirle attualmente; per dirla in altri termini, esse anticipano quali caratteri e quali forme le cose manifesteranno quando, tramite la sensazione, nuovamente ci si ritroverà a contatto diretto con esse. Inoltre, le prenozioni precedono e condizionano ogni tipo di riflessione, di ragionamento e, in genere, ogni attività razionale: infatti, non si potrebbe impostare e svolgere alcun discorso, se non basandosi su termini che sono noti per prenozione. La prólessi epicurea, dunque, anticipa l’esperienza e l’attività razionale solo in quanto è derivata e prodotta dall’esperienza[8].

Inoltre, per Epicuro, i «nomi» di cui è costituito il linguaggio umano si riferiscono non altro che a queste proléssi e lo fanno in modo fondamentalmente naturale: infatti, i nomi e, in genere, il linguaggio, secondo il filosofo, non sarebbero altro che l’espressione, tramite mezzi fonici, delle nostre percezioni e affezioni e, quindi, costituirebbero una naturale manifestazione dell’azione delle cose sull’anima umana[9].

 

4. I sentimenti di piacere e di dolore. – Come terzo criterio di verità Epicuro considerava i πάθη (páthe), i sentimenti, del piacere (ἡδονή) e del dolore (ἀλγηδών), che si possono chiamare, in un certo qual modo, anche «sensi interni».

Egli, infatti, nell’epistula ad Menoeceum scrisse: «Diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente»[10]. Le affezioni del piacere e del dolore sono oggettive per le medesime ragioni per cui lo sono tutte le altre sensazioni: esse sono il criterio assiologico per discriminare il valore dal disvalore, il bene dal male e, quindi, costituiscono il criterio della scelta o della non scelta, ossia la regola del nostro essere.

Combattimento fra Centauri e Lapiti. Bassorilievo, marmo, 400 a.C. ca. dalla cella del tempio di Apollo, Bassae-Phigaleia. London, British Museum.

 

5. L’opinione. – Sensazioni, proléssi e sentimenti hanno una comune caratteristica che garantisce il loro valore di verità e questa consiste nell’evidenza immediata. Pertanto, finché le persone si fermano all’evidenza e accolgono come vero ciò che è evidente, non possono errare. Ma poiché nel ragionare non ci si può fermare all’immediato, essendo il ragionamento fondamentalmente un’operazione di mediazione, nasce così l’opinione e, con essa, la possibilità dell’errore. Pertanto, mentre le sensazioni, le proléssi e i sentimenti sono sempre veri, le opinioni potranno essere variamente vere o false. Perciò, Epicuro ha cercato di determinare i criteri in base ai quali si distinguono le opinioni vere da quelle false.

Sono vere quelle opinioni che a) ricevono attestazione probante, cioè conferma da parte dell’esperienza e dell’evidenza; b) non ricevono attestazione contraria, ossia smentita dall’esperienza e dall’evidenza; invece, sono false quelle opinioni che a) ricevono attestazione contraria, ossia sono smentite dall’esperienza e dall’evidenza e b) non ricevono attestazione probante, cioè non ricevono conferma dall’esperienza e dall’evidenza.

È da notare, inoltre, che l’evidenza resta il parametro in base al quale si misura e si riconosce la verità: ma è, in ogni caso, un’evidenza solamente empirica, è quella dei fenomeni, quella quale appare ai sensi e non già alla ragione[11].

 

 

 

III. La fisica epicurea

1. I fondamenti ontologici. – La lunga epistula ad Herodotum, per quanto sia un’epitome e una sintesi, consente di cogliere in modo preciso sia i fondamenti sia i corollari essenziali di questa sezione della filosofia epicurea, mentre i frammenti del grande trattato Sulla natura finora scoperti offrono preziosi approfondimenti di alcuni importanti concetti.

I fondamenti possono essere enucleati e formulati come segue.

«In primo luogo, nulla nasce dal nulla»[12], perché, altrimenti, ogni cosa potrebbe assurdamente generarsi da qualsiasi cosa senza bisogno di nessun seme generatore; e nessuna cosa «si dissolve nel nulla», perché, al contrario, a questo momento, tutto sarebbe ormai perito e nulla più sarebbe. E poiché nulla nasce e nulla perisce, così la realtà nella sua totalità fu sempre quale ora è, e sarà sempre tale: infatti, oltre il tutto, non vi è nulla in cui esso possa mutarsi né vi è alcunché da cui possa essere cambiato[13]. È qui ribadito l’antico grande principio eleatico che era stato assunto come punto di partenza dai pluralisti e, in particolare, dagli Atomisti. Epicuro lo ha formulato secondo la versione propria di Melisso, che si sa essere stato maestro degli Atomisti, sia pure diluendone la pregnanza ontologica.

Questo «tutto» (πᾶν, ovvero la totalità del reale) è determinato da due elementi costitutivi essenziali: i corpi e il vuoto[14]. L’esistenza dei corpi è provata dai sensi stessi, mentre quella dello spazio e del vuoto è inferita dal fatto che esita il movimento; infatti, affinché ci sia movimento, è necessario che ci sia uno spazio vuoto in cui i corpi possano spostarsi. Il vuoto non è assoluto non essere, ma appunto «spazio» o – come diceva lo stesso Epicuro – «natura intangibile». Oltre questi elementi, dunque, tertium non datur, perché null’altro è pensabile che sia di per sé esistente e che non sia affezione dei corpi.

L’inferenza del vuoto con la relativa motivazione risaliva a Leucippo e risentiva ancora della problematica eleatica, in particolare della polemica antimelissiana da cui scaturiva. La recisa negazione, poi, che oltre i corpi e il vuoto esistesse alcunché faceva supporre ad Epicuro il dogma eleatico dell’assoluta omogeneità e uguaglianza dell’essere, ossia la categorica esclusione della possibilità di distinguere piani e significati diversi dell’essere, cioè il preciso ripudio delle riforme di Platone e di Aristotele.

La realtà quale era concepita da Epicuro era infinita: in primo luogo, perché totalità; in secondo luogo, perché infinito doveva essere anche ciascuno dei suoi principi costitutivi. In questo modo, infinita era ritenuta essere la moltitudine dei corpi e infinita l’estensione del vuoto. Se, al contrario, fosse stata finita la moltitudine dei corpi, questi si sarebbero dispersi nell’infinito vuoto; e se quest’ultimo fosse stato finito, esso non avrebbe potuto accogliere gli infiniti corpi[15].

Salvator Rosa, Democrito in meditazione. Olio su tela, 1650 c.

 

2. Gli atomi. – Per Epicuro, alcuni dei «corpi» sono composti, altri, invece, semplici e assolutamente indivisibili: questi ultimi soltanto sono originari e sono alcunché di compatto e di indivisibile (ἄτομοι, átomoi). L’ammissione dell’esistenza di questi corpi indivisibili si rende, perciò, necessaria, perché, in caso contrario, bisognerebbe asserire una divisibilità all’infinito dei corpi – la quale porterebbe, al limite, alla dissoluzione stessa del reale nel non-essere, il che – come si sa – è assurdo. Il fondamento per l’ammissione dell’esistenza dell’atomo è dunque il principio eleatico (e precisamente zenoniano) dell’impossibilità della divisione all’infinito, cosa che risolverebbe l’essere nel nulla[16].

È evidente, allora, da quanto si è detto, che il principio secondo cui nulla nasce e nulla perisce valga anche per i corpi semplici, cioè per gli atomi (così come per la totalità in quanto tale) e non per i corpi composti, che si generano e si corrompono. Tuttavia, la formazione e il deperimento dei corpi più complessi, ancora una volta, sono fenomeni intesi in spirito eleatico, ossia nella stessa maniera in cui li avevano concepiti gli Atomisti (e, in generale, tutti i filosofi pluralisti), preoccupati di salvare i fenomeni senza contraddire al principio di Parmenide, come unione di cose che sono e come disgregazione o separazione in cose che sono.

 

3. Le caratteristiche strutturali degli atomi. – Fra le caratteristiche dei corpi occorre distinguere quelle che appartengono ai corpi in quanto composti (che dipendono, cioè, dalla composizione) da quelle che appartengono ai corpi semplici, le quali sono originarie ed essenziali, e hanno quindi la massima importanza, perché senza esse i corpi stessi non potrebbero sussistere e anche perché da esse derivano le ulteriori caratteristiche dei corpi composti.

Le caratteristiche strutturali dell’atomo sono la forma (σχῆμα), la grandezza (μέγεθος) e il peso (βάρος). Su questo punto Epicuro si differenzia nettamente dagli antichi Atomisti, perché costoro indicavano come aspetti principali dell’atomo la figura, l’ordine (o disposizione spaziale che l’atomo ha rispetto agli altri sia nell’aggregato sia fuori) e la posizione (che un atomo assume sia nell’aggregato sia nel complesso della realtà). Epicuro, invece, esprime il concetto di forma proprio con il termine σχῆμα (schéma), che era quello con cui Aristotele aveva parafrasato l’arcaico ῥυσμός (rhusmós) degli Atomisti. Eppure, σχῆμα indicava la statica forma ontologica, senza più includere l’idea fisica di massa e la dinamica direzione dell’atomo; e così ben si spiega perché Epicuro sentisse il bisogno di esplicitare e affiancare a essa i caratteri di grandezza e peso, lasciando cadere l’ordine e la posizione – caratteri, quesi, che riguardano, più che gli atomi in sé considerati, i rapporti degli uni rispetto agli altri.

Le forme diverse degli atomi (che non sono solamente forme regolari di carattere geometrico, ma anche di ogni foggia e tipo, e sono, in ogni caso, sempre e solo quantitativamente differenti e non qualitativamente diverse come quelle platoniche e quelle aristoteliche, dato che gli atomi sono tutti di natura identica) risultano necessarie per spiegare le diverse qualità fenomeniche delle cose che appaiono; e così anche la grandezza degli atomi. Il peso, invece, risulta necessario per spiegare il movimento degli atomi medesimi.

Questi, per generare tutte le differenze che si possono riscontrare nella realtà, devono assumere figure diversissime e numerosissime, ma non infinite: per essere tali, infatti, dovrebbero poter variare all’infinito la propria grandezza; ma, così facendo, diverrebbero visibili, mentre ciò non accade. Invece, è infinito il loro numero per ciascuna delle forme esistenti. È questo un altro punto su cui Epicuro si allontana dagli antichi Atomisti, i quali, al contrario, avevano ritenuto infinite le forme e le figure degli atomi[17].

 

4. La dottrina dei «minimi». – Si è visto che la dimensione degli atomi ha un limite: infatti, se essi potessero avere ogni sorta di grandezza, dovrebbero diventare visibili; ma ciò è smentito dall’esperienza. Parimenti, la loro piccolezza ha un limite: infatti, se essi potessero diminuire le proprie dimensioni all’infinito, si vanificherebbero nel nulla; il che è assurdo ed è contrario a quella stessa logica (eleatica) che porta ad ammettere l’esistenza degli atomi.

Epicuro – si noti – parlò dei «minimi» (ἐλάχιστα) non solo in riferimento agli atomi, ma altresì allo spazio (al vuoto), al tempo, al movimento e alla «declinazione» degli atomi: e, in tutti questi casi, i «minimi» medesimi costituiscono l’unità di misura analogica. È stata questa una notevole novità apportata dal fondatore del «Giardino» alla fisica atomica antica[18].

 

5. Vuoto, movimento e «declinazione». – Il vuoto (κενός) ha caratteri antitetici rispetto a quelli dei corpi (σώματα). Si tratta, infatti, dello spazio che accoglie questi ultimi e che permette loro di muoversi, riunirsi e disgregarsi. È detto, perciò, vuoto appunto in contrapposizione ai corpi che sono il pieno di essere. Ben si spiega, inoltre, come esso sia detto anche natura intangibile, in quanto la caratteristica più tipica dei corpi per Epicuro è la loro tangibilità (il suo “sensismo” lo portò a privilegiare in larga misura il tatto sugli altri sensi); e si spiega anche la negazione che il vuoto possieda capacità di agire o patire, in quanto queste sono prerogative della corporeità: il semplice permettere ai corpi di passare attraverso di sé non è un patire. Infine, è chiaro anche il carattere di incorporeità attribuito al vuoto: se esso, infatti, fosse corporeo, i corpi medesimi, come si è detto, non potrebbero oltrepassarlo e muoversi in esso[19].

Oltre alle qualità esaminate, che sono, per così dire, statiche, gli atomi hanno un’ulteriore caratteristica essenziale di carattere dinamico: infatti, essi sono sempre in continuo movimento. Epicuro intese questo moto originario degli atomi non come quel volteggiare in ogni direzione di cui avevano predicato gli antichi Atomisti, ma come un moto di caduta verso il basso nell’infinito spazio, dovuto appunto al peso degli atomi stessi, cioè come un moto velocissimo quanto il pensiero e uguale per tutti gli atomi, pesanti o leggeri che fossero. Tale correzione della concezione dell’antico Atomismo risultò un ibrido assai infelice, per la verità, perché dimostrava in maniera lampante come il pensiero dell’infinito fosse irrimediabilmente compromesso dal “sensismo”, che non sapeva scrollarsi di dosso l’empirica rappresentazione dell’alto e del basso[20].

Resta ora da vedere come, cadendo in un «universo perpendicolare», gli atomi possano incontrarsi fra loro e costituire corpi composti.

Per risolvere la difficoltà Epicuro introdusse la teoria della «declinazione» (παρέγκλισις) degli atomi, secondo cui essi possono deviare in qualsiasi momento de tempo e qualsiasi punto dello spazio per un intervallo minimo dalla linea retta e così incontrare altri atomi. In virtù del principio della declinazione, gli atomi si urtano reciprocamente e rimbalzano gli uni sugli altri; conseguentemente, si origina anche un moto verso l’alto, appunto per l’urto e per il rimbalzo che deriva dalla declinazione. Questa della παρέγκλισις costituisce senza dubbio la più notevole delle innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica atomistica; si tratta, tuttavia, di un’innovazione che egli poté formulare solo a prezzo di gravissime aporie, le quali, peraltro, proprio in quanto tali, risultarono estremamente eloquenti e rivelatrici circa la nuova caratteristica del filosofare del «Giardino». La prima ragione dell’introduzione del concetto di declinazione fu di carattere puramente fisico (il solo moto di caduta non permetterebbe, infatti, l’incontro degli atomi e la formazione delle cose). Decisiva dovette essere, però, un’ulteriore motivazione di carattere morale: nel sistema dell’antico Atomismo, infatti, tutto avveniva per necessità: il fato e il destino erano considerati sovrani assoluti; ma in un mondo in cui predominava il destino, non c’era posto per la libertà umana e, quindi, nemmeno per una vita morale come Epicuro la concepiva e, pertanto, non c’era spazio per una vita del saggio. Non c’è dubbio, allora, che la παρέγκλισις sia stata introdotta per far posto nell’universo atomisticamente concepito alla libertà, alla vita morale e alla possibilità di realizzazione dell’ideale del saggio[21].

Diego Velázquez, Democrito. Olio su tela, 1630.

 

6. L’universo e i mondi infiniti. – Nell’infinito tutto (ἄπειρον), come già gli antichi Atomisti e contro la concezione di Platone e di Aristotele, Epicuro sosteneva l’esistenza di infiniti mondi (κόσμοι ἄπειροί εἰσιν), alcuni uguali o analoghi al nostro, altri dissimili.

È poi da rilevare che tutti questi infiniti mondi nascono e si dissolvono, alcuni più rapidamente e altri più lentamente, nel corso del tempo; sicché non solo i mondi sono infiniti nell’infinità dello spazio, in un dato torno di tempo, ma sono altresì infiniti nell’infinita successione temporale. E malgrado in ogni istante vi siano mondi che nascono e che muoiono, Epicuro può ben affermare che il tutto non muta: infatti, non solo gli elementi costitutivi dell’universo rimangono perennemente quali sono, ma anche tutte le loro possibili combinazioni restano attuate, appunto a causa dell’infinità dell’universo medesimo, che dà luogo all’attuazione di tutte le possibilità[22].

La nascita di nuovi mondi può aver luogo sia nello spazio, che li separa l’uno dall’altro e che Epicuro chiamava intermondo, sia pure all’interno di ciascun mondo stesso, allorché esso sia in via di dissoluzione. La loro formazione è data dall’afflusso di atomi aventi forme opportune, provenienti da altri intermondi o da altri mondi. Questi, dapprima, si combinano fra loro, in virtù del movimento di cui si è già detto; successivamente, questo agglomerato di atomi si accresce, a causa di gruppi di atomi dalle opportune forme che continuano ad affluire, fino a completarsi; infine, dopo aver raggiunto il punto culminante dello sviluppo e il giusto equilibrio, il mondo così formato inizia a perdere atomi e, quindi, a decrescere, finché, da ultimo, non si dissolve e gli atomi di cui era composto passano a generare altri mondi.

 

7. L’anima, la sua materialità e la sua mortalità. – L’anima (ψυχὴ), come tutte le altre cose, è un aggregato di «particelle sottili», formato in parte di atomi ignei, aeriformi e ventosi che costituiscono la parte irrazionale e alogica dell’anima, e in parte da atomi «diversi» dagli altri e che non hanno un nome specifico, i quali costituiscono la parte razionale. Pertanto, l’anima, come tutti gli altri composti, non è eterna, ma è mortale. È questa una conseguenza che scaturisce dalle premesse materialistiche di tutto il sistema epicureo[23].

 

8. I simulacri e la conoscenza. – La sensazione e, in generale, i processi conoscitivi erano spiegati da Epicuro secondo moduli desunti dall’Atomismo – i quali, come si è detto, erano in parte comuni anche ad Empedocle. Da tutte le cose emanano efflussi di «simulacri» (τύποι), che ne riproducono le fattezze e, penetrando nell’uomo, generano non solo sensazioni, ma anche pensiero[24].

Questi efflussi, a causa della loro sottigliezza, si espandono in tutte le direzioni con un moto veloce quanto il pensiero stesso e, invadendo il soggetto, lo fanno sentire e pensare. Le percezioni sensibili sono veritiere, per Epicuro, appunto nella misura in cui sono apprensione diretta dei «simulacri» che procedono dalle cose e ridanno la realtà di queste.

In modo analogo, il filosofo spiegava le rappresentazioni fantastiche, quelle dei sogni e dei deliri: infatti, egli sosteneva che i «simulacri» potessero mantenersi a lungo, conservando la disposizione e l’ordine che gli atomi avevano assunto nella cosa da cui provenivano, ma che potessero pure scomporsi, deformarsi o ricomporsi, combinandosi persino con i «simulacri» di altre cose. Per Epicuro, erano proprio questi «simulacri» isolati, deformati, scomposti o scombinati, a provocare nell’uomo le rappresentazioni oniriche, folli e fantastiche. In ogni caso, dunque, le visioni delle persone derivavano da questi cosiddetti «simulacri»: non qualcosa che proveniva dai recessi della mente umana, ma qualcosa che era sempre provocata obiettivamente dall’esterno[25].

Quanto al pensiero, Epicuro lo spiegava in base all’azione dei «simulacri» medesimi, ma in modo assai meno chiaro: in particolare, egli non sapeva giustificare quanto il pensiero avesse di attivo in proprio e quanto di autonomo esso possedesse rispetto alla sensazione. Epicuro ammetteva tuttavia che, insieme al moto psichico prodotto nell’anima dalle percezioni, si producesse anche un altro speciale moto dell’anima, congiunto alla percezione, ma che da essa si potesse in un certo qual modo differenziare. È proprio da quest’ultimo, che si può distinguere dalla percezione, che nasceva l’opinione (δόξα) e, di conseguenza, anche la possibilità di errore.

 

9. La concezione degli dèi e del divino. – In questo universo costituito esclusivamente da atomi, vuoto, movimento di caduta e «declinazione», in questa concezione “fisicistica”, che risolveva ogni cosa in elementari componenti materiali e che negava categoricamente tutto ciò che potesse essere spirituale, non avrebbe potuto sembrare esserci spazio alcuno per la Divinità e per gli esseri divini. Inoltre, Epicuro si propose come uno degli scopi essenziali proprio quello di liberare l’uomo dal timore degli dèi. Pertanto, stando così le cose, ci si aspetterebbe o di sentire Epicuro negarne l’esistenza oppure di sentirlo parlare circa il divino al massimo come di un attributo degli atomi indistruttibili ed eterni; in altri termini, ci si potrebbe attendere, tutt’al più, affermazioni dello stesso tenore di quelle degli antichi Fisici, che facevano coincidere il divino, appunto, con l’ἀρχή (il principio) di tutte le cose. Invece, così non è e la posizione che Epicuro assunse risulta sorprendente: egli, infatti, negò recisamente non già l’esistenza del divino e degli dèi, bensì la loro esistenza quale era comunemente intesa, e contro tali rappresentazioni egli si fece paladino di una nuova concezione, certo eversiva non solo rispetto al modo di immaginare del volgo e dei poeti, ma altresì rispetto al modo di pensare dei filosofi. In effetti, la teologia epicurea restò qualcosa di eccentrico rispetto alla concezione del divino degli altri Greci, pur mantenendo alcuni tratti propri del pensiero ellenico.

La fede popolare aveva ammesso gli dèi per spiegare la vita e le vicende umane, mentre i filosofi li avevano considerati per chiarire il cosmo e la realtà. Quanto ad Epicuro, egli, al contrario, respingeva proprio quelle due motivazioni che costituivano gli assi portanti della credenza negli dèi, ma, al contempo, manteneva salvi alcuni aspetti squisitamente ellenici del pensiero teologico antico: proprio quei caratteri che erano più aporetici. Dalla fede popolare Epicuro trasse l’antropomorfismo, riportandosi al di là di Senofane; dalla concezione filosofica di Aristotele derivò la convinzione dell’impassibilità della divinità – cosa che costituiva, in effetti, una fonte di insuperabili difficoltà.

Come l’interesse di fondo di Epicuro era di carattere etico, così anche la concezione del suo dio era etica: la divinità epicurea, in ultima analisi, era l’ideale della sua stessa etica oggettivato e ipostatizzato. Quei suoi dèi, che vivevano una vita eterna senza preoccupazioni o turbamenti e che godevano di sagge conversazioni in piena amicizia, erano null’altro che la proiezione ideale della vita del «Giardino»: erano come il disegno ingrandito che riproduceva perfettamente i modi e i tratti che la Scuola epicurea additava agli uomini per raggiungere la vita felice.

 

 

 

IV. L’etica epicurea

1. Il piacere come fondamento dell’etica. – La filosofia morale, a partire da Socrate, aveva perfettamente fissato lo statuto dell’etica: essa deve stabilire quale sia l’essenza dell’uomo, quale sia la sua peculiare ἀρετή («virtù»), quale sia il suo specifico bene e, quindi, quale sia il suo migliore modo di vivere per raggiungere questo bene che possa renderlo felice. E, da Socrate ad Aristotele, concordemente, la speculazione morale aveva stabilito che il bene etico dell’uomo altro non è che l’attuazione della sua stessa essenza, la realizzazione completa e perfetta di ciò che egli effettivamente è, e che la felicità si raggiunge sempre e soltanto per questa via della compiuta realizzazione della propria essenza.

Anche Epicuro, dal canto suo, condivideva questa formale impostazione circa l’etica, ormai irreversibilmente acquisita, ma dalla linea socratico-aristotelica egli si distaccò nettamente nella determinazione dell’essenza stessa dell’uomo, cioè nella determinazione del fondamento stesso dell’etica. Da questo punto di vista, egli era del tutto coerente con i principi della sua logica e della sua fisica: come la natura, in generale, era costituita da atomi materiali e da aggregati atomici, così anche la specifica natura dell’uomo era costituita non altro che da ammassi di atomi, quello che formava il corpo e quello che realizzava l’anima (entrambi materiali). Se, dunque, per Epicuro, era materiale persino l’essenza dell’uomo, materiale doveva essere necessariamente anche il suo specifico bene, quel bene che – attuato e realizzato – lo avrebbe reso felice. E quale fosse questo bene, la natura, considerata nella sua immediatezza, lo affermava senza mezzi termini, mediante i sentimenti fondamentali del piacere (ἡδονή) e del dolore (ἀλγηδών) – così come essa rivela ciò che è vero per mezzo della sensazione. Gli esseri viventi, allora, già fin dalla nascita, istintivamente ricercano i piaceri e rifuggono dai dolori[26].

Insomma, principio e fine dell’agire umano doveva essere – a detta di Epicuro – il piacere, perché esso è il vero bene naturale: è ciò che, posseduto, rende davvero felici.

Benjamin West, La scelta di Ercole fra Virtù e Piacere. Olio su tela, 1764. V&A Museum.

 

2. La riforma dell’edonismo cirenaico. – Già i Cirenaici avevano identificato lo scopo del genere umano nel piacere, ma Epicuro intese tale sentimento in un modo del tutto nuovo. In primo luogo, quei filosofi avevano concepito il piacere come un dolce movimento, mentre il dolore come un movimento violento, negando recisamente che l’intermedio stato di quiete – ossia l’assenza di dolore – potesse essere esso stesso un piacere, assomigliando piuttosto – a loro avviso – allo stato del dormiente (cioè a uno stadio di insensibilità). Epicuro, per contro, non solo ammise anche questo tipo di piacere, ma diede ad esso grandissima importanza; anzi, ritenne il piacere catastematico come il supremo e il più genuino fra i piaceri, perché avrebbe corrisposto allo stato di assenza di dolore e di perturbazione, mentre l’altro tipo di piacere avrebbe recato sempre – insieme al movimento – anche turbamento. La distinzione operata da Epicuro è dunque fondamentale, perché implica una netta subordinazione del secondo tipo di piaceri al primo, nella ricerca della felicità. L’assenza del dolore (il piacere catastematico) è il limite supremo che raggiunge il piacere, al di là del quale non può ulteriormente estendersi, perché nell’assenza di dolore il piacere ha raggiunto la sua completezza e perfezione. Rispetto ai Cirenaici, inoltre, Epicuro si differenziava anche per un secondo aspetto assai importante: quelli, infatti, ritenevano che i piaceri fisici fossero superiori a quelli dell’anima e i dolori corporei più gravi di quelli psichici (tant’è vero che – essi argomentavano – i colpevoli di reati erano puniti con pene corporali). Al che Epicuro sagacemente obiettava: «Il corpo soffre solo per il male attuale, mentre l’anima soffre per il male presente, passato e futuro» (fr. 452 U.). In effetti, è un innegabile dato di fatto che la carne goda solo di ciò che è presente, mentre l’anima – attraverso la memoria – goda del piacere passato e possa anche anticipare con l’attesa quello futuro: per questo motivo, a detta di Epicuro, i piaceri dell’animo sono superiori a quelli del corpo.

 

3. La gerarchia dei piaceri e la saggezza. – La posizione che Epicuro aveva assunto nei confronti del piacere implicava che il piacere stesso non potesse mai essere – necessariamente – un male, giacché male era solo il dolore. Ma un’altra conclusione si era imposta: la funzione di regia nella vita morale non era già esercitata dal piacere come tale, bensì dalla ragione, dal ragionamento, dal calcolo applicato ai piaceri, per stabilire quali fra essi producessero altri piaceri ancora, e quali comportassero invece dolori e quindi quali fossero davvero utili e quali veramente dannosi. Allora, il calcolo delle utilità, il giudizio che dissipa errori e la giusta valutazione dei piaceri da che cosa avrebbero dovuto dipendere? Epicuro non aveva dubbi: essi dipendevano dalla φρόνησις («saggezza»)[27].

Ma si vedano quali sono i concreti suggerimenti circa la valutazione dei desideri e dei piaceri e a proposito del giudizio di elezione degli stessi da parte di Epicuro. Innanzitutto, occorre distinguere tre grandi classi di piaceri:

  • piaceri naturali e necessari;
  • piaceri naturali, ma non necessari;
  • piaceri non naturali e non necessari.

Solo i primi sono da seguire, mentre i secondi e soprattutto i terzi sono sempre accompagnati da dolori[28].

E come è netta la distinzione fra questi piaceri, così altrettanto decisivo e infallibile è il criterio di scelta fra questi piaceri stessi: per Epicuro, bisognava scegliere sempre e solo piaceri catastematici o stabili, che si riducono ad assenza di dolore, e piaceri dell’animo, che si riducono a mancanza di turbamento nello spirito.

Se così stanno le cose, allora la gente dovrebbe accontentarsi di soddisfare sempre il primo tipo di desideri e di piaceri, dovrebbe limitarsi per quanto attiene ai secondi e non dovrebbe mai cedere ai terzi. E qui Epicuro manifestò una forte presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata molteplicità dei piaceri. Infatti, fra quelli del primo gruppo (cioè quelli naturali e necessari) egli pose unicamente piaceri strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo, gli unici che veramente possano giovare, in quanto capaci di sottrarre il dolore del corpo (per esempio, il mangiare quando si ha fame, il bere quando si ha sete, il riposare quando si è stanchi, e simili). D’altra parte, egli escluse da questo gruppo il piacere erotico: «L’amplesso non giova mai: c’è da contentarsi che esso non nuoccia»[29].

Fra i piaceri della seconda categoria, egli poneva tutti quei desideri e voluttà che costituiscono le variazioni superflue dei piaceri naturali: mangiare bene, bere bevande raffinate, vestire in modo ricercato e così via. Infine, nel terzo gruppo, Epicuro poneva i piaceri «vani», nati cioè dalle vane opinioni degli uomini, quali sono tutti i piaceri legati al desiderio di ricchezza, potenza, fama, onori e simili.

I desideri e i piaceri del primo gruppo sono gli unici che vanno sempre e comunque soddisfatti, perché da natura hanno un preciso limite, che consiste appunto nell’eliminazione del dolore: ottenuto ciò, il piacere non cresce ulteriormente. Quelli del secondo gruppo, invece, non hanno più il medesimo limite, perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo l’intensità del piacere e possono provocare un notevole danno. Quelli del terzo gruppo, infine, non leniscono assolutamente il dolore corporeo e per giunta arrecano sempre turbamento all’anima.

Bisogna, dunque, sfrondare i propri desideri, riducendoli a quel primo nucleo essenziale: così ne verrà ricchezza e felicità copiose, perché per procurarsi quei piaceri l’uomo basta a se stesso, e in questo bastare a se stessi (αὐτάρκεια) stanno la più grande ricchezza e la massima felicità. Ecco, in proposito, due eloquenti massime epicuree: «A chi non basta il poco, nulla basta» e «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta»[30].

 

Guillaume Seignac, Il risveglio di Psiche. Olio su tela, 1904.

 

4. L’assolutezza del piacere. – Chiunque ponga nel piacere il bene supremo e la felicità è fatalmente tormentato dalle seguenti cose: 1) l’incalzare del tempo che divora e porta via il piacere; 2) la minaccia del dolore che può sempre sopraggiungere; 3) l’agguato della morte. Epicuro ha, pertanto, cercato di elevare attorno al piacere delle barriere che lo tutelassero da tali insidie e, a differenza di altri edonisti, a suo modo, è riuscito nel proprio intento, proprio grazie alla sua concezione della totale superiorità del piacere catastematico sul piacere in movimento: infatti, quest’ultimo è strutturalmente coinvolto nella corsa contro il tempo, inceppa incessantemente nei mali ed è messo in scacco dalla morte[31].

Hanno uguale piacere non solo per quanto riguarda la qualità (e fin qui non fa difficoltà il pensare che, di fronte alla squisitezza qualitativa di un piacere, un dio eterno quale è concepito da Epicuro e un uomo mortale godano e gioiscano allo stesso modo, appunto perché la durata finita o infinita non cambia la qualità), ma proprio per quanto riguarda la quantità: e questo è uno dei punti più audaci della dottrina epicurea, che occorre comprendere a fondo.

Epicuro, in sostanza, negava che un’esistenza infinita potesse rendere il piacere maggiore non solo in qualità ma anche in quantità: la durata nel tempo non incrementa in alcun modo il piacere. Com’è possibile? Basta individuare quale sia il «limite» del piacere: esso è l’eliminazione del dolore (ἀπονία). In altri termini, il piacere aumenta fino a quando il bisogno sia stato spento e il dolore tolto; allora, il piacere tocca il suo culmine estremo, oltre il quale non può più crescere. È la natura stessa del piacere catastematico che impone queste conclusioni: se esso consiste nella mancanza di dolore, è chiaro che nessuna aggiunta e nessun incremento siano pensabili al non provar più dolore. Dunque, il piacere catastematico, quando ci sia e finché ci sia, è pieno e totale, ha valenza assoluta ed è infinito[32].

 

5. La relatività del dolore. – Come può questa valenza assoluta del piacere, che Epicuro proclamava, non essere irrimediabilmente compromessa dai dolori, dai quali nessuno – proprio in quanto mortale – è mai al riparo? Se è lieve, il male fisico è sempre sopportabile e non è mai tale da offuscare la gioia dell’anima; se, invece, è acuto, passa presto; e, se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale era considerata da Epicuro uno stato di assoluta insensibilità[33].

E i mali dell’anima? Essi non sono altro che quelli prodotti dalle fallaci opinioni e dagli errori della mente umana; e contro di essi tutta la filosofia di Epicuro si presenta come il più efficace rimedio e il più sicuro antidoto.

 

6. La morte non è nulla per l’uomo. – E la morte? La morte è un male solo per chi nutre false opinioni su di essa, sentenziava Epicuro. Poiché l’uomo è un composto di anima in un agglomerato corporeo, la morte non è altro che la dissoluzione di tali assembramenti atomici. E, in questa dissoluzione, gli atomi si dileguano per ogni dove, la coscienza e la sensibilità cessano totalmente e così dell’uomo non restano che macerie che si disperdono – ossia nulla. Quindi, la morte non è paurosa di per sé, perché al suo sopravvenire gli esseri umani non sentono più nulla; né è paurosa per un suo «dopo», in quanto dell’uomo non resta più alcunché, dissolvendosi totalmente la sua anima così come il suo corpo; neppure, infine, essa toglie nulla alla vita che si è trascorsa, perché – come si è visto – all’assoluta perfezione del piacere non è necessario l’eterno. Il più terribile dei mali, ossia la morte, per Epicuro non è niente per l’uomo, dal momento che, quando uno non c’è più, la morte non esiste, e quando essa sopravviene l’uomo non è più. Essa non ha alcun significato per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più.

Tenendo conto di quanto si è appena precisato, non ci si deve più stupire se Epicuro identificasse la virtù con il piacere o, comunque, se la considerasse la virtù solamente in funzione del piacere e come strumento per garantirlo[34].

Nicolas-Rene Jollain, La morte di Giacinto.

 

7. La svalutazione della politica e l’esaltazione della vita appartata. – Ogni forma di edonismo e di utilitarismo è sempre anche una forma di individualismo egoistico, e tale era anche la posizione di Epicuro. Anzi, in lui l’individualismo era particolarmente accentuato, oltre che dalle premesse teoretiche del suo sistema, anche da due ulteriori fattori di notevole importanza: l’esperienza del crollo della πόλις, della Città-Stato, interpretazione vigorosamente ribadita anche da Aristotele, il quale nell’uomo vedeva l’animale politico nella dimensione della πόλις. Ora, proprio il fallimento storico di quest’ultima e delle istituzioni ad essa connesse comportava eo ipso la perdita di credibilità delle ricostruzioni teoretiche di Platone e di Aristotele, apparendo esse, ormai, non altro che l’indebita idealizzazione di un dato storico contingente. E poiché le forme politiche successive alla Città-Stato, ossia l’impero di Alessandro e le monarchie ellenistiche, si mostrarono quanto mai instabili, così Epicuro credette di trovare in tutto questo la controprova della validità di quelle conclusioni individualistiche che i principi della sua fisica e della sua etica logicamente imponevano.

Dunque, la vita politica era, per le ragioni dette, sostanzialmente innaturale: essa, infatti, comportava, conseguentemente, continui dolori e turbamenti, compromettendo l’ἀπονία e l’ἀταραξία e, quindi, quanto di più prezioso l’uomo possa avere – vale a dire la felicità. Infatti, quei piaceri che dalla vita politica molti si ripropongono, erano pure illusioni per Epicuro: dall’attività pubblica gli uomini si aspettano potenza, fama e ricchezza, che sono, in realtà, desideri e piaceri innaturali e non necessari, ingannevoli miraggi. Alla luce di ciò, ben si comprende l’invito di Epicuro: «Liberiamoci dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica»[35]. A suo avviso, la vita pubblica non arricchisce l’uomo, ma lo disperde e lo dissipa: per questo l’Epicureo si apparterà e vivrà in disparte dalle folle: «Vivi nascosto» (fr. 551 U.) suona il celebre comandamento epicureo! Solo in questo rientrare e rimanere in sé può essere trovata la pace dell’anima (l’ἀταραξία), il bene supremo: «La corona dell’imperturbabilità è senza paragone superiore alla corona dei grandi imperi» (fr. 556 U.).

È chiaro, pertanto, che la giustizia cessa di essere un valore assoluto, come voleva Platone, ma si riduce alla relazione di utilità; da tale premessa deriva la seguente conclusione: «L’ingiustizia non è di per sé un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo»[36].

Così la πολιτεία da realtà morale dotata di validità assoluta diventa istituzione relativa, nata dal semplice contratto in vista dell’utile; anziché fonte e coronamento dei supremi valori etici, diviene semplice mezzo di tutela dei valori vitali, condizione necessaria – sì – alla vita morale, ma tutt’altro che sufficiente.

 

8. L’amicizia. – Il «Giardino» di Epicuro era nato per creare uomini che prendessero pienamente coscienza di essere individui, e che imparassero a capire che ogni salvezza potesse venire non da altro che da se medesimi. Fra questi individui l’unico legame che poteva essere ammesso come valido era l’amicizia, la quale era concepita quale libero rapporto capace di unire chi in modo identico sentisse, pensasse e vivesse. Nell’amicizia, dunque, nulla sarebbe stato imposto dall’esterno e in modo innaturale, e, perciò, nulla avrebbe violato l’intimità dell’individuo; nell’amico l’Epicureo vedeva quasi un altro se stesso.

Anche l’Accademia platonica aveva coltivato l’amicizia, ma in modo diversissimo: l’amicizia doveva essere il mezzo che più agevolmente aiutasse a costituire lo Stato, che era il fine ultimo. Epicuro la trasformò, invece, da un mezzo a un fine o – se si vuole – dato che l’amicizia stessa non sfuggiva del tutto alla legge dell’utilità, la considerò quale mezzo per realizzare pienamente l’individuo.

Va detto che, in effetti, nulla, nel contesto dell’etica epicurea, aveva senso se non in funzione del piacere e dell’utile. Tuttavia, Epicuro avrebbe voluto riconoscere all’amicizia un qualche privilegio, scrivendo: «Ogni amicizia è desiderabile di per sé, anche se ha avuto il suo inizio dall’utilità»[37]. Dunque, l’amicizia muove dall’utile, ma, una volta sviluppatasi, diviene un bene per sé, perché dava piacere. Insomma, prima si ricerca l’amicizia per conseguire determinati vantaggi estranei ad essa e poi, una volta nata, diventa essa stessa fonte di piacere e, perciò, fine. Epicuro poteva allora ben affermare quanto segue: «Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia»[38]. E poteva addirittura affermare: «L’amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia reciproca»[39]. Essa, infatti, è il coronamento e il suggello della felicità del saggio.

Pittore Epeleo. Due giovani presso un louterion. Pittura vascolare su una kylix attica a figure rosse, 510 a.C. ca. Walters Art Museum.

 

9. Il quadrifarmaco e l’ideale del saggio. – Epicuro ha fornito dunque agli uomini il quadruplice rimedio nel modo veduto: ha mostrato, innanzitutto, che sono vani i timori per gli dèi e per l’aldilà; in secondo luogo, che è assurda la paura della morte, la quale non è nulla; in terzo luogo, che il piacere, quando lo si intenda correttamente, è a disposizione di tutti; infine, che il male o è di breve durata, oppure è facilmente sopportabile. L’uomo che sappia applicare a se medesimo questo quadruplice farmaco acquista la pace dello spirito e la felicità, che nulla e nessuno possono intaccare. Divenuto così, totalmente padrone di sé, il saggio di nulla può ormai temere, nemmeno i più atroci mali e addirittura nemmeno le torture: «Il saggio sarà felice anche fra i tormenti» (fr. 601 U.).

È evidente che questa è una metafora paradossale per dire che il saggio è assolutamente imperturbabile e di questo Epicuro stesso diede dimostrazione quando, fra gli spasmi del male che lo portava a morte, scrivendo a un amico l’ultimo addio, proclamava la vita dolce e felice.

E così Epicuro ritenne di poter dire, forte della sua ἀταραξία, che il saggio potesse contende in felicità perfino con gli dèi: se si toglie l’eternità, Zeus non possiede di più del saggio (fr. 602 U.). Epicuro si pose come una delle voci più autentiche della sua epoca: il suo pensiero e la sua vita divennero paradigma. Il successo che egli riscosse nell’arco di cinque secoli ne è la controprova!

Epicuro. Testa, marmo. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

 

 

V. Seguaci e successori di Epicuro

L’Epicureismo non ebbe una storia paragonabile a quella delle altre Scuole ellenistiche, nel senso che non ebbe una vera e propria evoluzione di pensiero, non vide sviluppi dottrinali né svolgimenti concettuali degni di rilievo. Epicuro non solo propose la propria dottrina, ma in qualche modo la impose, con disciplina fermissima.

Pertanto, nel «Giardino», non si accesero discussioni e non scoppiarono conflitti di idee. I discepoli e i seguaci di Epicuro si limitarono a ripeterne e ad esplicarne il verbo o, al massimo, ad approfondirne e a completarne certi aspetti. Le polemiche con le Scuole avversarie, in linea di massima, non portarono ad accomodamenti eclettici né ad ammissioni di principi o corollari di pensatori esterni.

I capisaldi del sistema epicureo divennero dogmi da apprendere e da difendere a spada tratta: quasi come verità di religione. E così si spiega perché, mentre vi furono varie fasi della Stoà (una antica, una media e una nuova), nonché varie fasi dello Scetticismo (quella pirroniana, quella accademica e quella neopirroniana), non vi fu, invece, se non un ciclo unico e dottrinalmente unitario nella storia del «Giardino». Dai testi di Epicuro al poema di Lucrezio alle iscrizioni murali di Diogene di Enoanda (cioè dalla fine del IV secolo a.C. al II secolo d.C.) restò fondamentalmente immutato lo spirito vivificatore degli scritti epicurei, immutata la fede e identiche rimasero le articolazioni teoretiche.

Discepoli di Epicuro – prima ancora della fondazione della Scuola ad Atene – furono Metrodoro e Polieno di Lampsaco. Metrodoro, in particolare, si segnalò soprattutto come grande polemista (come attestano gli stessi titoli delle sue opere). I due allievi morirono prima del maestro e, pertanto, il suo successore alla direzione del «Giardino» fu Ermarco di Mitilene, che scrisse contro Platone e contro Aristotele. Si distinsero in quel periodo anche Leonteo di Lampsaco, Colote e Idomeneo.

I successivi scolarchi epicurei, dei quali si sa molto poco, furono, in ordine, Polistrato, Ippoclide, Dionigi, Basilide, Protarco di Bargilia, Apollodoro, soprannominato «il Tiranno del Giardino» (che si dice che abbia scritto oltre quattrocento libri), Zenone di Sidone, Fedro e Patrone (Zenone e Fedro furono personalmente conosciuti e ascoltati da Cicerone).

Nella seconda metà del I secolo a.C. il «Giardino» ad Atene era ormai morto: dopo Patrone, infatti, non si hanno più notizie di altri scolarchi e si sa che il terreno su cui sorgeva l’istituto era stato venduto; ciononostante, il verbo epicureo si era ormai da tempo diffuso, sia in Oriente sia in Occidente. Ma proprio lì, e precisamente a Roma, che l’Epicureismo avrebbe trovato la sua seconda patria, soprattutto per merito del poeta Lucrezio, che avrebbe saputo cantarlo con la più alta e commossa poesia.

***

Note:

[1] Epicuro nacque a Samo nell’Olimpiade 109, cioè intorno al 341 a.C. (cfr. Diog. X 14). Suo padre Nicocle era ateniese e si era recato a Samo come colono. A diciotto anni Epicuro venne ad Atene per l’efebato (qualcosa che ricorda, per certi aspetti, il moderno servizio militare). Reggeva allora l’Accademia Senocrate ed egli, verosimilmente, Xenocraten audire potuit (Cic. nat. deor. I 26, 72). Prima di giungere ad Atene, però, Epicuro si era già accostato alla filosofia e aveva frequentato le lezioni di un maestro platonico di nome Panfilo (Diog. ibid.); ma certamente l’incontro decisivo dovette essere quello con Nausifane, filosofo atomista, che gli dischiuse gli orizzonti di Democrito, e di cui si dirà ulteriormente nel testo. In seguito all’espulsione dei coloni ateniesi da Samo, Epicuro passò a Colofone (Diog. X 1) e quindi a Mitilene e a Lampsaco (Diog. X 15). La nuova visione della vita dovette già essere chiara a Epicuro, a Mitilene e a Lampsaco, dove insegnò per cinque anni (Diog. ibid.). Intorno al 307/6 a.C. si trasferì, dunque, ad Atene (Diog. X 1) e fondò il «Giardino». Morì nella Olimpiade 127, cioè intorno al 270 a.C. (Diog. X 15). Epicuro fu scrittore fecondissimo: Diogene lo dice autore di circa trecento libri (cfr. X 26 sgg., con l’elenco dei titoli delle opere notevoli). Di questa imponente produzione è rimasto, però, ben poco: tre lettere (ad Herodotum, ad Menoeceum, ad Pythoclen), una raccolta di sentenze (Kύριαι δόξαι = Massime capitali), conservate da Diogene, una seconda raccolta di detti (Gnomologium Vaticanum), e frammenti vari, alcuni dei quali tratti dai papiri di Ercolano.

[2] Diog. 10, 122.

[3] Diog. 10, 132.

[4] Cfr. frr. 242-243 U.

[5] Cfr. Kύριαι δόξαι 23-24; fr. 251 U.

[6] Cfr. fr. 247 U.

[7] Cfr. fr. 36 U.

[8] Cfr. fr. 255 U.

[9] Cfr. Diog. 10, 75 s.

[10] Cfr. fr. 128 s. U.

[11] Cfr. fr. 274 U.

[12] Diog. 10, 38: πρῶτον μὲν ὅτι οὐδὲν γίνεται ἐκ τοῦ μὴ ὄντος.

[13] Cfr. ibid. 10, 39.

[14] Ibid. 10, 39: τὸ πᾶν ἐστι σώματα καὶ κενόν, «il tutto è costituito da corpi e da vuoto».

[15] Ibid. 10, 39-41.

[16] Cfr. ibid. 10, 40 s.

[17] Cfr. ibid. 10, 42-56.

[18] Cfr. ibid. 10, 58-59.

[19] Cfr. Diog. 10, 67.

[20] Ibid. 10, 61.

[21] Ibid. 10, 133 s.

[22] Cfr. ibid. 10, 45; 88 s.

[23] Cfr. ibid. 10, 63.

[24] Cfr. ibid. 10, 46.

[25] Cfr. ibid. 10, 48-51.

[26] Cfr. fr. 397 U.

[27] Cfr. Diog. 10, 130-132.

[28] Cfr. Kύριαι δόξαι 29.

[29] Cfr. fr. 62 U.

[30] Vd. fr. 473 U. e Gnom. Vat. 68.

[31] Cfr. Kύριαι δόξαι 19.

[32] Cfr. ibid. 20.

[33] Cfr. Gnom. Vat. 4.

[34] Cfr. Diog. 10, 124 s.

[35] Cfr. Gnom. Vat. 58.

[36] Cfr. Kύριαι δόξαι 34.

[37] Gnom. Vat. 23.

[38] Kύριαι δόξαι 27.

[39] Gnom. Vat. 52.

Lo Stoicismo antico

da G. REALE , Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 319-340 [testo rielaborato, con bibl. ampliata].

 

I. Zenone, la fondazione della Stoa e le diverse fasi dello Stoicismo [1]

1. L’incontro di Zenone con Cratete e con il socratismo. – Nel 312/311 a.C. giunse ad Atene, dall’isola di Cipro, un giovane di stirpe semitica, con l’intento di prendere diretto contatto con le fonti della grande cultura ellenica e di dedicarsi interamente alla filosofia. Era Zenone[2], l’uomo che avrebbe dovuto fondare quella che, forse, fu la più grande delle Scuole dell’età ellenistica. Un giorno, suo padre Mnasea, che commerciava fra Cipro e Atene, di ritorno da uno dei suoi viaggi, gli portò alcuni scritti socratici: con molta probabilità, furono proprio questi «libri socratici» a far maturare nel giovane la decisione di trasferirsi ad Atene.

Nella capitale della cultura ellenica non furono gli uomini delle due grandi Scuole dell’Accademia e del Peripato a determinare l’orientamento di Zenone; al contrario, fu un rappresentante delle Scuole socratiche minori: Cratete, discepolo di Diogene il Cinico, a sua volta allievo di Antistene[3]. Ma Cratete Cinico offrì a Zenone soprattutto un esempio pratico di vita filosofica, che rispondeva solo in parte a quelle esigenze che il giovane sentiva urgere dentro di sé. In Cratete, infatti, mancava una giustificazione teoretica adeguata alla sua scelta di vita e, pertanto, nel suo insegnamento.

Zenone di Cizio. Busto, marmo, copia romana di età augustea da originale ellenistico del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Zenone si accostò anche a un’altra Scuola socratica minore, che in quel tempo mieteva ancora successi, e precisamente quella dei Megarici: infatti, ci viene riferito che egli fu alunno di Stilpone, il quale verso la fine del secolo IV a.C. era una grossa celebrità. Ma la dottrina megarese mutilava Socrate ancor più di quella cinica, esaltando il momento logico-dialettico e rischiando addirittura di riportarsi su posizioni presocratiche. L’incontro con Stilpone, tuttavia, incise su Zenone in modo non lieve: la logica e la dialettica della Stoa, infatti, avrebbero rivelato indubbi influssi di matrice megarica (cfr. SVF, 1, fr. 1).

2. Il ripudio della «seconda navigazione». – Oltre la voce dei Socratici minori, Zenone volle ascoltare anche quella degli Accademici. Le nostre fonti ci riferiscono, infatti, che Zenone fu discepolo anche dei platonici Senocrate e Polemone. Ora, per quanto questo contatto con l’Accademia abbia influito su di lui e lo abbia aiutato a maturare e a risolvere problemi particolari, nonché a dare una consistenza e uno spessore speculativo al suo filosofare (che avrebbe differenziato la Stoa da tutti gli altri sistemi dell’età ellenistica), non gli vietò, tuttavia, di prendere una posizione nei confronti del problema metafisico in netta antitesi con quella di Platone.

Zenone, dunque, rifiutò gli esiti della «seconda navigazione», e, non meno di Epicuro, assunse posizioni decisamente materialistiche: negò non solo l’esistenza trascendente delle Idee, riducendole a pensieri della mente umana, ma rifiutò pure di attribuire loro quella statura ontologica che Aristotele, pur confutando la loro trascendenza, aveva mantenuto (cfr. SVF, I, fr. 65).

Zenone respinse altresì l’esistenza di un’anima spirituale per sua natura diversa dal corpo e anche di Intelligenze immateriali e trascendenti – quali il platonico Demiurgo, l’aristotelico Motore Immobile e le aristoteliche Intelligenze motrici delle sfere celesti. Al contrario, per lui, l’anima era di natura corporea: se non fosse tale – precisa Cleante, riferendo un’argomentazione risalente, però, a Zenone – non si potrebbero spiegare i rapporti che essa ha con il corpo. L’anima è, dunque, pneuma e fuoco (πῦρ): sopravvive per un certo periodo alla morte del corpo, ma poi si dissolve (cfr. SVF, I, frr. 135; 146; 518).

In questa concezione, corporeo era anche il dio, il quale era fatto coincidere con il Principio attivo dell’universo, immanente all’universo stesso; il dio era fuoco eterno (si vd. infra).

3. Il ripensamento di Eraclito e il concetto di φύσις come fuoco artefice. – Zenone non si limitò ad ascoltare filosofi a lui contemporanei, ma lesse e meditò anche i libri degli antichi. Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, la lettura delle opere di Eraclito. Infatti, l’idea eraclitea del fuoco, che è φύσις, λόγος, θεός, ripensata e opportunamente rielaborata, sarebbe divenuta centrale nell’ontologia stoica.

A questo proposito, dobbiamo ribadire un rilievo essenziale: la φύσις eraclitea, riveduta da Zenone, non poteva più mantenere il significato presocratico arcaico, ossia un valore al di qua delle distinzioni di organico-inorganico, di materia-spirito, di corporeo-incorporeo, di immanente-trascendente, di sensibile-soprasensibile. Dopo le acquisizioni platoniche e aristoteliche, la concezione della φύσις poteva essere determinata solo in funzione di queste distinzioni. E così Zenone trasse dal principio eracliteo, cui si era ispirato, conseguenze vitalistiche, ilozoistiche, organicistiche e panteistiche: che tutto fosse vivo, che la materia fosse intrinsecamente dotata di vita, che tutto fosse organismo vivente e che tutto fosse dio e che il dio coincidesse con il cosmo, che φύσις e θεῖον si identificassero reciprocamente, erano tutte tesi implicite nei Presocratici – ma solo con gli Stoici sarebbero divenute esplicite e tematiche. Una volta negata la trascendenza platonica-aristotelica, il dio, se ammesso come esistente, doveva essere necessariamente immanentizzato e identificato con il cosmo e con la natura. Come meglio si vedrà esponendo la fisica, gli Stoici furono i primi veri panteisti, cioè i primi pensatori a identificare Dio e Natura con piena consapevolezza.

Ricostruzione a disegno del lato occidentale della Stoa Poikile, così come avrebbe dovuto apparire intorno al 400 a.C. [agora.ascsa.net].
4. I rapporti con Epicuro. – Un avvenimento che agì in modo determinante su Zenone fu indubbiamente la fondazione del Giardino a opera di Epicuro, nel 307/306 a.C. Questo fatto nella vita spirituale di Atene costituiva una vera e propria rivoluzione. Nei confronti della nuova Scuola Zenone dovette subito nutrire sentimenti contraddittori: un misto di attrazione e repulsione, di ammirazione e di disprezzo, di consenso e di dissenso. Egli dovette certamente capire che Epicuro cercava di soddisfare quegli stessi bisogni che anche lui provava, che cercava di dar voce a quelle istanze che pure lui sentiva come imprescindibili, che intendeva e praticava la filosofia in quella nuova valenza di «arte del vivere», non ignota alle altre Scuole, ma da esse solo imperfettamente realizzata. Ma se Zenone condivideva il concetto epicureo di filosofia nonché il conseguente modo di porre i problemi speculativi, non accettò le soluzioni a tali questioni e divenne tosto fiero «avversario» dei dogmi del Giardino: gli ripugnavano profondamente le due idee basilari del sistema epicureo, vale a dire la riduzione del mondo e dell’uomo a un mero accozzo di atomi e l’identificazione del bene morale con il piacere. L’apertura del Giardino, pertanto, dovette agire da stimolo su Zenone in due sensi: da un lato, dovette fargli maturare l’idea di fondare una propria Scuola; dall’altro, con i suoi dogmi, dovette stimolarlo a costruire un termine di riferimento polemico per la soluzione di tutto l’arco dei problemi filosofici.

5. La genesi della Stoa e il suo sviluppo. – Zenone non era cittadino ateniese e, pertanto, non godeva del diritto di acquistare un immobile; per questo motivo, tenne le sue lezioni lungo il portico che era stato dipinto dal celebre pittore Polignoto di Taso (floruit 480-455 a.C. ca.). In greco, appunto, «portico» si diceva στοά e per tale ragione la nuova Scuola ebbe il nome di Stoa; i suoi seguaci furono detti «quelli della Stoa» o anche semplicemente «Stoici» (SVF, I, fr. 2).

Nel Portico di Zenone, a differenza che nel Giardino di Epicuro, era ammessa la discussione critica intorno ai dogmi dello stesso fondatore della Scuola e, per tale motivo, questi furono soggetti ad approfondimenti, revisioni e ripensamenti. Di conseguenza, mentre la filosofia epicurea non subì modificazioni di rilievo e fu, in pratica, solamente o prevalentemente ripetuta e chiosata, rimanendo sostanzialmente immutata, quella di Zenone affrontò innovazioni anche notevoli ed ebbe un’evoluzione piuttosto considerevole.

La battaglia di Maratona. Ricostruzione dell’affresco di Polignoto nella Stoa Pecile, da C. ROBERT, Die Marathonschlacht in der Poikile und weiteres über Polygnot, Halle auf Saale 1895, tav. 1-2.

Gli studiosi hanno ormai messo bene in chiaro che nella storia della Stoa è necessario distinguere tre periodi: 1) il periodo dell’antica Stoa, che va dalla fine del IV secolo a tutto il secolo III a.C., in cui la filosofia del Portico fu via via sviluppata e sistemata a opera della grande triade di scolarchi (Zenone, appunto, Cleante[4] e soprattutto Crisippo[5] – fu, in particolare, quest’ultimo, pure di origine semitica, che, con oltre 700 libri, fissò in modo definitivo la dottrina della prima stagione della Scuola)[6]; 2) il periodo cosiddetto della media Stoa, fra il II e il I secolo a.C., che si caratterizzava per infiltrazioni eclettiche nella dottrina originaria; 3) il periodo della Stoa romana, o della nuova Stoa (ormai in età cristiana), in cui la dottrina si fece essenzialmente meditazione morale e assunse forti toni religiosi, in conformità con lo spirito e le aspirazioni dei nuovi tempi.

II. La tripartizione della filosofia e il λόγος

Anche Zenone e la Stoa accettavano la tripartizione della filosofia stabilita dall’Accademia (che era stata sostanzialmente accolta persino da Epicuro); anzi, la accentuarono e non si stancarono di foggiare nuove immagini per illustrare, nel modo più efficace, il rapporto che legava fra loro le tre parti. L’intero della filosofia, dunque, era da essi paragonato a un frutteto in cui la logica corrispondeva al muro di cinta che delimitava l’ambito del medesimo e che fungeva, a un tempo, da baluardo di difesa; gli alberi rappresentavano la fisica, perché erano come la struttura fondamentale, ovvero ciò senza cui non ci sarebbe stato il frutteto; infine, i frutti, che erano ciò a cui tutto l’impianto mirava, rappresentavano l’etica. Altra celebre immagine era quella dell’uovo: il guscio protettivo raffigurava la logica, l’albume la fisica, il tuorlo l’etica. Posidonio avrebbe poi addotto, invece, l’immagine dell’organismo vivente: la logica come l’ossatura, la fisica come il sangue e la carne, l’etica come l’anima. Tutte queste immagini esprimevano tanto la preminenza dell’etica quanto l’imprescindibilità delle altre due parti della filosofia stessa (cfr. SVF, II, frr. 38-39).

Ma gli Stoici, a differenza delle altre Scuole che ammettevano la tripartizione della filosofia (e, soprattutto, a differenza degli stessi Epicurei, i quali, peraltro, oltre che la tripartizione, riconoscevano la medesima subordinazione gerarchica proposta dagli Stoici), seppero additare, in maniera originale, il fondamento che solidamente legava le tre parti nel principio del λόγος: esso era inteso come principio di verità in logica, come principio creatore in fisica e come principio normativo in etica.

A questo proposito, risulta assai significativo che gli Stoici, per indicare questo principio di spiritualità immanente e di razionalità, che stava a fondamento del loro sistema, non avessero scelto il termine νοῦς («intelligenza»), ma avessero preferito il concetto eracliteo di λόγος, perché essi ritenevano di trovare espressa in esso una molteplicità di significati che riuniva il momento soggettivo e quello oggettivo, l’antropologico e il cosmologico, il gnoseologico e l’ontologico e, quindi, poteva fungere chiaramente da comune denominatore.

Così resta chiarito quanto sopra si è detto: come, cioè, il λόγος costituisse un principio unitario, il quale, con le sue tre diverse valenze, generava le tre parti della filosofia; il λόγος come principio di verità, con le sue leggi del pensare, del conoscere e del parlare, costituiva l’oggetto specifico della logica; il λόγος come principio ontologico del cosmo rappresentava l’oggetto della fisica (intesa, questa, nel senso originario e presocratico di «scienza della natura»); e, infine, il λόγος quale principio finalizzatore, ossia come principio che determina il senso di ogni cosa – e, quindi, anche il fine e il dover essere dell’uomo – costituiva l’oggetto dell’etica.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

III. La logica dell’antica Stoa

1. Il ruolo e le articolazioni della logica stoica. – Lo Stoico non solo sentiva di essere nella verità in ogni momento del suo sistema, ma orgogliosamente proclamava di essere in grado di dimostrarlo logicamente a se stesso e agli altri. Si comprende, quindi, come gli Scettici dovessero scegliere proprio gli Stoici come loro bersaglio polemico preferito: essi, infatti, erano i filosofi più dogmatici dell’età ellenistica. E trascinati nella polemica scettica, gli Stoici affilarono ulteriormente le loro armi dialettiche e finirono per dare ancor più peso alla logica – differenziandosi così sempre più dagli Epicurei, i quali mostrarono interessi molto scarsi per tale disciplina e raggiunsero, pertanto, in essa risultati alquanto modesti. I nuovi studi hanno messo bene in luce che, in realtà, la logica stoica doveva essere altra cosa rispetto a quella aristotelica, dato che si muoveva in direzioni differenti e addirittura opposte, riprendendo elementi di matrice prearistotelica elaborati nell’ambito delle Scuole socratiche minori e, in particolare, dalla Scuola megarica.

Già la distinzione delle parti della logica propugnata dagli Stoici indica chiaramente la sua matrice non aristotelica: Zenone, infatti, con un’angolazione prearistotelica distingueva la logica in dialettica e retorica, in quanto egli riconosceva due sole possibilità per il discorso – quella di procedere per argomenti e quella di svilupparsi in maniera oratoria (cfr. SVF, I, fr. 75).

Siamo, peraltro, informati che alla tradizione logica alcuni Stoici attribuivano altresì il compito di fornire i canoni o i criteri di verità, analogamente agli Epicurei. Anzi, alcune fonti ci dicono che proprio la dottrina del criterio della verità aveva il primo posto nell’insegnamento.

Luca della Robbia, Dibattito fra Platone e Aristotele, o ‘Filosofia’. Marmo dal lato nord del campanile di Firenze (basamento inferiore), 1437-1439. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

2. Il criterio della verità: la sensazione e la rappresentazione catalettica. – Secondo questa dottrina, l’anima era, originariamente, come una tabula rasa e, per azione dell’esperienza, acquistava via via le sue conoscenze. Si capisce, quindi, che, essendo la sensazione e la rappresentazione sensoriale il momento iniziale, ossia l’ingresso nell’anima della conoscenza, gli Stoici abbiano dedicato a esse attente analisi e, stante la temperie fondamentalmente sensistica e materialistica della loro gnoseologia, abbiano finito per indicare – come si vedrà – se non addirittura nella sensazione – come avevano fatto gli Epicurei, che erano ancora più accentuatamente sensisti – appunto nella rappresentazione il criterio della verità. Base della conoscenza, per gli Stoici, dunque, era la sensazione (αἴσθησις), la quale era intesa come impressione provocata dagli oggetti sugli organi sensoriali dell’uomo. Questa impressione, poi, si trasmetteva tramite i sensi all’anima e si imprimeva in essa, generando in tal modo la rappresentazione (φαντασία) (cfr. SVF, II, frr. 53 e 83).

Il materialismo di fondo della Stoa doveva, però, comportare non poche difficoltà nel determinare la natura di tale impronta sull’anima. Zenone e Cleante intesero l’impressione come materiale impronta sull’anima, mentre il più raffinato e smaliziato Crisippo parlò di alterazione qualitativa.

La rappresentazione veritativa, secondo gli Stoici, non implicava soltanto un sentire, ma postulava altresì un assentire, un acconsentire e un approvare provenienti dal λόγος, insito nell’anima dell’uomo. L’impressione, a loro avviso, non dipende dal singolo, ma dall’azione che gli oggetti esercitano sui suoi sensi e gli uomini non sono liberi di accogliere quest’azione o di sottrarsi a essa; tuttavia, essi sono, in un certo senso, liberi di prendere posizione di fronte alle impressioni e alle rappresentazioni che si formano in loro, dando a esse l’assenso del λόγος, oppure rifiutando loro questo assenso (συνκατάθησις). Solo quando si dà loro il proprio assenso, si ha l’apprensione (κατάληψις), e la rappresentazione che ha ricevuto l’assenso è rappresentazione comprensiva o catalettica (καταληπτική φαντασία), cioè criterio di verità (cfr. SVF, I, frr. 60-66; II, fr. 91).

La spontaneità dell’assenso, proclamata dagli Stoici, è il punto di gran lunga più delicato da capire, ma anche il più importante. Gli Stoici erano ben lungi dal pensare che il λόγος avesse, rispetto alla sensazione, un’autonomia o una funzione regolativa del tipo di quella che si ritrova nelle moderne gnoseologie, ed erano lungi dal ritenere che la rappresentazione catalettica fosse una specie di sintesi o una sorta di misurazione che lo spirito operava sui dati sensoriali. La libertà di assenso era, in ultima analisi, non altro che il riconoscere l’evidenza oggettiva e il respingere la non-evidenza. La presupposta convinzione degli Stoici era che, in realtà, quando un individuo era realmente di fronte a un oggetto, si producevano in lui un’impressione e una rappresentazione dotate di forza ed evidenza tali che naturalmente lo portavano all’assenso e, quindi, alla rappresentazione comprensiva; e che, dunque, per converso, quando l’individuo aveva rappresentazione comprensiva, e cioè dava il proprio assenso a un rappresentazione, si trovava sicuramente di fronte a un oggetto reale. Pertanto, il presupposto di una piena corrispondenza fra reale presenza dell’oggetto e rappresentazione evidente, che conduce all’assenso, finiva per essere, in realtà, predominante.

Anonimo, Zenone di Cizio. Incisione da Thomas Stanley, The History of Philosophy…, 1655.

3. La conoscenza intellettiva, le προλήψεις e i concetti universali. – La conoscenza non si esauriva, secondo gli Stoici, nell’ambito della sensazione e nemmeno in quello dell’esperienza in generale, che non era altro se non il consolidarsi di ricordi di rappresentazioni sensibili della medesima specie. Gli Stoici riconoscevano che l’uomo ha anche capacità di pensare e di ragionare, ossia di formare rappresentazioni intellettive (ἔννοιαι), di connetterle fra loro e, quindi, di procedere a inferenze in modi diversi; pertanto, essi poterono elaborare una vera e propria logica, che denominarono «dialettica».

Per intendere quest’ultima occorre comprendere la dottrina stoica della genesi, della natura e del significato dell’«universale» (o meglio, di ciò a cui gli Stoici riducevano questo concetto).

Se prima non abbiamo sensazioni, non possiamo avere rappresentazioni intellettive e concetti. Dalla sensazione si passa all’intellezione, in primo luogo, con un’operazione immediata: per esempio, da questo bianco che vedo alla nozione (generale) di bianco; da questo colore alla nozione di colore. In secondo luogo, per passaggio mediato, cioè operando per via di associazione, combinazione, divisione sulle nozioni ottenute per immediata evidenza e così trasformandole in varia maniera (cfr. SVF, II, frr. 83; 87).

È da notare, inoltre, che anche gli Stoici riconoscevano l’esistenza di προλήψεις («nozioni»), concependole come «naturale concezioni degli universali», ovvero come un processo che avviene in modo naturale già nel bambino e che giunge a compiutezza entro il settimo anno. Quelle «nozioni» che si riscontrano in tutti gli uomini sono «universali». Gli Stoici hanno parlato addirittura di «nozioni innate alla natura umana» a proposito di alcuni concetti morali. Questo linguaggio, però, mal si accorda con l’affermazione che l’anima è una tabula rasa. Peraltro, è da rilevare che il λόγος dell’uomo altro non è se non una parte e un momento del λόγος universale e, come tale, deve non solo essere capace di raggiungere la verità, ma deve altresì avere in sé, in un certo qual modo, qualche germe della verità medesima (cfr. SVF, II, fr. 473; III, fr. 218; III, fr. 69).

Jean-Léon Gérôme, La verità. Olio su tela, 1896. Museum Anne-de-Beaujeu.

4. Gli «esprimibili» e la loro incorporeità. – Qual è la natura degli «universali», ossia di ciò che il pensiero pensa, congiunge e disgiunge in vario modo? Gli Stoici ammettevano, oltre alle cose esistenti e alle parole significanti, anche un tertium quid, ossia i contenuti di pensiero, «i significati», che affermavano essere meri λεκτά («concetti esprimibili»), sostenendo che tali cose fossero «incorporee» (cfr. SVF, II, frr. 166 e 187).

Che i contenuti del Pensiero, che sono il frutto della nostra attività razionale e che esprimiamo e comunichiamo con le parole (cioè gli universali), siano, per gli Stoici, meri «esprimibili» e «incorporei», si spiega abbastanza facilmente tenendo presente quanto segue: l’essere è sempre e solo corpo e come tale individuale; i contenuti del pensiero si predicano di molti individui e, pertanto, essi non sono individuali e non possono essere corpi e, quindi, realtà. Di conseguenza, essi sono non-corporei, non già nel significato spiritualistico e quindi positivo, ma nel senso negativo di mancanza di quella caratteristica che è tipica della realtà e dell’essere, che per gli Stoici è solo la corporeità. Inoltre, sono λεκτά, in quanto essi esistono solo congiuntamente al λέγειν e al διαλέγειν umano, ossia in dipendenza dal nostro dire, pensare e ragionare. La posizione degli Stoici era, dunque, concettualistico-nominalistica, in quanto riconosceva l’universale come qualcosa che dipendeva dal pensare e parlare, ma gli rifiutava un’esistenza reale.

Con questa concezione del λεκτόν immateriale come concetto (come σημαινόμενον) se ne intreccia una seconda, attestata da altre fonti e dallo stesso Sesto Empirico, che è assai più complessa, ma non meno importante per la retta comprensione della filosofia del Portico, in generale, e della dialettica, in particolare, e che, dunque, è necessario riferire.

Nel contesto del materialismo stoico, che – come si è già accennato – è di carattere ilozoistico e vitalistico, la concezione del rapporto causa-effetto è del tutto particolare e senza un preciso riscontro in tutto il pensiero precedente. Solo la causa è realtà, è essere, è «corpo»; l’effetto, invece, è un mero accidente, sprovvisto di realtà corporea e, dunque, «incorporeo». Gli effetti sono, pertanto, considerati meri «predicati» e quindi «incorporei».

Ma perché l’effetto-accidente-incorporeo è detto «predicato»? È evidente che, nel qualificarlo in questo modo, gli Stoici si siano basati soprattutto su questa considerazione: «il predicato» è «ciò che è congiunto a una e a più cose» (SVF, II, fr. 183); ora, se è congiunto a più cose, non è individuale e, dunque, ha una universalità; e per questa ragione esso rientra fra gli esprimibili, che sono universali.

Crisippo. Busto, marmo greco, copia romana di I-II sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

5. La dialettica. – Gli Stoici definivano la dialettica in maniera socratica: «La dialettica è scienza del discutere rettamente su argomenti per domanda e riposta» (SVF, II, fr. 48). Orbene, il «discutere» (διαλέγειν) ha a che fare sia con parole sia con nozioni o, per dirla stoicamente, con cose significanti e con significati: per conseguenza, la dialettica si occupa di entrambe le cose. Crisippo definiva la dialettica come segue: «La dialettica si riferisce al significante e al significato» (SVF, II, fr. 122).

Insomma, la dialettica stoica si divide in due grandi sezioni: una riguarda il linguaggio e la sua struttura, l’altra le forme del pensiero.

Nello studio del linguaggio gli Stoici gettarono le premesse per lo studio scientifico della grammatica: la teoria della declinazione con la determinazione dei «casi» fu, probabilmente, la loro più significativa scoperta in questo campo. È da notare che, nella sezione della dialettica concernente il linguaggio, gli Stoici inclusero anche le questioni concernenti la definizione, il genere, la specie.

Nell’altra sezione della dialettica gli Stoici si occuparono, invece, delle forme del pensiero. Questa seconda parte, dunque, oltre che dei giudizi e dei sillogismi, si occupava dei «predicati», che, secondo gli Stoici, erano i verbi: questi, appunto, erano gli «esprimibili ellittici» (o «incompleti»), come, per esempio, «scrive», «discorre», «corre».

6. La retorica. – Come sopra già abbiamo rilevato, la retorica, secondo gli Stoici, era un modo fondamentale del parlare, del λέγειν, cioè del λόγος, e, in quanto tale, faceva parte di diritto della logica. D’altra parte, è pur vero che gli Stoici attribuivano alla retorica un valore decisamente subordinato alla dialettica: infatti, la retorica era considerata la scienza che permetteva di esporre bene e chiaramente il vero, ma quest’ultimo poteva essere scoperto solo mediante la dialettica.

Come si vede, da onnipotente strumento politico di convinzione e di commozione degli animi – quale Gorgia l’aveva esaltata e Platone l’aveva bollata – la retorica divenne semplicemente l’arte del parlare con eleganza, cioè l’arte di dire in modo raffinato la verità: la dialettica esprimeva la verità in modo secco e sintetico, mentre la retorica la esponeva in maniera appropriata e ornata.

Pittore di Bruxelles. Colloquio fra due uomini. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. Museo C. Faina.

IV. La fisica nell’antica Stoa

1. Il materialismo e il corporeismo della Stoa. – La caratteristica precipua, che differenziava la fisica stoica non solo da quella del Giardino, ma, in certa misura, anche da quella di tutti i pensatori greci, era la seguente: il suo materialismo si configurava nettamente come monismo panteistico. Infatti, se alcuni dei sistemi presocratici, sotto certi aspetti, possono apparire monistici e panteistici, è solo perché noi oggi li interpretiamo facendo uso di chiarificazioni e di scoperte posteriori e li giudichiamo in funzione di categorie di cui noi non sappiamo, né possiamo, più fare a meno, ma che i Presocratici certamente non possedevano; però, tali categorie, dopo Platone e Aristotele, erano ben acquisite presso gli Stoici.

Per cominciare, è bene chiarire il senso che va dato al concetto di materialismo nell’ambito stoico: senza questa preliminare chiarificazione sfuggirebbe il senso peculiare del monismo panteistico del Portico. Gli Stoici, come gli Epicurei, negavano l’esistenza di qualsiasi realtà che fosse puramente spirituale. E, sempre come gli Epicurei, essi rivolgevano contro Platone quelle stesse armi che egli nel Sofista aveva usato per confutare quei pensatori, i quali sostenevano che non esisteva nient’altro che non fosse corpo. Infatti, Platone (Sophist. 247d sg.) aveva detto che avesse titolo per essere considerato “reale” solo ciò che fosse capace di agire e di patire e che tale fosse proprio l’essere ideale. Come gli Epicurei, ancora, anche gli Stoici predicavano che la capacità di agire e di patire appartenesse solamente alle cose corporee (cfr. SVF, I, fr. 90; II, frr. 329 e 359).

L’essere, in quanto tale, dunque, è materialità e corporeità. Sulla base di questo, si capisce come gli Stoici dovessero considerare corporea tutta quanta la realtà, senza eccezione. Corpo era il dio, corpo era l’anima, corpo era il bene, corpo era il sapere, corpi erano le passioni, i vizi e le virtù (cfr. SVF, III, fr. 84).

2. Il monismo panteistico. – Nella determinazione del concetto di «corpo» gli Stoici battevano la via opposta a quella pluralistico-atomistico-meccanicistica percorsa dagli Epicurei. Corpo era, per gli Stoici, materia e qualità (o forma), unite fra loro in maniera tale da essere strutturalmente inscindibili. La qualità-forma era considerata la causa o il principio attivo, mentre la materia costituiva il principio passivo; la prima era sempre immanente alla seconda e in nessun caso ne poteva essere separata né poteva sussistere di per sé. Questo principio che, nella concezione stoica, pervadeva la materia, la informava e la plasmava, la muoveva e la squassava tutta quanta, era, al di là dei vari nomi che assunse (mente, anima, natura, ecc.), il dio stesso (cfr. SVF, I, ffr. 85-88; 158; II, frr. 303 sgg.). La penetrazione del dio (che era inteso come corporeo) attraverso la materia e la realtà tutta (considerata corporea anch’essa) per lo Stoicismo era possibile in virtù del dogma della «commistione totale dei corpi». Respingendo la teoria epicurea degli atomi, gli Stoici ammettevano la divisibilità all’infinito dei corpi e, quindi, la possibilità che le parti dei corpi si potessero fra loro intimamente unire, così che due corpi potessero fondersi perfettamente in uno solo. È evidente che questa tesi abbia comportato l’affermazione della penetrabilità dei corpi, e, anzi, coincideva con questa: poiché il principio attivo, che è il dio, è inscindibile dalla materia, e poiché non c’è materia senza forma, il dio è in tutto ed è tutto. Il dio coincide con il cosmo.

Antonio da Correggio, Giove ed Io. Olio su tela, 1533. Wien, Kunsthistorisches Museum.

3. Lo svuotamento ontologico dell’incorporeo. – In base a quanto è stato fin qui precisato, è possibile comprendere la curiosa posizione che gli Stoici assunsero nei confronti dell’«incorporeo». Si è detto che la riduzione dell’essere a corpo comportasse, come necessaria conseguenza, la riduzione dell’in-corporeo (di ciò che è, appunto, privo di corpo) a qualcosa che fosse privo di essere. L’«incorporeo», allora, mancando appunto di corporeità, difettava di quei connotati che erano considerati distintivi dell’essere, ossia il fatto di non poter agire né patire.

Gli elementi incorporei non erano, tuttavia, il nulla e nemmeno si esaurivano nell’ambito dei λεκτά (delle «cose esprimibili»), di cui si è già detto. Infatti, è riferito che, oltre ai λεκτά, gli Stoici affermavano essere «incorporei» pure il luogo, il tempo e l’infinito (cfr. SVF, II, frr. 501-502). Questa concezione dell’«incorporeo» era tale da suscitare delle aporie, delle quali gli stessi Stoici avevano consapevolezza. Infatti, sorge spontanea la domanda: se l’«incorporeo» non ha essere, perché non è corpo, allora è non-essere? Per sfuggire a tale difficoltà gli Stoici furono costretti a negare che l’essere fosse, per così dire, il genere supremo e che fosse predicabile di qualsiasi cosa, e ad affermare che il genere più ampio di tutti fosse il «qualcosa» (cfr. SVF, II, frr. 329-332).

Naturalmente, in questo contesto, perdeva ogni senso la tavola aristotelica delle categorie, che erano considerate le supreme «divisioni» e i supremi «generi» dell’essere. Gli Stoici ridussero le categorie a due fondamentali: la sostanza intesa come sostrato materiale e la qualità intesa come la qualità che, in unione con il sostrato, determinava l’essenza delle singole cose. L’una e l’altra erano considerate materiali e corporee ed erano indisgiungibili l’una dall’altra.

Statua di Iside-Tyche-Pelagia. Marmo, I-II sec. d.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

4. Il finalismo e la Provvidenza (πρόνοια). – Contro il meccanicismo degli Epicurei, gli Stoici difesero a spada tratta un rigorosa concezione finalistica. Già Platone e Aristotele avevano formulato un’immagine nettamente teleologica del cosmo; ma gli Stoici procedettero oltre: infatti, se tutte le cose, senza eccezione, erano da intendersi come prodotte da quell’immanente principio divino, che era il λόγος, intelligenza e ragione, tutto era rigorosamente e profondamente pensato come razionale, tutto era come la ragione voleva che fosse e come non poteva volere che fosse, tutto era come dovesse essere e come era bene che fosse, e l’insieme di tutte le cose era considerato perfetto: non c’era ostacolo ontologico all’idea dell’artefice immanente, dato che la stessa materia era veicolo del dio, e così tutto ciò che esiste aveva un suo preciso significato ed è stato fatto nel migliore dei modi possibili.

In conseguenza dell’affermazione del finalismo, anche il discorso sulla Provvidenza (πρόνοια) emerse in primo piano. Nell’ambito delle filosofie presocratiche il concetto di Provvidenza era assente. Lo stesso Aristotele non l’aveva collegata alla concezione di fine. Invece, questa dottrina si ritrovava nei Memorabili di Senofonte, e si trovava congiunta alla concezione del Demiurgo nel Timeo platonico. Ma solo con gli Stoici la Provvidenza spiccò in primo piano, occupando un posto importantissimo nella loro speculazione. La Provvidenza stoica – si badi – non aveva nulla a che vedere con quella di un dio personale; essa, in ultima analisi, non era altro che quel finalismo universale che è stato già esaminato: essa esprimeva, cioè, quell’essere ogni cosa (anche la più piccola) fatta come era bene e come era meglio che fosse da parte del λόγος. E come la Provvidenza era immanente e fisica, così non c’è da stupirsi che essa provvedesse più alla specie che non all’individuo e che, quindi, non si occupasse dei singoli uomini in quanto singoli: solo una concezione della divinità e della Provvidenza come personali avrebbe potuto permettere un guadagno in questo senso (cfr. SVF, I, frr. 171-172; II, fr. 1153).

William Blake, The Ancient of Days. Olio su tela, 1794. London, British Museum.

5. Il Fato. – Senonché questa Provvidenza immanente degli Stoici, vista sotto altra prospettiva, doveva rivelarsi come «fato» e come «destino» (εἱμαρμένη), ossia come ineluttabile necessità. Gli Stoici intesero questo Fato come la serie irreversibile delle cause, come l’ordine naturale e necessario di tutte le cose, come l’indissolubile intreccio che legava tutti gli esseri, come il λόγος, secondo cui le cose avvenute sono avvenute, quelle che avvengono, avvengono, e quelle che avverranno, avverranno. E poiché tutto era fatto dipendere dal λόγος, tutto era considerato necessario, anche l’evento più insignificante. Si è, dunque, agli antipodi della visione epicurea, che con la «declinazione degli atomi» poneva ogni cosa in balìa del caso e al fortuito (cfr. SVF, I, frr. 175-176).

Su queste basi è chiaro come gli Stoici dovessero difendere la mantica: se tutto era determinato e predeterminato, con opportuna arte il futuro avrebbe potuto essere scrutato e, in qualche modo, previsto (cfr. SVF, II, fr. 1187).

Jacques Réattu, L’apoteosi di Prometeo, portato in cielo da Minerva e dal genio della libertà. Olio su tela, 1792.

6. La Necessità e la Libertà. – I detrattori dello Stoicismo ben si accorsero che nel contesto di questa concezione fatalistica non fosse possibile far posto alla libertà umana. Se ogni evento era rigidamente determinato, e perfino la caduta di un capello non poteva essere casuale, non aveva più alcun senso l’impegno morale, appunto perché l’esito dell’azione era predeterminato in ogni caso, e non aveva più alcun senso la responsabilità, perché non dall’uomo, ma dalla necessaria e immodificabile serie delle cause dipendevano, come tutte le cose, anche le azioni umane. Crisippo cercò di risolvere l’aporia, ma con ben scarso successo. Essa, infatti, era strutturalmente insolubile. Non era possibile ammettere l’εἱμαρμένη nel senso stoico e, insieme, salvare l’umana libertà: l’una, infatti, distruggeva l’altra, e viceversa, irreparabilmente.

La vera libertà del saggio stava nell’uniformare i propri voleri a quelli del Destino, stava nel volere insieme al Fato ciò che il Fato voleva. E questa era «libertà», in quanto razionale accettazione del Fato, che era razionalità: infatti, il Destino era il λόγος, e perciò volere i voleri del Destino era volere i voleri del λόγος. Libertà, dunque, era impostare la vita in totale sintonia con il λόγος.

Cleante espresse perfettamente questo concetto di «libertà» nei seguenti versi:

Guidami, o Zeus, e tu, o Fato,

dovunque io sia stato destinato,

da voi: vi seguirò senza esitare:

qualora non volessi, risulterei malvagio,

e dovrei seguirvi, non di meno.

(cfr. SVF, I, fr. 527).

Seneca avrebbe detto con lapidaria sentenza: Duncunt uolentem fata, nolentem trahunt (ad Lucil., 107, 10). È questo un punto di forza della saggezza stoica che fece grande impressione, perché insegnava che era possibile affrancarsi dal Destino comprendendone le ragioni, le leggi e, di conseguenza, sintonizzandosi con esse.

Zeus di ‘Marbury Hall’. Statua, marmo, copia romana del I sec. d.C. da originale greco del V secolo a.C. Paul Getty Museum.

7. Il cosmo e il posto dell’uomo nell’universo. – Il mondo e le cose del mondo nascono dall’unica materia-sostrato qualificata via via dall’immanente λόγος, che è, esso pure, uno, eppure capace di differenziarsi nelle infinite cose. Il λόγος è come il seme di tutte le cose, è come un seme che contiene molti semi (i λόγοι σπερματικοί, che i latini avrebbero tradotto con l’espressione rationes seminales).

Dall’originario λόγος-πῦρ si formano i quattro elementi: l’elemento fuoco, l’elemento aereo, che, riscaldato dal fuoco, com’è noto, è detto πνεῦμα (spirito); quindi, si formano l’elemento liquido e quello solido e tutto il cosmo e tutte le cose del cosmo, a opera del fuoco stesso e del πνεῦμα, che circolano in tutte le cose. Grande importanza gli Stoici attribuirono al concetto di τόνος («tensione») del fuoco, o meglio del πνεῦμα, che sarebbe una specie di forza propulsiva che va dal centro agli estremi limiti e poi ritorna al centro, assicurando così unità alle singole cose e al tutto.

Il πνεῦμα si distende per l’universo con un’intensità e una purezza differenti e, quindi, genera le varie cose on una precisa gradazione gerarchica, pur restando uno. Nascono in questo modo le cose inorganiche, in cui il πνεῦμα agisce e si manifesta come ἕξις («forza che garantisce alle cose coesione e durata»); sorgono, quindi, gli organismi vegetali in cui il πνεῦμα si comporta e si presenta come capacità di nutrirsi, di crescere e di riprodursi, cioè come φύσις («principio di crescita»); nascono, infine, gli animali, in cui il πνεῦμα si manifesta come ψυχή («principio di vita»), e quindi come sensazione e istinto e, nell’uomo, come λόγος (cfr. SVF, II, frr. 458-462; 714-716).

Piante e animali della terra sono in funzione dell’uomo: per l’uomo è stato creato tutto ciò che sta nel mondo sublunare. Ben si comprende, quindi, la definizione data dagli Stoici: l’universo è il sistema costituito dagli dèi e dagli uomini e dalle cose create per loro.

Giovanni Lanfranco, Providentia. Incisione su rame, 1600-1625 c. Universitätsbibliothek Salzburg.

8. La conflagrazione universale e l’eterno ritorno. – Ma c’è ancora un punto essenziale concernente la cosmologia degli Stoici da illustrare. Come i Presocratici, anche gli Stoici ritenevano il mondo generato e, quindi, corruttibile (ciò che nasce, deve, a un certo momento, morire). Del resto, era l’esperienza stessa che diceva loro che, così come esisteva un fuoco creatore, esisteva anche un fuoco, o un aspetto del fuoco, che bruciava, inceneriva e distruggeva tutto. E, in ogni caso, era impensabile che le singole cose del mondo fossero soggette a corruzione e non il mondo che di esse era costituito. La conclusione era, perciò, obbligata: il fuoco a misura aveva creato e a misura avrebbe distrutto: di conseguenza, al fatidico compimento dei tempi, si sarebbe verificata una conflagrazione universale, ossia una generale combustione del cosmo (ἐκπύρωσις), che sarebbe stata anche una sorta di universale purificazione, e ci sarebbe stato solamente fuoco. A ciò avrebbe fatto seguito una nuova rinascita (παλιγγενεσία) e tutto si sarebbe ricostituito esattamente come prima (ἀποκατάστασις). Sarebbe rinato il cosmo, questo medesimo cosmo, il quale per l’eternità avrebbe continuato a essere distrutto e ad autorigenerarsi non solo nella sua struttura complessiva, ma anche negli accadimenti particolari (l’eterno ritorno); sarebbe rinato ciascun uomo sulla Terra e sarebbe stato tale quale fu nella precedente vita (cfr. SVF, II, frr. 585-625).

Andreas Cellarius, Orbita dei pianeti e delle costellazioni intorno alla terra. Illustrazione, 1660. Gorizia, P.zzo Coronini Cronberg.

9. L’uomo. – Nell’ambito del mondo, come si è visto, l’uomo occupava una posizione preminente: questo privilegio derivava, in ultima analisi, dal fatto di essere più di ogni altro ente partecipe del λόγος divino. Gli Stoici ritenevano che l’uomo fosse, infatti, costituito oltre che dal corpo anche dall’anima, la quale era intesa come un frammento di quella cosmica e, dunque, un frammento del dio, giacché l’anima universale non era altro che il dio medesimo (cfr. SVF, II, fr. 633).

Naturalmente, nel contesto dell’ontologia stoica, l’anima (ψυχή) non era sostanza immateriale, ma corporeità, sia pure corpo privilegiato, ossia πῦρ o πνεῦμα. Essa permeava tutto intero l’organismo fisico, vivificandolo; il fatto che essa fosse materiale non era d’impedimento, giacché gli Stoici ammettevano la penetrabilità dei corpi. Proprio in quanto permeava tutto l’organismo umano e presiedeva alle sue funzioni essenziali, l’anima era distinta dagli Stoici in otto parti: una centrale, chiamata egemonico, cioè la parte che dirigeva e che coincideva essenzialmente con la ragione; cinque parti costituenti i cinque sensi; una parte che presiedeva alla fonazione e, infine, quella che era preposta alla generazione. Oltre alle otto parti gli Stoici distinsero, in una medesima parte, differenti funzioni: così l’egemonico o parte principale dell’anima aveva in sé la capacità di percepire, di assentire, di appetire, di ragionare.

La morte era considerata la separazione dell’anima dal corpo, ma non in senso metafisico, quale pensava Platone; bensì una separazione fisica, come già per gli Epicurei. Ma mentre questi ultimi sostenevano che l’anima, separandosi dal corpo, si disperdeva subito, gli Stoici credevano a una sopravvivenza di essa (cfr. SVF, I, frr. 126 sgg.).

Il padre, particolare del sarcofago di M. Cecilio Stazio con scena di vita infantile. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

10. I destini dell’anima. – La posizione che gli Stoici assunsero nei confronti della sopravvivenza dell’anima era a mezza strada fra quella di Platone e quella di Epicuro. L’anima avrebbe perdurato dopo la morte, ma fino a quando? Il terminus a quem ultimo era dato dal momento della conflagrazione universale. Ma sua questo punto i filosofi del Portico si dividevano: alcuni, come Cleante, pensavano che tutte le anime indistintamente durassero fino al momento della conflagrazione universale; altri invece, come Crisippo, ritenevano che solo le anime dei saggi avessero il privilegio di una così lunga durata.

Il luogo destinato alle anime, che avrebbero assunto una forma sferica, sembra che fosse quello situato sotto la Luna. Esse avrebbero mantenuto le loro facoltà conoscitive, avrebbero avuto un certo ruolo nella divinazione e nei sogni e le migliori di esse avrebbero dato origine ai cosiddetti «Eroi» (cfr. SVF, II, frr. 810-822).

Ma anche quando, al sopraggiungere dell’anno cosmico, le anime fossero state assorbite nell’anima universale e nel fuoco eterno, non sarebbero scomparse se non in senso relativo: infatti, grazie alla palingenesi, ogni anima, così come ogni altra cosa, sarebbe tornata a ricostituirsi, all’infinito; e, in questo senso, l’esistenza di ciascun’anima e di ciascun uomo avrebbe ripreso in eterno.

Roberto Ferri, Nel sangue e nell’anima (2013).

V. L’etica dell’antica Stoa[7]

1. Il λόγος come fondamento dell’etica. – La parte più significativa e più viva della filosofia del Portico non era tuttavia l’originale e audace fisica, bensì l’etica: infatti, fu con il loro messaggio etico che gli Stoici, per oltre mezzo millennio, seppero dire agli uomini una parola veramente efficace, che fu sentita come particolarmente illuminante circa il senso della vita, come profondamente consolatrice dei mali dell’umanità, come liberatrice dalle illusioni.

Anche per gli Stoici, così come per gli Epicurei, lo scopo ultimo del vivere era il raggiungimento della felicità. E l’etica appunto avrebbe dovuto determinare in che cosa esattamente consistesse la felicità e quali fossero i mezzi appropriati per conseguirla; anzi, proprio come per gli Epicurei, la soluzione di questo problema costituiva non già – come per i sistemi classici – lo scopo di un settore della filosofia, ma lo scopo unico di tutte le sue parti.

Anche per gli Stoici, ancora come per gli Epicurei, l’impostazione e la soluzione dei problemi etici erano perseguite al di fuori degli schemi ellenici più collaudati, in funzione di nuovi parametri desunti da una nuova interpretazione della φύσις. Anche il motto degli Stoici era: «Vivere conformemente alla natura», o «Vivere secondo i dettami della natura» (SVF, II, frr. 2-19), dove per «natura» è da intendersi sia la φύσις universale, sia la φύσις dell’uomo, la quale della φύσις universale è un momento e una parte.

Ma il disaccordo con gli Epicurei si manifesta, e in modo assai marcato, non appena si passa alla determinazione specifica di questa natura. Impossibile, per gli Stoici, ammettere che l’istinto fondamentale dell’uomo fosse il sentimento del piacere insieme al suo contrario (il sentimento del dolore): se così fosse, l’uomo e l’animale sarebbero sul medesimo piano e non si differenzierebbero. Un’obiettiva considerazione sulla natura umana mostra che la sua peculiarità consiste proprio nell’essere dotato di ragione, la cui portata va ben oltre il calcolo dei piaceri. La differente visione metafisica dell’uomo, che dava all’anima razionale e al λόγος dell’uomo un rilievo ontologico nettamente superiore che nell’Epicureismo (il λόγος umano era un frammento e un momento di quello divino), permise a Zenone e ai suoi seguaci di dare alla caratteristica che differenzia l’uomo da tutte le altre cose uno spessore ontologico più consistente (cfr. SVF, III, frr. 11; 200).

Dunque, la φύσις caratteristica dell’uomo è il λόγος (la «ragione»), e come lo scopo di ogni essere è quello di attuare la propria φύσις, così il fine ultimo dell’uomo sarà quello di attuare appunto la ragione; e, per conseguenza, sulla base dei modi e delle maniere in cui la ragione si attua perfettamente si deducevano tutte le norme della condotta morale.

Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.

2. Il primo istinto. – Ma ritorniamo un passo indietro e vediamo meglio come nella sfera della φύσις generale era collocata esattamente la φύσις particolare dell’uomo: se osserviamo l’essere vivente, noi costatiamo, in generale, che esso è caratterizzato dalla costante tendenza a conservare se medesimo, ad appropriarsi del proprio essere e di tutto quanto sia atto a conservarlo e a evitare ciò che gli è contrario, a conciliarsi con se stesso e con le cose che sono conformi alla propria essenza. Questa caratteristica degli esseri viventi era indicata dagli Stoici con il termine οἰκείωσις (appropriazione, attrazione = conciliatio). Dalla οἰκείωσις, appunto, doveva muovere la deduzione del principio dell’etica. Nelle piante e nei vegetali in genere questa tendenza era considerata del tutto inconsapevole, negli animali essa era consegnata a un preciso istinto o impulso primigenio, mentre nell’uomo questo impulso era ulteriormente specificato e sorretto dall’intervento della ragione. Ecco dunque come si determinava il senso della formula di cui si è detto al precedente paragrafo (vd. infra §). Vivere conformemente alla natura significava vivere realizzando pienamente questa appropriazione o conciliazione del proprio essere e di ciò che lo conservava e lo attuava, e poiché l’uomo non è semplicemente essere vivente, ma è essere razionale, il vivere secondo natura doveva essere un vivere “conciliandosi” con il proprio essere razionale, conservandolo e attuandolo pienamente (cfr. SVF, I, frr. 197 sg.; 178 sgg.).

Theodoor Galle, Il filosofo Cleante. Incisione dall’edizione di J. Moretus della L. Annaei Senecae philosophi Opera, quae exstant omnia, a Iusto Lipsio emendata, et scholijs illustrata (Amberes 1605).

3. Il principio delle valutazioni: i beni, i mali e gli indifferenti. – Se il piacere non è qualcosa di originario, ma è solo un fenomeno concomitante, non è possibile fondarsi su di esso per valutare ciò che è bene e ciò che è male, ma bisogna risalire a ciò che è originario e primo. E poiché primi e originari sono l’istinto della conservazione e la tendenza all’incremento dell’essere, ecco trovato il principio della valutazione: “bene” è ciò che conserva e incrementa il nostro essere; “male”, invece, è ciò che lo danneggia e lo diminuisce. Al primo istinto era, dunque, strutturalmente connessa la tendenza a valutare, nel senso che tutte le cose, commisurate al primo istinto, a secondo che risultassero giovevoli o dannose, erano considerate beni oppure mali. Il bene, dunque, era identificato con il giovevole e l’utile; il male con il nocivo. Ma si badi: poiché gli Stoici insistevano nel differenziare l’uomo da tutte le altre cose, mostrando come esso fosse determinato non solo dalla sua natura propriamente animale, ma soprattutto dalla natura razionale – cioè dal privilegiato manifestarsi in lui del λόγος – così il principio delle valutazioni avrebbe assunto due differenti valenze, a seconda che fosse riferito alla φύσις puramente animale, oppure a quella razionale. Altro, infatti, sarebbe ciò che giova alla conservazione e all’incremento della vita animale e ciò che favorisce la conservazione e l’incremento della vita razionale e del λόγος.

Risulta necessaria, di conseguenza, una differenziazione gerarchica dei beni, a seconda che essi siano di giovamento e di incremento alla ragione, oppure semplicemente alla vita animale. A dire il vero, in questa distinzione gli Stoici si spinsero a un tale punto di rigore e di intransigenza da considerare veri e autentici beni esclusivamente quelli che incrementavano il λόγος e veri e autentici mali esclusivamente quelli che erano in contrasto con la φύσις razionale. E viceversa, solo ciò che appariva contrario a questi beni, di conseguenza, era ritenuto il vero male, perché rendeva l’uomo come non doveva essere, cioè «cattivo», «vizioso». Tutto questo si riassumeva nel celebre principio stoico: bene è solo la virtù, male è solo il vizio.

E ciò che giova al corpo e alla nostra natura biologica come era considerato? E il contrario di questo come poteva essere dominato? La tendenza di fondo dello Stoicismo era quella di negare a tutte queste cose la qualifica di “beni” e di “mali”, appunto perché – come si è visto – bene e male erano solo ciò che giovava e solo ciò che nuoceva al λόγος; pertanto, solo il bene e solo il male morale. Di conseguenza, tutte quelle cose che sono relative al corpo, sia che nuocciano sia che non nuocciano, erano considerate «indifferenti» (ἀδιάφορα), o meglio moralmente indifferenti. Fra queste cose erano collocate sia quelle fisicamente e biologicamente positive (vita, salute, bellezza, ricchezza, ecc.) sia quelle fisicamente e biologicamente negative (morte, malattia, bruttezza, povertà, ecc.) [cfr. SVF, III, fr. 117).

Questo nettissimo distacco operato fra beni e mali, da un lato, e indifferenti, dall’altro, era indubbiamente una delle note caratteristiche più tipiche dell’etica stoica e già nell’Antichità fu oggetto di enorme stupore, di vivaci consensi e dissensi e suscitò molteplici discussioni fra gli avversari e perfino fra i seguaci stessi della filosofia del Portico.

Ritratto immaginario del filosofo Cleante di Asso. Incisione dall’Illustrium philosophorum et sapientum effigies ab eorum numistatibus extractae di G. Olgiati (1580; 1583)

4. I valori relativi, i «preferibili» e i «non preferibili». – La legge generale della οἰκείωσις implicava che, dal momento che era un istinto di tutti gli esseri quello di conservare se medesimi e poiché proprio questo istinto era fonte delle valutazioni, si dovesse riconoscere come positivo tutto ciò che li conservasse e li incrementasse, anche al semplice livello fisico e biologico. E così, non solo per gli animali, ma altresì per gli uomini, si doveva ammettere come positivo tutto ciò che fosse conforme alla natura fisica e che garantisse, conservasse e incrementasse la vita, come la salute, la forza, la vigoria del corpo e delle membra, e così via. Questo elemento positivo secondo natura era chiamato dagli Stoici valore (o stima), mentre l’opposto negativo era detto mancanza di valore.

Pertanto, quegli elementi «intermedi» fra  i beni e i mali cessavano di essere del tutto «indifferenti»; o meglio, pur restando moralmente indifferenti, diventavano, dal punto di vista fisico, «valori» o «disvalori».

In altre parole, le cose che stavano fra beni e mali morali erano, alcune valori, altre disvalori: alcune valori in maggiore o minore grado, altre disvalori in maggiore o minore grado. Ne conseguiva che, da parte della nostra natura animale, le prime dovevano essere oggetto di «preferenza», le seconde di «avversione». Di qui una seconda distinzione, strettamente dipendente alla prima: fra indifferenti «preferiti» e indifferenti «respinti» (cfr. SVF, I, frr. 191-192).

Queste differenziazioni corrispondevano non solo a un’esigenza di attenuare realisticamente la dicotomia troppo netta fra beni e mali e indifferenti, di per sé paradossale, ma trovavano nei presupposti del sistema una giustificazione addirittura maggiore che non la sopraddetta diversificazione. Perciò, ben si capisce come il tentativo di Aristone e di Erillo di sostenere l’assoluta ἀδιαφορία («indifferenza») delle cose che non sono beni né mali abbia trovato una netta opposizione in Crisippo, che difese la posizione di Zenone e la consacrò in via definitiva.

Liva Drusilla nelle vesti di Ops, con covone e cornucopia. Statua, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

5. Virtù e felicità. – Chi ha seguito fin qui avrà sicuramente notato come anche negli Stoici, non meno che in Platone e in Aristotele, acquisti perfetta espressione quella concezione dell’ἀρετή («virtù»), che noi sappiamo essere una delle costanti tipiche del pensiero morale greco, fin dalle sue origini. La virtù umana è la perfezione di ciò che è peculiare e caratteristico dell’essere umano; e poiché caratteristica dell’essere umano è la ragione, la virtù è la perfezione della ragione. Pertanto, il «vivere secondo natura», che si è visto essere precetto basilare dell’etica stoica, coincide esattamente con il «vivere secondo ragione» e, quindi, con il «vivere secondo virtù»; e poiché la virtù è l’espressione e l’attuazione perfetta della natura umana, essa è eo ipso felicità: infatti, la vita beata (εὐδαιμονία) altro non è che questo pieno e perfetto realizzarsi della φύσις umana.

Sulla base di queste premesse, è evidente come gli Stoici dovessero combattere sia la tesi epicurea che subordinava la virtù al piacere come un mezzo per ottenere un fine, sia la concezione escatologica che legava la virtù a un premio ultraterreno: come perfezione della φύσις umana la virtù valeva per se medesima, non produceva la felicità come qualcos’altro da sé (fosse questa piacere o premio ultraterreno), ma era essa stessa la felicità e, dunque, andava desiderata, cercata, amata e coltivata in sé e per sé (SVF, III, fr. 54).

Così lo Stoico è reso dalla virtù perfettamente autosufficiente: non ha bisogno di piaceri, che non sono perfezionamenti della sua natura di uomo, ma solo fenomeni passeggeri e, in ogni caso, non interamente in suo potere; non ha bisogno nemmeno di una vita futura che aggiunga qualcosa a quella perfezione che già possiede con la virtù; non teme di perderla per opera altrui, perché nessuno gliela può strappare di dosso, essendo essa ontologicamente radicata nella sua natura; con la virtù, insomma, l’uomo tocca un vertice di assolutezza, in cui si sente uguale agli dèi: «Per nulla la felicità di Zeus è preferibile né più bella né più pregevole di quella dei sapienti».

Crisippo. Busto, marmo, copia romana da originale ellenistico di fine III sec. a.C. London, British Museum.

6. Identità della virtù in tutti gli esseri razionali. – La riduzione della virtù a perfezione del λόγος e, quindi, a scienza conteneva in sé una conseguenza che, fondamentalmente, né Socrate, né Platone e nemmeno Aristotele ebbero il coraggio di trarre, o che trassero in maniera incompleta, perché condizionati dalle convinzioni sociali del loro tempo e, in particolari, dai valori della πόλις («città-stato»). Alludiamo all’affermazione dell’identità assoluta della virtù negli uomini, a qualunque ceto, sesso e condizione appartenessero – perfino gli schiavi –, che espressamente e ripetutamente gli Stoici ribadirono. Già Epicuro aveva accolto nel suo Giardino uomini di varia estrazione sociale, donne e perfino le ἑταῖραι («etère»). La caduta delle strutture poliadiche, le quali, in passato, per gli stessi filosofi avevano costituito quasi categorie del pensare politico, spesso sovrapponendosi ai loro stessi principi metafisici, rendeva ormai possibile una coerenza di pensiero morale, che, per le ragioni addotte, era mancata nei filosofi dell’età classica.

In verità, Epicuro mantenne qualche riserva e manifestò certe reticenze. Gli Stoici, invece, furono più decisi dal punto di vista dottrinale: riferendosi al pensiero già proprio degli Stoici antichi, infatti, Seneca scrisse: «La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi e liberti e schiavi e re ed esuli; non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell’uomo nudo»[8].

E un’ulteriore conseguenza, a questa strettamente connessa, gli Stoici dedussero dalla riduzione della virtù a scienza e a saggezza: non solo è uguale la virtù in tutti gli uomini, ma è uguale altresì la virtù degli uomini e quella degli dèi. Tale affermazione fece enorme impressione agli antichi e fu giudicata come smodata ed empia, ma era coerente con i principi stoici.

Johannes Moreelse, Eraclito. Olio su tela, 1630 c.

7. L’azione retta (κατόρθωμα). – Gli Stoici non si limitarono alle considerazioni generali circa l’essenza della virtù e del vizio, ma scesero, spinti dal loro accentuato interesse etico, a un attento esame della condotta morale, delle azioni di cui essa era costituita e dalle differenti valenze morali che le azioni umane potevano avere, creando così concetti nuovi e originali. Chi possiede la virtù, cioè il λόγος armonizzato in modo perfetto, non può se non compiere «azioni perfette», ossia azioni che corrispondono in tutto e per tutto alle istanze del λόγος perfetto. Ciò vuol dire che le azioni portano con sé necessariamente la carica di perfezione della fonte da cui derivano. Insomma: la virtù, quando sia posseduta, si riverbera su tutte le azioni e su tutti gli atteggiamenti morali e si manifesta perfino nell’inconscio.

Tenendo presente questo, è agevole comprendere che cosa sia quello che gli Stoici denominavano κατόρθωμα («azione retta», «azione perfetta», «azione virtuosa»): era quell’azione che si radicava nella virtù e che, quindi, conteneva «tutte le caratteristiche della virtù» medesima (SVF, III, fr. 11); si chiamava in questo modo, perché derivava da un ὀρθός λόγος: era azione perfetta, perché ispirata e sorretta da un λόγος perfetto.

Da queste dottrine gli Stoici trassero le seguenti conseguenze:

  • Non si deve giudicare se un’azione sia retta o meno (cioè se sia o no un κατόρθωμα) dal suo esito e dal raggiungimento del risultato che si era proposta, ma la si deve valutare dal suo punto di partenza.
  • Non si può giudicare se un’azione sia retta o no (se sia, cioè, un κατόρθωμα o meno) dai suoi tratti estrinseci: un’azione può benissimo assomigliare esteriormente a un κατόρθωμα, ma non esserlo affatto, se manca la giusta disposizione, se non c’è il sostegno dell’ὀρθός λόγος. Un saggio e uno stolto potranno fare la stessa cosa, ma la loro azione risulterà uguale solo esteriormente, e sarà, invece, diversissima intrinsecamente: κατόρθωμα sarà la prima e solo la prima, come risulta necessariamente da quanto si è spiegato al punto precedente, e mai potrà esserlo la seconda.
  • Poiché l’«azione retta» è prodotta dalla virtù, cioè dalla saggezza, ne consegue che nessuno stolto potrebbe mai compiere azioni rette, ovvero che, per compierne, dovrebbe prima diventare saggio. Il che significa, però, che i più non avranno mai la possibilità di compiere azioni rette (κατορθώματα), perché i più non sono saggi.
Guerriero, detto Vulneratus deficiens (o ‘Il Gladiatore Farnese’). Statua, marmo bianco, copia romana del 190 d.C. c. da originale greco del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

8. Il dovere (καθῆκον). – Le azioni umane non si possono, però, distinguere con un taglio netto fra «azioni rette o virtuose» (κατορθώματα) e quelle contrarie, cioè le «azioni viziose» o «errori» (ἁμαρτήματα): infatti, fra le prime e le seconde si colloca tutta una fascia di azioni intermedie, che gli Stoici hanno cercato di determinare con precisione. Già si è visto come fra i beni e i mali (morali) gli Stoici ponessero una serie di «indifferenti» (ἀδιάφορα), che avevano un certo loro valore, o un certo loro disvalore, se non morale, almeno naturale, e che quindi risultavano «preferiti» o «respinti». Analogamente, fra «azioni virtuose» e «azioni viziose», che riguardano propriamente l’aspetto spirituale e morale dell’individuo, gli Stoici ammettevano azioni dotate di un valore relativo o di un disvalore relativo. Si tratta di tutte quelle azioni che riguardano soprattutto la componente naturale e fisica dell’uomo, dalla quale non è possibile prescindere. Quando queste azioni siano compiute conformemente a natura – cioè, in modo razionalmente corretto – hanno una piena giustificazione razionale e, quindi, sono dette «azioni convenienti», o «doveri» (καθήκοντα).

In verità, è da rilevare che la traduzione di καθῆκον con «dovere» forza in senso moderno il pensiero stoico; alla lettera bisognerebbe tradurre con «ciò che è conveniente»: in questo modo, si capirebbe meglio come Zenone abbia attribuito dei «convenienti» anche agli animali e alle piante; anche questi, infatti, per esistere, devono rispettare determinate condizioni, conformarsi a certe esigenze della natura. Ma è chiaro come specialmente per l’uomo si possa e si debba parlare di «azioni convenienti», o di «doveri»: il paragone con gli animali e con le piante serve solo a mostrare come il καθῆκον sia legato alla natura biologica e fisica dell’uomo, a differenza della virtù e dell’atto virtuoso, che riguardano, invece, l’aspetto propriamente morale e spirituale dell’individuo. È chiaro che le azioni del soggetto comune, le quali non possono mai rientrare nella sfera delle azioni moralmente perfette (κατορθώματα), rientrano a pieno diritto in questo ambito. La condotta dell’uomo medio, dunque, ha essa stessa dei parametri per essere intesa e detiene un punto di tangenza, benché parziale, con la condotta del saggio. Naturalmente, come esistono comportamenti che hanno valore di «doveri» (καθήκοντα), così ci sono azioni che recano l’opposto segno del disvalore e, cioè, sono sconvenienti, e, infine, ce ne sono alcune assolutamente indifferenti (cfr. SVF, III, frr. 493-498).

I comandi e i precetti delle leggi sono, per la massa degli uomini, καθήκοντα, e da questi è regolata tutta l’esistenza delle persone comuni. Questo concetto di καθῆκον fu sostanzialmente una creazione stoica. I Romani, che lo resero poi con il termine di officium, avrebbero contribuito, con la loro sensibilità pratico-giuridica, a stagliare più nettamente i contorni di questa figura concettuale, che noi moderni chiamiamo «dovere».

Salvator Rosa, Paesaggio fluviale con Apollo e la Sibilla Cumana (1655).

9. Legge eterna e diritto di natura. – La legge umana non è altro che l’espressione di una legge naturale eterna, che nasce dal λόγος stesso, il quale plasma tutte le cose e, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male; insomma, impone obblighi e divieti. E il modo in cui si è visto gli Stoici dedurre bene e male morale mostra chiaramente come, in concreti, essi concepissero la φύσις e il λόγος, oltre che in dimensione ontologica, anche in senso deontologico. Dunque, la legge deriva dal Λόγος stesso che regge l’universo; peraltro, il diritto «è dato da natura» e il diritto positivo umano non è altro se non l’esplicazione di questo diritto naturale. Legge e natura, con gli Stoici, tornarono a riconciliarsi in modo perfetto: il νόμος non era più mera convenzione e opinione in contrasto con la φύσις, ma diventava la traduzione e l’interpretazione corretta delle istanze della φύσις medesima (SVF, III, fr. 308).

Centauro con Eros. Statua, marmo, copia romana di I-II sec. d.C. da originale ellenistico. Paris, Musée du Louvre.

10. Cosmopolitismo. – Per gli Stoici, l’uomo è spinto dalla natura a conservare il proprio essere e ad amare se stesso. Eppure, questo istinto primordiale non è finalizzato solo alla conservazione dell’individuo: l’uomo, infatti, estende immediatamente l’οἰκείωσις ai suoi discendenti e ai suoi simili. Insomma, è la natura stessa che, come impone di amare sé, così stabilisce di amare chi abbiamo generato e chi ci ha generati; ed è la natura che ci spinge a unirci agli altri e a giovare agli altri. Da essere che vive nel chiuso della sua individualità, come voleva Epicuro, l’uomo torna a essere «animale comunitario» (ζῷον κοινωνικόν). E la formula nuova dimostra che non si tratta di una semplice ripresa del pensiero aristotelico, che voleva l’uomo «animale politico» (ζῷον πολιτικόν): l’uomo, più ancora che essere fatto per associarsi in una πόλις, è fatto per potersi associare con tutti gli uomini. Su queste basi, gli Stoici non potevano essere se non fautori di un ideale fortemente cosmopolitico.

Sempre sulla base della loro concezione di φύσις e di λόγος, gli Stoici seppero mettere in crisi, più degli altri filosofi, gli antichi miti della nobiltà del sangue e della superiorità etnica, nonché le catene della schiavitù. La nobiltà era definita «scorza e raschiatura dell’uguaglianza» (SVF, III, fr. 350); tutti i popoli erano dichiarati capaci di giungere alla virtù; l’uomo era proclamato libero: infatti, «nessun uomo è per natura schiavo» (SVF, III, fr. 352). I nuovi concetti di nobiltà, libertà e schiavitù erano collegati alla saggezza e all’ignoranza: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

11. Le passioni e l’apatia. – Per gli Stoici, le passioni, insieme alle loro cause e ai loro effetti, erano la fonte di ogni infelicità. Pertanto, è ben comprensibile come nel Portico si discutesse in modo approfondito di esse e come si dedicassero loro specifici studi; si trattava, in effetti, di spiegare quel fenomeno importantissimo della vita morale, per cui la ragione era obnubilata, accecata e perfino travolta da moti irrazionali insiti nell’individuo.

Le passioni non erano considerate l’effetto del puro irrazionale, cioè di quanto nell’uomo vi fosse di animalesco e, in ogni caso, di non riconducibile al λόγος. Era possibile dire, dunque, che le passioni sorgessero a causa e in conseguenza di un giudizio erroneo; oppure era possibile addirittura identificare la passione con lo stesso giudizio erroneo. Ambedue queste tesi furono sostenute nella Stoa: Zenone e molti suoi discepoli sostennero la prima, mentre Crisippo, per esempio, la seconda con notevole insistenza.

Siccome le passioni erano connesse al λόγος, in quanto suoi «errori» (ἁμαρτήματα), è chiaro che non aveva senso, per gli Stoici, il moderare o il circoscrivere le passioni: come già Zenone diceva, esse dovevano essere distrutte, estirpate, sradicate totalmente. Il saggio, curando il proprio λόγος e facendolo essere il più possibile retto, non avrebbe lasciato neppure nascere nel suo cuore il germe delle passioni, o le avrebbe annientate al loro stesso insorgere. È, questa, la celebre apatia stoica, cioè la distruzione delle passioni – considerate sempre e soltanto turbamenti dell’animo. La felicità era, dunque, apatia, impassibilità (cfr. SVF, I, frr. 205 sgg.).

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

12. L’ideale del saggio. – In una concezione della filosofia intesa come problema della vita quale fu formulata in età ellenistica, ebbe grandissima importanza la caratterizzazione dell’uomo perfetto, ossia dell’individuo che viveva in totale sintonia con il λόγος; in altre parole, il «saggio» (σοφός), che costituì il paradigma ideale cui ciascuno doveva ispirarsi. Basterebbe dire che il saggio è cinto dalla corona di tutte le virtù, per dirla in breve. Ma gli Stoici non cessarono di aggiungere epiteti per caratterizzare ulteriormente la loro figura del saggio, dando fondo a tutta una aggettivazione che denotava qualità positive: il saggio non sbaglia mai, perché non ha opinione, ma scienza; il saggio fa bene tutto quel che fa, perché lo fa con ὀρθός λόγος, con lo spirito giusto; il saggio è grande, grosso, alto e forte, invitto e invincibile; inoltre, il saggio è ricco, nobile e bello: ricco anche se mendico, nobile anche se servo, bello anche se fisicamente brutto, perché ha la sua ricchezza, nobiltà e bellezza nel λόγος; il saggio è libero, perché vuole tutto ciò è necessario; sopporta e accetta tutto quanto è stabilito dal Fato; il saggio basta a se stesso, perché nel λόγος ha tutto ciò che gli occorre; nulla può turbare il saggio, perché la corazza del λόγος da tutto lo protegge e, come il saggio epicureo, così il saggio stoico anche fra le torture e i patimenti può essere felice, giacché con il λόγος trascende il dolore e lo annulla. Nella sua pace interiore egli è come Zeus (cfr. SVF, III, frr. 544-656).

Giotto di Bondone, Stoltezza. Affresco, 1306. Padova, Cappella degli Scrovegni.

Ma per quanto esaltante possa essere questa descrizione, cionondimeno emergono da più di un lato aspetti negativi: intanto l’ideale del saggio non ammette alcuna via di mezzo (o si è saggi o si è stolti e tertium non datur); e fra gli stolti non esiste gradazione gerarchica. Si annega sia in pochi centimetri di acqua sia nelle profondità oceaniche: la profondità dell’acqua non conta, perché si annega comunque; così non conta che chi è stolto lo sia poco o molto: la quantità maggiore o minore è insignificante rispetto alla qualità. Di conseguenza, anche le colpe sono tutte egualmente gravi, perché egualmente negativo è lo spirito da cui esse scaturiscono. Perciò, fra stolti e saggi c’è assoluta incommensurabilità. Ma l’apatia che cinge lo Stoico è veramente raggelante e, al limite, inumana: poiché pietà, compassione e misericordia sono passioni, lo Stoico le estirperà.

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  • III: Chrysippi Fragmenta moralia, Fragmenta successorum Chrysippi, Lipsiae 1903 [= 19642] online;
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Note:

[1] Cfr. BALTZLY D., s.v. Stoicism, in ZALTA E.N. (ed.), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford 1996 [= 2018, online]; RUBARTH S., s.v. Stoic Philosophy of Mind, in Internet Encyclopedia of Philosophy. Si vd. anche la v. Stoicismo, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].

[2] «Zenone, figlio di Mnasea, nacque a Cizio in Cipro, città greca che aveva avuto coloni fenici» (Diogene Laerzio, VII, 1), intorno al 333/332 a.C. Non c’è ormai dubbio che, come il Pohlenz ha dimostrato (Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, traduzione italiana, Firenze 1967, pp. 26 sg.;), Zenone sia stato di sangue semitico. Si trasferì ad Atene all’età di ventidue anni, non già in seguito  un casuale naufragio (alla versione del naufragio Diogene stesso, che la riferisce [VII, 2], contrappone opposte versioni [VII, 5]), ma per una precisa scelta spirituale. Per quanto concerne i rapporti che egli ebbe con i filosofi che insegnavano allora ad Atene e la fondazione della Stoa, diremo più avanti. Delle sue opere, tutte per noi perdute, Diogene fornisce un elenco abbastanza nutrito (VII, 4). Zenone morì nel 262 a.C. Il suo insegnamento gli merita grande stima e rispetto, a motivo dell’elevato senso morale. La sua rettitudine e morigeratezza divennero proverbiali. Malgrado fosse straniero, gli Ateniesi gli conferirono grande onore: «Depositarono nelle sue mani le chiavi delle mura della città, gli tributarono una corona d’oro e gli elevarono una statua di bronzo» (Diogene Laerzio, VII, 6). Cfr. ALESSANDRELLI M., Nel laboratorio di Zenone. Platone e la dottrina stoica della conoscenza, Chaos&Kosmos VII (2006), pp. 18-32 [online]. Si vd. anche VON FRITZ K., s.v. Zenon 2, RE X A (1972), coll. 83-121, e la v. Zenone di Cizio, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].

[3] Cfr. la v. Cratete di Tebe, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it], e la v. Antistene di Atene, ibid. [Treccani.it].

[4] Cleante, nativo di Asso, nella Troade, dopo essere stato membro della Stoa per quasi un ventennio, successe a Zenone nella direzione del Portico nel 262 a.C. e capeggiò la Scuola per un trentennio. Morì intorno al 231 a.C. circa. Prima di diventare seguace di Zenone, fece il pugile (Diogene Laerzio, VII, 168 [ = von Arnim, S.V.F., 1, fr. 463, p. 103, 2]). Conosciuto il suo futuro maestro, si appassionò alla filosofia, per coltivare la quale non esitò, essendo povero, a sottoporsi a duri e umili lavori notturni, irrigando orti e impastando farina per una venditrice (Diogene Laerzio, ibidem). La libertà di discussione che Zenone aveva lasciato ai discepoli, a differenza di Epicuro, produsse nella Scuola notevoli scosse e quindi una crisi, che Cleante non riuscì perfettamente a dominare, mancandogli la genialità del maestro e l’acutezza e l’abilità di Crisippo. Diogene tramanda che «lasciò bellissimi libri», elencandone una cinquantina di titoli (VII, 174 sgg.). Cfr. DÖRRIE H., s.v. Kleanthes, in RE, Suppl. XII (1970), coll. 1705-1709,  e CALOGERO G., s.v. Cleante, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; per una bibliografia su Cleante, si vd. A Hellenistic Biography [sites.google.it].

[5] Crisippo nacque a Soli, in Cilicia, tra il 281 e il 277 a.C. e morì fra il 208 e il 204 a.C., come si ricava da Diogene Laerzio, VII, 184 = von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 16 sg., che attinge da Apollodoro. Come ha evidenziato il Pohlenz (La Stoa, I, pp. 39 sg.), Crisippo dovette essere di origine semitica, come si desume dai tratti del volto, dal fatto che imparò il greco ormai già adulto e che commetteva errori di lingua (cfr. von Arnim, S.V.F., II, frr. 24 e 894). Fu discepolo di Cleante, dopo essere stato per un certo periodo nell’Accademia e aver ascoltato le lezioni di Arcesilao e Lacide (Diogene Laerzio, VII, 183 [= von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 8 sg.]), dai quali apprese l’arte dialettica, per cui aveva spiccate capacità: «Acquistò tale rinomanza nella dialettica – riferisce sempre Diogene Laerzio, VII, 180 [= von Arnim, ibid., II, fr. 1, p. 1, 12 sg.] – che i più credevano che se gli dèi avessero avuto bisogno della dialettica, non altra dialettica che quella di Crisippo avrebbero adottato». E in virtù di queste eccezionali abilità, egli poteva dire al maestro Cleante che gli «occorreva soltanto l’insegnamento della dottrina [della Stoa], ché avrebbe trovato da solo le dimostrazioni» (VII, 179). Malgrado alcuni dissensi con Cleante riguardanti la dottrina, la coscienza della propria superiorità e il notevole successo delle proprie lezioni, Crisippo restò fedele al maestro e alla Scuola, e alla morte di Cleante divenne direttore della Stoa. Sotto la sua guida, il Portico superò tutte le crisi interne e si impose all’esterno in maniera decisiva, tanto che di lui si disse: «Senza Crisippo, non sarebbe esistita la Stoa» (Diogene Laerzio, VII, 183 [ = von Arnim, S.V.F., II, fr. 6]). Crisippo fu anche scrittore fecondissimo: Diogene Laerzio (VII, 189 sgg. [ = von Arnim, ibid., fr. 13]) fornisce un imponente catalogo di titoli delle sue opere, tutte quante per noi perdute. Questa immensa produzione eclissò quella di Zenone e quella di Cleante e la formulazione della dottrina stoica data da Crisippo si impose pertanto come paradigmatica. Si vd. anche VON ARNIM H., s.v. Chrysippos 14, RE III, 2 (1899), coll. 2502–2509 [online]; COVOTTI A., s.v. Crisippo, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; e KIRBY J., s.v. Chrysippus, in Internet Encyclopedia of Philosophy.

[6] Per una bibliografia selezionata sui tre scolarchi, si vd. History of Logic [online].

[7] Cfr. LONG A.A., s.v. Ethics of Stoicism, in DHI; cfr. anche STEPHENS W.O., s.v. Stoic Ethics, in Internet Encyclopedia of Philosophy.

[8] Sen. ben. III 18, 2: Nulli praeclusa uirtus est; omnibus patet, omnes admittit, omnes inuitat, et ingenuos et libertinos et seruos et reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est. Cfr. SVF, III, fr. 508.

Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

 ***

[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.